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Consigli di lettura di Lina Monaco e Maurizio Ceccato –
Libreria Scripta Manent

INDILIBR(A)I – Rubrica dedicata ai librai e ai lettori indipendenti

Libreria Scripta Manent
Via Pietro Fedele, 54 – Roma
tel. 06 97 99 33 19

Ecco i consigli di lettura della libreria Scripta Manent.

krusoKruso, Lutz Seiler (trad. di Paola Del Zoppo), Del Vecchio editore.
Kruso è un romanzo che non t’aspetti. Inizia con una vicenda privata, la perdita dell’amata, e ci presenta il protagonista Ed, completamente in balia di una vorticosa spirale di dolore che sembra tirarlo inesorabilmente verso il basso. Poi la riscossa, il tentativo di placare la sofferenza cercando rifugio in un luogo dai tratti fantastici e leggendari. Sull’isola Hidensee per Ed inizia una vera e propria avventura fatta di incontri e “misteri” notturni.  La pubblicazione di Del Vecchio e la traduzione della sempre ottima Paola Del Zoppo, sono a corollario di alta qualità.

L’Amalassunta, Pier Franco Brandimarte, Giunti, 2014
L’Amalassunta è il romanzo d’esordio del giovanissimo Pier Franco Brandimarte. La vicenda ci riporta tra i silenzi e i colori che padroneggiano l’entroterra abruzzese e marchigiano, con qualche capatina a Bologna e a Parigi. Tutti i luoghi in cui il genio di Osvaldo Licini prese forma attraverso le sue opere più famose. L’Amalassunta si muove in bilico sul crinale tra saggio e narrativo. La scrittura è raffinata, elegante, misurata. A tratti strappa il cuore con le descrizioni paesaggistiche e le atmosfere suggestive. Bravissimo Brandimarte.

Bcomics, AAVV, Ifix
Bcomics • fucilate a strisce è una novità a tutto tondo nel panorama dei fumetti. Il primo volume della trilogia si chiama Crack! e indaga, secondo il segno specifico di ogni autore, il mondo delle onomatopee, che nel fumetto rappresentano la forma sonora più diffusa. Crack! è il filo conduttore delle dieci storie, declinato in ogni sua possibile accezione. Nota di rilievo: il progetto grafico è del nostro inesauribile Maurizio Ceccato.
Martedì 21 luglio alle 21, Bcomics sarà a 100 libri in giardino, la rassegna estiva organizzata dalla libreria Giufà, al Quadraro in Via Filippo Re (zona Tuscolana).

La Ferocia, Nicola Lagioia, Einaudi, 2015
La Ferocia va letto. Punto e basta. Le critiche a prescindere sono per i qualunquisti.

Con questi suggerimenti Lina e Maurizio vi augurano una calda e assolata estate. Tornate tutti abbronzati a leggere tra le nostre righe bianche e rosse. Ci vediamo a settembre.

Le copertine dei Serpenti – Gli Innocenti

a cura di Sabina Terziani

 

È appena uscito in libreria per Del Vecchio Editore Gli Innocenti di Burhan Sönmez (traduzione di Eda Özbakay). La copertina, come le altre della collana Formelunghe, è curata da Maurizio Ceccato.


Noi di Viadeiserpenti non abbiamo ancora letto il libro, ma la copertina è bastata a far partire l’immaginazione. La palette di colori anni ‘70-‘80  con accostamenti calcolatamente stridenti – fucsia e vermiglio, lilla e blu elettrico -; le cornici, la struttura forte ed evidente; la convivenza di titolo e autore incarnati in font squisitamente inattuali, con la tridimensionalità del titolo che fa allegramente a pugni con l’idea stessa di innocenza (chi sono gli innocenti? Eterni bambini feriti dalla vita?) e infine la macchina fotografica che è un disegno tecnico, quasi un’illustrazione di catalogo per un oggetto in superofferta. Cultura visiva popolare, terreno di caccia di Maurizio Ceccato.

A Pietro Del Vecchio abbiamo chiesto di che cosa parla il romanzo.
«Gli Innocenti è un romanzo intenso e delicato, incentrato sulla (ri)costruzione dell’identità e sull’esperienza dell’esilio come allontanamento forzato dalla propria terra. Brani Tawo, immigrato nella Cambridge degli anni ‘70, conosce in un negozio di antichità Feruzeh, una giovane di origine iraniana. Brani e Feruzeh sembrano innamorarsi a prima vista, incuriositi anche dalla comune esperienza di lontananza dalla terra natia, lei apparentemente per scelta, Brani per necessità di sopravvivenza. Ognuno di loro porta con sé un segreto e un peccato. Quando Feruzeh è costretta a tornare in Iran, Brani, nell’attesa del suo ritorno, sfiora la depressione e nelle notti insonni ricostruisce il proprio passato, il presente, la propria identità culturale attraverso la storia della propria famiglia. Abbiamo cercato il più possibile di mantenere nella cover un’atmosfera marcatamente vintage e nostalgica, provando a suscitare nel lettore una analoga sensazione attraverso il recupero di un immaginario iconografico a lui familiare e comprensibile».

