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Una favola ambigua, tra malattia e aldilà

di Emanuela D’Alessio

Leggere L’invulnerabile altrove di Maurizio Torchio è stato come precipitare in acque scure e agitate e lottare per restare a galla, per raggiungere una riva, per non desistere dalla ricerca di risposte.
Torchio, con voce levigata e raffinata, ha scritto una storia incredibile e magnetica da cui non ci si può sottrarre, sebbene ci si senta spesso al cospetto di un idioma incomprensibile ma dalle sonorità così attrattive che non si ha tempo per distrarsi.
Forse si tratta di una riflessione filosofica sull’eterno dibattere interiore tra l’io e l’altrove cui dare disperato ascolto; forse di una storia sull’infelicità che diventa sofferenza, solitudine, vera e propria malattia del vivere da cui non sembra possibile guarire; forse di una interpretazione del Prima e del Dopo, metafora temporale del passaggio tra la vita e la morte, ma anche di un mondo di vivi con un Prima perduto e un Adesso implicitamente peggiore.
Insomma, forse abbiamo letto una storia universale sul dolore e i conflitti dell’anima, sul passato e sul futuro.
Indugiando nell’atmosfera del libro, dove a fare da protagoniste sono una donna senza nome e la voce di una sconosciuta che le risuona dentro all’improvviso, vorrei provare a parlarne con Maurizio Torchio, alternando la mia voce alla sua (in grassetto), sperando di trovare qualche nuova linea di luce.

Già nelle prime righe viene posta la domanda cruciale. «Perché il mio presente è abitato, prosciugato dall’altrove? Perché in una parte della mia testa si è fatto posto per un pezzo della tua?». Una risposta ovviamente non sarà mai fornita, il lettore è lasciato da solo alle sue interpretazioni.
Ho subito pensato a una rappresentazione molto creativa della malattia mentale. Sentire le voci è, del resto, uno dei sintomi più ricorrenti della schizofrenia. Poi però questa “voce” risulta molto diversa dagli standard abituali: ha un nome, Anna, appartiene a una donna che è vissuta cento anni prima a Londra e che arriva direttamente dall’aldilà. Quando era in vita lavorava in una fabbrica di fiammiferi, ha sempre combattuto contro fame e povertà, ha generato numerosi figli, ha avuto un marito. Ora che è morta descrive il mondo in cui è arrivata, pieno di persone sconosciute e di animali, un mondo nuovo dove nessuno la sta aspettando, dove tutti chiedono e nessuno risponde. Un mondo fatto di sabbia e fiumi, ma che in fondo non sembra così diverso da quello dei vivi.
A questo punto le mie interpretazioni sono già entrate in confusione. Perché rivolgersi a un passato così remoto per raccontare il presente? Perché ricorrere all’idea di un aldilà, presupponendo non solo che esista ma che sia addirittura più vitale di quello dei vivi, per affrontare temi che affliggono l’umanità vivente?

Ma non sono mezzi per un fine: conta la favola, non la morale.
Ed è una favola ambigua, non c’è dubbio. Chi narra è soltanto malata o è davvero in contatto con l’aldilà? Io ho fatto il possibile per restare sul crinale, e mi rendo conto che questo può generare un certo disagio in chi legge.
Può darsi che Anna sia soltanto un sintomo della voce narrante. Oppure che (marzullescamente, philipdickianamente) la voce narrante sia soltanto un sintomo di Anna. A un certo punto Anna racconta di aver assistito a una parata, nella vita del Prima [nel libro di carta la voce di Anna è evidenziata, qui l’ho messa in grassetto]:

«Quale Re?» Non lo so. «Edoardo VII?»
Perché me lo chiedi?
«Provami di essere esistita».
Dici sul serio?
«No… Sí invece!»
Provamelo tu allora.
«No, tu sei stata qui». Io ho chiuso gli occhi, e quando li ho riaperti ho visto una casa, e abitato un corpo. Ma come faccio a essere certa che fosse davvero il tuo?
È vero. Io pura voce nella testa di Anna.
Anna che ha lavorato da Bryant&May e mangiato la cena dell’incoronazione offerta ai poveri di Londra il 5 luglio 1902, e applaudito la parata del 9 agosto, e forse persino quella del 25 ottobre. Anna rivestita di particolari, io nuda.
Io l’ombra, l’esangue, l’inganno senza nomi, luoghi, date o carestie.

Può darsi siano entrambe reali ma comunque malate: loro si vivono così. Forse questo libro è la storia di un’amicizia fondata su una reciproca malattia, una reciproca invasione (e sulla paura che i rispettivi mondi ne hanno).

Nel tempo presente la donna senza nome – sappiamo che fa l’ingegnere, ha un compagno e un amante, vive in due case, ha le tette grosse e i capelli neri, zoppica, è insonne però la notte, quando si sveglia, di solito è felice – va in cerca di maternità, in modo goffo e velleitario per la verità, un tentativo di cura per guarire il silenzio delle relazioni, una malattia diversa dalla follia. Anna invece ha avuto innumerevoli figli nel suo Prima, anche se non ricorda quanti e nemmeno come fossero. Nel Prima la maternità era vissuta in modo più vero, forse perché libero dal bisogno? Nel Dopo, in questo caso non più il tempo dei morti ma quello presente dei vivi, si fanno nascere figli, o ci si prova, per porre rimedio ai guasti di un’esistenza malata.

Maurizio Torchio

Il Prima di Anna tutto era fuorché libero dal bisogno. I figli arrivavano (e spesso morivano) senza pensarci troppo su semplicemente perché non c’era scelta: non c’erano né le risorse né il tempo per fare altrimenti.
Invece l’idea che fare un figlio insieme (Anna e la voce narrante; il corpo della voce narrante posseduto da Anna e dall’amante/fuco di voce narrante) sia una cura dai fantasmi, dalle voci disincarnate, è senz’altro balzana ma ha una sua tradizione. Non è certo la prima volta che il contatto fra mondi si trasforma in copula.

«Zoppicare vuol dire: camminare appoggiato a chi manca. Ogni passo perdere l’equilibrio, come chi sta per addormentarsi, o morire; e ogni passo stupirsi, perché il passo prima non ti ha insegnato niente, e continui a sbilanciarti, a sperare». La speranza è una dimensione interiore, una prospettiva di visione, un’interpretazione attiva dell’esistenza, «se non hai vissuto tutto quello che avevi da vivere si può rimediare». Ma il cambiamento riguarda solo chi si risveglia alla fine di una trasformazione profonda, solo chi è diventato talmente diverso da aver fatto scomparire quello che era prima.

La speranza è una dimensione interiore ma deve trovare appigli nel mondo. Una delle promesse del Dopo è dare spazio, tempo e spazio a quello che non si è stati (e questo naturalmente può trasformarsi in un alibi per continuare a centellinarsi nel Prima). Cito:

Arrivi come te lo aspetti.
«E chi era senza braccia?» Come eri abituata. «Chi è diventato adulto sbavando?» Arriverà cosí. «Non è crudele?» Ma qui, qui dura un battito di ciglia. Sarebbe mostruoso se fosse la fine: è soltanto l’inizio. E chi è vissuto sbavando tornerà ad avere sei mesi, torna all’età in cui si notava di meno. E da lì riparte.
E chi è arrivata bambina diventa ragazza, chi è arrivata vecchia ritorna ragazza.
Tutto quello che hai saputo, non quello che avresti potuto imparare. Il massimo della tua bellezza, per quanto eri brutta. Il più possibile equanime, e generosa, divertente, coraggiosa – come di più non lo sei mai stata.
Anzi: come non lo sei stata mai, cosí, tutta insieme.
Anche se non sei arrivata nel tuo giorno migliore, si può rimediare. Si può rimediare… Se non hai vissuto tutto quel che avevi da vivere si può rimediare. Sono le piccole mute frenetiche che si fanno da soli, appena arrivati, e riguardano il passato. È un modo per fare il punto, tirare una riga. E da lì in avanti fiorire davvero. Cominciare le metamorfosi che riguardano il futuro, quello che ancora non si aveva l’idea di poter diventare.
Diventare più complicati e più semplici.
E queste sono rare, e si fanno insieme agli altri, di notte.

Il mondo da dove viene Anna, il Dopo, l’aldilà di sabbia e fiumi, è popolato da “idioti”, che sono contagiosi e avvelenano i fiumi. Quindi due persone che si incontrano si infettano, si contagiano di dolore inutile che continua anche quando non serve più?  «Dicono che gli insetti non soffrano, perché il dolore serve a imparare, a cambiare, e loro vivono troppo poco, non ne avrebbero vantaggio. Per un insetto appena nato è già tardi. Sarebbe uno spreco». Ma il dolore a cosa serve?

Cito:

Ormai Anna ha imparato che esistono dolori inutili, o che continuano anche quando non servono più.
Arti amputati che soffrono. Arti fantasma.
Campanelli che suonano, e non ci sono porte da aprire.

I morti del libro traggono energia dallo stare insieme, dall’essere presenti insieme agli altri. Non scrivono, non hanno oggetti: cantano e ballano, improvvisano coreografie e acrobazie. Guai a chi perde sincronia col gruppo, a chi sposta altrove il baricentro della propria esistenza, a chi sprofonda in sé stesso e/o nel passato. Idioti e lutto sono tabù. Vanno espulsi. Parte dello stigma di Anna viene dall’avere avuto un compagno, nel Dopo, che è diventato idiota. E dal sentirne la mancanza. Cito:

Io pensavo il lutto fosse una cosa del Prima, come la fame, uccidere, nascere, recintare. Qualcosa che non mi avrebbe riguardato mai più.
È quasi impossibile che gli idioti avvelenino i fiumi. Sono dicerie, come per gli appestati.

Nella pagina finale dei ringraziamenti sono citate molte persone tra le quali mi piace evidenziare Jack London, Roberto Calasso, Philip. K. Dick, Sylvia Plath. Sarebbe bello se Maurizio Torchio spiegasse il perché del suo legame con ciascuno.

Jack London non è il mio autore preferito ma ha avuto un ruolo inspiegabilmente decisivo in tutti i libri che ho scritto finora. In questo caso con Il popolo degli abissi e con le foto che scattò in quell’occasione. La Londra di Anna viene in buona parte da lì.
Roberto Calasso non tanto per L’impuro folle, come ci si potrebbe aspettare, ma per Le nozze di Cadmo e Armonia, per il contatto fra mondi – anche carnale, violento, persecutorio – che lì è raccontato.
Philip Dick per l’ossessione verso i simulacri che si trova sia nei suoi libri sia – a quanto ci raccontano Sutin e Carrère – nella sua vita.
Sylvia Plath per La campana di vetro.

Concludo con una domanda che non ha nulla a che fare con L’invulnerabile altrove ma con il suo autore. Una domanda in apparenza banale e generica, una domanda di quelle che fanno cadere le braccia o alzare gli occhi al cielo: perché scrive Maurizio Torchio?

Beh, è il mio angolino di (quasi) invulnerabile altrove.

Maurizio Torchio

L’invulnerabile altrove
Maurizio Torchio
Einaudi, 2021
pp. 160, € 17,50

Maurizio Torchio è nato a Torino nel 1970 e vive a Milano con una moglie e un figlio. Ha una laurea in filosofia e un dottorato in sociologia della comunicazione. L’invulnerabile altrove è il suo ultimo romanzo dopo i racconti Tecnologie affettive (2004) e i romanzi Piccoli animali (2009) e Cattivi (2015).

 

 

Un romanzo travestito da autobiografia – Intervista a Giulia Caminito

di Emanuela D’Alessio

Giulia Caminito, trentatreenne romana giunta al suo terzo romanzo in cinque anni, ha scritto una storia dolorosa, tagliente, aspra. Una storia in prima persona e al presente, sullo sfondo e in sottofondo il lago di Bracciano e Anguillara Sabazia, perché «sono cresciuta lì e ho un rapporto viscerale con il lago e con il paese, dove ho conosciuto le persone più importanti della mia vita».
Però L’acqua del lago non è mai dolce non è una biografia, un’autobiografia o un’autofiction, avverte l’autrice. È un romanzo che assorbe, digerisce e restituisce brandelli di vita reale, non importa di chi, perché il vuoto ordinario dell’adolescenza, la lotta quotidiana per la sopravvivenza, le discriminazioni imposte dal censo e dal pregiudizio, la distanza siderale tra città e provincia, la ricerca di un “posto” nel mondo o la rinuncia, sono temi universali.

