Archivi categoria: Recensioni

Tra spiritualità e letteratura

di Emanuela D’Alessio

Leggere un libro di VanniSantoni (in realtà ne ho letti due in tutto) è un’esperienza conoscitiva, oltre che letteraria, di una certa importanza perché lui ci parla, sostanzialmente, di ciò che ha sperimentato in prima persona, mettendolo poi a disposizione di un’idea narrativa.

La verità su tutto – è di queste ore la notizia che sarà tra i candidati al Premio Strega 2022 – ci mette in contatto con rave culture, misticismo orientale, meditazione, pratiche tantriche, comunità spirituali, ricerca del nirvana ed esperienze psichedeliche. Tutte questioni con cui Santoni, ne sono certa, ha avuto modo di confrontarsi. E quindi, attraverso il percorso accidentato, lungo e faticosissimo di Cleopatra, detta Cleo, che da attivista del rave culture e sociologa insoddisfatta si trasforma in “santona” con un milione di adepti, dopo molteplici passaggi di “livello” (ma non è un videogioco!), Santoni sembra volerci narrare qualcosa che lo ha riguardato e accompagnato, almeno per un po’.

Lo fa, è questa la sua cifra vincente, con ironia e divertimento, lasciando così irrisolto il dubbio che ci accompagna fino alla fine: ci crede veramente a questo complesso universo di mistica orientale, meditazione, mantra e rituali, o ci sta svelando con discreta allegria che solo di cialtroneria e paccottiglia psichedelica si tratti?

A ben leggere, tutta la narrazione si dipana tra molteplici dubbi, a cominciare da quello che dà l’abbrivo all’esperienza “rivoluzionaria” di Cleo: si può non fare del male a qualcuno una volta che si entra in un sistema di scelte? Quali sono i confini tra il libero arbitrio e la dimensione dell’impossibilità e dell’inevitabilità? Senza l’uso massiccio di sostanze psichedeliche quell’incoscienza trascendentale cui alcuni ambiscono è realmente raggiungibile? Si può veramente diluire il bisogno individuale di amore, gratificazione, esercizio del potere, appagamento sessuale, in quello collettivo e universale?

Non ci sono risposte, o meglio, ciascuno può intuire la propria e Santoni mette a disposizione di chi si vuole incamminare sui sentieri spirituali, la propria mappa di letture (e qui fa sul serio) che inizia con il Diario di Etty Hillesum passando, tra gli altri, per i Racconti di un pellegrino russo, i Vangeli, le Confessioni di Sant’Agostino, il Vivekachudamani (i principi fondamentali per liberarsi della dualità dell’esistenza). Lungo il cammino si entra in contatto con l’esicasmo cristiano, il non-dualismo tantrico, la ricerca del senso del male (piccolo o grande che sia il male sembra irrimedibile), la ricerca del senso del bene, e la voce di Simon Weil che funge da coscienza icastica (comunque la protagonista Cleopatra non è pazza).

La verità su tutto offre molti altri “percorsi di lettura” e anche per questo si rivela una preziosa fonte di ispirazione e riflessione, pur continuando a sorridere.


Una favola ambigua, tra malattia e aldilà

di Emanuela D’Alessio

Leggere L’invulnerabile altrove di Maurizio Torchio è stato come precipitare in acque scure e agitate e lottare per restare a galla, per raggiungere una riva, per non desistere dalla ricerca di risposte.
Torchio, con voce levigata e raffinata, ha scritto una storia incredibile e magnetica da cui non ci si può sottrarre, sebbene ci si senta spesso al cospetto di un idioma incomprensibile ma dalle sonorità così attrattive che non si ha tempo per distrarsi.
Forse si tratta di una riflessione filosofica sull’eterno dibattere interiore tra l’io e l’altrove cui dare disperato ascolto; forse di una storia sull’infelicità che diventa sofferenza, solitudine, vera e propria malattia del vivere da cui non sembra possibile guarire; forse di una interpretazione del Prima e del Dopo, metafora temporale del passaggio tra la vita e la morte, ma anche di un mondo di vivi con un Prima perduto e un Adesso implicitamente peggiore.
Insomma, forse abbiamo letto una storia universale sul dolore e i conflitti dell’anima, sul passato e sul futuro.
Indugiando nell’atmosfera del libro, dove a fare da protagoniste sono una donna senza nome e la voce di una sconosciuta che le risuona dentro all’improvviso, vorrei provare a parlarne con Maurizio Torchio, alternando la mia voce alla sua (in grassetto), sperando di trovare qualche nuova linea di luce.

Già nelle prime righe viene posta la domanda cruciale. «Perché il mio presente è abitato, prosciugato dall’altrove? Perché in una parte della mia testa si è fatto posto per un pezzo della tua?». Una risposta ovviamente non sarà mai fornita, il lettore è lasciato da solo alle sue interpretazioni.
Ho subito pensato a una rappresentazione molto creativa della malattia mentale. Sentire le voci è, del resto, uno dei sintomi più ricorrenti della schizofrenia. Poi però questa “voce” risulta molto diversa dagli standard abituali: ha un nome, Anna, appartiene a una donna che è vissuta cento anni prima a Londra e che arriva direttamente dall’aldilà. Quando era in vita lavorava in una fabbrica di fiammiferi, ha sempre combattuto contro fame e povertà, ha generato numerosi figli, ha avuto un marito. Ora che è morta descrive il mondo in cui è arrivata, pieno di persone sconosciute e di animali, un mondo nuovo dove nessuno la sta aspettando, dove tutti chiedono e nessuno risponde. Un mondo fatto di sabbia e fiumi, ma che in fondo non sembra così diverso da quello dei vivi.
A questo punto le mie interpretazioni sono già entrate in confusione. Perché rivolgersi a un passato così remoto per raccontare il presente? Perché ricorrere all’idea di un aldilà, presupponendo non solo che esista ma che sia addirittura più vitale di quello dei vivi, per affrontare temi che affliggono l’umanità vivente?

Ma non sono mezzi per un fine: conta la favola, non la morale.
Ed è una favola ambigua, non c’è dubbio. Chi narra è soltanto malata o è davvero in contatto con l’aldilà? Io ho fatto il possibile per restare sul crinale, e mi rendo conto che questo può generare un certo disagio in chi legge.
Può darsi che Anna sia soltanto un sintomo della voce narrante. Oppure che (marzullescamente, philipdickianamente) la voce narrante sia soltanto un sintomo di Anna. A un certo punto Anna racconta di aver assistito a una parata, nella vita del Prima [nel libro di carta la voce di Anna è evidenziata, qui l’ho messa in grassetto]:

«Quale Re?» Non lo so. «Edoardo VII?»
Perché me lo chiedi?
«Provami di essere esistita».
Dici sul serio?
«No… Sí invece!»
Provamelo tu allora.
«No, tu sei stata qui». Io ho chiuso gli occhi, e quando li ho riaperti ho visto una casa, e abitato un corpo. Ma come faccio a essere certa che fosse davvero il tuo?
È vero. Io pura voce nella testa di Anna.
Anna che ha lavorato da Bryant&May e mangiato la cena dell’incoronazione offerta ai poveri di Londra il 5 luglio 1902, e applaudito la parata del 9 agosto, e forse persino quella del 25 ottobre. Anna rivestita di particolari, io nuda.
Io l’ombra, l’esangue, l’inganno senza nomi, luoghi, date o carestie.

