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VERSI – Giacomo Sandron: Cossa vustu che te diga

VERSI – La rubrica dedicata alla poesia

di Anna Castellari

Sarebbe facile dire, di questo libro edito da Samuele Editore, che si tratta di un viaggio. Ma dire che è un viaggio è riduttivo. Mi viene più da chiamarlo “compendio”, una sorta di enciclopedia delle figure letterarie che costellano l’universo, fortemente connotato geograficamente, da cui proviene Giacomo Sandron. È una geografia umana quella che ci invita a conoscere attraverso le strofe di questo libro, un’umanità verissima e radicata nel proprio territorio.

Sandron l’ho conosciuto negli anni universitari a Trieste. Animatore culturale, poeta, artista (ultimamente realizza quadretti con ritagli di carte colorate, un po’ alla Alberto Burri), da oltre dieci anni è parte del comitato organizzativo di notturni diversi, “piccolo festival delle poesie e delle arti notturne” che si svolge ogni luglio a Portogruaro (Venezia), la sua cittadina natale.

11248_1264149246991_7451309_nIl dialetto, la vita dei campi, l’oro de me nona (“l’oro di mia nonna”), che dà il titolo a una sezione del libro, e anche la mia lunga amicizia con Giacomo mi fanno sorgere spontanea una domanda: ma quanto contano le radici nella tua poesia? «Qualche anno fa» risponde dopo averci pensato un poco «ti avrei detto che le radici sono tutto, che nella mia poesia si sente l’attaccamento alla terra. Ma oggi non la vedo più allo stesso modo. Noi non siamo piante, siamo persone, e risentiamo dell’ambiente che ci circonda, che sia quello in cui siamo nati o quello in cui viviamo». Pure, il riferimento alle radici è ben presente nella prefazione al volume di Fabio Franzin: «Se il borgo, il paese, sono ormai entità vuote in cui l’anima accesa non trova più simboli o risorse, la realtà della fabbrica, del capanon, lo sono ancor di più. Non resta che tornare alle radici, o meglio alle radicee, le foglie del tarassaco».

Un cambio di prospettiva, quello che mi ha dichiarato Sandron, che mi stupisce un po’, che mi fa crollare qualche certezza: ho sempre visto lui, e il gruppo che lo circondava a Portogruaro (il Porto dei Benandanti, come si fanno chiamare), accomunati tutti da un senso di appartenenza molto forte.

Ma in questa risposta c’è qualcosa di più profondo, che dimostra l’evoluzione di un pensiero: apparteniamo sì alla terra, ma anche all’ambiente che respiriamo. Siamo Benandanti non solo nel senso della tradizione friulana (“nati con la camicia” che si radunavano a ogni passaggio di stagione, armati di mazze di finocchio per combattere i Malandanti, stregoni che combattevano con canne di sorgo, ndr), ma anche nel senso che possiamo “andar bene” nel mondo, respirare ovunque la cultura del luogo e diventare ogni volta una persona diversa, che si esprime in nuovi modi.

I mille modi in cui si può esprimere Sandron formano le sezioni di questo libro. Si parte subito con il titolo che dà nome alla raccolta, un canto privo di retorica, dichiarazione di odio e di amore verso il paese natio, luogo svuotato di un’identità contadina in favore di quella industriale, per poi approdare al mondo quotidiano del paese. Sandron scrive prevalentemente nel dialetto di Portogruaro, un dialetto che già di suo suona di frontiera, un veneto misto a parole friulane (proprio per la posizione al confine con la regione Friuli). Ma non mancano scritti in italiano, che ugualmente ricercano un ritmo e una musicalità raffinati, un crescendo di versi che a volte sconfinano nel dialetto, quasi ad affermare con la propria “marilenghe”, mi si passi il termine, un significato più profondo nelle parole. Un dialetto che, casualmente, è di questa area geografica, ma potrebbe essere il romagnolo, se l’autore fosse nato in Romagna, tanto che cita il compianto poeta Raffaello Baldini e l’ironia dei suoi versi: «E pu basta, a m so stòff,/ l’è tòtt i dè cumpàgn, u n s nu n pò piò./ A m vì fè crèss i bafi!» che fa il paio con i versi di Sandron che seguono: «E insoma basta, me son stufà, no ghe a vanto/ xe ora de darghe un taio far un cambiamento/ me fasso cresser i cavei i pei de la barba i pei/ che me vegna fora dal naso dai busi del naso/ (…)».

sandron1Non manca una sezione dedicata al lavoro, Tochi e ochi strachi (“Pezzi e occhi stanchi”). La malattia professionale, che aveva dato il titolo in passato a una plaquette realizzata a mano dalla “capanna editrice” Sartoria Utopia, è riportata qui. Lo struggimento della catena di montaggio, l’umanità tra gli operai, la difficoltà del lavoro quotidiano, le tecniche da adottare durante il lavoro, descritte meticolosamente. Leggendo i versi di Sandron, questi temi sembrano appartenere oramai a un tempo lontano, eppure sono di una decina di anni fa: la fabbrica, come la vita dei campi ancora prima, ha lasciato il posto a capannoni dismessi, e quei capannoni costellano le distese di pianura del Veneto come topi morti. Una visione del mondo che influenza la vita dell’io narrante, che lo proietta in un desolato labirinto di disperazione e di depressione. Qui l’autore è l’uomo contemporaneo immerso nella crisi, che fatica a trovare un posto nel mondo e si sente alieno a tutto.

Il già citato L’oro de me nona sembra quasi una “sbobinatura” dei discorsi della nonna del poeta, una vera e propria registrazione delle storie che animano la vita di un tempo. La nonna, donna oggi quasi centenaria che ho avuto la fortuna di conoscere, racconta dei problemi quotidiani in maniera leggera, è una figura d’altri tempi per la quale contano poche cose, concrete e reali: il che si può riassumere con la frase De quel che xe no manca niente, un modo saggio e ironico, tipico di quelle terre, per dire che di quello che c’è non manca niente, che l’indispensabile lo abbiamo e il resto è fuffa. “L’oro de me nona/ xe fiori che no buta/ vasi veci/ de do vite fa/ xe tera nera e basta” (“L’oro di mia nonna/ sono fiori che non sbocciano/ vasi vecchi/ di due vite fa/ è terra nera e basta”). Bastano anche solo questi versi per capire tutta la poetica che sta dietro alla raccolta, la figura d’altri tempi che li ispira, i discorsi infiniti che riguardano i bisogni primari, il cibo, le persone, le gite parrocchiali, gli affetti.

Veduta dei campi di Summaga (Portogruaro) con le Alpi Carniche di sfondo. Foto: Marco Segato

Campi a Summaga (Portogruaro) e Piancavallo di sfondo. Foto: Marco Segato

«Non è una raccolta propriamente in ordine cronologico, bensì in ordine tematico» mi spiega Sandron. «Ho riunito testi scritti nel corso degli ultimi dieci anni, ma componendoli in modo da raccontare una storia».

Sia come sia, credo che questo libro serva a mettere il punto a un lungo percorso e discorso poetico, e a sdoganare nel panorama letterario italiano un autore che merita attenzione, attento osservatore e interlocutore di un mondo in continuo cambiamento. Con l’augurio che non si fermi e continui a “cercare”.

Giacomo Sandron
Cossa vustu che te diga
Samuele Editore, 2014
€ 12

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