Con voce incalzante, scandita, stentorea, inequivocabile Caminito ci porta in riva al lago, l’acqua immobile e torbida, sul fondo solo fango, alghe, vetri rotti e leggende, in superficie tutto quello che riguarda la vita di una bambina che si fa donna: promesse tradite, amori consumati e perduti, desideri mancati. Affida la parola a Gaia, voce narrante, che studia con ostinazione e furore perché così vuole sua madre, che legge molti libri, frequenta «il liceo classico dei ricchi», si laurea in filosofia, ma resta sempre «donna spezzata e opaca, quella che si rinfrange sulla superficie e la vedi sempre a metà». Che ci racconta di Antonia, la madre, una vera combattente, un’Enea al femminile che porta in salvo sulle spalle una famiglia intera, da quando il marito si è spezzato le gambe in cantiere. Antonia lavora, organizza, pulisce, impartisce, accudisce, punisce, decide, concede, toglie, non si arrende. Che ci parla, ancora, di tutto il resto, le “voci” del paese e i muri scrostati della scuola, le feste di capodanno e di compleanno, capelli e pesci rossi, cinghiali e cigni, incendi appiccati e fari spenti nella notte.
Una storia che si aggroviglia e si dipana con scrittura essenziale ed efficace, che lascia sotto la superficie ciò di cui si nutre, che non concede pause né infingimenti.

Giulia Caminito. Foto profilo Facebook

Sei nata a Roma, hai trentatré anni, hai una laurea in filosofia politica, fai l’editor, il tuo primo libro è uscito nel 2016. Che cosa puoi aggiungere a questa breve presentazione?
Sono per le biografie brevi quindi mi sembra giusto così.

A cinque anni dal tuo esordio letterario hai già all’attivo tre romanzi e una raccolta di racconti. Scrivi libri per necessità, vocazione, casualità?
Scrivo molto, troppo, per tante ragioni, i tre romanzi però sono nati proprio da una mia forte voglia di raccontare quelle storie, non so se si possa dire vocazione, certo casualità a volte perché certe intuizioni su quello che scriverai arrivano per caso e poi inizi a coltivarle e nutrirle. Necessità probabilmente sì, sia perché è l’unica cosa che riempie la mia vita (scrivere, leggere, occuparmi di libri), sia perché certe volte sento le mani prudere e devo scrivere le idee che girano per la testa, anche solo per ricordarle. Scrivo moltissimi appunti, dialoghi, citazioni, sogni, scalette, liste, tracce e poi le tengo lì in attesa di un inizio o semplicemente a riempire la mia soffitta di scritture possibili.

La forma racconto è in genere quella prescelta per mettersi alla prova e farsi conoscere. C’è chi, a torto, considera il racconto una forma di scrittura meno impegnativa del romanzo, più semplice da gestire. Tra racconto e romanzo qual è, se esiste una preferenza, il genere a te più congeniale?
Mi piacciono entrambi i generi, i racconti per me sono un luogo di sperimentazione sia linguistica sia tematica, amo scriverli, sono più diretti e meno mediati dal progetto, mentre i romanzi sono più faticosi, impegnativi, prevedono un grande sforzo per focalizzarsi sulla storia scelta, sulla sua organizzazione, sul tipo di scrittura, sull’omogeneità e molti altri fattori.
Come lettrice ai miei occhi sono equivalenti e come autrice entrambi mi danno soddisfazioni diverse in corso di stesura. Amo molto anche le forme ancora più brevi come gli epistolari, le raccolte di frammenti o appunti, la poesia. Uno dei miei libri preferiti di sempre è Passages di Walter Benjamin, essenzialmente tantissimi appunti raccolti su vari argomenti in funzione di un libro che non è mai stato scritto.

In merito al modo in cui scrivi hai spiegato che rileggi molte volte la prima stesura, anche ad alta voce. Questo particolare mi riporta alla tua esperienza di editor e giurata nel famoso concorso letterario 8×8 organizzato da Oblique Studio, dove viene valutata anche la resa “vocale” del racconto. L’incontro con 8×8 ha influenzato la tua “voce” di scrittrice e, in caso affermativo, come?
Non ci ho mai pensato, è un concorso che mi piace molto perché mi ha permesso di incontrare autori e autrici giovani con cui sono rimasta in contatto negli anni. Con una di loro, Martina Tiberti, sono diventata amica e ha scritto la drammaturgia di una mia raccolta di racconti, anni dopo la serata del concorso. Leggere ad alta voce a me serve non per considerare l’interpretazione, come accade nel concorso, ma per capire il ritmo, le pause, gli errori possibili. Leggendo ad alta voce ci rendiamo conto delle mancanze di fiati, delle lungaggini, dei periodi che non girano bene, per questo se voglio controllare qualcosa che ho scritto oltre a leggerlo su vari schermi e stampato, lo leggo ad alta voce.

La tua “voce”, leggendo questo romanzo, è incalzante, scandita, stentorea, inequivocabile. Si traduce in una scrittura essenziale, efficace, a tratti tagliente, che lascia sotto la superficie ciò di cui si nutre. Insomma, la tua scrittura è come l’acqua del lago che, tra l’altro, non è mai dolce. Da dove nasce tutto questo?
Nasce da alcuni anni di lavoro sullo stile, volevo infatti creare un mio linguaggio riconoscibile in questo nuovo romanzo. Credo infatti di amare, come lettrice, due tipi di scrittura: o quella piana, elegante delle bellissime descrizioni esterne e interne, dei riferimenti letterari adatti e delle narrazioni a tutto tondo; oppure mi piace trovare una lingua peculiare nei libri, una impronta. Io di natura non sono portata al primo tipo di scrittura, ma da sempre mi sento più vicina alla seconda, tendo infatti a condensare, accumulare, listare mentre scrivo. Sono pochi i campi lunghi nella mia scrittura, molte invece le insistenze sull’uso del vocabolario e sui dettagli. Credo faccia parte proprio di me e di come mi viene di parlare del mondo sulla pagina scritta, quindi cerco di elaborare sempre di più questo mio stile in modo che sia adatto secondo me al romanzo che in quel momento sto scrivendo. Qui mi serviva un io carico, giudicante, tragico, deciso, e su quello ho lavorato con la scrittura e lo stile.

Anguillara Sabazia. Foto di Alessio Trerotoli Photographer (2013)

Nella nota conclusiva di L’acqua del lago non è mai dolce hai scritto che la storia «non è una biografia, né un’autobiografia, né un’autofiction». Puoi spiegarci meglio come è stata la gestazione del libro, come è nato l’incontro con l’editore e tutto quello che è accaduto fino alla pubblicazione?
L’incontro con l’editore è avvenuto anni fa, nel 2014 circa, quando ho iniziato a lavorare a un progetto web per Giunti. Intanto avevo cominciato già da qualche anno a scrivere La Grande A e a metà stesura lo mandai in casa editrice per un parere, loro mi dissero che erano interessati, quindi io finii e da lì iniziammo l’iter per la pubblicazione. Sono rimasta sempre nello stesso gruppo editoriale, ma quando Giunti ha comprato Bompiani, il direttore editoriale Antonio Franchini mi ha spostata in Bompiani perché stavano riorganizzando le linee editoriali. E così sono arrivati gli altri due libri con Bompiani.
L’acqua del lago non è mai dolce è nato dopo due romanzi storici con la voglia di cambiare genere, buttarmi nel contemporaneo, provare a raccontare tutto in prima persona e travestire da autobiografia un romanzo che attraversasse temi di cui volevo parlare come il consumismo, la nuova povertà e la violenza giovanile. La nota è stata necessaria perché i riferimenti ai luoghi sono molto precisi e alcune parti della mia vita fanno da base alla narrazione, era importante quindi definire i confini e ribadire la mia voglia di costruire un io-romanzo e non un io-confessione.

Il primo protagonista del libro è il lago, quello di Bracciano, di fronte al quale si susseguono, tra la fine degli anni ’90 e la prima decade del 2000, accadimenti e accidenti dei vari personaggi. Le sue acque sono immobili e torbide, sul fondo giacciono fango, alghe, vetri rotti e leggende, ma su tutto incombe una menzogna. L’acqua del lago non è dolce, non lo è mai, come ci avverte il titolo, «ha il sapore della benzina, quando avvicini l’accendino prende fuoco». Un’immagine, tra le tante, che hai utilizzato per sparigliare gli stereotipi con cui siamo abituati a decrittare l’esistenza. Perché hai scelto il lago di Bracciano e Anguillara Sabazia a fare da sfondo e sottofondo alla tua storia?
Li ho scelti perché sono cresciuta lì e ho un rapporto viscerale con il lago e con il paese, dove ho conosciuto le persone più importanti della mia vita. Mi serviva uno scenario molto noto, che fosse per me attraversabile e sondabile in profondità, volevo che non fosse uno sfondo, ma una creatura tra le altre, che avesse una identità. Sapevo che prima o poi avrei scritto qualcosa sul lago, perché mi è troppo caro e famigliare, però non ero sicura lo avrei fatto in questo modo e adesso. Semplicemente quando ho iniziato ho capito che volevo provarci e mi sono tuffata.

Foto profilo Instagram di Giulia Caminito

Un’altra grande menzogna che il tuo romanzo sembra smascherare è quella sull’effetto riparatore della “cultura”. Viene frantumata l’idea che la conoscenza, lo studio, i libri siano gli unici antidoti agli effetti letali di un’esistenza indigente, priva di mezzi e opportunità. Gaia, protagonista e voce narrante, studia con ostinazione e furore perché così vuole sua madre, Antonia la rossa. Legge molti libri, frequenta «il liceo classico dei ricchi», si laurea in filosofia. Eppure, tutti gli strumenti culturali conquistati non le servono a molto. Gaia non si emancipa dalla povertà, dal dominio materiale e psicologico della madre, dall’incedere annoiato del paese, dall’immobilità limacciosa del lago che diventa attrazione quasi fatale. Di che cosa si tratta?
L’idea del libro è quella di porre l’interrogativo sulla possibilità che questa emancipazione sia diventata una chimera per molte e molti. È sempre più evidente infatti che i settori culturali e creativi sono meno disposti a pagare i neolaureati e i più giovani per lavorare. La conseguenza è che chi ha una famiglia in grado di sostenerlo riesce ad andare avanti, chi come la mia protagonista non ce l’ha deve abbandonare. Credo sia una realtà di fatto, che sta rendendo i lavori legati agli studi umanistici sempre più elitari, quando invece nel dopoguerra questa occupazione si era allargata. Era ancora possibile infatti per mia madre, figlia di un bigliettaio dell’Atac di Roma, riuscire a laurearsi in Lettere ed entrare nel sistema bibliotecario. Oggi tra i bandi pubblici bloccati, le aziende del settore sovraffollate, gli stages infiniti, la precarietà prolungata, l’editoria e il giornalismo (per fare due esempi) sono diventati nuovamente accessibili a pochi.

Lo smantellamento dell’assioma materno «se non studi non sei nessuno» trova piena attuazione nel fratello di Gaia, quel Mariano che a diciotto anni parte per il G8 di Genova contro il volere furioso di sua madre, fa l’anarchico, non studia e si sottrae. Eppure lo ritroviamo trasformato in adulto, capace di fare esattamente ciò che era necessario e risolutivo. Anche l’amico Cristiano manda in frantumi lo stereotipo. Lui che «reagisce al mondo e ai suoi affronti con freddezza, se c’è da fare lui fa», non importa se si tratta di svaligiare una casa di ricchi, di appiccare un incendio, di cacciare di frodo un cinghiale, di guidare a fari spenti sulla Braccianese o di contenere l’ira funesta di Gaia. Anche Cristiano ha completato la costruzione di sé e senza particolari supporti. Perché Gaia non ci riesce?
Mariano partecipa a una visione collettiva, politica del mondo e questo lo rende abitato da idee, visioni, lotte, sguardi. Cristiano vive coi piedi nel terreno dove è cresciuto, quello che vuole è portare avanti le tradizioni di famiglia, l’eredità feroce, contadina, sincera del paese, del suo lato più scuro, forse, ma anche più vero, autentico, vivo. Gaia si affanna sempre per le cose che non possiede, per le mode che non può seguire, per le persone che non la amano abbastanza, ma non racconta mai al lettore in cosa crede. Non credere è una grande maledizione secondo me. Ho affrontato il tema delle credenze in Un giorno verrà portando nella stessa storia la fede politica e la fede religiosa per parlare di quelle vite che si sono date uno scopo superiore rispetto alla propria affermazione individuale.

Per proseguire la ricerca di antinomie, il personaggio di Antonia la rossa (chiamata così per i suoi lunghi e fiammanti capelli) mi sembra quello più emblematico. È una vera combattente, un’Enea al femminile che porta in salvo sulle spalle una famiglia intera, da quando il marito si è spezzato le gambe in cantiere. Lei lavora, organizza, pulisce, impartisce, accudisce, punisce, decide, concede, toglie. La sua forza ha del sovrumano, la sua ostinazione la rende invincibile. Ma in questa frenetica lotta per la sopravvivenza quotidiana risultano banditi i sentimenti e ancor prima le parole. Fra Antonia, suo marito, i suoi figli, non circolano parole ma silenzi carichi di solitudine, oppure litigi furibondi. C’è un doloroso analfabetismo emotivo in questa famiglia così provata e indigente, ma non risulta che quelle più agiate – ce le fai incrociare di sfuggita –  siano più attrezzate. Nessuno dei tuoi personaggi sembra capace di sorridere. Non c’è più spazio per una sospensione del dolore in questo mondo sgangherato e ferito?
C’è sicuramente spazio e in realtà nella lettura spero traspaia spesso anche una certa ironia, un sarcasmo strisciante. Il libro è volutamente caricato di alcuni sentimenti e li mette a tema, ma non esaurisce le esperienze del mondo reale, neanche quelle simili a Gaia e a sua madre. Il romanzo esaspera certe dinamiche per rendere più forte l’impatto e i pensieri che potrebbe generare.