Può darsi siano entrambe reali ma comunque malate: loro si vivono così. Forse questo libro è la storia di un’amicizia fondata su una reciproca malattia, una reciproca invasione (e sulla paura che i rispettivi mondi ne hanno).

Nel tempo presente la donna senza nome – sappiamo che fa l’ingegnere, ha un compagno e un amante, vive in due case, ha le tette grosse e i capelli neri, zoppica, è insonne però la notte, quando si sveglia, di solito è felice – va in cerca di maternità, in modo goffo e velleitario per la verità, un tentativo di cura per guarire il silenzio delle relazioni, una malattia diversa dalla follia. Anna invece ha avuto innumerevoli figli nel suo Prima, anche se non ricorda quanti e nemmeno come fossero. Nel Prima la maternità era vissuta in modo più vero, forse perché libero dal bisogno? Nel Dopo, in questo caso non più il tempo dei morti ma quello presente dei vivi, si fanno nascere figli, o ci si prova, per porre rimedio ai guasti di un’esistenza malata.

Maurizio Torchio

Il Prima di Anna tutto era fuorché libero dal bisogno. I figli arrivavano (e spesso morivano) senza pensarci troppo su semplicemente perché non c’era scelta: non c’erano né le risorse né il tempo per fare altrimenti.
Invece l’idea che fare un figlio insieme (Anna e la voce narrante; il corpo della voce narrante posseduto da Anna e dall’amante/fuco di voce narrante) sia una cura dai fantasmi, dalle voci disincarnate, è senz’altro balzana ma ha una sua tradizione. Non è certo la prima volta che il contatto fra mondi si trasforma in copula.

«Zoppicare vuol dire: camminare appoggiato a chi manca. Ogni passo perdere l’equilibrio, come chi sta per addormentarsi, o morire; e ogni passo stupirsi, perché il passo prima non ti ha insegnato niente, e continui a sbilanciarti, a sperare». La speranza è una dimensione interiore, una prospettiva di visione, un’interpretazione attiva dell’esistenza, «se non hai vissuto tutto quello che avevi da vivere si può rimediare». Ma il cambiamento riguarda solo chi si risveglia alla fine di una trasformazione profonda, solo chi è diventato talmente diverso da aver fatto scomparire quello che era prima.

La speranza è una dimensione interiore ma deve trovare appigli nel mondo. Una delle promesse del Dopo è dare spazio, tempo e spazio a quello che non si è stati (e questo naturalmente può trasformarsi in un alibi per continuare a centellinarsi nel Prima). Cito:

Arrivi come te lo aspetti.
«E chi era senza braccia?» Come eri abituata. «Chi è diventato adulto sbavando?» Arriverà cosí. «Non è crudele?» Ma qui, qui dura un battito di ciglia. Sarebbe mostruoso se fosse la fine: è soltanto l’inizio. E chi è vissuto sbavando tornerà ad avere sei mesi, torna all’età in cui si notava di meno. E da lì riparte.
E chi è arrivata bambina diventa ragazza, chi è arrivata vecchia ritorna ragazza.
Tutto quello che hai saputo, non quello che avresti potuto imparare. Il massimo della tua bellezza, per quanto eri brutta. Il più possibile equanime, e generosa, divertente, coraggiosa – come di più non lo sei mai stata.
Anzi: come non lo sei stata mai, cosí, tutta insieme.
Anche se non sei arrivata nel tuo giorno migliore, si può rimediare. Si può rimediare… Se non hai vissuto tutto quel che avevi da vivere si può rimediare. Sono le piccole mute frenetiche che si fanno da soli, appena arrivati, e riguardano il passato. È un modo per fare il punto, tirare una riga. E da lì in avanti fiorire davvero. Cominciare le metamorfosi che riguardano il futuro, quello che ancora non si aveva l’idea di poter diventare.
Diventare più complicati e più semplici.
E queste sono rare, e si fanno insieme agli altri, di notte.

Il mondo da dove viene Anna, il Dopo, l’aldilà di sabbia e fiumi, è popolato da “idioti”, che sono contagiosi e avvelenano i fiumi. Quindi due persone che si incontrano si infettano, si contagiano di dolore inutile che continua anche quando non serve più?  «Dicono che gli insetti non soffrano, perché il dolore serve a imparare, a cambiare, e loro vivono troppo poco, non ne avrebbero vantaggio. Per un insetto appena nato è già tardi. Sarebbe uno spreco». Ma il dolore a cosa serve?

Cito:

Ormai Anna ha imparato che esistono dolori inutili, o che continuano anche quando non servono più.
Arti amputati che soffrono. Arti fantasma.
Campanelli che suonano, e non ci sono porte da aprire.

I morti del libro traggono energia dallo stare insieme, dall’essere presenti insieme agli altri. Non scrivono, non hanno oggetti: cantano e ballano, improvvisano coreografie e acrobazie. Guai a chi perde sincronia col gruppo, a chi sposta altrove il baricentro della propria esistenza, a chi sprofonda in sé stesso e/o nel passato. Idioti e lutto sono tabù. Vanno espulsi. Parte dello stigma di Anna viene dall’avere avuto un compagno, nel Dopo, che è diventato idiota. E dal sentirne la mancanza. Cito:

Io pensavo il lutto fosse una cosa del Prima, come la fame, uccidere, nascere, recintare. Qualcosa che non mi avrebbe riguardato mai più.
È quasi impossibile che gli idioti avvelenino i fiumi. Sono dicerie, come per gli appestati.

Nella pagina finale dei ringraziamenti sono citate molte persone tra le quali mi piace evidenziare Jack London, Roberto Calasso, Philip. K. Dick, Sylvia Plath. Sarebbe bello se Maurizio Torchio spiegasse il perché del suo legame con ciascuno.

Jack London non è il mio autore preferito ma ha avuto un ruolo inspiegabilmente decisivo in tutti i libri che ho scritto finora. In questo caso con Il popolo degli abissi e con le foto che scattò in quell’occasione. La Londra di Anna viene in buona parte da lì.
Roberto Calasso non tanto per L’impuro folle, come ci si potrebbe aspettare, ma per Le nozze di Cadmo e Armonia, per il contatto fra mondi – anche carnale, violento, persecutorio – che lì è raccontato.
Philip Dick per l’ossessione verso i simulacri che si trova sia nei suoi libri sia – a quanto ci raccontano Sutin e Carrère – nella sua vita.
Sylvia Plath per La campana di vetro.

Concludo con una domanda che non ha nulla a che fare con L’invulnerabile altrove ma con il suo autore. Una domanda in apparenza banale e generica, una domanda di quelle che fanno cadere le braccia o alzare gli occhi al cielo: perché scrive Maurizio Torchio?

Beh, è il mio angolino di (quasi) invulnerabile altrove.

