Sentii parlare di Kent Haruf per la prima volta quando fece parte di una bellissima iniziativa creata dalla libreria losangelina Vroman’s chiamata “Read your way across the USA!”. La libreria aveva creato un display con i consigli di lettura legati a ogni stato degli Stati Uniti, dal Texas al Wisconsin, da Washington alla Florida. “Ne avrò fino al 2020”, mi ero detta. Nei titoli imperdibili da leggere ambientati in Colorado c’erano The Shining, certo, poi Angle of Repose di Stegner (vincitore del Pulitzer nel ’72), e Plainsong di un certo Kent Haruf. Inseriti tutti i titoli nella mia infinita reading list, iniziai dall’Alabama, perché è il primo in ordine alfabetico e perché il mio cuore è nel Sud.
Passiamo a qualche mese più tardi, quando il nuovo (allora) editore milanese NN fa il suo debutto con due autori americani molto promettenti, Jenny Offill e, appunto, il “mio” Haruf.
Arriviamo a oggi, e Kent Haruf è praticamente un autore di culto in Italia: a ogni uscita (i tre titoli della Trilogia della Pianura, per ora, ma aspettatevi Le nostre anime di notte alla fine di quest’anno, non avete idea di che gioiello sia) colleziona recensioni brillanti sui maggiori quotidiani nazionali, i blogger lo adorano, i lettori anche, e mica per nulla Benedizione è arrivato nei giorni scorsi alla sua settima ristampa.
Se un autore riesce a essere apprezzato in modo così universale, è perché parla a ciascuno in un linguaggio privato che solo quel lettore comprende; si crea una conversazione intima con l’autore, con i suoi personaggi, le sue storie. Di Haruf si è detto tanto: si è parlato della delicatezza del suo linguaggio, della grazia che contraddistingue le sue scene, della compassione con la quale tratta i suoi personaggi, dell’umiltà dell’uomo-scrittore.
Quello che ha colpito me, dalle prime pagine di Benedizione (il primo a uscire in Italia, ma il terzo nella trilogia) fino alle ultime di Crepuscolo, è il sense of place che vi ho trovato. La sensazione che bastasse aprire quei libri per ritrovarmi nelle Grandi Pianure che ho sempre amato.
Qui siamo lontani dall’America da cartolina, quella delle due coste. Le Grandi Pianure sono una fascia verticale che occupa i territori al di là della valle del Mississippi e al di qua delle Montagne Rocciose, che scende dal Canada fino al Texas e include parecchi stati tra cui Montana, Nebraska, Kansas, Oklahoma, e il Colorado a est di Denver, dove ha appunto abitato Haruf per buona parte della sua vita. Un’area di più di un milione di chilometri quadrati che siamo abituati a definire come il “grande nulla”, ma che in realtà è ben lontana dall’essere tale.
Solo chi viene dalle coste, soprattutto da Est, può pensare che queste terre siano piene solo di assenze. Chi ci è nato, chi ci ha viaggiato con gli occhi aperti, sa che queste terre sono piene di storia, di storie, di natura, di cielo (che per Haruf è “pure blue”, “terso” nell’attenta traduzione di Fabio Cremonesi, un cielo che è solo delle Grandi Pianure). Sono le Great Plains narrate da grandi viaggiatori come William Heat-Moon e Dayton Duncan. Queste erano le terre dei bisonti, dei Cheyenne, dei Sioux.
Sono state poi le terre dei coloni più tenaci, quelli che giorno per giorno spostavano la frontiera un po’ più a ovest. I personaggi della Trilogia della Pianura sono i pronipoti di questi uomini e donne che vivevano ai limiti della società: Dad Lewis, in Benedizione, racconta di come la sua casa fu costruita nel 1904, quando quella zona era solo aperta campagna (la linea di frontiera era stata dichiarata ufficialmente sparita solo nel 1890).
Lo stesso Haruf ha detto qualche tempo fa in un’intervista che ha «qualcosa come un legame sacro con quella parte del mondo», ed è d’altra parte evidente l’affetto con cui dipinge i suoi luoghi. Lo si vede in come preferisce il termine soapweed al posto del più comune yucca, evocando la funzione curativa di quella pianta presso i Nativi Americani, i quali dalle radici ridotte in polvere ricavavano una specie di sapone; da come sceglie il più dolce sundown e non sunset; lo si vede da come il paesaggio e il tempo atmosferico siano sempre parte integrante delle sue scene, così come i luoghi chiusi (case, taverne, supermercati, roulotte) sembrino tanto spesso luoghi di auto-isolamento per questi uomini e donne laconici e resilienti.
