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Gonzalo e la sua amorevole voglia di combattere – Intervista a Ade Zeno

di Emanuela D’Alessio

Gonzalo prima lavorava come cerimoniere al tempio crematorio della sua città, ora lavora per la mostruosa Signorina Marisól, affetta da una misteriosa malattia che la costringe a nutrirsi di prede umane.
Gonzalo prima viveva, colmo di amore, con la piccola figlia Inès e la moglie Gloria. Ora vive da solo,  la figlia è stata colpita da una malattia – altrettanto misteriosa – che la costringe da molti anni in uno stato vegetativo, la moglie lo ha lasciato quando si è accorta del suo inquietante cambiamento.
Senza anticipare nulla su cosa succede “dopo” nel nuovo romanzo di Ade Zeno, posso dire che L’incanto del pesce luna è una storia paradossale, perché esaspera clamorosi contrasti, dà voce alle infinite e umane contraddizioni, provoca ininterrottamente raccapriccio e commozione, orrore e pietà, terrore e speranza. Una storia che non fa paura, nonostante l’esplorazione dell’abisso; una storia sull’amore e sulla vita, nonostante le cifre dominanti della morte e della malattia.
Ade Zeno, scrittore e cerimoniere al Tempio Crematorio di Torino, ha creato dopo una lunga e sofferta gestazione un romanzo doloroso, commovente, disperato, catartico, giocando con le tinte grottesche e poetiche della sua scrittura.
Per sconfiggere i mostruosi demoni che albergano in tutti noi, o solo per ridurli al silenzio, li si deve guardare negli occhi, aggredirli senza esitazione, e conservare sempre un guizzo di ironia da trasformare all’evenienza in ghigno beffardo.
Ho voluto soffermarmi ancora un po’ su L’incanto del pesce luna rivolgendo alcune domande all’autore.

Nella nota conclusiva di L’incanto del pesce luna hai scritto che la genesi del libro è legata a un periodo felice e a un periodo buio della tua vita, che il libro è per te fratello e nemico allo stesso tempo. Puoi spiegarci meglio il punto di partenza e la destinazione finale di questa nuova creazione letteraria, ma anche tutto quello che è accaduto durante?
Non amo parlare della mia vita privata, chi mi conosce sa che ho un rapporto con la riservatezza ai limiti dell’ossessivo. Il periodo di gestazione dell’Incanto è stato piuttosto lungo, direi intorno ai due o tre anni, e confermo che quando l’ho iniziato ero una persona molto diversa rispetto a quella che ha corretto le ultime bozze prima della pubblicazione. Diversa nel senso di meno infelice. Ciò che è successo durante la stesura ha a che vedere con la mia biografia, ma ha inevitabilmente condizionato anche il mio sguardo sul romanzo, verso il quale – inutile negarlo – oggi provo una forma di oscuro risentimento, perché molte delle pagine che lo compongono mi ricordano momenti che vorrei dimenticare. Naturalmente non li dimenticherò. E lui farà lo stesso.

Il protagonista Gonzalo fa il tuo stesso lavoro, cerimoniere al tempio crematorio di un cimitero. Per scrivere di lui, ma credo anche di molto altro, hai attinto a piene mani alla tua vita reale perché «l’immaginario è legittimato a divorarsi la verità come meglio crede». Anche lo pseudonimo Ade Zeno è stato divorato dalla verità, in queste settimane il tuo nome è stato svelato dai recensori. Insomma, L’incanto del pesce luna ha provocato un profondo smottamento che ha portato alla luce molti dei tuoi (o tutti?) “tesori nascosti”.  Una scelta consapevole o la conseguenza di un’urgenza sfuggita al controllo?
Anche se trasfigurato e posto al servizio della narrazione, tutto quello che scrivo è governato da pulsioni decisamente reali, profondamente mie, non vedo come potrebbe essere altrimenti. In ogni caso non credo che brulichino molti tesori fra ciò che nascondo. Quanto al discorso sull’identità, ho sempre preferito considerare Ade Zeno un eteronimo, vale a dire un nome che non sostituisce quello vero come si propongono di fare gli pseudonimi, ma lo integra diventando a sua volta personaggio di un immaginario preciso. Alcuni recensori hanno ritenuto doveroso rivelare la mia identità anagrafica – in un caso, fra l’altro, riuscendo perfino a sbagliarla – e non nego di avere patito gesti simili come il tradimento di un patto segreto. Ma a quanto pare in giro circola ancora troppa gente convinta che la realtà sia quella che si vede.