Maurizio Torchio

L’invulnerabile altrove
Maurizio Torchio
Einaudi, 2021
pp. 160, € 17,50

Maurizio Torchio è nato a Torino nel 1970 e vive a Milano con una moglie e un figlio. Ha una laurea in filosofia e un dottorato in sociologia della comunicazione. L’invulnerabile altrove è il suo ultimo romanzo dopo i racconti Tecnologie affettive (2004) e i romanzi Piccoli animali (2009) e Cattivi (2015).

 

 

Un romanzo travestito da autobiografia – Intervista a Giulia Caminito

di Emanuela D’Alessio

Giulia Caminito, trentatreenne romana giunta al suo terzo romanzo in cinque anni, ha scritto una storia dolorosa, tagliente, aspra. Una storia in prima persona e al presente, sullo sfondo e in sottofondo il lago di Bracciano e Anguillara Sabazia, perché «sono cresciuta lì e ho un rapporto viscerale con il lago e con il paese, dove ho conosciuto le persone più importanti della mia vita».
Però L’acqua del lago non è mai dolce non è una biografia, un’autobiografia o un’autofiction, avverte l’autrice. È un romanzo che assorbe, digerisce e restituisce brandelli di vita reale, non importa di chi, perché il vuoto ordinario dell’adolescenza, la lotta quotidiana per la sopravvivenza, le discriminazioni imposte dal censo e dal pregiudizio, la distanza siderale tra città e provincia, la ricerca di un “posto” nel mondo o la rinuncia, sono temi universali.

Con voce incalzante, scandita, stentorea, inequivocabile Caminito ci porta in riva al lago, l’acqua immobile e torbida, sul fondo solo fango, alghe, vetri rotti e leggende, in superficie tutto quello che riguarda la vita di una bambina che si fa donna: promesse tradite, amori consumati e perduti, desideri mancati. Affida la parola a Gaia, voce narrante, che studia con ostinazione e furore perché così vuole sua madre, che legge molti libri, frequenta «il liceo classico dei ricchi», si laurea in filosofia, ma resta sempre «donna spezzata e opaca, quella che si rinfrange sulla superficie e la vedi sempre a metà». Che ci racconta di Antonia, la madre, una vera combattente, un’Enea al femminile che porta in salvo sulle spalle una famiglia intera, da quando il marito si è spezzato le gambe in cantiere. Antonia lavora, organizza, pulisce, impartisce, accudisce, punisce, decide, concede, toglie, non si arrende. Che ci parla, ancora, di tutto il resto, le “voci” del paese e i muri scrostati della scuola, le feste di capodanno e di compleanno, capelli e pesci rossi, cinghiali e cigni, incendi appiccati e fari spenti nella notte.
Una storia che si aggroviglia e si dipana con scrittura essenziale ed efficace, che lascia sotto la superficie ciò di cui si nutre, che non concede pause né infingimenti.

Giulia Caminito. Foto profilo Facebook

Sei nata a Roma, hai trentatré anni, hai una laurea in filosofia politica, fai l’editor, il tuo primo libro è uscito nel 2016. Che cosa puoi aggiungere a questa breve presentazione?
Sono per le biografie brevi quindi mi sembra giusto così.

A cinque anni dal tuo esordio letterario hai già all’attivo tre romanzi e una raccolta di racconti. Scrivi libri per necessità, vocazione, casualità?
Scrivo molto, troppo, per tante ragioni, i tre romanzi però sono nati proprio da una mia forte voglia di raccontare quelle storie, non so se si possa dire vocazione, certo casualità a volte perché certe intuizioni su quello che scriverai arrivano per caso e poi inizi a coltivarle e nutrirle. Necessità probabilmente sì, sia perché è l’unica cosa che riempie la mia vita (scrivere, leggere, occuparmi di libri), sia perché certe volte sento le mani prudere e devo scrivere le idee che girano per la testa, anche solo per ricordarle. Scrivo moltissimi appunti, dialoghi, citazioni, sogni, scalette, liste, tracce e poi le tengo lì in attesa di un inizio o semplicemente a riempire la mia soffitta di scritture possibili.

La forma racconto è in genere quella prescelta per mettersi alla prova e farsi conoscere. C’è chi, a torto, considera il racconto una forma di scrittura meno impegnativa del romanzo, più semplice da gestire. Tra racconto e romanzo qual è, se esiste una preferenza, il genere a te più congeniale?
Mi piacciono entrambi i generi, i racconti per me sono un luogo di sperimentazione sia linguistica sia tematica, amo scriverli, sono più diretti e meno mediati dal progetto, mentre i romanzi sono più faticosi, impegnativi, prevedono un grande sforzo per focalizzarsi sulla storia scelta, sulla sua organizzazione, sul tipo di scrittura, sull’omogeneità e molti altri fattori.
Come lettrice ai miei occhi sono equivalenti e come autrice entrambi mi danno soddisfazioni diverse in corso di stesura. Amo molto anche le forme ancora più brevi come gli epistolari, le raccolte di frammenti o appunti, la poesia. Uno dei miei libri preferiti di sempre è Passages di Walter Benjamin, essenzialmente tantissimi appunti raccolti su vari argomenti in funzione di un libro che non è mai stato scritto.

In merito al modo in cui scrivi hai spiegato che rileggi molte volte la prima stesura, anche ad alta voce. Questo particolare mi riporta alla tua esperienza di editor e giurata nel famoso concorso letterario 8×8 organizzato da Oblique Studio, dove viene valutata anche la resa “vocale” del racconto. L’incontro con 8×8 ha influenzato la tua “voce” di scrittrice e, in caso affermativo, come?
Non ci ho mai pensato, è un concorso che mi piace molto perché mi ha permesso di incontrare autori e autrici giovani con cui sono rimasta in contatto negli anni. Con una di loro, Martina Tiberti, sono diventata amica e ha scritto la drammaturgia di una mia raccolta di racconti, anni dopo la serata del concorso. Leggere ad alta voce a me serve non per considerare l’interpretazione, come accade nel concorso, ma per capire il ritmo, le pause, gli errori possibili. Leggendo ad alta voce ci rendiamo conto delle mancanze di fiati, delle lungaggini, dei periodi che non girano bene, per questo se voglio controllare qualcosa che ho scritto oltre a leggerlo su vari schermi e stampato, lo leggo ad alta voce.

La tua “voce”, leggendo questo romanzo, è incalzante, scandita, stentorea, inequivocabile. Si traduce in una scrittura essenziale, efficace, a tratti tagliente, che lascia sotto la superficie ciò di cui si nutre. Insomma, la tua scrittura è come l’acqua del lago che, tra l’altro, non è mai dolce. Da dove nasce tutto questo?
Nasce da alcuni anni di lavoro sullo stile, volevo infatti creare un mio linguaggio riconoscibile in questo nuovo romanzo. Credo infatti di amare, come lettrice, due tipi di scrittura: o quella piana, elegante delle bellissime descrizioni esterne e interne, dei riferimenti letterari adatti e delle narrazioni a tutto tondo; oppure mi piace trovare una lingua peculiare nei libri, una impronta. Io di natura non sono portata al primo tipo di scrittura, ma da sempre mi sento più vicina alla seconda, tendo infatti a condensare, accumulare, listare mentre scrivo. Sono pochi i campi lunghi nella mia scrittura, molte invece le insistenze sull’uso del vocabolario e sui dettagli. Credo faccia parte proprio di me e di come mi viene di parlare del mondo sulla pagina scritta, quindi cerco di elaborare sempre di più questo mio stile in modo che sia adatto secondo me al romanzo che in quel momento sto scrivendo. Qui mi serviva un io carico, giudicante, tragico, deciso, e su quello ho lavorato con la scrittura e lo stile.