Giulia Caminito. Foto profilo Instagram

Con due genitori bibliotecari è probabile che tu abbia avuto un accesso agevolato alla lettura. Parlando del tuo patrimonio letterario accumulato, puoi citare qualche titolo che ha avuto un impatto veramente significativo per la tua esperienza di lettrice e perché?
I tre libri che di solito nomino sono: L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers, La morte e la primavera di Mercé Rodoreda e Mio padre la rivoluzione di Davide Orecchio. Tre libri che non c’entrano nulla l’uno con l’altro, ma da ognuno ho imparato qualcosa nel corso della mia vita adulta sulla scrittura, sulla libertà, sullo stile, sui mondi possibili, sulla creatività e la bizzarria.

Concludo con la nostra domanda di rito. Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
In questo momento sto per finire Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti e ho solo iniziato Dopo la pioggia di Chiara Mezzalama.

Giulia Caminito è nata a Roma nel 1988 e si è laureata in Filosofia politica. Oggi vive a Roma e lavora nell’editoria. Ha esordito nel 2016 con il romanzo La grande A (Giunti), vincitore del premio Bagutta opera prima e il premio Berto opera prima. Nel 2017 ha pubblicato la breve raccolta di racconti Guardavamo gli altri ballare il tango (Elliot) e nel 2019 Un giorno verrà (Bompiani), vincitore del Premio Fiesole Under 40). L’acqua del lago non è mai dolce è il suo terzo romanzo.

Un’autobiografia storta ma verissima – Intervista a Valentina Maini

di Emanuela D’Alessio

La mischia, primo romanzo di Valentina Maini uscito per Bollati Boringhieri alla vigilia della pandemia, è un esordio folgorante che annienta, pagina dopo pagina, il timore di trovarsi fra le mani qualcosa di acerbo, velleitario, irrilevante, come capita talvolta con un’opera prima.
Un’architettura narrativa complessa dove si procede per dissolvenze, un gioco di incastri e svelamenti, un percorso che si fa labirinto di specchi dove si smarrisce il discrimine tra reale e riflesso, una variegata gamma di toni, registri e strumenti narrativi, dialoghi mai superflui e sempre intonati, ecco le prove più eclatanti di un’opera letteraria tutt’altro che acerba o velleitaria.
Una storia tra Bilbao e Parigi con il terrorismo basco a fare da sfondo e due fratelli gemelli al centro, con il sovvertimento dei canoni più tradizionali con cui siamo abituati a interpretare il mondo e soprattutto la letteratura, non è affatto irrilevante, non foss’altro perché non consente distrazioni né semplificazioni.
Non mi dilungo nel riassunto della trama perché La mischia di trame ne contiene molte e tutte ugualmente centrali. Soltanto leggendo, però, si scopre che la “mischia” in cui Maini ci getta senza esitazione è una potente e straziante unica storia che ci accompagna dal caos all’equilibro, dal movimento dissennato alla quiete. Quando il cerchio si chiude tutto improvvisamente diventa evidente.
Ho preferito che fosse proprio Valentina Maini, in questa intervista, a fare un po’ di luce sul suo libro e sé stessa, e secondo me ne è valsa la pena.

Sei stata definita una “expat”, di quelle con la doppia città nella biografia sulla quarta di copertina. Da Bologna a Parigi e ritorno (forse?). Di che cosa si tratta: casualità, scelta consapevole, irresistibile impulso?
Con Bologna ho un rapporto riottoso, dopo il primo anno di università non la sopportavo più e mi sentivo a disagio: i miei amici fuori sede mitizzavano una città che a me sembrava caricaturale, stereotipo di sé stessa. Andarmene a vent’anni è stato in parte un desiderio, in parte l’esito di questa insofferenza, ma anche una specie di forzatura: come uno degli esercizi che i Moraza impongono ai figli per fortificarli. Mi sono fatta molte piccole violenze di questo genere, pensando che mi avrebbero aiutato a crescere, ma non so se ha funzionato. Però con Parigi è stato un esercizio felice, anche se l’ho scelta in maniera del tutto casuale.

Prima di approdare alla forma romanzo hai esplorato i territori della poesia e del racconto. Ripeto la domanda precedente: casualità, scelta consapevole, irresistibile impulso?
Ha avuto a che fare con un’apertura del mio carattere, ma anche della mia idea di letteratura. Ero trincerata dietro un’ideologia molto forte, un rifiuto netto della narrazione, della trama a tutti i costi: infiocchettare una tensione in una storiella ben concepita mi infastidiva, come una richiesta di giustificazione. E quindi facevo tutto il contrario: poesia fittissima, racconti scheletrici. Solo che poi questo modo di vedere le cose ha cominciato ad annoiarmi. Anche quello era un ritornello, una formula trita, ed era a suo modo una semplificazione, almeno per me: non mi assumevo nessun rischio, continuavo a scrivere in quella maniera che era quasi un automatismo. Omettevo, mi nascondevo troppo.
Per capirci: ho trovato facile scrivere le parti giudicate «sperimentali» (Gorane, i genitori), mentre star dietro a una storia è stata la vera sperimentazione per me: è stato quello il mio superamento. Un giorno, mentre scrivevo il capitolo dedicato a Jokin, il mio ragazzo di allora mi ha detto: se mettessi in quello che scrivi una minima percentuale della capacità che hai nella vita di farti dei viaggioni, hai svoltato. Ha detto anche: crealo nei libri, il conflitto (stavamo litigando). È come se quella frase mi avesse restituito un’idea diversa di me stessa: non tanto “lo sai fare”, quanto “è nella tua natura farlo”.
Ho una predisposizione mentale piuttosto selvaggia, tendo a diffidare di quelle forme di gentrificazione del sé che aspirano a mettere in ghingheri la personalità, a imbellettarla, normalizzarla, quindi il fatto che io ritrovassi quella predisposizione come una qualità naturale, e non un abbellimento imposto, mi ha aiutato a usarla: non mi stavo costringendo a raccontare storie per pubblicare; la forzatura era non farlo. È stato un passaggio fondamentale, come riprendersi una libertà che mi ero tolta da sola. La classica stanza buia che hai in casa e in cui non vai mai. Ci sono andata, all’inizio sbattevo ovunque, ma ho scoperto che mi piaceva starci. Vedere che il mio stile non era più farfallino, ma si radicava in una storia, è stato esaltante, mi sono accorta che scrivevo meglio e che controllavo molto meno, che ascoltavo, cambiavo. A volte ho l’impressione che questo romanzo mi abbia cambiato anche la faccia.

Valentina Maini

La mischia è arrivato in libreria poco prima che l’Italia entrasse ufficialmente in quarantena. Quali le conseguenze (se ce ne sono) di questa “falsa” partenza?
Non lo so, perché è il primo romanzo che pubblico, ma la cosa più difficile da sopportare non è stata la condizione in sé – che ha avuto i suoi vantaggi: odio parlare in pubblico, sono lievemente sociopatica e in fondo la penso come l’editore di Luque, «la letteratura è fuori controllo, non puoi tentare di direzionarla con qualche presentazione in giro» – ma le persone che definivano questi romanzi «aborti», «suicidi» e ci trattavano come povere vittime della sventura. Non sopporto fare la vittima, ma la cosa peggiore è quando vengo vittimizzata dagli altri. Probabilmente era un modo per dimostrare solidarietà, ma c’è sempre una certa dose di sadismo nel dire a un altro «povero te». I librai non l’hanno mai fatto e sono stata felice di questo, ma pensare che chi sta in questo ambiente da anni, chi ama i libri, chi ne scrive, abbia una visione così legata al consumo immediato di una merce in scadenza mi ha fatto parecchio incazzare.

«Io non avevo fiducia nelle parole, cercavo di non usarle mai: lui è quello che non parla. La gente ne era in qualche modo rassicurata. I problemi sarebbero arrivati nel caso in cui io avessi cominciato ad argomentare su qualcosa per un tempo superiore ai due minuti, fui fortunato perché non accadde mai, e così sono ancora vivo». Quello che dice Jokin, il fratello gemello di Gorane, mi offre lo spunto per chiedere quale è per te il ruolo delle parole e quindi il senso e il perché della tua scrittura.
Ho avuto un rapporto difficile con le mie doti. Per gran parte della mia vita – la parte Jokin – ho pensato che buttarmi via fosse un modo per esercitare la mia libertà, uscire dagli schemi delle aspettative, dai progetti di vita, dal miglioramento di sé. Nella passività trovavo una forma di rivendicazione, il che è abbastanza bizzarro. Io volevo restare punk, arrabbiata, imprecisa, immatura, forse anche frustrata.
Ho una componente adolescenziale molto forte nel carattere, direi quasi immortale. In particolare ce l’avevo con la scrittura, che è sempre stata la mia forma di felicità, ma che mi allontanava dagli altri: come dice Jokin, a proposito della musica, la scrittura era la prova che come essere umano io non funzionavo, che avevo bisogno di quella forma sbilenca di intensità per sentirmi felice. La mia esistenza produceva continui residui. Faticavo a vedere nella mia eccentricità una forza, ho sempre cercato di andare contro natura, di deviare dal percorso che percepivo come naturale, forse felice; desideravo essere il più normale possibile, rispetto alla mia famiglia e rispetto alle persone che avevo intorno, mi vergognavo di avere questo tarlo, non ne parlavo a nessuno. Ancora fatico a prendermi sul serio, ma non per insicurezza: fatico ad accettare che la mia natura è proprio questa e che scrivere è il mio modo di stare al mondo.

Di te Andrea Bajani ha scritto: «Mi sembrava impossibile che qualcuno riuscisse a tenere per cinquecento pagine quella potenza e quella visionarietà, così al contempo poco addomesticata e raffinatissima, caotica e balisticamente micidiale. … un’autrice così anticanonica, che non per volontà ma per istinto, e dunque per stile, mette in discussione l’edificio del romanzo pur raccontando una storia vera e propria, non rinunciando cioè al patto col lettore». Che cosa ne pensi? In che cosa consiste il tuo “patto con il lettore”?
Credo che sia qualcosa tipo: se mi credi, ti prometto che alla fine è vero.

Valentina Maini

Dopo aver citato Bajani arriva la curiosità sulla gestazione del libro, su come è nato l’incontro con l’editore e su tutto quello che è accaduto fino alla pubblicazione.
La storia editoriale della Mischia è stata miracolosa, e forse la sfortuna della pandemia ha compensato la straordinarietà della vicenda, o l’ha raddoppiata. Ho buttato giù la prima riga nell’estate del 2016, ma ho interrotto quasi subito, dopo poche pagine, per poi riprendere in inverno. Ho chiuso il romanzo nel maggio del 2018 e il mio agente Leonardo G. Luccone, dopo averlo letto non so quante volte, ha avuto l’intuizione, francamente folle, di inviarlo così com’era, un mese dopo, senza che ci lavorassimo, senza provare a renderlo più digeribile.
Lo aveva ricevuto a pezzi nel corso dell’anno e mezzo precedente, e mi aveva incoraggiato a continuare, sentivo che gli sarebbe piaciuto e così è stato. Ho imparato anche da lui a essere molto severa con me stessa, più di quanto io lo sia di solito, cioè molto, quindi si può dire che in fondo, anche quando non lo aveva sotto gli occhi, ci abbiamo lavorato in silenzio.
La risposta di Andrea Bajani è stata fulminea. Ha voluto chiamarmi il giorno stesso della proposta, una telefonata lunghissima di cui ricordo poco, credo di non aver parlato, almeno così mi ha detto lui di recente: «Non hai spiaccicato parola, sembravi un animaletto». Ricordo che ha definito il mio romanzo un ufo, uno scritto extra-parlamentare e che ha cominciato a disquisire su Bolaño e qualche frase a doppio carpiato che avevo inserito nel testo. Ha anche detto che mentre leggeva aspettava che io cadessi e invece non cadevo mai. Questa sensazione gliela dava la struttura, non capiva bene come un romanzo potesse stare in piedi con una struttura così sbilenca, e invece «non cadevi mai, anche se sembrava sempre che stessi per farlo». Io ero attonita. Con Daniela Guglielmino, editor di Bollati, abbiamo riletto tutto molte volte, abbiamo cercato di capire se qualcosa non funzionava, se scovavamo incoerenze, sviste. Quello che legge il lettore, l’ordine in cui lo legge e l’incastro che ho costruito corrisponde grosso modo a quello che è arrivato a Bajani e ai suoi lettori nel luglio 2018 e corrisponde anche all’ordine in cui l’ho scritto e scoperto io.

