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Primavera – Boris Pasternak

UNA STAGIONE DA LEGGERE Rubrica dedicata alle stagioni nei libri, perché ogni storia ha la sua stagione.

PRIMAVERA – Primavera di Boris Pasternak

Primo giorno di primavera e giornata mondiale della poesia. Una coincidenza che oggi  ci piace ricordare così.

Primavera, io vengo dalla via, dove il pioppo è stupito,
dove la lontananza sbigottisce, dove la casa teme di crollare,
dove l’aria è azzurra come il fagottino della biancheria
di colui che è dimesso dall’ospedale!

Dove la sera è vuota come un racconto interrotto,
lasciato da una stella senza continuazione
per rendere perplessi mille occhi tumultuosi,
insondabili e privi di espressione.

Boris Leonidovič Pasternak (1890 – 1960) è stato un poeta e scrittore russo. La narrativa, però, non fu un approdo naturale: prima seguì le orme della madre, studiando pianoforte; poi, dopo aver girato l’Europa da studente di filosofia, si diede ai versi.
Pasternak è diventato celebre fuori dalla Russia per il suo primo e unico romanzo, Il Dottor Zivago, scritto nel 1946, che lo segnò in patria come dissidente. Il romanzo non venne pubblicato in Russia, mentre Giangiacomo Feltrinelli, entrato in possesso del manoscritto, lo pubblicò in esclusiva mondiale il 23 novembre 1957 – scontrandosi così con il Partito Comunista Italiano. Dall’Italia, il romanzo di Pasternak si diffuse in tutto l’Occidente fino a divenire il simbolo della realtà sovietica: una realtà raccontata con tanta maestria da colpire l’Accademia svedese, che decise – su indicazione di Albert Camus – di premiarlo con il Nobel per la letteratura. Ma il Premio non fu mai ritirato dallo scrittore che morì due anni dopo, rigidamente controllato dal regime ed esiliato nella sua dacia di  Peredelkino, vicino Mosca.
A ritirare il Premio è andato, trentuno anni dopo, il figlio di Boris, Evgenij Pasternak. Era il 1989, l’anno del crollo del muro di Berlino e della fine dell’Unione Sovietica.

VERSI – Alessandra Racca, Consigli di volo per bipedi pesanti (NEO edizioni)

VERSI – La rubrica dedicata alla poesia

È in uscita il nuovo volume di Alessandra Racca, che abbiamo intervistato per la rubrica Versi, Consigli d’amore per bipedi pesanti. Poesie tenere, graffianti, fuori dal comune, per una poetessa che sa dire osservando i dettagli, sa scrutare in profondità nel quotidiano, dove l’amore è una bestia ineluttabile e terribile, ma dolce.

Ci sono già diverse date di presentazione, la prima è domani sera 14 maggio in occasione degli eventi collaterali al Salone di Torino, alle 21 alla Luna’s Storta, libreria indie torinese; la seconda per il decennale di PoesiaPresente, in un evento tutto al femminile intitolato Amore con lo spacco a Monza, il 20 maggio alle 21 a Villacontemporanea. Ecco qui un assaggio.

STORIA DI UNA LUMACHINA
Prima c’è stata la casa madre
stanze grandi e grande amore
poi la casa del primo amore
piccole stanze corpi e parole
poi c’era la casa
ma s’era perso l’amore
e venne fuori che prima
ci eravamo persi noi
poi c’erano case e strade e scoperte
tetti, stanze strette e camini
e c’era il farsi grande
il farsi tetto, stanze e cammino
e anche l’amore avevo imparato
che ovunque andavo
lo portavo con me

Barattolo luminoso
Ci metto le lucciole
poi le faccio fuggire
oltre la dispensa, è banale,
sta il prato
ed è giusto così

Barattolo della contemporaneità
Ci metto la mia connessione internet
mi sento perduta
chiedo alla vicina la sua password
passo tutta la serata in bagno
perché in cucina
non si prende il wifi