Dagli appunti di Maurizio Ceccato ricaviamo un commento sul percorso creativo che ha portato al concetto visivamente molto potente della copertina.
«Se le immagini fossero come le parole allora dovrebbero essere dei segni tanto semplici da rappresentare quasi nulla lasciando immensi varchi all’immaginazione, quindi vicini all’astrazione. Un’immagine per quanto semplice, da sola apre degli scenari nella mente legata al riconoscimento di senso, ai ricordi, al “già visto”; se ha un colore ne amplifica la sensualità come il cono di una cassa di uno stereo in dolby surround. Se poi leghiamo un’immagine a una parola e queste due non sono esattamente la descrizione l’una dell’altra, ma hanno due significati oggettivi differenti, si può concorrere ad aprire altri significati e altre porte della percezione visiva e mnemonica. Tra gli elementi in copertina e quelli descritti in prosa all’interno del volume si crea una triangolazione di senso. Tra “ciò che non nuoce” del titolo “senza peccato” e l’oggettività della macchina fotografica (luce e grafia, disegno) che “registra” la luce e una verità anche soggettiva si possono creare infinite soluzioni al rebus iconografico, senza mai mettere la parola FINE.

 Qui le altre copertine dei Serpenti.

Gli Innocenti
di Burhan Sönmez
traduzione di Eda Özbakay
Del Vecchio, 2014
pp. 216, € 14,00

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Emanuela D’Alessio (marzo 2014)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Emanuela D’Alessio

Barack Obama, durante lo shopping natalizio, ha comprato due libri: uno era La moglie di Jhumpa Lahiri. Anche io l’ho acquistato (per regalarlo a mia madre). Chissà se Obama lo ha letto. Io lo sto leggendo ma temo che non avrò modo di confrontarmi con il presidente americano! Jhumpa Lahiri, premio Pulitzer nel 2000, di origine bengalese ma cresciuta negli Stati Uniti, si è trasferita da un anno a Roma, perché ama la lingua italiana. E io amo la sua scrittura, elegante, intensa, dolente. Ho letto i suoi tre libri precedenti (pubblicati da Guanda): L’interprete dei malanni, L’omonimo e Una nuova terra. Tutti incentrati sul grande tema della doppia identità, sul conflitto profondo tra la cultura di origine e quella di arrivo, sul desiderio di abbandonare il paese della nascita (l’India) e sull’impossibilità di trovare una nuova terra (gli Stati Uniti). Storie di esilio e di perdita, di amori delusi o negati, di conflitti famigliari. Storie quotidiane di chi vive con smarrimento la nuova esperienza di emigrante, di chi lotta contro la diversità di un paese lontano ed estraneo, di chi dall’India non se ne è mai andato. Anche La moglie (Guanda, 2013. Trad. di Maria Federica Oddera) ripropone questo affresco, arricchito da una contestualizzazione storica. Ci si trova a Calcutta, infatti, negli anni dell’indipendenza indiana, delle prime sommosse guidate dal partito maoista alla fine degli anni Sessanta. I due fratelli Subhash e Udayan sono uniti da un legame indissolubile, nonostante la loro diversità. Subhash è silenzioso e riflessivo, Udayan è ribelle ed esuberante. Subhash decide di andare negli Stati Uniti per intraprendere una tranquilla carriera universitaria, Udayan diventa un militante maoista e prosegue la sua ribellione scegliendo di sposarsi per amore, contravvenendo alle tradizioni famigliari e culturali. Due percorsi diversi destinati a ricongiungersi quando Udayan viene ucciso dalla polizia e Subhash decide di tornare a Calcutta. Sto ancora leggendo, procedo lentamente come il ritmo della narrazione. Perché Lahiri non ha fretta, non travolge né incalza, scende piano in profondità. È il suo modo di scrivere. «Ho iniziato il libro sedici anni fa – racconta in un’intervista su Il Fatto Quotidiano del 13 gennaio 2014 – con la scena madre, in cui Udayan viene ucciso. È la prima cosa che ho scritto. Poi non sono più riuscita ad andare avanti. Sembrava una porta chiusa. Quindi ho messo le pagine in un armadio. Ho pubblicato gli altri tre e dopo dieci anni l’ho ripreso». Per Jhumpa Lahiri il processo di scrittura è un lavoro lungo, che richiede tutto il tempo necessario. «Non riesco a capire senza scrivere. Ho in mente una cosa, un’idea vaga, poi prendo qualche appunto o scrivo un paragrafo o descrivo una cosa: un viso, una vista, un sentimento, un’emozione. Poi però ci vuole un motore. Capisco che è giusto quando c’è un movimento, quando la storia si svolge. Allora è chiaro: se c’è un movimento che posso seguire, c’è un’energia, c’è qualcosa di inevitabile».