Gonzalo, prima di gettare in pasto (letteralmente) alla feroce Signorina Marisól prede umane ignare dell’atroce destino imminente, fa indossare a ciascuna una maschera di animale (rana, elefante, scimmia, leone, rinoceronte, pesce palla). Le vittime sono quasi sempre uomini, a volte bambini, mai donne. Il mostro-donna non può divorare una sua simile?  E perché l’uso delle maschere?
L’Incanto è abitato quasi esclusivamente da carnefici. Di vittime pure – cioè quelle in cui è riconoscibile un vago sapore di innocenza – ne compaiono pochissime. Era importante che ci fossero anche loro, ovvio, il sacrificio di un bambino rende più evidente la crudeltà degli aguzzini. Ma è chiaro che la tesi del libro è una riflessione su quanto sia illusoria la divisione fra bene e male. A pensarci bene la vecchia Marisól è molto meno condannabile dei suoi complici, in fondo le sue azioni sono governate dal puro istinto, dalla fame, mentre i faccendieri che le gravitano intorno – Gonzalo compreso – hanno scelto di stare dalla sua parte.
Le dinamiche di potere che governano il mondo in cui viviamo sono sempre state gestite esclusivamente da maschi, quindi, in una logica di contrasto, mi è sembrato naturale porre una donna al vertice della piramide. D’accordo, si tratta di un personaggio anomalo, mostruoso, ma il fatto che sia femmina lo rende più inquietante, credo, più destabilizzante. Non viene dichiarato esplicitamente, ma il fatto che tra le vittime della mattanza non figurino mai donne o bambine potrebbe rappresentare la profonda spaccatura tra sessi che da sempre domina il nostro mondo. La verità è che le donne, sia pure da una posizione di sudditanza sociale, superano di gran lunga gli uomini più o meno in tutto: sono molto più intelligenti, sensibili e perfide. Vale la pena vagheggiare una società manovrata da loro, risulterebbe decisamente più interessante.
Quanto all’uso delle maschere, direi che risponde a una doppia esigenza: la prima, più tecnica se vogliamo, riguarda la necessità di alimentare quel senso del grottesco che attraversa l’intera narrazione. La seconda, meno esplicita, si sposta invece sul piano simbolico, o meglio metaforico: quei volti posticci, trasfigurati, anziché nascondere la natura degli uomini che li indossano la rivelano, disarmandoli completamente ai nostri e ai loro stessi occhi.

Nelle pagine incontriamo moltissimi altri richiami al mondo animale. Gonzalo ama chiamare la figlia “pesciolina”, il pesce luna è il protagonista della sua fiaba preferita, il dinosauro pterodattilo è il mostro che popola gli incubi notturni della bambina ma anche dell’adulto. Che cosa ci raccontano i “tuoi” animali?
Gli animali mi affascinano, sono esseri alieni e meravigliosi di cui in fondo si sa pochissimo. Parlo in particolare degli animali selvatici, perché l’asservimento a cui abbiamo piegato le cosiddette bestie di compagnia suscita ai miei occhi più pietà che malìa. Mi è capitato di leggere molto a proposito degli insetti (tempo fa ho studiato a lungo le libellule), e dei pesci abissali, mostri fantasmagorici le cui forme e abilità non avremmo potuto immaginare nemmeno in sogno. Di recente ho divorato un bellissimo studio sull’intelligenza dei cefalopodi, si intitola Altre menti, lo ha tradotto Adelphi circa un anno fa. Il mio preferito, comunque, è sempre stato l’elefante africano, che per inciso è l’unico ad aver sviluppato un culto dei morti simile a quello umano.