Anguillara Sabazia. Foto di Alessio Trerotoli Photographer (2013)

Nella nota conclusiva di L’acqua del lago non è mai dolce hai scritto che la storia «non è una biografia, né un’autobiografia, né un’autofiction». Puoi spiegarci meglio come è stata la gestazione del libro, come è nato l’incontro con l’editore e tutto quello che è accaduto fino alla pubblicazione?
L’incontro con l’editore è avvenuto anni fa, nel 2014 circa, quando ho iniziato a lavorare a un progetto web per Giunti. Intanto avevo cominciato già da qualche anno a scrivere La Grande A e a metà stesura lo mandai in casa editrice per un parere, loro mi dissero che erano interessati, quindi io finii e da lì iniziammo l’iter per la pubblicazione. Sono rimasta sempre nello stesso gruppo editoriale, ma quando Giunti ha comprato Bompiani, il direttore editoriale Antonio Franchini mi ha spostata in Bompiani perché stavano riorganizzando le linee editoriali. E così sono arrivati gli altri due libri con Bompiani.
L’acqua del lago non è mai dolce è nato dopo due romanzi storici con la voglia di cambiare genere, buttarmi nel contemporaneo, provare a raccontare tutto in prima persona e travestire da autobiografia un romanzo che attraversasse temi di cui volevo parlare come il consumismo, la nuova povertà e la violenza giovanile. La nota è stata necessaria perché i riferimenti ai luoghi sono molto precisi e alcune parti della mia vita fanno da base alla narrazione, era importante quindi definire i confini e ribadire la mia voglia di costruire un io-romanzo e non un io-confessione.

Il primo protagonista del libro è il lago, quello di Bracciano, di fronte al quale si susseguono, tra la fine degli anni ’90 e la prima decade del 2000, accadimenti e accidenti dei vari personaggi. Le sue acque sono immobili e torbide, sul fondo giacciono fango, alghe, vetri rotti e leggende, ma su tutto incombe una menzogna. L’acqua del lago non è dolce, non lo è mai, come ci avverte il titolo, «ha il sapore della benzina, quando avvicini l’accendino prende fuoco». Un’immagine, tra le tante, che hai utilizzato per sparigliare gli stereotipi con cui siamo abituati a decrittare l’esistenza. Perché hai scelto il lago di Bracciano e Anguillara Sabazia a fare da sfondo e sottofondo alla tua storia?
Li ho scelti perché sono cresciuta lì e ho un rapporto viscerale con il lago e con il paese, dove ho conosciuto le persone più importanti della mia vita. Mi serviva uno scenario molto noto, che fosse per me attraversabile e sondabile in profondità, volevo che non fosse uno sfondo, ma una creatura tra le altre, che avesse una identità. Sapevo che prima o poi avrei scritto qualcosa sul lago, perché mi è troppo caro e famigliare, però non ero sicura lo avrei fatto in questo modo e adesso. Semplicemente quando ho iniziato ho capito che volevo provarci e mi sono tuffata.

Foto profilo Instagram di Giulia Caminito

Un’altra grande menzogna che il tuo romanzo sembra smascherare è quella sull’effetto riparatore della “cultura”. Viene frantumata l’idea che la conoscenza, lo studio, i libri siano gli unici antidoti agli effetti letali di un’esistenza indigente, priva di mezzi e opportunità. Gaia, protagonista e voce narrante, studia con ostinazione e furore perché così vuole sua madre, Antonia la rossa. Legge molti libri, frequenta «il liceo classico dei ricchi», si laurea in filosofia. Eppure, tutti gli strumenti culturali conquistati non le servono a molto. Gaia non si emancipa dalla povertà, dal dominio materiale e psicologico della madre, dall’incedere annoiato del paese, dall’immobilità limacciosa del lago che diventa attrazione quasi fatale. Di che cosa si tratta?
L’idea del libro è quella di porre l’interrogativo sulla possibilità che questa emancipazione sia diventata una chimera per molte e molti. È sempre più evidente infatti che i settori culturali e creativi sono meno disposti a pagare i neolaureati e i più giovani per lavorare. La conseguenza è che chi ha una famiglia in grado di sostenerlo riesce ad andare avanti, chi come la mia protagonista non ce l’ha deve abbandonare. Credo sia una realtà di fatto, che sta rendendo i lavori legati agli studi umanistici sempre più elitari, quando invece nel dopoguerra questa occupazione si era allargata. Era ancora possibile infatti per mia madre, figlia di un bigliettaio dell’Atac di Roma, riuscire a laurearsi in Lettere ed entrare nel sistema bibliotecario. Oggi tra i bandi pubblici bloccati, le aziende del settore sovraffollate, gli stages infiniti, la precarietà prolungata, l’editoria e il giornalismo (per fare due esempi) sono diventati nuovamente accessibili a pochi.

Lo smantellamento dell’assioma materno «se non studi non sei nessuno» trova piena attuazione nel fratello di Gaia, quel Mariano che a diciotto anni parte per il G8 di Genova contro il volere furioso di sua madre, fa l’anarchico, non studia e si sottrae. Eppure lo ritroviamo trasformato in adulto, capace di fare esattamente ciò che era necessario e risolutivo. Anche l’amico Cristiano manda in frantumi lo stereotipo. Lui che «reagisce al mondo e ai suoi affronti con freddezza, se c’è da fare lui fa», non importa se si tratta di svaligiare una casa di ricchi, di appiccare un incendio, di cacciare di frodo un cinghiale, di guidare a fari spenti sulla Braccianese o di contenere l’ira funesta di Gaia. Anche Cristiano ha completato la costruzione di sé e senza particolari supporti. Perché Gaia non ci riesce?
Mariano partecipa a una visione collettiva, politica del mondo e questo lo rende abitato da idee, visioni, lotte, sguardi. Cristiano vive coi piedi nel terreno dove è cresciuto, quello che vuole è portare avanti le tradizioni di famiglia, l’eredità feroce, contadina, sincera del paese, del suo lato più scuro, forse, ma anche più vero, autentico, vivo. Gaia si affanna sempre per le cose che non possiede, per le mode che non può seguire, per le persone che non la amano abbastanza, ma non racconta mai al lettore in cosa crede. Non credere è una grande maledizione secondo me. Ho affrontato il tema delle credenze in Un giorno verrà portando nella stessa storia la fede politica e la fede religiosa per parlare di quelle vite che si sono date uno scopo superiore rispetto alla propria affermazione individuale.