È stato inevitabile, nel frattempo, imbattermi in Il silenzio. Un racconto dalla montagna di Max Frisch (Del Vecchio, 2013. Trad. Paola Del Zoppo). In particolare dopo aver letto Camus e Frisch, tentativi di rivolta contro l’insensatezza dell’esistenza, il bell’articolo di Alessandra Melia sul sito dell’agenzia DIRE dedicato a questo racconto inedito dell’autore svizzero morto nel 1991. Non conoscevo Max Frisch e non amo affatto la montagna, ma queste due negazioni e l’analisi comparata dei temi di Frisch e di Albert Camus (suggerita nell’articolo) a proposito dell’insensatezza del vivere, della rivolta contro l’ordinaria esistenza, hanno reso irresistibile la curiosità. Ho iniziato a leggere Il silenzio, racconto giovanile scritto nel 1937 e ripudiato dall’autore. Frisch, come ho scoperto dalla postfazione al libro di Peter Von Matt,  ha avuto una vita ricca e intensa, ha cambiato più volte scenario (poeta, scrittore, giornalista, architetto, soldato). Era un grande viaggiatore e scalatore esperto, ha avuto amicizie stimolanti (tra cui quelle con Brecht, Dürrenmatt e Ingeborg Bachmann). La lettura si è rivelata illuminante, fin dalla citazione iniziale dello stesso Frisch: «Lo scetticismo è la levatrice di una solida illuminazione e della conoscenza…Un essere umano che sia scettico nei confronti di sé stesso è di un grado più umano». Rarefatto come l’aria che si respira ad alta quota, solitario come il mattino, fresco e morbido come un guanto di seta che accarezza il volto. Sono queste le immagini che affiorano tra le pagine dense e lievi, di una scrittura lenta e costante come il passo di chi sale verso una vetta. Il viandante solitario che decide di scalare la Cresta del Nord (sulle Albi bernesi) ci porta con sé e con la giovane Irene in un viaggio interiore alla ricerca di una vita straordinaria dove si immagina ci sia la felicità come premio finale. Unico traguardo per cui  valga la pena vivere, compiere un gesto estremo. «A un certo punto bisogna osare, grandi gesta o morte, perché una vita così lui non può e non vuole sopportarla». Sono molte le frasi che meriterebbero di essere riportate, ne aggiungo solo un’altra: «e se si fossero baciati, avrebbero saputo che quelli erano i primi e gli ultimi baci, e sarebbero stati baci come mai ce n’erano stati, parole come mai ce n’erano state, una felicità piena di addio che non avrebbe mai perso di significato, che non sarebbe mai sbiadita nella ripetizione, una notte che sarebbe esistita una volta sola e forse sarebbe per lei, per Irene, ancora di più, di più che un grande ricordo, forse il destino a cui è chiamata». Il libro si chiude con la Scatola nera del traduttore di Paola Del Zoppo.

Sul comodino c’è anche una lettura interrotta. È Lionel Asbo di Martin Amis (Einaudi, 2013. Trad. di Federica Aceto), la storia di un criminale da quattro soldi, rozzo e pericoloso, orgoglioso della sua stupidità e della sua ignoranza. Il cognome Asbo è l’acronimo di Anti-Social Behaviour Order, il decreto degli anni Novanta con il quale Tony Blair intendeva fermare i comportamenti antisociali. Lionel diventa milionario vincendo una lotteria, ma i soldi non migliorano la sua vita, ne esaltano solo la follia, gli eccessi, la volgarità, la spietata indifferenza. Soldi, pornografia, alcol e droga sono gli ingredienti dominanti di questa satira brutale, feroce, disperata, a tratti divertente, della società contemporanea. Gli stessi che Amis aveva utilizzato per scrivere Money (Einaudi, 1999), e già allora aveva detto tutto al riguardo (almeno per me). Molto meglio i suoi precedenti L’informazione (Einaudi, 1996) e Il treno della notte (Einaudi, 1997).

