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Recensione in progress – Emanuela D’Alessio sta leggendo Benedizione di Kent Haruf

di Emanuela D’Alessio

Trentasette anni prima, in un giorno d’inverno, Dad Lewis era rimasto a casa dal lavoro per una semplice ragione: una forma influenzale lo aveva preso all’intestino. E se nel pomeriggio vide Frank e il figlio dei Seeger nel recinto con il cavallo, fu per una semplice ragione: si dovette alzare dal letto e andare in bagno perché stava per venirgli un nuovo attacco, dopo quella della notte e i due  del mattino, e fu in quel momento, guardando fuori dalla finestra della camera da letto verso il granaio oltre il cortile, che vide i due ragazzi.

Indossavano giacche invernali e berretti di maglia, Frank superava il figlio dei Seeger di tutta la testa. C’era molto vento e sembrava che i ragazzi avessero freddo.

Dad era solo in casa. Mary era al mercatino di beneficenza nello scantinato della Community Church, dove vendeva marmellata di ciliegie, coperte fatte a mano e centrini all’uncinetto per raccogliere fondi per l’Africa. Lorraine non era ancora tornata da scuola.

Andò in bagno e rimase lì per un po’, poi tornò a letto e diede un’altra occhiata; non vide i ragazzi, ma non ci fece troppo caso, però quando si rialzò dal letto un’ora più tardi, guardò di nuovo fuori dalla finestra e non vedendoli ancora nel recinto del bestiame si chiese se ci fosse qualcosa che non andava. Pensò che potessero essersi fatti male.

Si mise il cappotto invernale, il cappello, la sciarpa e i guanti da lavoro, attraversò lo spoglio prato invernale sul retro della casa ed entrò nel recinto. Il vento sollevava dalla terra nuda piccole nuvole di polvere fine, urlava e fischiava tra gli alberi scheletrici. Superò l’angolo sud del granaio, mettendosi al riparo dal vento, aprì la porta e si mise a scrutare il centro buio e indistinto dell’edificio. Fasci di luce filtravano tra le tavole di legno delle alte pareti e attraversavano il pavimento in terra battuta. Granelli di polvere e paglia si muovevano nell’aria. Si sentiva il profumo intenso del fieno e il buon odore di cavallo. Si fermò un attimo per dare tempo ai suoi occhi di abituarsi all’oscurità. Poi riuscì a vedere Frank e il figlio dei Seeger.

Erano in groppa alla cavalla, andavano in cerchio sulla terra battuta dell’area recintata all’interno del granaio, Frank dietro l’altro ragazzo, le teste molto vicine, entrambi vestiti con degli abiti estivi pieni di gale di Lorraine, trottavano fuori e dentro i fasci di luce del sole. Frank reggeva le redini con una mano e con l’altra cingeva il corpo del figlio dei Seeger. Poi Frank vide Dad sulla soglia del granaio. Fermò bruscamente il cavallo. Dad entrò e si mosse verso di loro. Il figlio dei Seeger era un ragazzo di dodici anni, secco, con i capelli rossi e il collo esile sopra la scollatura quadrata del vestito rosa. Sembrava infreddolito e spaventato. Sia lui sia Frank avevano il rossetto sulle labbra.

Scendete da quel cavallo, ordinò Dad.

Papà, disse Frank. Va tutto bene.

Scendete da lì.

Frank scivolò a terra, seguito dall’altro ragazzo. Rimasero in attesa, guardando Dad.

Che cosa diavolo pensate di fare? disse lui.

Non stiamo facendo del male a nessuno, rispose Frank.

Non state facendo del male a nessuno.

No.

Dammi quella dannata bestia. E toglietevi subito quei dannati vestiti.

I ragazzi si erano tolti i vestiti e si stavano dando da fare per levarsi i reggiseni. Sembravano piccoli animali senza pelo, gelati e impauriti. Gli volsero la schiena e abbassarono le mutandine di seta di Lorraine, quindi si diressero tremando verso la greppia, dove c’erano i loro vestiti appesi a un chiodo, e si misero i pantaloni, le camicie e le giacche invernali.

Mi vuoi dire che cos’è questa storia? disse Dad.

Non c’è niente da dire, rispose Frank.

Quelli erano i vestiti di tua sorella.

Sì.
Sa che glieli hai presi?

No. Ma mica li stavamo rovinando.

Credi che la penserebbe così anche tua sorella?

Frank lo guardò e poi guardò fuori dalla porta aperta da cui era uscito l’altro ragazzo. Non le importerebbe, disse.