Il terrorismo basco non è mai in primo piano ma fa da sfondo tematico a una storia complessa, dove si procede per dissolvenze fino all’ultima pagina. Un gioco di incastri e svelamenti, un percorso narrativo che si fa labirinto di specchi, dove si smarrisce di continuo il discrimine tra reale e riflesso. Perché hai scelto il terrorismo dell’ETA, più periferico e ideologico di altri?
Mi sono innamorata dei Paesi Baschi una decina d’anni fa, per colpa di una lezione all’Università in cui sono finita per sbaglio. Oltre a questa mia ossessione, e al fatto che per anni ho lavorato sulla guerra civile spagnola, c’è l’elemento nazionalista, quindi identitario, a caratterizzare il terrorismo dell’ETA che rappresenta un bel punto critico e apre uno spazio ambiguo molto fertile alla narrazione.
Storicamente, non ho mai capito davvero come mai nel pensiero di sinistra esista una specie di doppia verità sul nazionalismo, che a volte è buono altre volte cattivo: quando viene usato come giustificazione per opporsi all’immigrazione, per esempio, è cattivo, mentre quando si schiera contro la globalizzazione, la libera circolazione del capitale è buono e va difeso. È un ragionamento comprensibile, che condivido, ma allo stesso tempo mi infastidisce perché troppo malleabile, dunque strumentalizzabile: non definisce cos’è il nazionalismo in sé, ma lo adatta alla situazione, a valori, alle credenze di quel particolare pensiero politico. Credo che in questo si celi la sua pericolosità. Marx tifava per il movimento nazionale dei polacchi e degli ungheresi, che erano popoli rivoluzionari, mentre criticava quello degli jugoslavi; se pensi al nazionalismo basco, pensi subito a una rivendicazione di estrema sinistra – non solo per la sua inclinazione marxista-leninista, ma anche perché si è sviluppato come resistenza alla violenza legalizzata del franchismo – mentre non so se la stessa cosa varrebbe per quello catalano, per esempio.
Questo apre una serie di domande sulla questione identitaria, e forse questa doppia tensione tra il perdersi come individui, il disintegrarsi, il mescolarsi, forse l’omologarsi, e invece il fissarsi una volta per tutte come personalità distinte, separate dagli altri, originali, è la ragione per cui mi sono tanto appassionata a questo nazionalismo particolare. La loro tensione è, prima di tutto, umana. Lo ha detto benissimo Cordelli in una intervista stupenda: «La guerra all’Io è una dichiarazione politica. L’Io è una metafora di quanto accade nella vita sociale. Io penso, ad esempio, che nel Leninismo o nel Marxismo la rivendicazione della classe operaia di sé stessa, apparentemente simile a quella della Catalogna nei confronti della Spagna, sia in realtà una dichiarazione di guerra che ha una fisionomia ben diversa: più che una volontà di potenza è una volontà di abbattimento di un’altra potenza». L’idea che mi sono fatta dell’ETA è proprio di una rivendicazione di sé che ha perso il controllo e si è trasformata nel tentativo di demolire l’altro – la Spagna in questo caso – più che affermare sé stessa. Forse è una confusione che facciamo tutti.

Murales dell’ETA – Foto LaPresse

Un altro aspetto che probabilmente mi ha avvicinato a questo terrorismo minore è che la questione basca, per lo più ignorata dall’Europa, viene raccontata dai media sempre sotto il segno della demonizzazione, un po’ come accade con la questione palestinese (non a caso, penso, i due popoli hanno fortissimi legami di solidarietà): si trancia il contesto di partenza in cui l’ETA è nata – un contesto di repressione senza freni – e si elencano gli attentati con piglio indignato. Non si può raccontare una storia così. Ho cercato di andare contro questa falsificazione, senza dall’altra parte mitizzare la famiglia Moraza, senza farmi incantare dal fascino eroico, giovanilistico che le imprese terroriste, in generale, portano con sé.
Quello che mi interessava più di tutto, anche se l’ho capito alla fine, poco prima che il libro uscisse, era osservare la violenza da un punto di vista per così dire «ereditario». E per compiere al meglio questa osservazione mi serviva che il punto di origine di quella violenza fosse antico, che i colpevoli non fossero così definiti ma mescolati, che si passassero il testimone della responsabilità cosicché io non riuscissi a prendere nessuna posizione chiara che mi tenesse all’ombra, in pace. Una volta che nasce, che viene liberata, che giri fa la violenza? Resta nell’aria, si trasforma, tocca innocenti e responsabili, diventa una questione dei figli, dei figli dei figli, quando finisce, chi può interromperla? I figli più infelici e più rivoluzionari sono quelli che hanno il compito di spezzare la catena? L’accenno alla sperata sterilità dei gemelli è proprio un riferimento al sogno che, con la loro fine, cessi anche quella trafila di brutalità.
Questo episodio storico mi ha aiutato a pormi la domanda, una domanda che ritorna anche, forse soprattutto, da un punto di vista del singolo più che della Storia, nel testo. Le due facce sono profondamente connesse, anche se il romanzo sembra più familiare che storico: ho cominciato a pensare che sia più storico di quanto credevo. Poi c’è anche il fatto che da quando ho quindici anni mi dicono che ho la faccia da terrorista (dell’IRA però), l’ho presa come l’occasione perfetta per falsare al meglio la mia autobiografia.

Gorane e Jokin sono cresciuti con due genitori terroristi, hanno ricevuto un’educazione senza regole e senza limiti, ma allo stesso tempo estremamente impositiva sul piano ideologico. Le conseguenze appaiono devastanti per tutti, non solo per le vittime degli attentati. Risultano “scardinati” alcuni fondamenti del canone di vita occidentale cui siamo abituati.  Il primo che mi viene in mente riguarda l’universo-famiglia, con l’implosione e la dissoluzione delle figure genitoriali ma anche con l’impossibilità di un’evoluzione liberatoria per i figli. Si tratta di questo o di altro?
È vero, le figure genitoriali nella Mischia sono dissolte, eppure sono molto presenti. Dissolte nella loro funzione genitoriale, presenti nella loro natura di essere umani. In questo senso, l’immagine degli spettri è esatta, non tanto perché i genitori muoiono, ma perché, pur essendo morti, non riescono a morire. Per dirla con le parole di un noto personaggio beckettiano, non finiscono di morire. E così il processo di distacco è inceppato, sia per loro che per i figli; l’ingresso alla vita adulta differito di continuo.
Yera e Inaki non sono due figure esemplari di un certo tipo di genitori, li ho trattati come due persone in carne e ossa, contraddittorie, sfaccettate, e non come tipo umano, ma è vero che molti genitori ex sessantottini possono in parte riconoscersi in questa ricerca di rapporti orizzontali coi figli. Il ’68 è servito anche a questo, e lo ringraziamo tutti, ma forse una parte della mia generazione sta a fatica ricercando una verticalità di rapporti, qualcuno da seguire, un’autorità a cui rispondere, da cui poi distaccarsi, liberarsi. Un perimetro di movimento. Come facciamo a liberarci, se siamo già liberi? Mi viene in mente quello che si diceva ai tempi dei miei a proposito dell’amore libero: «coppia aperta, aperta, quasi sfasciata».
Lo stesso forse si può dire a proposito dell’identità. Sono convinta che più importante della libertà sia il processo di liberazione che a molti di noi è stato negato; e così finisce che le gabbie ce le costruiamo da soli. Lo diceva David Forest Wallace in uno scritto straordinario: è vagamente umiliante pensare che non vedi l’ora che i tuoi genitori tornino a darti direttive, che ritornino i maestri, i divieti, qualche forma di autorità, ma credo che come generazione viviamo questa confusione dei ruoli, insieme a un concetto guasto di libertà, che è finita per coincidere con la libertà di consumare (senza un soldo in tasca, tra l’altro). L’unica verticalità che i Moraza impongono ai gemelli è quella ideologica, e paradossalmente è un tipo di autorità che, per quanto violenta, è più facile superare: se la vedi, te ne puoi distanziare. Gorane ci riesce. Quel limite, quella violenza, è visibile e ci si può posizionare rispetto ad essa, la si può accettare, criticare, superare. È su tutto il resto che la famiglia Moraza è una mischia totale ed è lì, in questa perdita dei confini, che si genera il dolore. Ma è lì che ha origine anche la loro peculiare smania amorosa. C’è del tragico in questo, perché è un conflitto non sanabile, come in tutte le dipendenze: in ciò che ti dà piacere si cela la fonte della tua sofferenza.
Questa mescolanza identitaria è il luogo della contaminazione, del caos, dell’invasione dove è impossibile circoscrivere il trauma, trovarlo, come scrive Daniele Giglioli. E se non lo vedi, se non sei certo che esista, non lo superi. Tra i Moraza la possibilità di delimitazione è negata come lo è di conseguenza la possibilità di distacco, perché il trauma c’è, ma i figli non riescono a circoscriverlo esattamente, se non in merito alla questione ideologica: serve un delitto forse, serve la morte, e comunque non basta.
In un certo senso, la stessa cosa accade nella famiglia Luque, in merito all’attrazione di Dominique nei confronti della figlia Germana: la violenza sessuale è nell’aria, non viene mai attuata, ma lei la percepisce come una minaccia costante. Se suo padre l’avesse messa in atto, se avesse abusato di lei, Germana avrebbe visto la violenza e avrebbe potuto distaccarsene (con altre dolorose conseguenze, ovvio): mentre così, in questa sorta di potenzialità inespressa, lei non vede, o vede male, mette in dubbio la sua visione, si confonde, si crogiola nell’ambiguità, pensa: me lo sto immaginando o è vero? Mi vuole o è solo la mia immaginazione? Un po’ il discrimine che esiste tra violenza fisica e violenza psicologica. Forse per questo Germana ha la furia dell’incendio, vuole vedere il fuoco, sentire che brucia, mettere i suoi occhi di fronte al disastro, anche se la conseguenza è l’accecamento.

Al centro del romanzo ci sono loro, i due fratelli Gorane e Jokin.  Declini con cura e determinazione, a volte anche accanimento, la metafora dei gemelli, particolarmente adatta a rappresentare quella dicotomia esistenziale e universale che riguarda ogni individuo. Puoi approfondire il perché di questa scelta?
Tralasciando la sterminata bibliografia sui gemelli nella letteratura – la cui presenza nel mito, di solito, anticipa un conflitto – credo di averlo fatto per scindere da me due parti del carattere che confliggono e che ho provato a separare. Forse volevo fargli fare pace (scoop: non è successo). Ci sono sicuramente richiami più o meno consci a scritti che ho molto amato – la Trilogia della Kristof, Incendies di Mouawad, i Menecmi di Plauto – ma ci sono anche echi a coppie di fratelli «semplici» – penso a Un romanzetto lumpen di Bolaño – o a coppie senza alcun legame di parentela, come accade tra Molloy e Moran in Beckett. Ma perché no, anche Gospodinov.

I Menecmi di Plauto

Il nodo di questo romanzo è la mischia, la tentazione dell’indistinto, ben rappresentata dai gemelli, e la parallela tensione verso il singolo, il separato. La figura dei gemelli è espressione di questa doppia forza – la differenza nell’identità, l’identità nella differenza, ancor più spiccata quando dallo stesso parto nascono un maschio e una femmina – per cui mi è venuto naturale metterli in scena, erano i soli protagonisti possibili. Anzi forse i gemelli sono più di due: Germana moltiplica Gorane – lo vedi anche da come si somigliano i nomi – Jokin è un moltiplicatore di sé stesso, così come Gorane che ha addirittura tre nomi, i genitori, per il loro rapporto viscerale, si descrivono come «nemici e fratelli» mentre Dominique Luque è anche lui agente di una moltiplicazione falsata, ma allo stesso tempo rivelatrice di tutte le altre.
Questa tentazione dell’indistinto è anche la lusinga dell’infantile, «ciò che è ancora privo di forma» come si dice a proposito di Germana, il richiamo irresistibile del non crescere mai del tutto, di avere pronta una persona depositaria del nostro pezzo mancante a cui chiedere di noi. Come siamo, che cosa ci manca. Quando viene a mancare forse non ci vediamo più. Ha anche qualcosa a che fare con la fratellanza in senso più universale, credo, il sentire il dolore o il piacere dell’altro come nostro fino in fondo.
Il dolore dei miei personaggi non viene dalla solitudine, ma dalla perenne presenza dell’altro, anche se loro credono il contrario: Gorane pensa di soffrire perché suo fratello se n’è andato, mentre forse soffre di non riuscire a liberarsene. O forse questa sono io. Ho sempre confuso l’amore di coppia, quello sentimentale insomma, con quello fraterno. Posso tirare in ballo molte questioni teoriche, parlarti di Tournier o della brutta fine che fanno Eteocle e Polinice e di come la loro storia mi devasti, ma la verità è che questo romanzo è un’autobiografia storta ma verissima, quindi è con la mia vita, e non con i libri, che ho dovuto fare i conti. Avevo l’illusione di vedere meglio alcune parti di me, trasformandole in personaggi, di capirle meglio. O forse ho trasformato delle persone che amo in pezzi di me, per non dimenticarle. Ho grandissima difficoltà a delimitare i miei confini, a percepirmi come individuo separato dagli altri, e questo per la maggior parte del tempo mi causa problemi, ma nella scrittura mi viene in aiuto.