Con Città aperta di Teju Cole (Einaudi, 2013. Trad. di Gioa Guerzoni) proseguo il mio percorso nella letteratura africana, rinnovato in questi ultimi mesi con la lettura di Un giorno scriverò di questo posto di Binyavanga Wainaina (66thand2nd, 2013. Trad. di Giovanni Garbellini) e La bellezza delle cose fragili di Taiye Selasi (Einaudi, 2013. Trad. di Federica Aceto). Teju Cole è nato in Nigeria nel 1975 e vive a Brooklyn. Con questo libro di esordio ha vinto, tra gli altri, il PEN/Hemingway Award.

Per continuare, invece, a esplorare il tema del viaggio ho scelto Vertigini di W.G. Sebald (Adelphi, 2003. Trad. di Ada Vigliani), passaggio inevitabile dopo aver letto l’estate scorsa Gli emigrati (Adelphi, 2007). Sebald è un maestro dell’errare, non solo tra luoghi antichi e vicini ma anche tra i grandi del passato e la folla anonima dell’oggi.

Infine John Cheever, Tredici racconti  (Fandango, 2011. Trad. di Leonardo G. Luccone) che apro quando ho bisogno di frammenti, brevi immersioni in quel «secondo mondo dentro questo mondo», per dirla con Fitzgerald. Quando Cheever morì nel 1982, il suo amico scrittore John Updike scrisse di lui: «Era impossibile stare con John Cheever per più di cinque minuti senza vedere qualche storia prendere forma: vecchi imbarazzi si intensificavano con straordinaria rapidità fino a diventare favole e, non appena Cheever faceva scorrere lo sguardo intorno a sé e strascicava poche e sorprendentemente concentrate parole con quella sua voce rapida e educata, ciò che ti circondava prendeva a pulsare con compassionevole magia» (dalla postfazione di George W. Hunt). Questi racconti, mai usciti prima in una raccolta, furono scritti tra il 1931 e il 1942 e offrono uno sguardo sui suoi anni di formazione. Cheever è stato un autodidatta, a diciotto anni fu espulso dal college per i suoi mediocri rendimenti. Come tanti altri all’epoca, Cheever rimase incantato dallo stile di Ernest Hemingway. Ecco un pezzo di Fall River, il primo racconto di questa raccolta: «La casa dove vivevamo si trovava sulla sommità di una rapida collina, il che ci permetteva di guardare in basso, verso le paludi salmastre e il grigiore del fiume che correva verso il mare. Era inverno, di neve neanche l’ombra, e per tutta la stagione le strade restavano polverose, il cielo pesante, e gli alberi avevano lasciato cadere a terra tutte le foglie. Ma il cielo rimase pesante e le strade polverose per altre tre settimane e, quando arrivò la primavera, della neve rimaneva solo un vago ricordo visto che ne era caduta così poca».

Qui gli altri comodini.

Recensione in progress: Emanuela D’Alessio sta leggendo Il silenzio. Un racconto dalla montagna di Max Frisch

Mi sono imbattuta nell’articolo di Alessandra Melia Camus e Frisch, tentativi di rivolta contro l’insensatezza dell’esistenza dedicato a Il silenzio. Un racconto dalla montagna di Max Frisch, traduzione di Paola del Zoppo, appena pubblicato da Del Vecchio.
Non conoscevo Max Frisch e non amo affatto la montagna, ma queste due negazioni e l’analisi comparata dei temi di Frisch e di Albert Camus (come si legge nell’articolo della Melia) a proposito dell’insensatezza del vivere, della rivolta contro l’ordinaria esistenza, hanno reso irresistibile la curiosità di leggere il libro.

La lettura si sta rivelando illuminante, fin dalla citazione iniziale dello stesso Max Frisch: «Lo scetticismo è la levatrice di una solida illuminazione e della conoscenza…Un essere umano che sia scettico nei confronti di sé stesso è di un grado più umano».

«A un certo punto bisogna realizzare i propri sogni giovanili, se non si vuole essere ridicoli, e realizzarli tramite gesta virili, e si vedrà se si trattava di vuote manie di grandezza o meno, ciò in cui ha creduto per tanti anni. A un certo punto bisogna osare, grandi gesta o morte, perchè una vita così lui non può e non vuole sopportarla».

«Ma com’è bella la vita, pensa, quando si è stanchi e si conosce il motivo per cui svegliarsi la mattina. Lo si conosce così di rado!, e di continuo questo alzarsi in un’esistenza vuota e infruttuosa, a volte si pensa davvero di non poterla sopportare oltre…ma alla fine, prima o poi, arriva il sonno, un sonno più potente di tutto il resto, più potente dei nostri pensieri e della disperazione e semplicemente cancella il pensiero prima che si faccia letale. E però si sa bene che non cancella nulla, quel sonno, ci rinforza solo per altra disperazione, e la mattina seguente non è cambiato nulla, ma comunque bisogna alzarsi, intraprendere un cammino senza via, senza fede e senza meta, senza senso, senza niente, senza vocazione, e solo per farsi vecchi, sempre più vuoti e sperduti…».