Barattolo dei giochi da grandi
Ci metto la marmellata che non ho mai fatto
è buonissima
molti gusti speciali
sono una campionessa di marmellata
dovreste assaggiare quella all’infantilismo cronico
alle fantasie

NIDO, GERMOGLIO, CREATURA
Dove cede il passo
dove si sgrana il contorno
la luce si oscura
lì, il punto dove sostare
vicini molto vicini a sé
abbracciati alla propria natura
nido
germoglio
creatura

Poesia degli amanti che ballano balli diversi
Mi domando che forma avranno questi anni
quando li guarderemo – da quell’altra prospettiva
più vicina alla fine, questi anni di metà
Tutte queste mattine che d’improvviso mi metto acorrere
e dico stammi dietro, stammi accanto
e tu che ti metti a ballare sul posto
non sai i passi del tango eppure sostieni
che meravigliosa milonga io e te!
ma non vedi non vedi che quel che balli è foxtrot?
come pensi di invitarmi a un valzer
se metti su musica rock?
Poi vorrei che finalmente facessimo quel difficile
doppio salto mortale, ma tu non ti alleni
e d’improvviso mi parli, dalla cima di un albero dici:
che ci fai ancora laggiù, s’era detto di salire!
Non è pericoloso fare doppi salti mortali
dalla cima degli alberi? grido – e m’è difficile il salire
soprattutto se mi domandi: quale doppio salto mortale?
Ma son mesi, anni che ne parliamo:
allora vedi che mentre fai a cazzotti non mi ascolti?
Poi mi pare che segretamente ci intendiamo nel
sonnocercandoci i corpi gli incastri delle ossa, una forma aperta
protetta avvolta nel respiro doppio, intrecciato,
mio tuo mio tuo mio tuo finalmente cadenzato ritmico
a tempo e nel sogno mi dico allora è giusto, alloraforse sì
Ma a vedersi da laggiù
mi domando come ci apparirà tutto questo
se la bellissima bellissima doppia elica
la spirale generatrice o il buco nero il
vagare
insensato
particelle
microscopiche
troppo
piccole
isolate
intoccate
niente

AI BAMBINI DEI MIEI AMICI
Queste infanzie
che crescono mutando
gli anni
di uomini e donne che amo
queste infanzie
intorno a me
le osservo giocare, nei letti
sui seggiolini
dentro case che ho visto
cambiare
accogliere minuscoli passi
strilli e pupazzi
cosa ne verrà, di queste infanzie?
cosa ne farete, piccole mani
delle stanze dei giochi
della luce, dei pomeriggi
della noia, dell’estate
della paura del buio
delle cose che spalancano gli occhi
di ciò che è piccolo
di tutto questo amore
delle voci nelle cucine
dei padri e delle madri
fatene un luogo segreto
fatene una fonte
fatene una scatola grande
un fiocco rosso
fatene ancora un gioco
una ribellione
fatene un regalo magnifico
destinato al futuro

VERSI – Gli Utopini: Francesca Genti e Silvia Salvagnini

VERSI – La rubrica dedicata alla poesia

di Anna Castellari

Sartoria Utopia, casa editrice di libri rilegati interamente a mano, con pubblicazioni scelte di poesia, sta lanciando la collana Gli Utopini dedicata ai più piccoli.

I primi due volumi sono quello di Francesca Genti Il mio bambino mi ha detto, con le gioiose illustrazioni di Manuela Dago, e L’orlo del vestito. Storie di bambine contro le chiacchiere cittadine scritto e illustrato dalla poeta e artista Silvia Salvagnini. Entrambe le pubblicazioni sono disponibili sul sito www.sartoriautopia.it, e verranno presentate durante Book Pride a Milano venerdì 1° aprile alle 19 (via Bergognone 34).

Vi proponiamo qui qualche verso da entrambi i libri e le illustrazioni.