E perché non dovrebbe importarle?

Non le importerebbe e basta.

Come lo sai?

Non lo so con certezza.

Le hai parlato di quello che stavi facendo?

No.

Non ne sa nulla? Del fatto che voi due avete usato i suoi vestiti?

No.

Gesù Cristo. Guardò Frank, studiando il suo volto. Che cosa dovrei fare?

Devi lasciarmi in pace.

Devo lasciarti in pace.

Per favore.

Dad lo guardò. Cristo, disse. Ma tu che cosa sei?
Sono soltanto tuo figlio. È tutto quello che sono.

harufKent Haruf (1943-2014) è stato uno dei più apprezzati scrittori americani. NN Editore ha iniziato con Benedizione la pubblicazione della trilogia ambientata nella cittadina di Holt (Il canto della pianura, Crepuscolo).

«Vorrei essere ricordato come qualcuno che si è dimostrato amorevole e compassionevole verso le altre persone. Più sono diventato vecchio, più mi sono avvicinato alla morte, e più le persone mi sono diventate care. Adesso desidero essere completamente presente quando sto con qualcuno.
Come scrittore vorrei essere ricordato come qualcuno che ha ricevuto un talento molto piccolo ma che ha lavorato al suo meglio per utilizzare quel talento. Voglio pensare di aver scritto quanto più vicino all’osso che potevo. Con questo intendo dire che ho cercato di scavare fino alla fondamentale, irriducibile struttura della vita, e delle nostre vite in relazione a quelle degli altri»

Benedizione di Kent Haruf
Traduzione di Fabio Cremonesi
NN editore, 2015
pp. 273, 17€

Recensione in progress – Anna Castellari sta leggendo XXI secolo di Paolo Zardi

di Anna Castellari

«Ho paura, papà».
«Di cosa?»
«Del buio. E dei rumori. Li senti?»
Dal soffitto, da sotto, da punti indefiniti, arrivavano gli scricchiolii che avevano accompagnato tutte le sue notti in quella casa. Il palazzo era in continuo assestamento, come un ragazzo nell’età della crescita, un vulcano sopito, come un vecchio decrepito che cerca disperatamente di rimanere in piedi.
Gli prese le mani. «È la voce di questa casa. Ma è un posto buono, io qui ci sono cresciuto. Hai visto come è diventato grande papà?»
Marco sorrise nel suo pellicciotto di topo. In quel lettino, in quella casa, sembrava ancora più piccolo e i suoi occhi ancora più grandi – quei fanali scintillanti e azzurri, spesso smarriti.
Da adulto, quelle iridi luminose l’avrebbero aiutato a trovare l’amore; ora, però, gli impedivano di nascondersi. Si fece pensieroso: «Quando mi ricresceranno i denti?»
«Secondo me quest’estate li avrai tutti. Sarai un piccolo criceto».
zardi-copertina-Rise. Gli tese la manina: «Hai visto l’orologio che mi ha regalato nonna?» Al polso aveva lo stesso pataccone che aveva ricevuto lui per la prima comunione, un Timex del pleistocene.
«Sono segnati anche i minuti, qui fuori» – e indicò la ghiera scolorita che circondava il quadrante. «Sono stati gentili, quelli che hanno messo i minuti» disse soddisfatto. Credeva che il mondo fosse fatto di persone che si prendevano cura degli altri.
Gli fece un po’ di solletico, e il piccolo, ridendo, scivolò presto nel sonno. Era sempre così: si spegneva di colpo, e la mattina riprendeva a vivere con la stessa velocità.
Miriam, nel letto accanto, era distesa su un lato e fissava il monitor di un lettore mp3; dalle cuffiette usciva un ronzio indecifrabile. Qualche mese prima, sua moglie gli aveva detto che la musica che uno sceglie non è questione di gusti: ogni età ha un suo ritmo interiore, e il corpo cerca qualcosa che lo faccia entrare in risonanza. Lei, ad esempio, ascoltava interi CD di campane tibetane. Quando tornava a casa, la sera tardi, dopo il lavoro, la trovava seduta sul letto, con le gambe incrociate, le mani sulle ginocchia, lo stereo acceso, interamente immersa in un’atmosfera di gong e riverberi, e gli pareva che quel corpo così esile avrebbe potuto lievitare, volare via, in un’altra dimensione. Si erano divisi gli elementi: lui pragmatico, terra e acqua; lei lunare, eterea come l’aria e volatile come il fuoco.
«Miriam…»
Lei si tolse le cuffie. Marco, intanto, aveva preso a russare come un orso raffreddato.
«Dimmi».
«Oggi ti sei spaventata?»
«Un po’».
Nonostante le tremasse la voce, non pianse. Parlarono per mezz’ora, sottovoce, della mamma, dei compiti, di quando lui era ragazzo e non andava bene a scuola – uno degli argomenti preferiti di Miriam. Un po’ alla volta si spensero i televisori dei vicini, e le voci, e i loro piatti e le pistole, lasciando che emergesse il rombo basso della città, il fruscio sottile della pioggia che la bagnava. Poi anche Miriam iniziò a cedere; quando la baciò sulla fronte aveva già il respiro pesante. Socchiudendo la porta, gli parve di sentire un soffio di vento, un alito d’aria che si muoveva, come se sua moglie, la piccola Eleonore dall’accento tedesco, fosse proprio lì, accanto a loro, a guardarli, ad accudirli, a proteggerli.