«Non sono qui per guarire nessuno, sono qui per restituire al malato la sua libertà. Forse è questo il ruolo di chi cura: condividere una parte della pena. Assumersi il dolore altrui, diluirlo e farlo sparire in qualche parte dell’universo». Carl Jespersen è lo psicoanalista che in momenti diversi ha avuto in cura i gemelli Gorane e Jokin. Lo incontriamo quando ha già compiuto la sua trasformazione, abbandonando i canoni tradizionali della psicoanalisi per un nuovo approccio, più visionario ma probabilmente più velleitario. Anche con la psicanalisi, come con la famiglia, hai messo in discussione i canoni classici? È veramente possibile diluire nell’universo tutto il dolore in circolazione?
Il merito di Jespersen – a parte le sue derive mistiche, a tratti retoriche – è di aver compreso che il lavoro di cura è prima di tutto una relazione tra due persone. Se per tutta la sua vita si è limitato a impartire una lezione e dispensare pillole, con Gorane gli accade di essere trasformato, non più di trasformare e basta. Per la prima volta è lui a ricevere un insegnamento, è lui a entrare in crisi. Questo lo ha reso ai miei occhi un personaggio da amare. Non mi interessava mettere in discussione nessun canone – c’è qualcosa di più conservatore, oggi, che andar contro alla tradizione? –, ma osservare il lavoro di uno psichiatra che comincia a dubitare dei suoi strumenti a seguito di un incontro con una paziente problematica facilmente classificabile come schizofrenica: potrebbe manipolarla, imporle una guarigione, ma sceglie di non prendere questa strada e di ascoltare il malato, più che la malattia; di rinunciare ai suoi punti fermi e vedere l’altro come un pari. Diciamo che si disfa della sua mentalità colonialista, comincia a guardare sé stesso con gli occhi dell’altro senza definirlo «barbaro», «anormale».
È questa la componente rivoluzionaria di Jespersen. Che poi la gestisca bene o male, questa sua intuizione, sono affari suoi. A me importava che accettasse di non rimuovere il dolore di Gorane e Jokin, di non risolverlo, ma decidesse invece di assumersene una parte; senza pretendere di guarirlo: piuttosto cercando di capire da dove viene, perché è arrivato e a che cosa serve.
Ho molto a cuore la questione dell’anormalità, del disagio psicologico, e penso che la parte migliore dei curatori si sveli nella loro capacità di immedesimarsi nella storia di qualcuno, soffrire con lui, accettando che certi mali non guariscono, ma si possono condividere. Un po’ è quello che fa anche la letteratura ed è il motivo per cui mi sono avvicinata a lei.
Come dicevo prima a proposito dei percorsi di una violenza, anche il dolore resta in circolo, si trasforma, passa da una persona all’altra, e forse il ruolo dei curatori non è disintegrarlo, farlo sparire, ma assorbirlo in parte, accettare questa invasione del dolore dell’altro, ed essere abbastanza equilibrati da non farsi distruggere.

«Mi chiamo Gorane, ho ventisei anni, e ho commesso un delitto. In questo autobus ci sono quarantatré persone, me compresa… Queste vecchie vanno in Francia per le ostriche, le rane e le luci. Io vado a Parigi perché ho letto un libro…ho letto un libro che racconta la nostra storia, la storia di me e della mia famiglia». Questo incipit (siamo nella seconda parte del romanzo) introduce un altro elemento portante di questa ardita architettura narrativa. Gorane va alla ricerca del fratello (e anche di sé stessa) seguendo le pagine del libro di Dominique Luque, lo «scrittore digestivo», come lo definisce il suo editore. Una felice scelta narrativa per riprodurre il binomio fiction – realtà restando comunque nell’ambito della creazione letteraria, quindi dell’immaginazione. Pretesto anche per sferrare un nuovo attacco, questa volta al mondo letterario e alle tipologie di scrittori che lo popolano, introducendo un’ulteriore riflessione sul significato della letteratura e della scrittura. Approfondiamo anche questi aspetti?
Non ho ancora capito se quello è un attacco o una forma di autocritica. Probabilmente entrambe le cose. Certo, le figure di certi scrittori e intellettuali, per come li vedo io da lontano, fanno ridere. Ho un po’ la spocchia dell’outsider, che però va bene, perché da minore posso sfottere chi mi pare. Più probabilmente, comunque, è un modo perentorio di porre una domanda.
Lo scrittore, di base, ha un ruolo fastidioso, perché non è mai davvero dentro a ciò che racconta, è sempre parzialmente salvo. Sono pochissimi gli scrittori che hanno davvero fatto la guerra, e non si sono limitati a raccontarla, a inventarla, scandalizzarsi, schierarsi di qua o di là. E spesso, quelli che l’hanno fatta poi l’hanno raccontata male. Questo è il mio parere, con le dovute eccezioni, ovviamente.
Ogni tanto penso che per essere scrittore devi per forza essere spostato, rispetto alla vita, rispetto ai fatti che racconti, che se ti ci immergi completamente, se partecipi, qualcosa si perde, diventi una schiappa. Se ti schieri da una parte, se scegli un nemico, cominci a vedere male. Questa lontananza è viltà o è il presupposto del talento? Non lo so.

Un libro nel libro, i verbali di polizia sugli interrogatori a Jokin, i resoconti e il diario dello psicoanalista Jespersen, le registrazioni di Gorane, dialoghi sempre efficaci e perfettamente sintonici con chi li sta esprimendo.  Maneggi con maestria e disinvolta raffinatezza registri e strumenti narrativi differenti, esplorando tutte le potenzialità della scrittura. Come è stato, a questo riguardo, il tuo percorso?
Una delle cose che mi piace di più al mondo è ascoltare gli altri, sentire come parlano, scovare i tic e gli intercalari rassicuranti su cui si appoggiano per prendere tempo o dare un ritmo ai loro racconti. Da piccola ero una discreta imitatrice (la mia specialità era Buttiglione) ed ero anche timidissima, una timidezza patologica che mi ha aiutato a tacere e a sviluppare alte capacità di ascolto, credo.
Per spiegarti come è andata, prendo in prestito le parole della mia insegnante di danza contemporanea: ci faceva lavorare con il legno, bastoni recuperati non so dove, ma soprattutto con il parquet del pavimento. Venivamo tutte dalla danza classica, una disciplina che impone una certa rigidità al corpo, e la sua intenzione era scioglierci, trasformarci in danzatori più malleabili. Una volta ci ha detto: il legno non cambia, non cambierà mai, è lì, e la sola cosa che potete fare, per ballare con lui, è imporre a voi stesse un cambiamento. Siete voi a dover cambiare per poter entrare in rapporto con il parquet, solo allora comincerà a fare qualcosa per voi, ad aiutarvi. Per un ballerino il rapporto con il suolo è fondamentale per saltare, ad esempio, ma fino ad allora non avevo mai concepito il mio lavoro come uno sforzo per entrare in relazione con qualcosa o qualcuno: lo consideravo solo in riferimento a me stessa – devo allenarmi, devo mangiare bene, devo essere costante – o in una logica di «sfruttamento» (più creo attrito con il suolo meglio salterò, il suolo «mi serve», lo devo usare). Lo stesso facevo con ciò che scrivevo: non permettevo alle trame, ai personaggi, di imporsi su di me. Io ero sempre più forte, il nostro era un rapporto noioso, prevedibile.
L’impressione che ho avuto subito con La mischia è stata quella di essere di fronte a un libro «più grande di me», come mi ha detto anche il mio agente un giorno: io non ero pronta a scriverlo, credevo di non avere la forza emotiva né la pazienza per affrontarlo, ma è come se lui mi avesse costretto a crescere. Era come il pavimento di cui parlavo prima: La mischia era lì, era già fatto e non sarebbe mai cambiato per fare un favore a me, perché io riuscissi a scriverlo come volevo io: l’unica chance che avevo era ascoltarlo e scoprire il più possibile la sua sostanza. Ho scoperto che era composita, sporca, stratificata, piena di grumi e addensamenti: l’esatto contrario del libro che «funziona», il libro accettabile da buttare giù tutto d’un fiato. C’erano tutti questi innesti e delle voci che non somigliavano alla mia, e che a volte volevano emergere nei modi più bizzarri, come registrazioni audio o interrogatori. Ho scoperto anche che questa sua natura frastagliata mi aiutava, mi faceva divertire: la scrittura era ritmata, la superficie increspata e piena di onde che dovevo essere brava a prendere.
Credo davvero che i romanzi esistano già, da qualche parte, e quando li troviamo dobbiamo portar loro rispetto e restituire la loro natura senza metterci in mezzo.

«Gorane, intorno a te il mondo si scioglie, tu ti irrigidisci, l’uovo si apre scoprendo il suo tuorlo rosso in una poltiglia di candore. Questa sei tu, quella eri tu. Cellula ricoperta da povero guscio. Bianco macchiato, macchia indelebile. Anche se adesso pari maciullata, sei sempre lo stesso uovo». Arrautza, che significa uovo in basco, è il titolo del terzo capitolo (quello dove dai voce ai genitori di Jokin e Goran). Gorane da piccola disegnava solo uova ed è diventata un’artista di successo dipingendo volti che somigliano a uova. Jokin sogna di sua madre intenta a riempirlo di un liquido bianco fino a farlo diventare un uovo. Uovo come simbolo di protezione e rinascita ma anche di vita o di morte, come prova a spiegare lo psicoanalista Jespersen. Uovo come metafora che ricorre in tutto il romanzo. Puoi spiegarne la sua origine e i suoi significati?
C’è da dire che prima di farne una metafora ricorrente è arrivata l’immagine di Gorane che si è messa a disegnare queste forme ovali o ellittiche senza che io capissi bene il perché. Ho cercato di andarle dietro e ho compreso non solo che il simbolo dell’uovo – insieme all’immagine dell’ellisse – era significante, ma che era una spia della struttura che andavo costruendo. L’ellisse ha due punti fissi, i fuochi, distanti e necessari l’uno all’altra affinché la figura resti in piedi. Li ho immaginati come Gorane, completamente chiusa, creatrice del suo mondo, respingitrice dell’esterno, e Jokin, che è tutto fuori, tutto «fatto» dagli altri, mutevole e senza centro, fagocitatore dell’ambiente esterno che ingloba quasi interamente nella sua immensa orbita. Gorane è tutta centro, lui ne è privo, diciamo che è un personaggio periferico di cui la sorella raccoglie i resti, provando a mantenerlo in vita. Gorane e Jokin sono una specie di sistema solare: anzi, sono gli astri principali di un sistema solare complesso che nella mia immaginazione ha assunto la forma di un ovale.
Sulla parallela metafora dell’uovo ci sarebbero troppe cose da dire perché è oggetto di miti molto complessi; in particolare a interessarmi, oltre alla visione che ne ha l’alchimia, è stato il simbolo dell’uovo cosmico, immagine dell’unità primordiale dell’essere, una sorta di mischia dove l’individuazione non è ancora avvenuta. Una delle coincidenze sorprendenti che ho incontrato scrivendo è che spesso, nelle rappresentazioni, attorno all’uovo cosmico si attorciglia un serpente, molto simile a quello che si avvolge attorno a un’ascia nel simbolo dell’ETA. Sembra una sciocchezza, ma mentre scrivo questi parallelismi mi lasciano senza fiato. Mi confermano che il romanzo esiste già, come ti dicevo prima, e che sono nella direzione giusta, sto levando via la sabbia e la sagoma che emerge è la sua, non la mia.