Francesca Genti, Il mio bambino mi ha detto, Sartoria Utopia, Gli Utopini 2016Schermata 2016-03-30 alle 11.32.58

Il mio bambino mi ha detto di quella volta
che era un pesciolino nel mare di Norvegia
e andava veloce nella corrente
con gli altri pesciolini suoi fratelli
di qua e di là per l’oceano Atlantico
e nel mare di Barents vedeva i fiordi
prendeva in giro le balene e se si arrabbiavano
scappava fino alla Terra della Regina di Maud

 

Silvia Salvagnini, L’orlo del vestito, Sartoria Utopia, Gli Utopini 2016

Schermata 2016-03-30 alle 11.36.43le bambine dal vestito
si sentono quasi sfilare
le braccia abbracciare
gli alberi alberare
la vita ariare.

le bambine possono stonare
sfilare gli orli dei vestiti
tagliare, possono i baci
francobollare.

VERSI – Pino D’Alfonso: Foresta tacita

VERSI – La rubrica dedicata alla poesia

a cura della Redazione
«Questa è una scrittura aguzza e sognante, in cui folgorazioni e penombra compongono brevi tratti di senso, piccoli barbagli a cui aggrapparsi con la consapevolezza che anche il più piccolo colpo di«brezza che rinnova» resterà irrisolto e si tramuterà in nostalgia.»
(Dome Bulfaro nella nota critica a Foresta tacita di Pino D’Alfonso, La Biblioteca dei Libri Perduti, Milano 2015)

Per celebrare l’arrivo della primavera, un equinozio quest’anno segnato in modo diverso dal solito, complice l’eclisse, vogliamo presentarvi il lavoro di Pino D’Alfonso.

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Il poeta, originario di Vibo Valentia ma vissuto per lo più a Busto Arsizio, è scomparso nel 2013. La sua poesia è rimasta quasi del tutto inedita (salvo qualche eccezione a fine anni Settanta) fino a quest’anno, quando una coraggiosa casa editrice di Milano, La Biblioteca dei Libri Perduti, si è trovata una delle sue opere tra le mani. E ha pensato di pubblicarla, annettendo al volume alcune immagini delle sue opere, installazioni poetiche realizzate con materiali di scarto, nelle quali ciascuna lettera delle poesie di D’Alfonso era intagliata a mano.

Proponiamo alcune poesie legate alla natura, che nella poetica dell’autore era presente in maniera particolare, proprio per celebrare la giornata mondiale della poesia e la primavera.

Il libro sarà presentato lunedì 23 marzo, presso la Libreria Boragno di Busto Arsizio (Va), alle 18. Prima della presentazione, sarà possibile recarsi presso la Biblioteca Comunale per ammire le opere riprodotte in una mostra visitabile durante gli orari della struttura.

Per informazioni: www.libriperduti.it

Foltissimo
amore
rugiadoso
bosco

silenziosa
marina…
nel tramonto
che avvicina

alla notte
sofficità
di foglie…
sguardo che dimora

Riluce
frastagliata
la voce…
inclinando

rimanda
all’intesa.

*****

Glicine
il violetto
oscurarsi
del tempo
insonne
nell’ora
del suo eterno
dimorarsi…

Il ponte
dorato
dalle grida
nel tempestato
colore

Trasale
il rosso pallore
del sangue
nei corali dei
canti
le irte
ferite
sognanti
Incendia
il meriggio
infuocato
negli occhi
le risa
che fummo
incessanti
sussurrano

Pino D’Alfonso, “Corriere della Sera”, anni Ottanta, 202,5 x 147,5 cm.

Pino D’Alfonso, “Corriere della Sera”, anni Ottanta, 202,5 x 147,5 cm.

VERSI – Giacomo Sandron: Cossa vustu che te diga

VERSI – La rubrica dedicata alla poesia

di Anna Castellari

Sarebbe facile dire, di questo libro edito da Samuele Editore, che si tratta di un viaggio. Ma dire che è un viaggio è riduttivo. Mi viene più da chiamarlo “compendio”, una sorta di enciclopedia delle figure letterarie che costellano l’universo, fortemente connotato geograficamente, da cui proviene Giacomo Sandron. È una geografia umana quella che ci invita a conoscere attraverso le strofe di questo libro, un’umanità verissima e radicata nel proprio territorio.