Per proseguire la ricerca di antinomie, il personaggio di Antonia la rossa (chiamata così per i suoi lunghi e fiammanti capelli) mi sembra quello più emblematico. È una vera combattente, un’Enea al femminile che porta in salvo sulle spalle una famiglia intera, da quando il marito si è spezzato le gambe in cantiere. Lei lavora, organizza, pulisce, impartisce, accudisce, punisce, decide, concede, toglie. La sua forza ha del sovrumano, la sua ostinazione la rende invincibile. Ma in questa frenetica lotta per la sopravvivenza quotidiana risultano banditi i sentimenti e ancor prima le parole. Fra Antonia, suo marito, i suoi figli, non circolano parole ma silenzi carichi di solitudine, oppure litigi furibondi. C’è un doloroso analfabetismo emotivo in questa famiglia così provata e indigente, ma non risulta che quelle più agiate – ce le fai incrociare di sfuggita –  siano più attrezzate. Nessuno dei tuoi personaggi sembra capace di sorridere. Non c’è più spazio per una sospensione del dolore in questo mondo sgangherato e ferito?
C’è sicuramente spazio e in realtà nella lettura spero traspaia spesso anche una certa ironia, un sarcasmo strisciante. Il libro è volutamente caricato di alcuni sentimenti e li mette a tema, ma non esaurisce le esperienze del mondo reale, neanche quelle simili a Gaia e a sua madre. Il romanzo esaspera certe dinamiche per rendere più forte l’impatto e i pensieri che potrebbe generare.

Giulia Caminito. Foto profilo Instagram

Con due genitori bibliotecari è probabile che tu abbia avuto un accesso agevolato alla lettura. Parlando del tuo patrimonio letterario accumulato, puoi citare qualche titolo che ha avuto un impatto veramente significativo per la tua esperienza di lettrice e perché?
I tre libri che di solito nomino sono: L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers, La morte e la primavera di Mercé Rodoreda e Mio padre la rivoluzione di Davide Orecchio. Tre libri che non c’entrano nulla l’uno con l’altro, ma da ognuno ho imparato qualcosa nel corso della mia vita adulta sulla scrittura, sulla libertà, sullo stile, sui mondi possibili, sulla creatività e la bizzarria.

Concludo con la nostra domanda di rito. Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
In questo momento sto per finire Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti e ho solo iniziato Dopo la pioggia di Chiara Mezzalama.

Giulia Caminito è nata a Roma nel 1988 e si è laureata in Filosofia politica. Oggi vive a Roma e lavora nell’editoria. Ha esordito nel 2016 con il romanzo La grande A (Giunti), vincitore del premio Bagutta opera prima e il premio Berto opera prima. Nel 2017 ha pubblicato la breve raccolta di racconti Guardavamo gli altri ballare il tango (Elliot) e nel 2019 Un giorno verrà (Bompiani), vincitore del Premio Fiesole Under 40). L’acqua del lago non è mai dolce è il suo terzo romanzo.

La città dei vivi, una narrazione letteraria della realtà

di Emanuela D’Alessio

Ho finito di leggere La città dei vivi di Nicola Lagioia (Einaudi) già da un po’, ma non accenna a esaurirsi il profondo turbamento che sta insidiando le mie giornate, scandite da domande tanto incalzanti quanto prive di risposte definitive. In fondo, come dice lo stesso Lagioia, «un libro non dovrebbe dare risposte definitive ma sollevare le giuste domande».

Quando il caso Varani infranse la barriera dell’anonimato piombando su tutti i media nazionali il 6 marzo 2016, la mia reazione fu di immediato sconcerto per l’estrema ferocia e l’incomprensibile movente del delitto, poi però smisi di seguire la vicenda, come sempre mi capita con la cronaca nera. La prima domanda è, allora: perché ho deciso di leggere un libro che di quei fatti si è nutrito, trasformando migliaia di pagine di atti giudiziari, perizie, intercettazioni, sentenze, interviste, in una straordinaria narrazione letteraria della realtà? Perché sono vulnerabile al fascino dell’ossessione, volevo capire i motivi che avevano portato Lagioia a dedicarsi negli ultimi quattro anni a questa vicenda, una dedizione assoluta, ossessiva, appunto. A pag. 271 è lui stesso a spiegarlo raccontando dei suoi anni di adolescente a Bari. A quel punto, però, il perché dell’ossessione dell’autore non è più così essenziale rispetto a quanto si va svelando.

I due assassini, Marco Prato e Manuel Foffo, sono stati descritti dai famigliari, dagli amici, dagli avvocati, dai cronisti, come due ragazzi “normali”. Anche Luca Varani – la vittima innocente di questo disastro – era un ragazzo “normale”.
La seconda domanda dunque è: se la patente di normalità con cui ci sentiamo al sicuro è diventata carta straccia dopo il delitto Varani, allora siamo tutti potenziali carnefici? Lagioia solleva l’interrogativo (a pag. 383), ci fa sorgere un dubbio che difficilmente avremmo contemplato spontaneamente. «Tutti temiamo di vestire i panni della vittima. Viviamo nell’incubo di venire derubati, ingannati, aggrediti, calpestati. È più difficile avere paura del contrario. Preghiamo Dio o il destino di non farci trovare per strada un assassino. Ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di poter essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice? È sempre: ti prego fa’ che non succeda a me. E mai: ti prego fa’ che non sia io a farlo».  

E, aggiungo io, l’essere vittima ci garantisce automaticamente il bonus dell’innocenza? La vittima è sempre innocente o anche responsabile, almeno un po’, dell’esplosione incontenibile e addirittura purificatrice del male? Nel caso Varani è stato abbozzato anche questo filone interpretativo (Varani era una marchetta, Prato e Foffo si facevano di cocaina senza limiti, Prato era omosessuale, etc.).

Non ci sono risposte definitive, ci affidiamo impotenti alla banale antinomia fortuna/sfortuna oppure all’azione del demonio (il colonnello dei carabinieri incaricato delle indagini aveva accostato l’omicidio Varani a un caso di possessione). Qualunque sia l’interpretazione adottata ci mettiamo al riparo dalla responsabilità, soprattutto se scegliamo lo zampino di Satana. Se commettiamo il male perché posseduti, allora non siamo irrimediabilmente cattivi ma soltanto deboli.

Nicola Lagioia. Foto di Nicola Garrone

Negli ultimi quattro anni Nicola Lagioia ha incontrato moltissime persone ricevendo da ciascuna un’informazione, un documento, una riflessione, un’opinione, un dono. Luigi Manconi, che allora era presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani al Senato, gli ha regalato Il libro dell’incontro, una testimonianza di un lungo esperimento, tra il 2009 e il 2015, di giustizia riparativa tra alcuni parenti delle vittime di terrorismo e alcuni diretti responsabili. Nel caso Varani non è accaduto nulla del genere, il padre della vittima non ha mai ricevuto dalle famiglie dei carnefici una richiesta di contatto, una lettera, una parola.
Arriva la terza domanda, questa però la rivolgo direttamente all’autore: perché non è stato mai ricercato né favorito quel tipo di incontro necessario per continuare a sentirsi umani? Dove sono finiti tutti gli “esperti della mente” che si sono prodigati in perizie e interpretazioni?