Molti si appassionano alla ricerca dell’autore di riferimento (ovviamente celeberrimo) per l’ultimo esordiente, forse più preoccupati di dimostrare erudizione letteraria che di leggere veramente la nuova opera. Nel tuo caso sono stati evocati i libri di Roberto Bolaño. A me interessa però chiederti chi hai incontrato lungo il tuo percorso di lettrice, chi non avresti voluto mai incontrare e chi al contrario mai dimenticare.
Non fagocito libri a macchinetta, e un po’ me ne vergogno. Leggo piano, non tantissimo, a me leggere fa male, devo essere emotivamente salda. Se stacco per due giorni, poi non riesco a riprendere da dove sono arrivata, ricomincio tutto daccapo, è faticoso. Rileggo molto – forse è una forma di codardia. Poi ci sono mesi in cui esagero.
Nella mia formazione ci sono i russi, in particolare Dostoevskij e Gogol’, i surrealisti francesi e il modernismo, soprattutto Eliot e Joyce. Proust dove lo metto? E poi tanta poesia italiana, gli italiani in poesia sono grandi. In tutti i secoli, anche nella contemporaneità – quando non si chiudono troppo. Mi piace molto Tozzi, gli voglio bene come a Campana. Preferisco Pavese a Calvino, Parise a Moravia, Arbasino e Cordelli a Eco, Samonà a Sciascia (tra questi ultimi la lotta è all’ultimo sangue).
Se dovessi farti i nomi dei miei grandissimi amori ti direi: Beckett, Kafka, Cervantes, Melville, Gramsci, Camus, Morante, Kosinski, Kristof, Campo, Borges (che ho cominciato ad amare da poco: anni fa, tranne qualcosa dell’Aleph, non riuscivo a trarne piacere, facevo troppa fatica). Bolaño non lo cito, ok? Comunque è uno degli ultimi arrivati. Ho macinato parecchio teatro, Čechov, Shakespeare, Kane, Pinter, Williams, Vișniec, Reza, Fosse, Mouawad. Sono bravi e bravissimi. Mi piace tantissimo leggere testi teatrali, più che andare a teatro, una volta mi ero messa in testa di scrivere un romanzo di sole didascalie.
Un immenso amore che ho è Artaud, ma non è un amore possessivo, vorrei lo amassero tutti quanti, ma non accadrà mai. Bernhard, Dürrenmatt e i romanzi gialli che rubavo a mia nonna. Stevenson è un grande, ti tiene attaccato alla pagina ed è uno scrittore coraggioso sul serio che non esibisce il coraggio. Ho scoperto Shelley Jackson (non Shirley) mentre scrivevo La mischia, mi hanno detto che i nostri libri avevano qualcosa in comune, è incredibilmente brava.
Mi vanto di essere nata lo stesso giorno della Bachmann (e Orwell, ma Bachmann mi fa inorgoglire di più). Ho incontrato per la prima volta la Lispector in un regionale, tornavo da Roma in lacrime, non riuscivo a fermarmi e lei mi ha dato un bacio leggero sulla guancia, mi ha aiutata. Non me ne dimentico.
Gli americani li leggo poco, non so molto degli americani. Ho letto qualcosa di DeLillo, penso mi sia piaciuto, ne ho un bel ricordo, a parte Zero K, ho letto diversi libri di Wallace, ma Infinite Jest no, non ce l’ho ancora fatta. Però sono contenta di averli incontrati. Tutta questa tensione nei confronti degli americani mi infastidisce. Roth non mi scuote più di tanto, ma quando è morto sono stata in lutto per due giorni: è senza senso. Guimarães Rosa mi fa saltellare e prudere il naso. Ultimamente ho una bizzarra intolleranza per le distopie, mi sembrano strategie finto radical per infiocchettare una morale. Passerà. I libri più sono brevi meglio è (autogoal).
Un autore con cui sono in lotta da tempo è Cortázar, l’ho immensamente amato per anni, adesso comincio a credere che ci abbia preso tutti per il culo. A volte lo penso anche di Beckett, piccoli screzi del nostro rapporto coniugale. Claude Simon l’ho tradotto e amato, non te lo consiglio (ma non è colpa sua): è proprio un autore che non puoi consigliare a nessuno, puoi sperare che qualcuno ci si imbatti, anche se non lo saprai mai, perché nemmeno lui oserà parlartene. Lo stesso vale per Juan Benet, è straordinario ma non leggerlo.
Un’autrice che ho scoperto da poco è Mavis Gallant, la immagino come un peperino di donna, scrive con una leggerezza strana, malinconica ma c’è sempre un’energia tra l’ironico e lo strafottente nei suoi personaggi che adoro. Secondo me ci staremmo simpatiche, mi immedesimo molto nelle sue donnine pazze che si chiudono in casa ed escono solo quando hanno la febbricola e la città è deserta. In un’intervista, mi pare, ha detto che vivere a Parigi è come non avere mai i documenti ed è la stessa cosa che sento anche io; o forse non è stata lei a dirlo, gliel’ho solo attribuito.
Un autore che non avrei mai voluto incontrare è Malraux: due palle. Ho mollato a metà Denti bianchi, ma questo non vuol dire che non avrei mai voluto incontrarlo; però ecco, mi sono annoiata, forse mi aspettavo troppo o non era il momento. C’è anche da dire che non sono una che insiste, abbandono uno scritto facilmente se non mi prende. Ho mollato anche Il libro dell’inquietudine, non mi sembrava abbastanza inquieto. Al liceo mi sono innamorata di Pasolini leggendo le Lettere luterane, ricordo nottate a saltare sul letto commossa o esaltata, ma leggere i suoi romanzi e le poesie mi ha delusa. Lo amo, ovviamente, come pensatore è grande.
In quarantena ho letto per la prima volta Sally Rooney perché avevo voglia di pettegolezzi e chiacchiere da bar. Ho avuto quello che volevo, ma davvero tutto questo casino per un librino così? Capisco che i vecchi provino una sorta di fascinazione esotica per il nostro approccio liquefatto alle relazioni e al sesso, capisco anche che a noi trentenni piaccia crogiolarci nel nostro approccio liquefatto alle relazioni e al sesso, ma urlare al caso letterario mi pare inquietante. Dove è finito quel «resistere all’aria del tempo» di camusiana memoria?
A me non piacciono i libri che non fanno attrito con la realtà. Ecco, mi dà fastidio chi scambia l’attuale per il contemporaneo; chi pensa che basti infilare in un testo i caratteri di una generazione per raccontarla. Questi autori non mi va di incontrarli, mi danno poco, la realtà mi piace di più, non ne ho bisogno. Forse per questo ho un bel problema con il cinema.

Concludo con la domanda di rito per Via dei Serpenti. In questo momento che cosa c’è da leggere sul tuo comodino?
Una trilogia palestinese di Mahmud Darwish, Kentuki di Samanta Schweblin, L’uomo Mosè e la religione monoteistica di Freud, e una vecchia edizione di Nadja di Breton che ho ritrovato nella mia libreria.

La mischia
di Valentina Maini
Bollati Boringhieri, 2020
pp. 496, 18,50€

Valentina Maini è nata nel 1987 a Bologna. Ha conseguito un dottorato in Letterature comparate tra Bologna e Parigi e ha pubblicato racconti su «retabloid», «TerraNullius», «Atti Impuri», «Horizonte» e altre riviste. Alcuni suoi articoli sono comparsi su «Poetiche», «La Deleuziana», i «Classiques Garnier». Con la raccolta di poesie Casa rotta, (2016) ha vinto il premio letterario Anna Osti. Traduce dal francese e dall’inglese. La mischia (Bollati Boringhieri, 2020) è il suo primo romanzo.

Gonzalo e la sua amorevole voglia di combattere – Intervista a Ade Zeno

di Emanuela D’Alessio

Gonzalo prima lavorava come cerimoniere al tempio crematorio della sua città, ora lavora per la mostruosa Signorina Marisól, affetta da una misteriosa malattia che la costringe a nutrirsi di prede umane.
Gonzalo prima viveva, colmo di amore, con la piccola figlia Inès e la moglie Gloria. Ora vive da solo,  la figlia è stata colpita da una malattia – altrettanto misteriosa – che la costringe da molti anni in uno stato vegetativo, la moglie lo ha lasciato quando si è accorta del suo inquietante cambiamento.
Senza anticipare nulla su cosa succede “dopo” nel nuovo romanzo di Ade Zeno, posso dire che L’incanto del pesce luna è una storia paradossale, perché esaspera clamorosi contrasti, dà voce alle infinite e umane contraddizioni, provoca ininterrottamente raccapriccio e commozione, orrore e pietà, terrore e speranza. Una storia che non fa paura, nonostante l’esplorazione dell’abisso; una storia sull’amore e sulla vita, nonostante le cifre dominanti della morte e della malattia.
Ade Zeno, scrittore e cerimoniere al Tempio Crematorio di Torino, ha creato dopo una lunga e sofferta gestazione un romanzo doloroso, commovente, disperato, catartico, giocando con le tinte grottesche e poetiche della sua scrittura.
Per sconfiggere i mostruosi demoni che albergano in tutti noi, o solo per ridurli al silenzio, li si deve guardare negli occhi, aggredirli senza esitazione, e conservare sempre un guizzo di ironia da trasformare all’evenienza in ghigno beffardo.
Ho voluto soffermarmi ancora un po’ su L’incanto del pesce luna rivolgendo alcune domande all’autore.

Nella nota conclusiva di L’incanto del pesce luna hai scritto che la genesi del libro è legata a un periodo felice e a un periodo buio della tua vita, che il libro è per te fratello e nemico allo stesso tempo. Puoi spiegarci meglio il punto di partenza e la destinazione finale di questa nuova creazione letteraria, ma anche tutto quello che è accaduto durante?
Non amo parlare della mia vita privata, chi mi conosce sa che ho un rapporto con la riservatezza ai limiti dell’ossessivo. Il periodo di gestazione dell’Incanto è stato piuttosto lungo, direi intorno ai due o tre anni, e confermo che quando l’ho iniziato ero una persona molto diversa rispetto a quella che ha corretto le ultime bozze prima della pubblicazione. Diversa nel senso di meno infelice. Ciò che è successo durante la stesura ha a che vedere con la mia biografia, ma ha inevitabilmente condizionato anche il mio sguardo sul romanzo, verso il quale – inutile negarlo – oggi provo una forma di oscuro risentimento, perché molte delle pagine che lo compongono mi ricordano momenti che vorrei dimenticare. Naturalmente non li dimenticherò. E lui farà lo stesso.

Il protagonista Gonzalo fa il tuo stesso lavoro, cerimoniere al tempio crematorio di un cimitero. Per scrivere di lui, ma credo anche di molto altro, hai attinto a piene mani alla tua vita reale perché «l’immaginario è legittimato a divorarsi la verità come meglio crede». Anche lo pseudonimo Ade Zeno è stato divorato dalla verità, in queste settimane il tuo nome è stato svelato dai recensori. Insomma, L’incanto del pesce luna ha provocato un profondo smottamento che ha portato alla luce molti dei tuoi (o tutti?) “tesori nascosti”.  Una scelta consapevole o la conseguenza di un’urgenza sfuggita al controllo?
Anche se trasfigurato e posto al servizio della narrazione, tutto quello che scrivo è governato da pulsioni decisamente reali, profondamente mie, non vedo come potrebbe essere altrimenti. In ogni caso non credo che brulichino molti tesori fra ciò che nascondo. Quanto al discorso sull’identità, ho sempre preferito considerare Ade Zeno un eteronimo, vale a dire un nome che non sostituisce quello vero come si propongono di fare gli pseudonimi, ma lo integra diventando a sua volta personaggio di un immaginario preciso. Alcuni recensori hanno ritenuto doveroso rivelare la mia identità anagrafica – in un caso, fra l’altro, riuscendo perfino a sbagliarla – e non nego di avere patito gesti simili come il tradimento di un patto segreto. Ma a quanto pare in giro circola ancora troppa gente convinta che la realtà sia quella che si vede.

Gonzalo, prima di gettare in pasto (letteralmente) alla feroce Signorina Marisól prede umane ignare dell’atroce destino imminente, fa indossare a ciascuna una maschera di animale (rana, elefante, scimmia, leone, rinoceronte, pesce palla). Le vittime sono quasi sempre uomini, a volte bambini, mai donne. Il mostro-donna non può divorare una sua simile?  E perché l’uso delle maschere?
L’Incanto è abitato quasi esclusivamente da carnefici. Di vittime pure – cioè quelle in cui è riconoscibile un vago sapore di innocenza – ne compaiono pochissime. Era importante che ci fossero anche loro, ovvio, il sacrificio di un bambino rende più evidente la crudeltà degli aguzzini. Ma è chiaro che la tesi del libro è una riflessione su quanto sia illusoria la divisione fra bene e male. A pensarci bene la vecchia Marisól è molto meno condannabile dei suoi complici, in fondo le sue azioni sono governate dal puro istinto, dalla fame, mentre i faccendieri che le gravitano intorno – Gonzalo compreso – hanno scelto di stare dalla sua parte.
Le dinamiche di potere che governano il mondo in cui viviamo sono sempre state gestite esclusivamente da maschi, quindi, in una logica di contrasto, mi è sembrato naturale porre una donna al vertice della piramide. D’accordo, si tratta di un personaggio anomalo, mostruoso, ma il fatto che sia femmina lo rende più inquietante, credo, più destabilizzante. Non viene dichiarato esplicitamente, ma il fatto che tra le vittime della mattanza non figurino mai donne o bambine potrebbe rappresentare la profonda spaccatura tra sessi che da sempre domina il nostro mondo. La verità è che le donne, sia pure da una posizione di sudditanza sociale, superano di gran lunga gli uomini più o meno in tutto: sono molto più intelligenti, sensibili e perfide. Vale la pena vagheggiare una società manovrata da loro, risulterebbe decisamente più interessante.
Quanto all’uso delle maschere, direi che risponde a una doppia esigenza: la prima, più tecnica se vogliamo, riguarda la necessità di alimentare quel senso del grottesco che attraversa l’intera narrazione. La seconda, meno esplicita, si sposta invece sul piano simbolico, o meglio metaforico: quei volti posticci, trasfigurati, anziché nascondere la natura degli uomini che li indossano la rivelano, disarmandoli completamente ai nostri e ai loro stessi occhi.