Sandron l’ho conosciuto negli anni universitari a Trieste. Animatore culturale, poeta, artista (ultimamente realizza quadretti con ritagli di carte colorate, un po’ alla Alberto Burri), da oltre dieci anni è parte del comitato organizzativo di notturni diversi, “piccolo festival delle poesie e delle arti notturne” che si svolge ogni luglio a Portogruaro (Venezia), la sua cittadina natale.

11248_1264149246991_7451309_nIl dialetto, la vita dei campi, l’oro de me nona (“l’oro di mia nonna”), che dà il titolo a una sezione del libro, e anche la mia lunga amicizia con Giacomo mi fanno sorgere spontanea una domanda: ma quanto contano le radici nella tua poesia? «Qualche anno fa» risponde dopo averci pensato un poco «ti avrei detto che le radici sono tutto, che nella mia poesia si sente l’attaccamento alla terra. Ma oggi non la vedo più allo stesso modo. Noi non siamo piante, siamo persone, e risentiamo dell’ambiente che ci circonda, che sia quello in cui siamo nati o quello in cui viviamo». Pure, il riferimento alle radici è ben presente nella prefazione al volume di Fabio Franzin: «Se il borgo, il paese, sono ormai entità vuote in cui l’anima accesa non trova più simboli o risorse, la realtà della fabbrica, del capanon, lo sono ancor di più. Non resta che tornare alle radici, o meglio alle radicee, le foglie del tarassaco».

Un cambio di prospettiva, quello che mi ha dichiarato Sandron, che mi stupisce un po’, che mi fa crollare qualche certezza: ho sempre visto lui, e il gruppo che lo circondava a Portogruaro (il Porto dei Benandanti, come si fanno chiamare), accomunati tutti da un senso di appartenenza molto forte.

Ma in questa risposta c’è qualcosa di più profondo, che dimostra l’evoluzione di un pensiero: apparteniamo sì alla terra, ma anche all’ambiente che respiriamo. Siamo Benandanti non solo nel senso della tradizione friulana (“nati con la camicia” che si radunavano a ogni passaggio di stagione, armati di mazze di finocchio per combattere i Malandanti, stregoni che combattevano con canne di sorgo, ndr), ma anche nel senso che possiamo “andar bene” nel mondo, respirare ovunque la cultura del luogo e diventare ogni volta una persona diversa, che si esprime in nuovi modi.

I mille modi in cui si può esprimere Sandron formano le sezioni di questo libro. Si parte subito con il titolo che dà nome alla raccolta, un canto privo di retorica, dichiarazione di odio e di amore verso il paese natio, luogo svuotato di un’identità contadina in favore di quella industriale, per poi approdare al mondo quotidiano del paese. Sandron scrive prevalentemente nel dialetto di Portogruaro, un dialetto che già di suo suona di frontiera, un veneto misto a parole friulane (proprio per la posizione al confine con la regione Friuli). Ma non mancano scritti in italiano, che ugualmente ricercano un ritmo e una musicalità raffinati, un crescendo di versi che a volte sconfinano nel dialetto, quasi ad affermare con la propria “marilenghe”, mi si passi il termine, un significato più profondo nelle parole. Un dialetto che, casualmente, è di questa area geografica, ma potrebbe essere il romagnolo, se l’autore fosse nato in Romagna, tanto che cita il compianto poeta Raffaello Baldini e l’ironia dei suoi versi: «E pu basta, a m so stòff,/ l’è tòtt i dè cumpàgn, u n s nu n pò piò./ A m vì fè crèss i bafi!» che fa il paio con i versi di Sandron che seguono: «E insoma basta, me son stufà, no ghe a vanto/ xe ora de darghe un taio far un cambiamento/ me fasso cresser i cavei i pei de la barba i pei/ che me vegna fora dal naso dai busi del naso/ (…)».