Fuori, a dominare sono i piani orizzontali: ed è anche per questo che nella Trilogia della Pianura si fa tanto riferimento alla luce. Quasi ogni capitolo di Benedizione ci offre un indizio che illumina la scena: «lui stava osservando il cortile laterale e l’albero e l’ombra sull’erba che si stava ritirando, il sole era più alto nel cielo» (p. 40), o «Il cielo era ormai buio e si erano accesi i lampioni, lei pedalava avanti e indietro, da un cono di luce all’altro», (p. 130), ma ci sarebbero decine di altri esempi. E non è un caso che sia Dad Lewis sia Raymond McPheron vedano nell’aperta e piana campagna il loro luogo della pace, mentre Denver, la capitale dello Stato, non soltanto è una realtà completamente estranea e spesso incomprensibile per gli abitanti di Holt, ma è sempre foriera di una rottura degli equilibri nelle loro vite. Questi sono uomini la cui vita è plasmata dal luogo in cui vivono, al contrario di ciò che succede in altri spazi americani, che vengono continuamente ridefiniti dalle vite dei loro abitanti.
Quest’attenzione agli spazi e alle cose è stata spesso paragonata dalla critica ad altri autori che hanno riempito di significati e stratificazioni i loro luoghi: mi riferisco ovviamente a Faulkner e la sua Yoknapatawpha County in Mississippi, o la comunità di Winesburg nell’Ohio di Sherwood Anderson. Mi stupisco però che non vengano altrettanto spesso citati altri autori entrati nel canone della letteratura regionale o nazionale americana e che si sono dedicati, come Haruf, alla rappresentazione delle vite ordinarie e rurali dei loro personaggi, che sono figure incredibilmente umane e reali, poco eroicizzate. Penso a Willa Cather, o al Wright Morris del quasi-omonimo Plains Song (1981), per non tornare indietro al Hamlin Garland di Prairie Folks (1892).
Come forse si è capito, ho un debole per questi luoghi. Qualche anno fa, spronata da tante letture e da un’insana passione per i viaggi in treno, decisi di percorrere così gli Stati Uniti, zigzagando tra est e ovest, nord e sud attraverso quegli anacronistici bisonti che sono i treni Amtrak, l’azienda statale del trasporto ferroviario: il Coast Starlight, l’Empire Builder, il California Zephyr, il Sunset Limited, il City of New Orleans. Non vi viene voglia di saltarci su anche solo per la poesia che si srotola dai nomi delle loro linee?
A me è successo così. E quando si viaggia attraverso gli Stati Uniti in treno succedono cose molto belle. Tra le più belle c’è incontrare luoghi che chi viaggia in auto (ovvero: tutti gli altri) non vedrà mai. Cittadine nate grazie alla ferrovia e poi semi-abbandonate a causa di un’emorragia economica, campi che superano la linea dell’orizzonte, passi di montagna altrimenti inaccessibili.
E se le Grandi Pianure definiscono il paesaggio a stelle e strisce, così la vita nelle small town è la quintessenza dell’esperienza americana. Quei paeselli che non hanno come riferimento il classico grid, le “avenue”, le “street”: dove, per orientarti, ti basta trovare la Main Street, i binari della ferrovia, e la statale. Posti in cui impari a chiedere non “a quante miglia è” ma “a quante ore”. Dove le occasioni di socializzazione cittadina sono l’asta degli animali, la festa per i veterani, i fuochi d’artificio il quattro luglio. Insomma, posti come Holt.
Holt è in Colorado, ma potrebbe essere in qualsiasi altro stato delle Grandi Pianure: servono solo tre isolati commerciali sulla Main Street che ospitano una taverna, un piccolo alimentari, un negozio di ferramenta; la ferrovia, che separa i quartieri bene da quelli più poveri; un ristorante sulla statale, pronto a saziare con una cucina dalle poche pretese e ipercalorica le bocche affamate dei truck driver e i clienti abituali; l’ospedale, le chiese; fuori, solo aperta campagna, e qualche fattoria, i silos, il serbatoio idrico a punteggiare l’orizzonte.
Non mi stupisce aver letto, in una vecchia intervista, che l’autore aveva creato una mappa mentale di Holt in cui posizionava attentamente ogni luogo menzionato nelle sue opere. «Holt è come casa per me», aveva detto. «C’è certamente tanto da raccontare qui, sai a chi appartiene il camioncino parcheggiato là dove non dovrebbe stare, sai di chi è il cane che si è liberato dal guinzaglio, sai di chi è la bicicletta appoggiata al lampione di fronte alla panetteria. Tutte queste cose, per uno scrittore, sono importanti».
Holt è casa anche per noi, che abbiamo camminato lungo le novecento pagine della trilogia, percorrendo chilometri e decadi, e non sentiamo ancora la stanchezza nelle gambe.
È questo secondo me il regalo più bello che ci ha fatto Kent Haruf: poter voltare l’ultima pagina, ben sapendo che non ci scrolleremo più di dosso la polvere di quella terra immensa.
I romanzi della Trilogia della Pianura di Kent Haruf sono:
Benedizione, NN editore, 2015, pp. 275, € 17
Canto della pianura, NN editore, 2015, pp. 301, € 18
Crepuscolo, NN editore, 2016, pp. 312 , € 18