Nicola Lagioia ha risposto così:
Provo a risponderti, ma per quello che posso rispondere io, perché la mia è un’interpretazione come un’altra. Una volta che è finito il libro secondo me lo scrittore non necessariamente ne sa e ne capisce più del lettore. Sì, sarebbe stato bello se le famiglie si fossero parlate, però non è una cosa che uno come me può pretendere, ovviamente. Avrebbe potuto pretenderlo o può pretenderlo Giuseppe Varani che si è spesso dimostrato deluso per questo mancato avvicinamento. Che cosa sarebbe successo in caso? Non lo so. E anche tutti i vari esperti della mente, come li chiami tu, non avevano il compito di fare una terapia di gruppo ma di verificare, molto più modestamente, la capacità di intendere e di volere degli imputati. Quindi è un auspicio il mio, un sogno forse impossibile, tenendo conto della situazione e delle ferite. Nel Libro dell’incontro c’erano stati dei mediatori a prendere l’iniziativa, anche perché il terrorismo era una questione nazionale, pubblica. Questa invece è una vicenda eclatante, che ha avuto pubblica diffusione, ma non è una questione nazionale come il terrorismo che ha coinvolto moltissime persone. Sì, sarebbe stato bello, ma poi chi di preciso avrebbe dovuto fare da mediatore? Non è contemplata nel nostro ordinamento, né in altri, l’eventualità della giustizia riparativa. È questo forse il problema.

In La città dei vivi non c’è soltanto il delitto Varani, così difficile da derubricare in semplice fatto di cronaca nera, ma un’intera città. Roma non è solo la scena di un crimine atroce, ma di una corale tragedia contemporanea, con quotidiani smottamenti di legalità, civiltà, modernità. «La pioggia a Roma ricorda a tutti che la modernità è un battito di ciglia nell’infinito svolgersi del tempo». Roma ogni giorno è derubata, violata, intossicata, sporcata; Roma è vittima ma anche carnefice; da Roma si vuole fuggire, a Roma si vuole tornare. A Roma può accadere ogni cosa, è bellissima, è eterna.

Nel libro c’è un altro personaggio, sebbene secondario ed estraneo ai fatti dell’omicidio. È un turista olandese ma non un turista qualsiasi, è un pedofilo in cerca di prede finché non viene arrestato. Poi però lo ritroviamo al terminal 3 di Fiumicino a bordo di un Airbus della Thai pronto al decollo.
L’ultima domanda è questa: chi è il turista olandese, forse è il male che riesce sempre a insinuarsi in una crepa delle nostre armature di latta per colpirci e proseguire indisturbato il suo cammino?

Nicola Lagioia ha risposto così:
Sì, potrebbe essere come dici tu, forse una presenza metafisica del male che continua ad andare avanti senza mai fermarsi. Potrebbe essere quello, potrebbe essere la necessità di avere uno sguardo esterno su Roma da parte di una persona che viene per prendere qualcosa, è un predatore, però poi se ne va e non è detto che abbia preso di più di quello che ha ricevuto di negativo in cambio. Insomma, lascio aperto il finale.

La città dei vivi è un libro bellissimo, un romanzo di fatti veri, non credo di saperne di più dell’autore dopo averlo letto, non so nemmeno se mi sono posta le giuste domande. Però continuerò a provarci.

Nota a margine
Quando le mie domande hanno raggiunto Nicola Lagioia lui era in treno verso Firenze per la sua straordinaria attività di promozione di libri e librai, in giro per l’Italia. Dopo poche ore mi ha inviato un messaggio vocale. Apprezzo molto uno scrittore quando non si sottrae ai propri lettori.

Nicola Lagioia, in uno scambio con Giuditta Casale, ha  elencato alcuni titoli di quella tradizione letteraria di “non fiction novel” che l’hanno sorretto in questi anni: A sangue freddo di Truman Capote, Compulsion di Meyer Levin, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, La pelle di Curzio Malaparte, La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia.

Nicola Lagioia (Bari 1973) ha pubblicato con minimum fax Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (2001) e con Einaudi Occidente per principianti (2004), Riportando tutto a casa (2009) e La ferocia (2014, vincitore del Premio Strega 2015). È una delle voci di Pagina 3, la rassegna stampa culturale di Radio3. Nel 2016 è stato nominato direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino.

Il silenzio inconcepibile delle parole – L’esordio letterario di Leonardo G. Luccone

di Emanuela D’Alessio

Le parole possono nutrirsi della vita, dei sentimenti cattivi e di quelli buoni, come spiegava Natalia Ginzburg del suo mestiere, ma può accadere che sia la vita stessa a nutrirsi delle parole o, per dirla col titolo dell’esordio letterario di Leonardo G. Luccone, può accadere che sia “la casa a mangiare le parole”, lasciando intendere che questo nutrimento sia indigesto, al punto da rivelarsi fatale.

Per rappresentare «il silenzio inconcepibile» delle parole Luccone ha messo in campo tutti gli strumenti di cui dispone, grazie anche alla lunga esperienza come editor e traduttore (solo per citare alcune delle sue molteplici abilità in campo editoriale). Ha costruito una metanarrazione senza regole temporali e narrative, consentendo alla realtà di irrompere continuamente nella fiction, e utilizzando al meglio il potente sostegno che la letteratura mette a disposizione di chi avverte un’urgenza, di chi dalla scrittura ricava un salvifico effetto.

La casa mangia le parole (Ponte alle Grazie, 2019) è una sofisticata e ambiziosa finzione letteraria, dalla forte connotazione metaforica, per denunciare una malattia fin troppo reale del mondo contemporaneo, che riguarda tutti e alla quale, sembra suggerire l’autore, non dovremmo più sottrarci.
Una malattia, in questi tempi “social”, che ha ferito a morte la comunicazione, ossessionati come siamo dal compulsare i nostri i-phone per non ascoltare il silenzio dell’attesa, il tempo che scorre, le parole da pronunciare. Una malattia che sta distruggendo il Pianeta, dopo aver soffocato le voci di chi ha provato a ribellarsi.
Luccone fa della metafora la sua cifra per indagare le conseguenze devastanti, forse irreversibili, del silenzio delle parole e delle coscienze.

La “casa” famelica è quella dei coniugi De Stefano (vittime e carnefici di sé stessi, immeritevoli anche di essere chiamati per nome), una coppia che non trova più le parole, non quelle necessarie ad alimentare l’amore, ma nemmeno quelle per decretarne la fine. La casa/matrimonio va in pezzi, sprofonda in un silenzio doloroso e rancoroso, resta imprigionata nella retorica delle apparenze, immobilizzata dal terrore della verità.
La dislessia che affligge Emanuele, l’unico figlio dei De Stefano, è la lente di ingrandimento con cui l’autore mette a fuoco il male del mondo, il non sapere leggere quello che sta succedendo agli uomini. Emanuele però non permette alle parole di fuggire, perché «vuole che tutti si ricordino di lui per quello che è riuscito a fare».
La società romana di ingegneria ambientale dove lavora De Stefano è il nucleo incandescente del disastro in atto. La Bioambiente è una comunità di uomini e donne (quattordici in tutto) con la missione ardita di «gettare le basi per un mondo migliore». Ma l’ardore si spegne in fretta, nessuno riesce a puntellare lo smottamento delle proprie motivazioni, non De Stefano e nemmeno il suo collega e amico Moses Sabatini, l’italoamericano ecologista militante, «una specie di Ulisse con il temperamento di Don Chisciotte e la fregola di Pier delle Vigne». Luccone ci avverte che Moses esiste veramente, ha scritto e pubblicato un libro che diventa parte integrante della narrazione.
Ingegnoso espediente narrativo per dare voce ai demoni “gretisti” dell’autore, o emblematico esempio di come la realtà possa insinuarsi nella finzione? Il dubbio, però, è destinato a restare irrisolto.