paolo-zardi-book-reviewPaolo Zardi, nato a Padova nel 1970, ingegnere, sposato, due figli, ha esordito nel 2008 con un racconto nell’antologia Giovani cosmetici (Sartorio). Successivamente ha pubblicato le raccolte di racconti Antropometria (2010, Neo Edizioni) e Il giorno che diventammo umani (2013, Neo Edizioni), il romanzo La felicità esiste (2012, Alet) e il romanzo breve Il Signor Bovary (2014, Intermezzi). Ha partecipato a diverse raccolte di racconti (Caratteri Mobili, Piano B, Ratio et Revelatio, Hacca, Psiconline, Galaad, Neo Edizioni) e suoi racconti sono stati pubblicati su Primo AmoreCattedraleRivista Inutile e nella rivista Nuovi Argomenti. È il primo autore italiano a essere stato tradotto e pubblicato sulla rivista Lunch Ticket dell’Università di Antioch (Los Angeles) con il racconto “Sei minuti” in Antropometria. Cura il blog grafemi.wordpress.com. Il romanzo XXI secolo è nella rosa dei candidati al Premio Strega 2015.

Recensione in progress – Anna Castellari sta leggendo Un pittore di nome Leonor

SCARABOCCHI – La rubrica dedicata alla letteratura per bambini e ragazzi.

leonordi Anna Castellari

«Qualcuno, imbattendosi nelle mie storie e nei miei testi, o scoprendo i miei personaggi, ha detto: “È il mondo di Corrado”.
In effetti credo che il mio sia proprio un mondo a parte.
Qui avete l’opportunità di affacciarvi alla soglia di questo mondo e di sbirciare alcuni suoi aspetti.
Benvenuti nel mio mondo.»

Corrado Premuda

«Bianche, rosa e color cacao. Le fave dei morti erano da sempre tra i dolci preferiti di Leonor. Quand’era piccola, Lolò aspettava con emozione la notte del due novembre ricordandosi di preparare un bicchiere di latte in cucina affinché, come le raccontava la nonna, i morti potessero rifocillarsi durante la loro visita e ricambiare la gentilezza lasciando alcuni bonbon, che Leonor trovava, entusiasta, la mattina dopo sul tavolo.

Mentre le dolci fave di pasta di mandorla le si scioglievano in bocca, la bambina pensava incantata al regno dei morti: la sua immaginazione lo dipingeva come un luogo fatato, popolato da esseri impalpabili, leggeri, eleganti e dotati di poteri straordinari».

«Io sono la figlia di una donna e di un gatto. Mio padre è nientemeno che Sua Maestà il Gatto, lo provano i miei occhi: guardali, sono occhi felini».

Corrado Premuda è nato a Trieste nel 1974. Ha pubblicato le raccolte di racconti Un racconto di frammenti (L’Autore Libri, Firenze 2000) e Intrusioni (FPE Editore, Trieste 2004). In Croazia è uscita la traduzione del suo romanzo per ragazzi Prematurità, inedito in Italia, con il titolo Sazrijevanje (Izdanja Antibarbarus, Zagabria 2010), illustrato da Andrea Guerzoni. Nel 2013 è uscito Felici e contente, raccolta di fiabe dal finale rivisitato illustrate da Guerzoni (Luglio Editore, Trieste). Nel 2014 è uscito Murmur. Fiaba per bambini pelosi, romanzo di Leonor Fini scritto originariamente in francese e tradotto in italiano da Premuda (Gli eccentrici – Edizioni Arcoiris, Salerno 2014).