Max Frisch (1911-1991) era svizzero, figlio di un architetto, è stato lui stesso architetto, soldato, gironalista, grande viaggiatore e amante della montagna.  La sua vita fu ricca di cambiamenti di ritmo e scenario, amicizie stimolanti (tra cui quelle con Brecht, Dürrenmatt e Ingeborg Bachmann). Sempre apparentemente in fuga, adorava i rifugi, tra cui il più amato, dalla fine degli anni Sessanta, fu una vecchia stalla a Berzona da lui riadattata a residenza. Frisch ottenne tutti i più importanti riconoscimenti di ambito germanofono ma ricevette importanti riconoscimenti anche in altre nazioni: nel 1965 gli venne conferito il Jerusalem Prize for the Freedom of the Individual in Society, nel 1975 il Premio Internazionale per la Pace degli editori tedeschi e nel 1986 il Neustadt International Prize for Literature, prestigioso premio letterario statunitense. Il silenzio è un suo racconto giovanile (primi anni Quaranta) “ripudiato” dall’autore.

EFFETTO DOMINO: Scomparsa – Svanire di Deborah Willis

EFFETTO DOMINO Rubrica di approfondimento tematico

Foto di Marco Landi

Recensione di Chiara Rea

Secondo Paolo Cognetti, è la più bella raccolta di racconti uscita in Italia nel 2012, e non facciamo fatica a dargli ragione. Svanire, opera prima della giovane canadese Deborah Willis, è uno di quei libri che ti ingoiano, ti avviluppano tra le parole e non ti lasciano andare, anche una volta chiuso, anche a mesi dalla lettura.
Quattordici racconti compatti ma porosi come una spugna che rilascia e assorbe allo stesso tempo. Il filo conduttore è tutto nel titolo – che è anche il titolo originale, Vanishing, nonché il titolo del racconto che apre la raccolta: le persone (e le cose, e i sentimenti, e i momenti) a volte scompaiono. E noi dove siamo quando questo accade, e cosa ci succede? È a questa risposta che sembrano rispondere i racconti della Willis, illuminando passaggi di vite umane in cui qualcosa si è rotto – spesso irrimediabilmente – e qualcuno si trova a dover affrontare un lutto, un distacco, una perdita, uno smarrimento. Che cosa succede allora? «Passano le settimane e la polizia smette di investigare. I tizi del giornale che avevano titolato Scrittore locale scomparso trovano storie nuove. Passano i mesi, poi un anno».
Passa il tempo e le cose cambiano, rimangono i ricordi ma anche questi sono ingannevoli, e a volte spariscono: «I ricordi così nitidi sono pochi. La presenza di Kelly nella sua mente è offuscata: entra ed esce, ma non in una forma che lui possa odorare o toccare. Quella parte della sua mente si è fatta buia e si illumina solo a chiazze, come la strada di notte. È come se Kelly fosse scomparsa in uno sbuffo di fumo o si fosse nascosta dietro un sipario. Dev’essere passata facilmente in una sorta di aldilà, che è ciò che lei avrebbe desiderato. Lui si aspettava di essere inghiottito dal dolore. Aveva sperato che non sarebbe svanita così in fretta. Aveva sperato che lo perseguitasse».
Ma quello che diamo per scomparso, a volte si è semplicemente spostato altrove o siamo noi che abbiamo posato lo sguardo da qualche altra parte, che abbiamo voluto dimenticare o non guardare: «Il fatto è che talvolta la gente torna. Tornano proprio quando ormai pensavi che se ne erano andati per sempre, quando hai perfino smesso di sentire la loro mancanza». Ciò che è tornato, allora, ci appare in tutta la sua dolorosa evidenza, insieme al vuoto che ha lasciato.
I racconti di Svanire sembrano a volte dei buchi, dei vuoti che si riempiono di parole, come se dare un nome alle cose e descriverle potesse aiutare non soltanto a dargli un senso ma anche a esorcizzarle, neutralizzarle, renderle innocue: «Forse, sosterrà, la denominazione non è semplicemente un processo di organizzazione del mondo, per impadronirsi del mondo o per conoscere il mondo, ma un modo per mantenere le distanze».
Figlie, madri, mogli, mariti, amici, fidanzate: i personaggi della Willis sono sempre descritti in base alla relazione che intrattengono con qualcun altro, come se da soli non potessero esistere. Ma spesso, proprio quando si trovano a essere soli, a interrompere forzatamente questo legame che li definiva, sembrano trovare veramente la ragione di esistere, solo allora sono degni di essere descritti e osservati, in quella vertigine di vuoto, di privazione, di assenza, in quella tensione irrimediabile tra passato e presente, tra un prima e un dopo, i due termini in mezzo ai quali si è verificato quell’attimo che sconvolge tutto. Ed è proprio tra questi due poli che spesso sono costruiti questi racconti, su un’alternanza di piani temporali (e talvolta anche di punti di vista) con un’incredibile abilità nella composizione, che è sempre ben calibrata, ma non in maniera artificiosa o calcolata, bensì come se quello fosse l’unico modo di raccontare ciò che viene raccontato. Allo stesso modo anche la lingua della Willis e la costruzione delle frasi – semplici ma mai sciatte o superficiali o superflue, sempre incisive, sempre al posto giusto – contribuiscono a creare senso trasmettendo un’impressione di smarrimento che gioca sul filo del rasoio tra realtà e invenzione: queste potrebbero essere le nostre storie, o potrebbero essere storie inventate ma possibili, e quindi ci diciamo “è così” – nella vita come nella letteratura – “ma potrebbe essere anche in un altro modo?”.
«Che lei la faccia franca, o no. Che lei rimanga con lui, o no. Forse non importa. O perlomeno, a volte non importa. Quello che importa è questo: per anni la moglie ha studiato i salmoni argentati (la loro intricata struttura ossea, le loro abitudini esigenti) e finalmente li comprende. Non solo il loro aggirarsi furtivo, la loro sessualità rischia-tutto. Ogni cosa: la gestazione, la sopravvivenza, poi quel folle istinto a risalire il fiume, verso il desiderio e verso (lontano da) chissà cosa. Ora comprende. Ma solo per poco, e solo a sprazzi, come quando all’improvviso pensa al rapido sorriso del ragazzo, ai suoi fianchi nudi. Magari sta colorando un libro con il figlio, o è in piedi a lezione di fronte ai suoi laureati, e pensa: capisco. Comprendo i salmoni argentati. Vorrebbe dirlo ai suoi studenti, ma come?, a questi giovani visi concentrati? Penserebbero che è matta, o ubriaca. Così alza le mani, le abbassa. Capisco, vorrebbe dire: “Siamo vivi. Questo si chiama essere vivi”. […]
Forse c’è un momento in cui nessuno dice una parola. Nessuno si muove. Il ragazzo nella sedia di cuoio, la moglie con le mani infilate sotto le ginocchia. Dopo che lei ha voltato la testa ma prima che il marito parli, prima che il ragazzo si alzi. La luce attraverso le tende, il tappeto impolverato, le pile di registri di laboratorio. Una tazza di caffè semivuota che lascia un alone sulla scrivania. E una pausa, un secondo in cui sono immobili. La moglie, il marito, il ragazzo. Potrebbe andare in molti modi.»