«Miseri, sbalorditi mortali. Meritate di finire così. In fondo lo meritiamo tutti». Sono queste le parole che Gonzalo pronuncia prima di gettarci tutti (personaggi e lettori) nella mattanza delle prime pagine, una descrizione potente e spiazzante di quello che accade periodicamente a casa della Signorina Marisól. Parole che risuonano come una condanna a morte, inevitabile perché conseguenza di una colpa grave, quella di essere un uomo, per lo meno di un certo tipo. Gonzalo sembra perseguire, tra le altre cose che scopriremo solo andando avanti con la lettura, un personalissimo intento purificatore del genere umano. Che cosa puoi dirmi al riguardo?
Non ripongo nessuna fiducia nel genere umano. Siamo esseri egoisti, tendenzialmente stupidi, e votati a una mostruosa vocazione parassitaria. Da pochi istanti ci siamo appropriati di questo mondo con la tracotanza degli sciocchi, senza renderci conto che a breve si libererà di noi con mezzo starnuto. No, non coltivo segrete speranze di salvezza, e non credo assolutamente nell’idea di purificazione. La triste verità è che Gonzalo, con tutta quell’amorevole voglia di combattere, è molto più ottimista di me.

L’incanto del pesce luna è, tra le molte possibili interpretazioni, una storia paradossale perché esaspera clamorosi contrasti, perché dà voce a tutte le contraddizioni dell’animo umano, perché provoca ininterrottamente raccapriccio e commozione, orrore e pietà, terrore e speranza. Ma il paradosso più eclatante è quello chiamato amore. «Il solo sospetto che i destini di un essere diverso da me possano dipendere da un paradosso chiamato amore mi paralizza» fai dire al personaggio Malaguti, emissario della famelica signorina. Perché l’amore produce imbarazzanti effetti collaterali, come ci avevi spiegato in un’altra intervista: «L’idea di amare una persona e la consapevolezza di farlo con trasporto totale e incondizionato non mi destabilizza quanto la sensazione che un amore altrettanto cieco sia misteriosamente rivolto alla mia persona. Ti chiedi cosa ne farai, di tutto questo amore, se ne sei degno, se sarai capace di preservarlo senza trasformarlo in altro, per esempio in dolore. Ma il vero problema è che chi ci ama vede cose di noi che non sempre siamo disposti a mostrare. Ci rende nudi, disarmati, in mutande». Eppure Gonzalo non si sottrae all’amore né ai suoi effetti collaterali. Ama profondamente la piccola figlia Inès e la moglie Gloria ma non sfugge al grande paradosso: è “per amore” che scenderà negli inferi della sua coscienza ed è “grazie all’amore” che riuscirà a riemergere. Quindi, per arrivare alla domanda, sei riuscito con questo libro a tenere a bada – o a eliminare del tutto – gli effetti collaterali dell’amore e dell’intera esistenza?
Scrivere libri non serve a tenere a bada nulla, per quanto mi riguarda. Certe operazioni di contenimento andrebbero gestite con altri mezzi, ad esempio la forza d’animo, l’ottimismo, le benzodiazepine. Non sono certo che Gonzalo riesca a riemergere, e se lo fa non è tanto grazie al suo amore, quanto a quello che altri – malgrado tutto – hanno scelto di riservargli. E poi l’amore è un sentimento troppo fluido e instabile per farsi carico di eccessive aspettative, meglio non fidarsi.

Morte e malattia sono le due cifre dominanti da cui la tua narrazione attinge linfa vitale. È dalla misteriosa malattia che riduce la piccola Inès a un coma perenne che Gonzalo trae la motivazione a oltrepassare ogni limite. È sempre una misteriosa malattia a rendere insaziabile la macabra fame della Signorina Marisól. Una malattia, peraltro, che vive dentro tutti noi ma «non è uguale per tutti, la sua natura è mutevole, cambia a seconda di chi ne è schiavo». Puoi approfondire questa metafora?
La malattia, semplicemente, è qualcosa che non possiamo controllare fino in fondo. Riesce a risultare minacciosa anche quando ci colpisce in modo blando e agevolmente gestibile. Non sai mai cosa può riservare al tuo corpo e alla tua mente, perfino un raffreddore o un mal di denti è un’incognita, un salto nel buio: potrebbe sempre trattarsi di un sintomo che prelude a scenari nefasti. Non sono un ipocondriaco e non temo la morte (non la mia, almeno; quella delle persone che amo, invece, mi tormenta di continuo), però trovo esecrabile l’idea che qualche mostro invalidante possa prendere possesso del mio corpo o dei miei pochi neuroni compromettendone l’autonomia. In altre parole, il nemico che temo è quello che deciderà al mio posto. Insomma, spero di cuore che la morte sappia correre più veloce: a lei potrò ridere in faccia, a lui no. E io intendo chiudere i battenti con un bel ghigno stampato sulle labbra.