Un pittore di nome Leonor è uscito per Editoriale Scienza (Trieste-Firenze) con le illustrazioni di Andrea Guerzoni. Sarà presentato per la prima volta giovedì prossimo, 12 marzo, alle 18 presso la Libreria Feltrinelli di Trieste.

Recensione in progress – Rossella Gaudenzi sta leggendo La strage dei congiuntivi di Massimo Roscia

rosciadi Rossella Gaudenzi

«Ho conosciuto Massimo Roscia nel 2010 a New York; eravamo nella casa di comuni amici nel’Upper West Side. Ho subito sospettato che non fosse normale. Sei mesi fa ho letto la bozza di questo suo ultimo romanzo e ne ho avuto conferma. Massimo non è affatto normale e ciò, per la letteratura italiana, è un gran bene».

John L. Hazelwood

PhD, Professor and Chair, Department of Linguistics and Verbal Behavoiur, Western University, San Francisco, California

“Il treno corre veloce, si lascia alle spalle i contorni cinerei della zona industriale, si infila in una se»e alla fine si ferma. Nessun cartello indica in quale stazione ci troviamo. Senza voltare la testa, attraverso il finestrino, opaco per la sporcizia, intravedo una scolaresca festante. Bambini in grembiule che giocano pericolosamente a ridosso dei binari e, dall’altro lato, insegnanti negligenti, seduti su una panchina a sorseggiare bibite dai colori fluorescenti e a conversare del nulla.

Quadro drammatico. Alunni, da alere, nutrire. I maestri che dovrebbero nutrire i discepoli proteggendoli, conducendoli, aiutandoli a raggiungere la conoscenza e a scoprire la verità, ne mettono invece a repentaglio la vita. Puniti, dal latino poena, dal sanscrito pûnya, puro. I maestri andrebbero purificati, in maniera esemplare. Dovrebbero essere legati su quelle rotaie e severamente castigati dal rapido delle diciotto e trenta. Vedo i loro corpi dilaniati dalle ruote monoblocco della locomotiva e dei quattordici vagoni a essa agganciati. Purificazione. Sangue e metallo, metallo e sangue. Sorrido soddisfatto. Riapro gli occhi”.

Massimo Roscia è nato a Roma nel 1970 (qualcuno sostiene nel 1870). Scrittore, critico enogastronomico, docente, condirettore editoriale del periodico «Il Turismo Culturale». Autore di romanzi, saggi, ricerche, guide e vincitore di diversi premi letterari, ha esordito nel 2006 con Uno strano morso ovvero sulla fagoterapia e altre ossessioni per il cibo. L’originale noir sul rapporto cibo-nevrosi ha ottenuto in pochi mesi un grande successo di pubblico e di critica. Da qualche anno insegna comunicazione, tecniche di scrittura emozionale, editing, letteratura gastronomica e marketing territoriale. Nei minuti liberi continua a scarabocchiare e a chiedersi cosa fare da grande.

La strage dei congiuntivi esce nel 2014 per Exòrma.

Recensione in progress – Emanuela D’Alessio sta leggendo Io sono Jonathan Scrivener di Claude Houghton

di Emanuela D’Alessio

JONATHAN_SCRIVENERChi è Jonathan Scrivener?

«È alto, ha la testa di un compressore e la faccia di un imperatore. Ha spalle ampie, è forte ed energico. Ha occhi vivaci, ma è come se la morte  avesse baciato le sue labbra. È un maestro nel destare la curiosità altrui, e un genio nel deluderla. Starlo a sentire è come osservare un dio che gioca con i mondi. Se si tace, si è nelle sue mani. È armato da ogni lato ma proprio per questo è sempre vulnerabile. È una sfida all’intelligenza, una minaccia per l’orgoglio, una lusinga per la vanità»

Dopo 57 pagine ci si trova immersi in un’atmosfera densa di mistero, tutto ruota intorno alla figura di Jonathan Scrivener, uomo ricchissimo e sempre in viaggio, che si distingue per la sua assenza. Possiede una casa lussuosa e moltissimi libri, assume per corripondenza il trentanovenne James Wrexman, con l’unico incarico di catalogarli. E nel silenzio assoluto e vibrante della biblioteca si avvicendano personaggi stralunati e altrettanto misteriosi, che hanno conosciuto Scrivener due mesi prima, che possiedono le chiavi della sua casa, tutti in cerca di qualcosa. Chi è Jonatahan Scrivener? Non resta che proseguire la lettura.