La storia di Luccone, perturbante e disordinata, è un affollato baule da cui escono alla rinfusa ricordi più o meno dolorosi, fatti di cronaca antica e recente, rari momenti di felicità ma, ci viene ricordato, «la felicità non ha mai energia propria, è un riflesso, una sottrazione di infelicità che si comprende solo dopo la stagione del dolore».

Leonardo G. Luccone

Nel corso della lettura si può seguire una trama o l’altra delle tante offerte, indagare il significato delle metafore, o semplicemente abbandonarsi al flusso delle parole. Il risultato però è sempre lo stesso: si resta saturi di dolore, turbati e incerti, e desiderosi di immaginare, con le parole di Julian Barnes, che «comunque il dolore è passato. Come ho detto, ho una certa abitudine all’autoconservazione».

La casa mangia le parole
Leonardo G. Luccone
Ponte alle Grazie, 2019
pp. 544

Leonardo G. Luccone vive e lavora a Roma. Ha tradotto e curato volumi di scrittori angloamericani come John Cheever e F. Scott Fitzgerald. Ha diretto la narrativa delle edizioni Nutrimenti e la casa editrice 66thand2nd. Nel 2005 ha fondato lo studio editoriale e agenzia letteraria Oblique. Il suo ultimo volume è Questione di virgole – Punteggiare rapido e accorto (Laterza, 2018), vincitore del premio Giancarlo Dosi per la divulgazione scientifica.

La scrittura carnale di Mescolo tutto – Yasmin Incretolli

di Emanuela D’Alessio

Di Mescolo tutto, libro di esordio di Yasmin Incretolli, il nuovo “gioiello della corona” di Tunué (per la collana Romanzi curata da Vanni Santoni), ne hanno parlato così al Premio Calvino, conferendogli nel 2015 una menzione speciale: «Romanzo fieramente “ultrasperimentale”, che, in una sorta di esibita estetica del disagio e della sgradevolezza, persegue l’estremo. Gli esiti sovente inediti ed efficaci dell’ardua scelta stilistica e l’intensità della passione adolescenziale narrata rendono il testo della giovanissima autrice un’interessante scommessa».

Mescolo_tutto_CoverChiudendo il libro, dopo una lettura defatigante e impervia, mi sono chiesta se la scommessa sia stata vinta e da chi.
Non ho alcun dubbio sulla vittoria dell’autrice, non foss’altro perché Yasmine Incretolli è riuscita a concretizzare, a soli ventidue anni, un progetto di scrittura ardito e sprezzante, stuzzicando l’attenzione dell’editor Vanni Santoni, abile e indomito intercettatore di nuove “voci”.
Sono meno convinta, invece, che la scommessa con il lettore sia stata vinta pienamente. Io, ad esempio, ho trovato inutilmente spericolata la ricerca estrema di un’altra lingua per raccontare una storia, di per sé poco originale, sull’adolescenza e sul suo disperdersi tra dolore, automutilazioni, sesso hard e anfetamine.
La protagonista Maria ha diciannove anni, si procura ferite su tutto il corpo, non ha un padre e sua madre alterna collassi etilici a relazioni sessuali promiscue. Dopo la morte della nonna, unico riferimento d’amore per la ragazza, l’autolesionismo fisico e morale si intensifica. Maria è alla disperata ricerca di accettazione, accoglienza, protezione, amore e crede di trovarli in Chus, compagno di classe, violento e dai gusti sessuali sconcertanti.
Tra ferite autoinflitte, rapporti estremi, fughe, sballi da anfetamine ed alcool, delusione per l’amore negato, Maria attraversa il tunnel degli orrori che può essere l’adolescenza e ne esce (forse) chiedendosi se il desiderio di morire sancisca il passaggio all’età adulta.

Non è sulla storia, evidentemente, che Incretolli ha scommesso, bensì sulla cifra stilistica scelta per raccontarla, costruita con notevole impegno e risultati inediti, eliminando articoli e coniugazioni, mescolando gerghi generazionali e parole dotte, attingendo a una semantica bizzarra o inesistente, sorvolando sulla sintassi, costringendo il lettore a navigare a vista, a intuire piuttosto che a comprendere, ad affidarsi al ritmo e alla melodia di certe frasi o intere pagine, indipendentemente dalle parole e dal loro significato. Al punto da sospettare che ci si trovi di fronte a una provocazione irriverente ed eversiva dei canoni tradizionali di comunicazione e narrazione solo per dimostrare quanto la generazione dei millenials sia incomprensibile e incompresa dai suoi referenti adulti, o presunti tali.

Volendo però accantonare sgradevolezza e frustrazione, abbandonare una chiave di lettura sull’ennesima rappresentazione, per quanto audace, dell’usurato scontro tra generazioni, si riesce ad apprezzare la caratteristica “iper” o “ultra” di questo libro, sia della sua architettura semantica: barocca, contemporanea, astratta, popolare, sia della declinazione narrativa (al di là della trama) di temi quali la solitudine, il dolore e  il disagio/degrado contemporanei: autolesionismo, sesso estremo, violenza psicologica e fisica, eccessi alcolici e di sostanze stupefacenti. Un “iper” o “ultra” per celare o anche liberare quell’urgenza espressiva da cui la Incretolli sembra essere incalzata.

Ho diciannove anni e dieci mesi nel giorno in cui avvio la stesura di Mescolo tutto. Nei momenti di realtà più concentrata, la pulsione nel ferirmi oltrepassava il limite, diventava acme d’aprirsi lo stomaco, bruciare le vene, bere candeggina. Così ho valutato potesse essere distrazione dall’inclemente nevrosi la presente scrittura, stillata da polpastrelli provetti divaricatori d’interstizi muliebri e mascolini. Soffro di sindrome da autolesionismo ripetuto dall’età di quindici anni e ho cicatrici su cosce, avambracci, polsi, schiena, fianchi soprattutto: ovunque canali nervosi digrignanti. Cicatrici a sconnettermi. Cazzo, a sconnettermi! Mi dicevano bizzarra, eclettica; mi dicono: schizofrenica, puttana. M’associo io stessa ormai a creatura ibrida. Non umana: mescolata, appunto. Tra pornosituazioni sadomasochistiche, perverse autocostruzioni ad appagare psicologie empie di nullità mascoline e pulsioni incostringibili all’immolazione, affiora tenerezza in forma fetale, rigurgitata come feci in purea. Il ricordo dell’aborto di un amore tra adolescenti accidiosi, speziati nel debosciato rimesto e nell’incontrollata amplificazione d’un trastullo, in avviso trillante da vocabolario in squilibrio semantico. Mi chiamo Maria. Questa è l’ultima stagione della mia adolescenza.