Il libro ha una colonna sonora che ci riporta ai musical americani degli anni Cinquanta, all’intramontabile Singing in the rain di Gene Kelly, ai gorgheggi di Charles Trenet. Nulla di strano se non fosse che i macabri banchetti si svolgono solo al suono di questa musica. Puoi provare a spiegare?
Amo Gene Kelly, la sulfurea leggerezza di quell’uomo bellissimo e volatile mi ha sempre incantato. Credo che questo invaghimento derivi soprattutto dalla grande invidia che provo verso chi, al contrario di me, riesce a librarsi nello spazio e nella mente con tocchi lievi ed eleganti. In questo senso la sua presenza nel libro non è nient’altro che una dichiarazione d’amore. Da un punto di vista estetico, invece, accostare musiche retrò a scene sanguinose significa ancora una volta giocare di contrasto inseguendo le solite tinte grottesche che credo meglio esemplifichino la cifra della mia scrittura.

Recentemente hai “confessato” che in realtà odi scrivere, che hai ancora un altro paio di cose da concludere e poi probabilmente smetterai. Metti in bocca al giornalista Lentini, un altro importante personaggio del romanzo, quello che ci hai detto in un’altra intervista: «Uno come me scrive per egoismo, per noia, al limite per disperazione. Ma soprattutto perché a fare i bombaroli si dà molto più nell’occhio». È ancora questa la migliore rappresentazione possibile del tuo rapporto con la scrittura?
Penso proprio di sì. Se non avessi la scrittura come valvola di sfogo passerei il tempo ad appiccare incendi.

Il cimitero monumentale di Torino è, senza essere citato, uno dei grandi protagonisti del romanzo, insieme alla tua significativa esperienza di cerimoniere. Quali sono state le reazioni di colleghi e “clienti”, c’è qualcuno che arriva con il libro sotto braccio e magari va in cerca della lapide del Dott. Astolfo Forsenghi per rileggere l’epigrafe: «Che tentò varie vie e non riuscì in nessuna. Non domandare alla vita più di quanto essa può dare»?
Credo che dopo tanti anni di frequentazione i miei colleghi abbiano imparato a comprendere la riservatezza di cui parlavo prima, e si guardano bene dal non rispettarla. Sanno che ho scritto questo libro, alcuni di loro lo hanno letto, ma nel complesso ho scoraggiato qualsiasi discussione in merito. Preferisco tenere separati i due mondi, farli incontrare mi imbarazza. Quanto agli utenti del Tempio, no, per fortuna non è capitato che qualcuno si presentasse con il libro sotto braccio. In genere chi passa da quelle parti ha cose più importanti a cui pensare. Comunque, se mai dovesse succedere, farei il possibile per negare l’evidenza.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Roberto Bolaño, Sepolcri di cowboy. Wolfang Hilbig, Le femmine e Vecchio scorticatoio. Régis Jauffret, Microfictions. Valentina Maini, La mischia.

Ade Zeno è nato a Torino nel 1979. Ha pubblicato Argomenti per l’inferno (NoReply, 2009) e L’angelo esposto (Il Maestrale, 2015), oltre a numerosi racconti sparsi su antologie e riviste. Fondatore, insieme al collettivo sparajurij, della rivista letteraria Atti impuri, ha lavorato anche per cinema e teatro. È uno dei protagonisti di Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti (2019)Da alcuni anni lavora come cerimoniere presso il Tempio Crematorio di Torino. L’incanto del pesce luna (Bollati Boringhieri, 2020) è il suo terzo romanzo.