sandron1Non manca una sezione dedicata al lavoro, Tochi e ochi strachi (“Pezzi e occhi stanchi”). La malattia professionale, che aveva dato il titolo in passato a una plaquette realizzata a mano dalla “capanna editrice” Sartoria Utopia, è riportata qui. Lo struggimento della catena di montaggio, l’umanità tra gli operai, la difficoltà del lavoro quotidiano, le tecniche da adottare durante il lavoro, descritte meticolosamente. Leggendo i versi di Sandron, questi temi sembrano appartenere oramai a un tempo lontano, eppure sono di una decina di anni fa: la fabbrica, come la vita dei campi ancora prima, ha lasciato il posto a capannoni dismessi, e quei capannoni costellano le distese di pianura del Veneto come topi morti. Una visione del mondo che influenza la vita dell’io narrante, che lo proietta in un desolato labirinto di disperazione e di depressione. Qui l’autore è l’uomo contemporaneo immerso nella crisi, che fatica a trovare un posto nel mondo e si sente alieno a tutto.

Il già citato L’oro de me nona sembra quasi una “sbobinatura” dei discorsi della nonna del poeta, una vera e propria registrazione delle storie che animano la vita di un tempo. La nonna, donna oggi quasi centenaria che ho avuto la fortuna di conoscere, racconta dei problemi quotidiani in maniera leggera, è una figura d’altri tempi per la quale contano poche cose, concrete e reali: il che si può riassumere con la frase De quel che xe no manca niente, un modo saggio e ironico, tipico di quelle terre, per dire che di quello che c’è non manca niente, che l’indispensabile lo abbiamo e il resto è fuffa. “L’oro de me nona/ xe fiori che no buta/ vasi veci/ de do vite fa/ xe tera nera e basta” (“L’oro di mia nonna/ sono fiori che non sbocciano/ vasi vecchi/ di due vite fa/ è terra nera e basta”). Bastano anche solo questi versi per capire tutta la poetica che sta dietro alla raccolta, la figura d’altri tempi che li ispira, i discorsi infiniti che riguardano i bisogni primari, il cibo, le persone, le gite parrocchiali, gli affetti.

Veduta dei campi di Summaga (Portogruaro) con le Alpi Carniche di sfondo. Foto: Marco Segato

Campi a Summaga (Portogruaro) e Piancavallo di sfondo. Foto: Marco Segato

«Non è una raccolta propriamente in ordine cronologico, bensì in ordine tematico» mi spiega Sandron. «Ho riunito testi scritti nel corso degli ultimi dieci anni, ma componendoli in modo da raccontare una storia».

Sia come sia, credo che questo libro serva a mettere il punto a un lungo percorso e discorso poetico, e a sdoganare nel panorama letterario italiano un autore che merita attenzione, attento osservatore e interlocutore di un mondo in continuo cambiamento. Con l’augurio che non si fermi e continui a “cercare”.

Giacomo Sandron
Cossa vustu che te diga
Samuele Editore, 2014
€ 12

Per acquisti: samueleeditore.it

VERSI – Nicolas Alejandro Cunial. Pillole di carne cruda

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Nicolas Alejandro Cunial

VERSI – La rubrica dedicata alla poesia

di Anna Castellari

Nicolas Alejandro Cunial, nato a Mendoza nel 1989, vive dove gli capita. Giovanissimo pubblica Grigio tipo settembre per Sbc edizioni (2011). Nel 2012 Pillole di carne cruda esce per La Gru, cui segue Carie di città (2013).

Oltre alle sue pubblicazioni, appare in riviste, siti e qualche antologia di premi letterari in cui è stato vincitore o finalista. Collabora con la rivista letteraria padovana «ConAltriMezzi» e con OggiTreviso.