Nelle pagine incontriamo moltissimi altri richiami al mondo animale. Gonzalo ama chiamare la figlia “pesciolina”, il pesce luna è il protagonista della sua fiaba preferita, il dinosauro pterodattilo è il mostro che popola gli incubi notturni della bambina ma anche dell’adulto. Che cosa ci raccontano i “tuoi” animali?
Gli animali mi affascinano, sono esseri alieni e meravigliosi di cui in fondo si sa pochissimo. Parlo in particolare degli animali selvatici, perché l’asservimento a cui abbiamo piegato le cosiddette bestie di compagnia suscita ai miei occhi più pietà che malìa. Mi è capitato di leggere molto a proposito degli insetti (tempo fa ho studiato a lungo le libellule), e dei pesci abissali, mostri fantasmagorici le cui forme e abilità non avremmo potuto immaginare nemmeno in sogno. Di recente ho divorato un bellissimo studio sull’intelligenza dei cefalopodi, si intitola Altre menti, lo ha tradotto Adelphi circa un anno fa. Il mio preferito, comunque, è sempre stato l’elefante africano, che per inciso è l’unico ad aver sviluppato un culto dei morti simile a quello umano.

«Miseri, sbalorditi mortali. Meritate di finire così. In fondo lo meritiamo tutti». Sono queste le parole che Gonzalo pronuncia prima di gettarci tutti (personaggi e lettori) nella mattanza delle prime pagine, una descrizione potente e spiazzante di quello che accade periodicamente a casa della Signorina Marisól. Parole che risuonano come una condanna a morte, inevitabile perché conseguenza di una colpa grave, quella di essere un uomo, per lo meno di un certo tipo. Gonzalo sembra perseguire, tra le altre cose che scopriremo solo andando avanti con la lettura, un personalissimo intento purificatore del genere umano. Che cosa puoi dirmi al riguardo?
Non ripongo nessuna fiducia nel genere umano. Siamo esseri egoisti, tendenzialmente stupidi, e votati a una mostruosa vocazione parassitaria. Da pochi istanti ci siamo appropriati di questo mondo con la tracotanza degli sciocchi, senza renderci conto che a breve si libererà di noi con mezzo starnuto. No, non coltivo segrete speranze di salvezza, e non credo assolutamente nell’idea di purificazione. La triste verità è che Gonzalo, con tutta quell’amorevole voglia di combattere, è molto più ottimista di me.

L’incanto del pesce luna è, tra le molte possibili interpretazioni, una storia paradossale perché esaspera clamorosi contrasti, perché dà voce a tutte le contraddizioni dell’animo umano, perché provoca ininterrottamente raccapriccio e commozione, orrore e pietà, terrore e speranza. Ma il paradosso più eclatante è quello chiamato amore. «Il solo sospetto che i destini di un essere diverso da me possano dipendere da un paradosso chiamato amore mi paralizza» fai dire al personaggio Malaguti, emissario della famelica signorina. Perché l’amore produce imbarazzanti effetti collaterali, come ci avevi spiegato in un’altra intervista: «L’idea di amare una persona e la consapevolezza di farlo con trasporto totale e incondizionato non mi destabilizza quanto la sensazione che un amore altrettanto cieco sia misteriosamente rivolto alla mia persona. Ti chiedi cosa ne farai, di tutto questo amore, se ne sei degno, se sarai capace di preservarlo senza trasformarlo in altro, per esempio in dolore. Ma il vero problema è che chi ci ama vede cose di noi che non sempre siamo disposti a mostrare. Ci rende nudi, disarmati, in mutande». Eppure Gonzalo non si sottrae all’amore né ai suoi effetti collaterali. Ama profondamente la piccola figlia Inès e la moglie Gloria ma non sfugge al grande paradosso: è “per amore” che scenderà negli inferi della sua coscienza ed è “grazie all’amore” che riuscirà a riemergere. Quindi, per arrivare alla domanda, sei riuscito con questo libro a tenere a bada – o a eliminare del tutto – gli effetti collaterali dell’amore e dell’intera esistenza?
Scrivere libri non serve a tenere a bada nulla, per quanto mi riguarda. Certe operazioni di contenimento andrebbero gestite con altri mezzi, ad esempio la forza d’animo, l’ottimismo, le benzodiazepine. Non sono certo che Gonzalo riesca a riemergere, e se lo fa non è tanto grazie al suo amore, quanto a quello che altri – malgrado tutto – hanno scelto di riservargli. E poi l’amore è un sentimento troppo fluido e instabile per farsi carico di eccessive aspettative, meglio non fidarsi.

Morte e malattia sono le due cifre dominanti da cui la tua narrazione attinge linfa vitale. È dalla misteriosa malattia che riduce la piccola Inès a un coma perenne che Gonzalo trae la motivazione a oltrepassare ogni limite. È sempre una misteriosa malattia a rendere insaziabile la macabra fame della Signorina Marisól. Una malattia, peraltro, che vive dentro tutti noi ma «non è uguale per tutti, la sua natura è mutevole, cambia a seconda di chi ne è schiavo». Puoi approfondire questa metafora?
La malattia, semplicemente, è qualcosa che non possiamo controllare fino in fondo. Riesce a risultare minacciosa anche quando ci colpisce in modo blando e agevolmente gestibile. Non sai mai cosa può riservare al tuo corpo e alla tua mente, perfino un raffreddore o un mal di denti è un’incognita, un salto nel buio: potrebbe sempre trattarsi di un sintomo che prelude a scenari nefasti. Non sono un ipocondriaco e non temo la morte (non la mia, almeno; quella delle persone che amo, invece, mi tormenta di continuo), però trovo esecrabile l’idea che qualche mostro invalidante possa prendere possesso del mio corpo o dei miei pochi neuroni compromettendone l’autonomia. In altre parole, il nemico che temo è quello che deciderà al mio posto. Insomma, spero di cuore che la morte sappia correre più veloce: a lei potrò ridere in faccia, a lui no. E io intendo chiudere i battenti con un bel ghigno stampato sulle labbra.

Il libro ha una colonna sonora che ci riporta ai musical americani degli anni Cinquanta, all’intramontabile Singing in the rain di Gene Kelly, ai gorgheggi di Charles Trenet. Nulla di strano se non fosse che i macabri banchetti si svolgono solo al suono di questa musica. Puoi provare a spiegare?
Amo Gene Kelly, la sulfurea leggerezza di quell’uomo bellissimo e volatile mi ha sempre incantato. Credo che questo invaghimento derivi soprattutto dalla grande invidia che provo verso chi, al contrario di me, riesce a librarsi nello spazio e nella mente con tocchi lievi ed eleganti. In questo senso la sua presenza nel libro non è nient’altro che una dichiarazione d’amore. Da un punto di vista estetico, invece, accostare musiche retrò a scene sanguinose significa ancora una volta giocare di contrasto inseguendo le solite tinte grottesche che credo meglio esemplifichino la cifra della mia scrittura.

Recentemente hai “confessato” che in realtà odi scrivere, che hai ancora un altro paio di cose da concludere e poi probabilmente smetterai. Metti in bocca al giornalista Lentini, un altro importante personaggio del romanzo, quello che ci hai detto in un’altra intervista: «Uno come me scrive per egoismo, per noia, al limite per disperazione. Ma soprattutto perché a fare i bombaroli si dà molto più nell’occhio». È ancora questa la migliore rappresentazione possibile del tuo rapporto con la scrittura?
Penso proprio di sì. Se non avessi la scrittura come valvola di sfogo passerei il tempo ad appiccare incendi.

Il cimitero monumentale di Torino è, senza essere citato, uno dei grandi protagonisti del romanzo, insieme alla tua significativa esperienza di cerimoniere. Quali sono state le reazioni di colleghi e “clienti”, c’è qualcuno che arriva con il libro sotto braccio e magari va in cerca della lapide del Dott. Astolfo Forsenghi per rileggere l’epigrafe: «Che tentò varie vie e non riuscì in nessuna. Non domandare alla vita più di quanto essa può dare»?
Credo che dopo tanti anni di frequentazione i miei colleghi abbiano imparato a comprendere la riservatezza di cui parlavo prima, e si guardano bene dal non rispettarla. Sanno che ho scritto questo libro, alcuni di loro lo hanno letto, ma nel complesso ho scoraggiato qualsiasi discussione in merito. Preferisco tenere separati i due mondi, farli incontrare mi imbarazza. Quanto agli utenti del Tempio, no, per fortuna non è capitato che qualcuno si presentasse con il libro sotto braccio. In genere chi passa da quelle parti ha cose più importanti a cui pensare. Comunque, se mai dovesse succedere, farei il possibile per negare l’evidenza.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Roberto Bolaño, Sepolcri di cowboy. Wolfang Hilbig, Le femmine e Vecchio scorticatoio. Régis Jauffret, Microfictions. Valentina Maini, La mischia.

Ade Zeno è nato a Torino nel 1979. Ha pubblicato Argomenti per l’inferno (NoReply, 2009) e L’angelo esposto (Il Maestrale, 2015), oltre a numerosi racconti sparsi su antologie e riviste. Fondatore, insieme al collettivo sparajurij, della rivista letteraria Atti impuri, ha lavorato anche per cinema e teatro. È uno dei protagonisti di Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti (2019)Da alcuni anni lavora come cerimoniere presso il Tempio Crematorio di Torino. L’incanto del pesce luna (Bollati Boringhieri, 2020) è il suo terzo romanzo.

Bookish, una libreria che dà dipendenza. Intervista a Giorgia Sallusti

INDILIBR(A)I – Rubrica dedicata ai librai e ai lettori indipendenti

di Emanuela D’Alessio

Bookish
Via Valle Corteno 50/52 – 00141 Roma
tel. 06 817 0874

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Giorgia Sallusti

Giorgia Sallusti ha cambiato di recente in Bookish il nome della sua libreria aperta nel 2015, per testimoniare la trasformazione che libraia e libreria hanno conosciuto in questi anni. Bookish, più pop e breve del precedente Il giardino del mago, descrive una persona ossessionata dai libri e dalla lettura.
Oggi Giorgia, sempre di corsa e curiosa, lettrice critica e attenta con una predilezione per la letteratura giapponese e cinese del Novecento e un occhio sempre aperto sulla letteratura fantasy, si sente «l’antidoto all’algoritmo», è convinta che il libro debba essere l’intrattenimento per eccellenza, ha costruito un luogo di incontro e di discussione sulla letteratura e alla fine anche sulla vita, un crocevia culturale, una sorta di Via della Seta intellettuale.
«Noi librai – avverte – siamo koala in estinzione funzionale: lottiamo col sangue ma ci stanno bruciando l’habitat».
Intanto noi le abbiamo rivolto qualche domanda!

Quali sono gli elementi indispensabili per tracciare un profilo realistico di Giorgia Sallusti?
Una libraia sempre di corsa, credo. Affannata alla ricerca di titoli, curiosa, con quattro o cinque libri in lettura, qualche recensione da consegnare a corollario del lavoro in libreria. Ma sono anche, a dispetto della quantità, una lettrice molto critica e attenta, con una predilezione per il black humour e la letteratura giapponese e cinese del Novecento.

Essere scrittore non ha nulla a che fare con la pubblicazione, l’editoria, il riconoscimento del pubblico – spiegava Paolo Zardi rispondendo proprio a una tua domanda – ma significa avere la costante necessità di organizzare il mondo attraverso la narrazione. Quindi, concludeva, «io faccio l’ingegnere ma sono uno scrittore». Per un libraio temo che le cose vadano in un altro modo. Per un libraio non penso sia irrilevante il riconoscimento dei lettori. Per un libraio non c’è la possibilità di fare un altro mestiere “nel frattempo”.  Quindi la domanda è: per quale motivo hai deciso di fare la libraia?
Credo che per una libraia non esista proprio il «frattempo»: è una missione da ventiquattro ore al giorno. Ho deciso di fare la libraia – anzi, di essere una libraia – perché così sono riuscita a improntare la vita attorno all’oggetto che amo di più, che è il libro. È frustrante, non soddisfacente dal punto di vista prettamente economico; anzi, se consideriamo la libreria come azienda possiamo vedere chiaramente che è un’operazione fallimentare già alla partenza. Eppure, la libreria è un’impresa culturale dove lo scopo non è l’arricchimento monetario, anche se mi fa piacere chiudere la saracinesca coi conti in ordine.
Il mio obiettivo è la promozione e la diffusione dei libri belli e del concetto che il libro vada tolto dalle teche polverose dove è stato rinchiuso negli ultimi decenni, e torni a essere invece anche l’intrattenimento per eccellenza: make books great again, per citare qualcuno più arancione di me.
Ecco, come libraia mi piace che il luogo che ho costruito sia un punto di incontro e discussione, sulla letteratura e alla fine anche sulla vita: Umberto Eco diceva che la lettura è un’immortalità all’indietro.