Il romanzo, scritto nel 1930 e riproposto oggi da Castelvecchi con la traduzione di Allegra Ricci e la prefazione di Henry Miller, è stato presentato dalla critica come un nuovo Stoner (il romanzo di John Williams resuscitato da un oblio durato decenni).

Henry Miller ne parla cosi: «Nel modo di tessere i suoi super-polizieschi, di tenere il lettore col fiato sospeso, c’è una particolarissima dote di disperazione, unica e tipica. E questa forza vi travolge anche al di là del finale stesso, come un vento imperioso il cui vorticare è lo stesso dei suoi libri. Tale costante, tale tratto distintivo da autentico autore inglese eccentrico, genera l’aria allucintaoria che fin dal principio permea di ossessione l’intera vicenda, che cupa e cruenta si dipana in uno scenario inglese»

Claude Houghton (1889-1961), scrittore inglese, popolare e apprezzato dalla critica. Fu autore di romanzi psicologici attraversati da un’originale vena di misticismo, che ricevettero sostegno e ammirazione da parte di molti scrittori, da G.K. Chesterton a Hugh Walpole, da Graham Greene a Tomáš Masaryk.

Recensione in progress: Emanuela D’Alessio sta leggendo Il silenzio. Un racconto dalla montagna di Max Frisch

Mi sono imbattuta nell’articolo di Alessandra Melia Camus e Frisch, tentativi di rivolta contro l’insensatezza dell’esistenza dedicato a Il silenzio. Un racconto dalla montagna di Max Frisch, traduzione di Paola del Zoppo, appena pubblicato da Del Vecchio.
Non conoscevo Max Frisch e non amo affatto la montagna, ma queste due negazioni e l’analisi comparata dei temi di Frisch e di Albert Camus (come si legge nell’articolo della Melia) a proposito dell’insensatezza del vivere, della rivolta contro l’ordinaria esistenza, hanno reso irresistibile la curiosità di leggere il libro.

La lettura si sta rivelando illuminante, fin dalla citazione iniziale dello stesso Max Frisch: «Lo scetticismo è la levatrice di una solida illuminazione e della conoscenza…Un essere umano che sia scettico nei confronti di sé stesso è di un grado più umano».

«A un certo punto bisogna realizzare i propri sogni giovanili, se non si vuole essere ridicoli, e realizzarli tramite gesta virili, e si vedrà se si trattava di vuote manie di grandezza o meno, ciò in cui ha creduto per tanti anni. A un certo punto bisogna osare, grandi gesta o morte, perchè una vita così lui non può e non vuole sopportarla».

«Ma com’è bella la vita, pensa, quando si è stanchi e si conosce il motivo per cui svegliarsi la mattina. Lo si conosce così di rado!, e di continuo questo alzarsi in un’esistenza vuota e infruttuosa, a volte si pensa davvero di non poterla sopportare oltre…ma alla fine, prima o poi, arriva il sonno, un sonno più potente di tutto il resto, più potente dei nostri pensieri e della disperazione e semplicemente cancella il pensiero prima che si faccia letale. E però si sa bene che non cancella nulla, quel sonno, ci rinforza solo per altra disperazione, e la mattina seguente non è cambiato nulla, ma comunque bisogna alzarsi, intraprendere un cammino senza via, senza fede e senza meta, senza senso, senza niente, senza vocazione, e solo per farsi vecchi, sempre più vuoti e sperduti…».

Max Frisch (1911-1991) era svizzero, figlio di un architetto, è stato lui stesso architetto, soldato, gironalista, grande viaggiatore e amante della montagna.  La sua vita fu ricca di cambiamenti di ritmo e scenario, amicizie stimolanti (tra cui quelle con Brecht, Dürrenmatt e Ingeborg Bachmann). Sempre apparentemente in fuga, adorava i rifugi, tra cui il più amato, dalla fine degli anni Sessanta, fu una vecchia stalla a Berzona da lui riadattata a residenza. Frisch ottenne tutti i più importanti riconoscimenti di ambito germanofono ma ricevette importanti riconoscimenti anche in altre nazioni: nel 1965 gli venne conferito il Jerusalem Prize for the Freedom of the Individual in Society, nel 1975 il Premio Internazionale per la Pace degli editori tedeschi e nel 1986 il Neustadt International Prize for Literature, prestigioso premio letterario statunitense. Il silenzio è un suo racconto giovanile (primi anni Quaranta) “ripudiato” dall’autore.