Nota sull’autrice
Deborah Willis è nata nel 1982 a Calgary (Canada) dove è cresciuta. Suoi racconti sono stati pubblicati su «Event», «Grain», «PRISM International» e sull’antologia britannica Bridport Prize Anthology, prima di essere raccolti in Vanishing and other stories, nominato uno dei migliori libri del 2009 dal «Globe and Mail». Al momento lavora come libraia a Victoria, nella Columbia Britannica  http://www.deborahwillis.ca/


Svanire di Deborah Willis
traduzione di Anna Baldini e Paola Del Zoppo
Del Vecchio Editore, 2012
pp. 294, 13,00 €

  Lo speciale Periferie

Le interviste dei Serpenti – Pietro Del Vecchio

di Sabina Terziani

Proseguono le interviste di Via dei Serpenti con Pietro Del Vecchio, fondatore dell’omonima casa editrice nel 2007. Nel novembre scorso l’editore romano ha rinnovato la propria immagine sul web e rivoluzionato la veste grafica dei suoi libri. La proposta editoriale di Del Vecchio si sintetizza nelle tre collane: formelunghe, formebrevi e poesia.

Cosa spinge in un’Italia come quella di oggi ad aprire una casa editrice? Ci puoi dare una risposta razionale e una irrazionale?
Non ho nessuna risposta illuminante, meravigliosa o che squarci veli. Posso raccontarti come è nata per me. Facevo filologia romanza all’università di Roma e a un certo punto mi sono immaginato molto avulso e alieno dalla vita e dalla concretezza, in mezzo a codici romanzi in provenzale del XIII secolo, per cui ho detto che c’era bisogno di dare forma e sostanza a una serie di passioni. Ho preso la palla al balzo e ho chiesto un prestito a mio padre e da lì ho cominciato a immaginare di poter convogliare una serie di esperienze, competenze e passioni in qualcosa di molto concreto. Competenze rispetto al mestiere editoriale che mi sono quasi dovuto inventare, venendo dal mondo universitario. Razionalità e irrazionalità sono intimamente unite. Parto sempre da un colpo di follia ragionato a cui arrivo con tempi biblici. Mi macero per tre, quattro anni e poi alle persone che mi stanno intorno sembra che faccia una pazzia da un momento all’altro.