La libreria ha cambiato nome recentemente, da Il giardino del mago a Bookish, espressione inglese per descrivere una persona ossessionata dai libri e dalla lettura.  Quindi i libri creano dipendenza? Comunque, qual è stata l’evoluzione da un nome all’altro?
Il giardino del mago è il nome che avevo scelto quando ho deciso di avviare questa attività nel 2015. Sono cambiate molte cose: mi sono trasformata io come libraia, ho acquisito nuove competenze e anche un gusto diverso, migliore direi, e quindi di riflesso è mutata la libreria. Quel vecchio nome è il titolo di una canzone del Banco del Mutuo Soccorso che non mi stancherà mai, ma ho sentito il bisogno di trasmettere il cambiamento anche al nome e al logo, le parti più visibili della libreria: sono passata a Bookish, più breve, più pop e, evidentemente, più inglese. Molte persone me ne hanno chiesto il motivo, qualcuna tacciandomi di una malsana anglofilia, come se la sovranità linguistica fosse un bene da conservare con le unghie e coi denti. Il mago richiamava anche la vocazione iniziale per la letteratura fantasy, che è rimasta ma non è più così esclusiva.
Non bisogna nemmeno tralasciare il fatto che «bookish» mi piace di più e penso che il significato si addica con precisione a me stessa, alla mia vita, e spero in futuro anche al modo in cui parlo e scrivo. Non è forse Scout Finch, uno dei miei personaggi preferiti, che dice «fino al giorno in cui mi minacciarono di non lasciarmi più leggere, non seppi di amare la lettura: si ama, forse, il proprio respiro?». Quindi rispondo anche alla prima domanda: secondo me i libri creano dipendenza. Il piacere della lettura è molto seducente, è bello farsi irretire.

Le librerie indipendenti sono incalzate e superate dalle piattaforme online, molte stanno chiudendo o hanno già chiuso, si parla di estinzione del libraio (prima ancora che del libro e di tante altre categorie dell’umanità). Che cosa dovrebbero fare i librai per non estinguersi, che cosa dovrebbe diventare una libreria per non chiudere?
A che serve la libraia? Ci sono libri che avete letto; libri che conoscete e sapete di non aver letto. Ma ci sono moltissimi libri che non sapete di non aver letto: sono al di là della vostra conoscenza, e quindi del vostro desiderio. Capiamoci: ormai si acquista tutto su internet. Internet è meraviglioso. Cerchi quello di cui hai bisogno, quello che vuoi, e internet te lo dà. Soddisfa i tuoi desideri di acquisto o conoscenza. Ma ottenere ciò che vuoi non è sufficiente: «le cose migliori sono quelle di cui non conoscevi l’esistenza fino al momento in cui non le hai avute», dice Mark Forsyth.
La libraia è l’antidoto all’algoritmo: se le tue ricerche online ti profilano come potenziale cliente, i risultati che otterrai saranno di continuo più simili a questa tendenza, e così la bolla che abiti culturalmente ti si stringerà sempre più attorno. Il mio lavoro, se lo faccio bene, è rompere i confini di questa bolla e allargare il tuo orizzonte di lettore. E spesso questo significa anche espandere i confini della conoscenza nella vita al di fuori della letteratura.
Inoltre la libreria è davvero un luogo di confronto grazie a presentazioni, incontri con autori e case editrici, gruppi di lettura. Insomma, è un crocevia culturale, una specie di «Via della Seta» intellettuale, e per questo è preziosa e insostituibile.
Non nascondo certo le difficoltà, che sono tante. Leggo spesso e con interesse articoli e interviste sulla situazione di libro, librerie, editoria in Italia. Tutti dicono la stessa cosa: è un dramma. Come libraia, penso che la legge sul libro e la regolamentazione degli sconti possa aiutare, e non poco, le librerie indipendenti. Quello che mi addolora e mi spaventa, per il futuro della mia professione e della mia vita da lettrice, è la sofferenza di un mercato che non ha più domanda: in Italia meno del 40% della gente legge almeno un libro all’anno. Inutile sottolineare le percentuali estere (in Norvegia si va oltre il 90%).
Quello che mi preme ribadire è che manca la cultura del libro, come oggetto di intelletto e divertimento, e di piacere anche intenso. Manca la cultura della libreria come luogo di incontro e di idee. Le eventuali leggi sulla protezione delle librerie sono meritevoli ma insufficienti se la risposta istituzionale sul fronte scuola, cultura, lettura si azzera.
Noi librai siamo ora i koala in estinzione funzionale: lottiamo col sangue ma ci stanno bruciando l’habitat.

C’è chi sostiene che un libraio in grado di consigliare un libro non esiste più, perché ormai i librai non leggono e se anche lo fanno non riescono a leggere tutto. Quest’anno, tanto per dare un numero, sono stati pubblicati 75 mila titoli. Quindi come la mettiamo con la figura romantica del libraio che accoglie, ascolta e propone il titolo giusto al momento giusto per chiunque metta piede nella sua libreria?
Mi vedo tutto fuorché romantica. Se penso a me stessa, so di leggere tanto, centinaia di titoli l’anno, ma certo non abbastanza per tenere il passo con quanto si pubblica. Il punto però non è leggere tutto, ma leggere bene. Acquisire gli strumenti per un’analisi critica dei libri, della qualità editoriale e saper quindi indirizzare il lettore su strade più o meno precise. Per gusto e attitudine, per esempio, preferisco le case editrici indipendenti che hanno degli standard molto alti. In linea generale cerco di conoscere tutti gli autori che ho sugli scaffali, e quindi di leggerne almeno un libro, che sia romanzo o saggio o silloge. Coi preferiti mi spingo sempre più avanti, e finisce che leggo tutto, come con Jonathan Lethem o Enchi Fumiko o Mo Yan, ma sono i rischi del mestiere.
Parlando di percentuale di successi, la mia autostima è al massimo: se mi chiedono un consiglio letterario, ci azzecco spesso. Se è per un regalo, ancora meglio. Quindi sono proprio brava – oppure nessuno è mai venuto a reclamare: magari li spavento. Mi piace pensare però che il libro perfetto esista per pochi lettori in ancor meno casi. È molto più facile che si leggano libri buoni, o anche eccellenti, e spesso solo sufficienti: questo è importante da comunicare al lettore, secondo me. Non cerchiamo l’unico libro come Sauron cerca il suo Unico Anello, ma puntiamo a una ricerca qualitativa in mezzo a un buon numero di titoli letti. Si imbroccano molte scelte sensate, così.

Se tu fossi solo una lettrice che cosa vorresti trovare in una libreria?
Vorrei potermi stupire, trovare libri che non pensavo di desiderare. Vorrei trovare spunti interessanti su autori poco conosciuti, e non ultimo, anche edizioni che appaghino il mio senso estetico. Un po’ di serendipity, ma meno romantica e più nella versione degli Slayer.

Che cosa trovano i lettori da Bookish?
Se guardano un po’ oltre la superficie, allora sì che si possono stupire. Trovano letterature sconosciute alle classifiche più hip, l’oriente che si traduce sempre troppo poco o titoli quasi esauriti di vecchi romanzi di fantascienza. Trovano, in ogni caso, buona letteratura. E poi ovviamente una libraia fichissima.

Bookish si trova a Montesacro, tra Via delle Valli e la Nomentana. Qual è il rapporto con il territorio e chi sono i “tuoi” clienti?
Il territorio lo vivo da sempre e lo conosco molto bene; lo sto anche vedendo cambiare di anno in anno e mi fa piacere. Mi piace adattarmi a queste trasformazioni, perché il quartiere diventa eterogeneo e per me è l’opportunità di mettermi alla prova. I miei clienti sono diversi, molti abitano nei dintorni della libreria e li conosco tutti per nome, conosco i loro gusti. Si fanno consigliare e discutiamo spesso con effetto soddisfacente per entrambi.
I più giovani mi passano a trovare anche solo per un saluto dopo la scuola, per portarmi i biscotti o farmi vedere un dente che cade, una pagella, un sasso strano, e poi frugano nello scaffale dedicato a loro. I piccoli lettori sono molto divertenti.
Alcuni degli adulti fanno parte dei miei gruppi di lettura, seguono gli eventi e si fidano delle mie scelte, altri ancora sono diventati amici preziosi. I clienti che entrano e mi chiedono «oggi che mi dai?» fidandosi alla cieca di me sono quelli che danno una soddisfazione incredibile.
Poi ci sono i clienti che vengono da altre zone di Roma perché sanno che da Bookish possono trovare titoli che altrove non ci sono. Questo mi dà un grandissimo piacere neanche fossi Leland Gaunt.

Se ti trovassi nella necessità di dover regalare solo un libro, uno soltanto, quale sceglieresti e perché?
Jonathan Lethem, La fortezza della solitudine, edito da Bompiani: perché ha una prosa eccezionale che racconta la vita in tutte le sue ingiustizie e meschinità, e amori e piccoli successi. È uno dei miei libri preferiti.

Invece quali sono i titoli più venduti in questo periodo natalizio?
Molta narrativa, direi. Coriandoli nel giorno dei morti di B. Traven (Racconti), La ragazza del convenience store di Murata Sayaka (e/o), Guida alle reliquie miracolose d’Italia di Mauro Orletti (Quodlibet) e tra i bestseller della libreria Donne, razza e classe di Angela Davis (Alegre). Per i più piccini, Mappe di Aleksandra Mizielinska e Daniel Mizielinski (Electa) e i romanzi di Roald Dahl (in Italia editi da Salani).

Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
Un sacco di roba: il comodino ha finito per diventare un pezzo di comò, il tavolino da caffè e una sedia. E quindi: L’ordine degli Assassini di Marshall G.S. Hodgson e Storia notturna di Carlo Ginzburg (entrambi Adelphi), Germania di Tacito e Anabasi di Senofonte (entrambi Quodlibet e appena acquistati in fiera a Più libri più liberi). Poi ho Amelia Gray con Viscere (Pidgin) e L’ultimo viaggio di Amundsen di Monica Kristensen (Iperborea). E poi sicuramente sotto e in giro c’è altra roba ma la scoprirò solo leggendo prima quelli in superficie.

Otto anni di editoria indipendente – Stefano Friani, racconti edizioni

Sabato 30 novembre ci sarà anche Racconti edizioni all’ultimo incontro in programma con Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti. 

Di seguito uno stralcio della nuova intervista a Stefano Friani, fondatore con Emanuele Giammarco della casa editrice dedicata esclusivamente alla forma “racconto”. Qui invece quella comparsa sul blog nel dicembre 2016. Entrambe sono presenti nel volume.

Dopo tre anni di attività e oltre venti titoli all’attivo l’intuizione originaria, rendere disponibile qualcosa che non c’è, resta valida più che mai.
«Il segreto continua a essere la curiosità, il lasciarsi stupire, farsi prendere per mano da una voce e finire a fare un’offerta per l’opera omnia dimenticandoti di budget e bazzecole simili. Un orizzonte di ricerca che ci interessa sempre molto e dove ci saranno delle novità a breve è quello dei neri americani e della letteratura africana».

Con Elvis Malaj, il primo autore italiano pubblicato da Racconti edizioni nel 2017, il principio dell’essere stranieri in patria sembra garantito. Ma sembra difficile incontrare in Italia voci che si sentano “immigrati della propria lingua”.
«È già successo che delle nuove leve della letteratura italiana per cui il tema dell’identità non era così centrale siano state pubblicate da Racconti, e penso a Marco Marrucci e Michele Orti Manara, e molto probabilmente continuerà a succedere perché non vorremmo che quella nostra idea di ricerca – che beninteso seguitiamo a esplorare – diventasse un manifesto cui conformarsi in toto».

A maggio è uscito il primo numero della nuova collana gli Scarafaggi dedicata al racconto lungo.
«È una direzione nella quale ci muoveremo accanto a quella delle raccolte di short stories. Il primo titolo è La Casa della fame di Dambudzo Marechera, un autore maledetto morto a 35 anni di Aids, alcolizzato e senza un soldo, dopo un breve periodo sulla cresta dell’onda. Il libro, un potentissimo e lisergico flusso di coscienza, è un urlo di rabbia e dolore dalla Rhodesia segregazionista. Marechera è stato tra i più grandi autori africani di sempre e rappresenta se vogliamo un polo opposto alla tradizione di scrittori come Chinua Achebe. Per capirci, The Guardian lo definisce “il Joyce africano”».

Stefano Friani sarà protagonista, con Isabella Ferretti di 66thand2nd, dell’incontro Quando l’editore incontra l’autore, organizzato da Via dei Serpenti.

 

 Sabato 30 novembre, libreria Tomo di Roma, 19:00
Ingresso gratuito!

 

 

Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
A cura di Emanuela D’Alessio, Rossella Gaudenzi, Sabina Terziani
Editore: Via dei Serpenti, settembre 2019
Introduzione di Leonardo G. Luccone

Il volume è disponibile, a offerta libera, sul nostro sito e nelle librerie romane Tomo Libreria CaffèRisvoltiPagina 348, L’Altra Città