Di recente, ha vinto il Poetry Slam di Acqua e di Luce a Monza. È lì che lo abbiamo incontrato e abbiamo conosciuto la sua verve, irriverente e autoironica, che non smentisce nemmeno questa intervista. Vice Presidente dell’associazione LIPS (Lega Italiana Poetry Slam), di cui avevamo già parlato con Alessandra Racca nel nostro spazio Versi, è molto attivo in ambito culturale per la promozione della realtà poetica orale e per la diffusione della poesia.

Durante la serata di Monza dello scorso settembre, tra il serio e il faceto, hai dichiarato che l’aver “fatto chimica” influisce sulla tua scrittura e sui temi che affronti. Penso anche a una poesia apparsa sul Censimento dei poeti, che hai inviato a Pordenonelegge, Vivo a vuoto, nella quale appaiono elementi fisici (fuoco, vuoto, “la mia gola […] tace ogni corda di volta in voltaggio”) e altri addirittura meccanici. Sembra quasi che ti ci scialli…
Hai ragione! E a essere sincero, è stata una cosa di cui mi sono accorto scrivendo: utilizzo molto accostamenti tra diverse realtà o situazioni attraverso un mezzo, una parola, che richiami la chimica o la fisica degli elementi. Credo sia una deformazione professionale: in effetti non sono bravo, per esempio, con la metrica – nel senso che non riesco a scrivere in modo naturale un sonetto – come invece potrebbe esserlo qualcuno che ha studiato al liceo classico. No, io ho fatto chimica e se devo scrivere di quello che vedo, percepisco o conosco, per farlo in maniera convinta devo attingere alle parole che sono insite nel mio bagaglio. Non si può fingere chi non si è nella scrittura, men che meno in poesia. Ecco perché viene fuori spesso il mio background scolastico. Dopotutto, è un periodo che ha avuto una certa prevalenza temporale nella mia vita. Ho venticinque anni e sei di questi li ho passati alle superiori. Difficile che non mi caratterizzasse in qualche modo. La stessa cosa è valsa per l’Università: in Pillole di carne cruda e in Carie di città si trovano infatti moltissime poesie a carattere sociale e l’aver studiato Scienze Politiche non è qualcosa di secondario. Ma la chimica è solo uno strumento, appunto, non è mai il fine delle mie poesie: i miei temi, a dirla tutto, sono forse banali e sicuramente già sentiti. La verità è che convivo con la paura che in letteratura si sia già detto tutto. Ecco perché mi impegno meno su ciò che voglio dire e molto invece sul come lo voglio trasmettere: adoro la poesia perché è soprattutto ricerca e sperimentalismo, almeno nel mio modo di viverla. Perciò anche se parlo di amore, morte, umanità e simili, in realtà cerco di trattare questi temi da angolazioni nuove ma soprattutto comunicandolo in forme inedite. Il mio prossimo libro, Il sosia zero, dimostrerà esattamente questo. Almeno spero.

Partiamo dall’inizio: quando hai iniziato a scrivere?
All’età di sei anni, in prima elementare. Forse qualche lettera dell’alfabeto la sapevo scrivere pure prima, ma non me lo ricordo.

Quali sono stati i motori propulsori nella tua scrittura poetica? In parole povere, quali sono state le letture fondamentali nella tua crescita?
È cominciato tutto quando è morto Alberto Dubito. La sua scomparsa per me è stato un brutto colpo, e dopo la sua morte ho cominciato a scrivere delle poesie (certo, anche prima ne avevo scritte, ma delle cose orrende, davvero). Quasi che il vuoto lasciato da lui avesse assunto le forme di un verso, mi resi conto che quello che stavo scrivendo aveva una certa validità. Poi è arrivato Erravamo giovani stranieri e lì è accaduto qualcosa di strano: anche se non avevo mai letto le poesie di Alberto, molti dei nostri versi combaciavano. Alcuni erano addirittura così simili da rasentare l’uguaglianza. A quel punto mi sono deciso ad approfondire questa azione che fino ad allora non avevo compiuto, l’azione di fare poesia. Ho perciò letto e riletto molti libri di poesia, come attualmente faccio. E più ne leggo, più apprendo e, spero, più miglioro. Tra i libri che mi hanno lasciato senza dubbio di più, devo annoverare sicuramente: Erravamo giovani stranieri di Alberto Dubito; Lai di Lello Voce; Ossa Carne di Dome Bulfaro; Tutte le poesie di Vladimir Majakowskij; Mikrokosmos di Edoardo Sanguineti. Queste sono in un qualche modo i miei vangeli di poesia.