Negli ultimi tempi sono cambiate un po’ di cose in Del Vecchio Editore. Ci puoi delineare quello che è stato lo sviluppo, editoriale ed estetico, della casa editrice?
Come casa editrice, dovendoci inventare un mestiere, anche noi abbiamo fatto i nostri errori e siamo passati attraverso le nostre sconfitte, le nostre consapevolezze. Sicuramente il pensiero della forma-libro ha attraversato la casa editrice fino a giungere alla realizzazione attuale che mi sembra al momento quello che più ci rispecchia. Abbiamo vissuto un anno di riflessioni e di ragionamenti. Poi la fase concreta, in realtà è durata assai meno. Una volta incontrato Maurizio Ceccato di Ifix, in quattro mesi abbiamo ragionato concretamente, abbiamo portato le prime proposte e costruito il libro così come lo vedete. Siamo molto contenti del risultato, innanzitutto perché il libro che abbiamo immaginato è, come direbbe Maurizio, un oggetto retrofuturista, che recupera tutta una tradizione di iconografie e disegni che hanno attraversato il passato recente, la cultura popolare. Cose come i vecchi timbri a stampa, i caratteri mobili, l’immaginario dei manifesti pubblicitari degli anni Venti, Trenta e Quaranta. Naturalmente, accanto a questa operazione estetica abbiamo ragionato molto sui paratesti. In quarta di copertina non metteremo né strilli né opinioni dell’editore, né sinossi perché crediamo che al lettore serva inquadrare il libro, un primo approccio attraverso poche parole chiave che sono come dei tag. Non interpretazioni a posteriori dell’editore, dell’editor, del lettore, bensì parole prelevate dall’interno del testo. Naturalmente non sono frutto di una mera analisi quantitativa, non abbiamo usato word per contare quante volte compare la parola x, ma abbiamo ragionato sul significato che il testo ha per noi nel complesso. Per noi è importante anche valorizzare la voce del traduttore, per cui metteremo sempre d’ora in poi il nome del traduttore in copertina e daremo, nelle cosiddette pagine di servizio, la possibilità al traduttore di raccontare, in una rubrica che abbiamo chiamato “la scatola nera del traduttore”, il suo approccio alla traduzione. Sarà una rubrica tecnica ma non tecnicistica, per cui il traduttore racconterà più che altro il mood con cui si è interfacciato con il testo. Nella collana Formelunghe abbiamo una sorta di “istruzioni per l’uso”. Sembra quasi tautologico proporle, ma il libro è un oggetto che si apre, si sfoglia e si legge in un certo modo. Giocando con la forma delle istruzioni per l’uso dei bugiardi medici diamo una chiave di lettura sicuramente meno dogmatica di quanto possa essere un discorso che s’intitola “l’opinione dell’editore”.

A sentire gli editori, sembra che la cosa più difficile sia trovare dei buoni autori italiani. Anche secondo te è una sfida ardua? Quali sono i vostri canali per scoprire talenti italiani? Vi arrivano molti manoscritti?
La prendo un po’ alla larga. Sono convinto che ci raccontino una serie di menzogne. Ci sono delle autonarrazioni molto potenti di cui ci convinciamo e di cui le case editrici, in buona e in cattiva fede, si convincono. Per esempio alcune frasi che ricorrono moltissimo sono: non si vendono racconti, gli italiani non leggono racconti, la poesia non si vende. Ebbene, noi abbiamo un’autrice, Deborah Willis, che con Svanire sta vendendo benissimo. I prodotti di qualità, quando incontrano lettori di qualità vendono indipendentemente dalla forma con cui sono veicolati. Un lettore consapevole, che si accosta a una raccolta di racconti non la scarta a priori perché è una raccolta, ma perché non è ben scritta o non si interfaccia con il messaggio dell’autore e così via. Possiamo mettere tutto ciò in relazione con la domanda di prima se esistono buoni italiani. Dipende semplicemente dal tipo di progetto editoriale che ha la casa editrice, dalla qualità di lettura che le case editrici hanno al loro interno. Gli autori in gamba, come dimostra il premio Calvino, che molti editori stanno saccheggiando (noi compresi, ovviamente), esistono, si trovano e vanno semplicemente selezionati, uscendo dalle consorterie degli amici degli amici. A noi arrivano moltissimi manoscritti, dai cinque ai dieci al giorno. Lavoriamo molto bene sia con i premi sia con le agenzie.