Comincia così Mescolo tutto (che in origine era Ultrantropo(rno)morfismo) e immediatamente si viene trascinati in una dimensione ibrida della realtà.
Subito dopo entra in scena Chus, la cui voce è affidata al corsivo, soluzione stilistica che amplifica i dislivelli temporali e spaziali della narrazione.

Yasmin Incretolli

Yasmin Incretolli

Chus dice: «Una volta ho visto una, che troia proprio, si metteva dietro un paio di cazzi gonfiabili invasellinati a modo, ma il più grosso mica ha retto la pressione dello sfintere, è scoppiato e quella si è messa a gridare e piangere mentre le chiappe facevano tutto uno scuotimento molleggiante impressionante, porco. poi è crollata tette e faccia, col culo viola lasciato per aria, dal male non riusciva a ‘bassarlo di più’. Pareva uno avesse provato a smutandarla dopo averle scalciato il sedere forte d’ammazzarla…
…però dopo ci vediamo e lo facciamo pure noi.  Il calcio, la smutandata e tutto. Se hai da ridire t’ammazzo pure, va bene?», durante l’ora di italiano, per nulla preoccupato dall’udito teso della corona di coetanei, di fatto esortati a ridacchiare e commentarmi. Subito mi si bagna la stoffa merlettata sotto il calzone stroppato. Da capirlo, questo fenomeno di tutta me smossa appena scatta l’intimidazione e sento una tacca di bersaglio sdrumarmi bene il cranio.

Ed ecco la madre di Maria.

Sfilo dita unte da busta di patatine. Le briciole salate frizzano un poco. Strilli di godimento da camera adiacente. La voce appartiene a mia madre: decede ogni sera e notte, percossa da colpi pelvici di maschi indistinti. Afferro ciocche; capelli corvini arricciati fra le labbra, districamento psicotico fino a indolenzire un polso svenato e coronato di ciondolii scrostanti ferite.[…] Incolpo lo stress da teenager all’ultimo anno di liceo. La vita è bellissima, ragazza sorridi. Com’è dissetante mentirsi, persuadersi fino a narcotizzarsi. […] Le grida, le urla; lei che ansima, poi una pausa. Insulti, sputi, schiocchi di palmi sudati al rintocco della carne nuda.
«Ti piace, troia?» Chiede chiunque.
«Ti amo», ribatte madre.

Si prosegue così fino alla fine, scoprendo che all’accelerazione del vissuto di Maria (una sorta di discesa negli inferi della nostra contemporaneità) corrisponde un avvitamento semantico che lascia senza respiro.

Rampicarsi aracnide su pareti tarpate d’appigli, mentre il vespro filastrocca mutismo decadente e c’è margine marmoreo sotto talloni senza calzature e un placido lembo acquitrinoso che ricorda gli occhi dello stronzo, se appena sporgo la nuca. Anni di coerente equilibrio nel detrarsi dalla mercificazione d’essenza connaturale. Palloncini d’elio smagriscono inglobati da batuffoli pitturati. Roma durante ore stokeriane ha cipria rilucente, subiscilo il Tevere implorare un abbraccio. La metropoli ha occhi supplenti labbra e rimira triturandoti. Librerò in dipinti senza sbaffi cerandomi sotto veste tramata dal medesimo incantesimo verseggiato durante proiezione d’archi in luce di farraginoso multitonale. Se l’ammetto d’essere stata cucciola e indifesa come voi? Se l’ammetto di non aver mutato tale setosa condizione? Che l’ostilità incompresa tramuta quest’abnorme creatura in ragazzina d’età quattro, spoglia d’un involucro sufficientemente difensivo. Ha speziata stortura la digestione rimessa. Disputa vivisezione mai arrendevole e constata tempo ubicato nel raggrumare saldatura mentale. Il dubbio è sussistito, se anziché al supplizio, fossi predestinata alla guerriglia. È intrasmutabile l’anguillesco a sfumarmi. Ciondolo inframmezzata da esiziale ascosto e sovversivo corruccio. Ottimo elargirsi al caso. C’è nitore cremoso sparso dall’evoluto abissale sferoide vigente dalla genesi cosmica. Sarò apparenza impura, eppure non è abitudine nel consueto denocciolare lo stupefacente. […] Ho diciannove anni e voglio morire. È questo, diventare adulti?

È con queste parole che Yasmine Incretolli si congeda dal lettore. Mi sono sentita, lo confesso, un po’ inadeguata a questo modo di fare letteratura, ma anche molto curiosa di leggere una seconda prova, sperando, chissà, in tonalità più seducenti.

Nota sull’autore
Yasmin Incretolli nasce a Roma nel 1994, cresce in una famiglia matriarcale e inizia a scrivere dall’infanzia racconti e novelle per poi arrivare a Ultra. Nell’ottobre 2014, per richiamare l’attenzione degli editori, pratica lo streaking in via Veneto, diventando un caso virale sulle piattaforme social. Diplomata al liceo artistico, frequenta la facoltà di Lettere e Filosofa all’Università La Sapienza di Roma. Mescolo tutto è il suo primo romanzo.

Su Satisfaction si descrive così:
«Sono cresciuta a dieci minuti dalla top ten romana di Tripadvisor. Però per riposarmi favorivo posti di nicchia, chicche semisconosciute dove stare tranquilla. Ci raccoglievo ispirazioni speciali che maturavo su file. Il museo Hendrik Christian Andersen, il Giardino del Quirinale, il Roseto comunale, il Giardino degli Aranci. Altri posti che mi concentrano sono la stazione Termini, e piazza Vittorio Emanuele. Qui c’è una bakery giapponese dove ordinavo il bubble tea alla mela e uno spicchio di charlotte alle fragole. C’ho conosciuto la ragazza coi capelli rosa che nel mio romanzo avrebbe avuto il nome della torta che sbocconcellava – Margherita.
La bici l’ho comprata l’altro ieri, praticamente. In sella, finora, ho visto solo un uomo che falciava il prato del suo giardino, la coccinella che m’è saltata sul dorso della mano e tanto asfalto. Non ho la patente, l’auto la guida il mio ragazzo, e quando viaggiamo, solitamente, guardo lui mica altro.
Il rumore cittadino che m’è particolarmente caro è quello del mercato rionale davanti le finestre a casa di mia nonna. Della campagna, invece, apprezzo il sottofondo leggero del vento contro le foglie.
No, non fumo. E bevo quando mi va. Mi piace bere, e leggere nei bar. Che sono fichissimi, ma frequentati da troppo uomini, peccato: una si sente fuori luogo e non è giusto. Il peso non lo dico perché credo sia irrilevante in una persona.
Come ho già detto scrivo quando ho tempo, in questo momento ho tempo esclusivamente di mattina, e dovendo scegliere tra le categorie che mi metti a disposizione, probabilmente ho una scrittura di tipo carnale».

Mescolo tutto
Yasmine Incretolli
Tunué, 2016
pp. 154, € 9,90