In Pillole di carne cruda i temi che affronti sono moltissimi: disprezzo verso la propria generazione, amarezza verso la società contemporanea, senso di non essere compreso dagli altri… per fortuna non manca una dose di auto ironia, troppo spesso inesistente tra chi compone versi. Vuoi parlarci di questo libro?
Pillole di carne cruda è un testo a cui sono legato per l’entusiasmo con cui è stato scritto. Credo si possa percepire in qualche modo, leggendolo. La raccolta spazia infatti tra il disprezzo ma anche il perdono e in qualche caso la giustificazione per la mia generazione, divisa tra chi resta e chi se ne va, e uniti dal dubbio se la scelta in questione, indipendentemente da quella presa, sia quella giusta o meno.
L’incomprensione è un’altra tematica, ma non riguarda me precisamente: la questione è l’incapacità di comprendere. Nella società odierna, infatti, la comunicazione è diventata veloce e sommaria, con la conseguenza che, spesso, si viene interpretati piuttosto che capiti. E l’interpretazione è uno dei mali della comunicazione oggi: se qualcuno prova a trasmettere un concetto, con i sistemi attuali di comprensione saranno più le volte in cui quel concetto non verrà recepito che il contrario. Questo perché le persone oramai tendono a leggere un testo o ascoltare un discorso attraverso le chiavi di interpretazione che gli sono proprie, a scanso invece di una comprensione che potrebbe essere soltanto letterale e priva del rischio di intendere male quello che ci viene detto. Credo che l’incomprensione stia diventando genetica nella nostra società. E la cosa un po’ mi spaventa.
Più in generale, quindi, Pillole di carne cruda è un lavoro che nasce dalle mie paure per crescere poi nei versi affinché si instilli il dubbio nelle persone che lo leggono.
Riguardo l’autoironia, rischio di ripetermi. Nel senso che attingendo appunto a ciò che conosco ma soprattutto scrivendolo io stesso, non riesco a non lasciare tracce della mia personalità. Ed essendo piuttosto autoironico e cinico in certi casi, ecco che quello che si legge è un mio personale compendio su come vedo e leggo, attraverso i miei schemi, ciò che i miei sensi percepiscono.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
Se si intende in ambito poetico, allora il mio futuro prevede questo: Il sosia zero. Questa silloge uscirà a marzo 2015 per il marchio Ümlaut, di Edizioni La Gru e sarà la terza e ultima parte della cosiddetta trilogia dell’æssenza composta appunto da Pillole di carne cruda e Carie di città. Il sosia zero sarà un’opera nuova, assolutamente inedita nel mondo della poesia, frutto di idee di ricerca e di un grande sostegno da parte di uno dei miei maestri che è Dome Bulfaro. Intendo cercare di portare il libro in tutte le piazze e librerie che avranno la volontà di ospitarli, insieme a uno spettacolo di spoken music che sto preparando con moltissima calma insieme al duo Doppia Frequenza. Riguardo poi alle pubblicazioni, dopo il sosia zero intendo prendermi una lunghissima pausa: questo infatti sarà l’ultimo titolo poetico che penso di pubblicare da qui ad almeno cinque anni, tempo nel quale mi dedicherò ad altre ricerche per tornare con qualcosa di ancora più forte ma al momento a uno stadio troppo primitivo di idea perché possa parlarne.

Per leggere le poesie di Nicolas, ingrandire le immagini della gallery.