Siete tra i pochi piccoli editori ad avere una collana di poesia. Questa scelta coraggiosa ha un ritorno economico o di immagine?
Che sia una scelta coraggiosa dipende dai punti di vista. Sicuramente ci sono tirature e vendite minori ed è fondamentalmente un problema culturale, nel senso che ad esempio nei paesi anglosassoni la poesia è qualcosa di vivo. Loro recuperano la tradizione bardica, per cui la poesia ha un rapporto concreto e diretto con la vita delle persone. Non è un dato culturale astratto che si insegna soltanto nelle università e che ogni tanto vende. Ritengo che l’idealismo crociano abbia devastato la cultura italiana dall’inizio del secolo scorso. Dovremmo eliminare dalle nostre menti queste figure sacrali e totemiche che ci hanno devastato l’immaginario. Abbiamo tirature piuttosto basse (250-500 copie) per i nostri volumi di poesia, e devo dire che le vendite in libreria sono inferiori rispetto a quelle che ricaviamo dal sito o che derivano dagli eventi che organizziamo. Una parte consistente del ritorno economico è costituita dalle sovvenzioni garantite dagli istituti di cultura esteri. Lavoriamo molto bene con il Goethe Institute, visto che facciamo moltissima letteratura tedesca.

Da piccolo editore, come vedi quelle grandi rogne che sono promozione e distribuzione?
Non funzionano varie cose all’interno del sistema. Una delle anomalie più grandi è che, a differenza di quello che avviene negli altri paesi, da noi ci sono pochi soggetti che detengono tutti i passaggi del processo. In Francia alle case editrici non sono concesse librerie proprietarie, solo Gallimard ha una libreria a Parigi, mentre da noi c’è Feltrinelli, tanto per fare un esempio. Abbiamo una legge del libro piuttosto vergognosa, che non regola lo sconto, o fa finta di regolarlo per cui vige un regime di sconto libero e praticabile in ogni momento dell’anno. Mi viene da sorridere quando sento parlare di filiera del libro perché percepisco una certa malafede. Non è possibile immaginare l’esistenza di una libera concorrenza in questo momento in Italia. Assistiamo negli ultimi anni a una progressiva disintermediazione tra domanda e offerta, per cui si assiste a fenomeni di vendita diretta, vedi Amazon e affini. Mentre in altri contesti, con regole che funzionano, la situazione produce effetti positivi, in Italia siamo in un regime di deregolamentazione per cui questa cosa è controproducente. Non sono completamente contrario alla disintermediazione. Sono a favore laddove i soggetti coinvolti non funzionano. Ci sono tantissime librerie che si fregiano del titolo di indipendenti ma che in realtà non fanno un buon lavoro di ricerca dei titoli, di composizione del catalogo e per questo sono destinate alla chiusura. Si comportano come librerie di catena, ma non ce la faranno mai. Se mi offrono lo stesso trattamento di Feltrinelli senza peraltro riuscire a garantirmi il 25% di sconto che invece la libreria di catena mi offre, perché dovrei rivolgermi a loro? Recentemente abbiamo organizzato una presentazione per un nostro autore su invito della libreria. Ci è arrivata una mail del libraio che ci chiedeva se potevamo portare anche le persone perché non sapeva se riusciva a far venire gente. Io mi chiedo: ma tu, libraio, come pensi di poter sopravvivere se non hai un rapporto con i clienti. Lo dico con dispiacere, ma tra quattro-cinque anni assisteremo alla morte di moltissime librerie indipendenti. Rimarranno solo quelle vere e saranno il cardine del sistema, perché una piccola casa editrice che lavora bene con cento-centocinquanta librerie indipendenti funziona perché incontra librai attenti ai libri, che hanno voglia di confrontarsi sulle idee.

Ci puoi anticipare quali sono i libri su cui punterete di più nell’immediato futuro?
Abbiamo allargato i nostri orizzonti. Mentre prima eravamo concentrati sul panorama franco-tedesco, per la fine del 2013 faremo uscire un inedito di Max Frisch, un autore svizzero a cui teniamo molto, riscoperto dalla casa editrice tedesca di origine, la Suhrkamp, intitolato Il silenzio. È una storia giovanile di formazione e crescita che riguarda l’ascesa sul Nordgrat, la madre di tutte le montagne europee del XX secolo. A dicembre uscirà invece un autore messicano, Daniel Sada. Lo traduciamo per la prima volta e proponiamo il suo romanzo Quasi mai. Lo dico in un periodo di bolañofilia assoluta, ma Bolaño stesso lo considerava uno dei maggiori autori ispanofoni del XX secolo.

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