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Un viaggio nelle Grandi Pianure di Haruf

di Elena Refraschini

Sentii parlare di Kent Haruf per la prima volta quando fece parte di una bellissima iniziativa creata dalla libreria losangelina Vroman’s chiamata “Read your way across the USA!”. La libreria aveva creato un display con i consigli di lettura legati a ogni stato degli Stati Uniti, dal Texas al Wisconsin, da Washington alla Florida. “Ne avrò fino al 2020”, mi ero detta. Nei titoli imperdibili da leggere ambientati in Colorado c’erano The Shining, certo, poi Angle of Repose di Stegner (vincitore del Pulitzer nel ’72), e Plainsong di un certo Kent Haruf. Inseriti tutti i titoli nella mia infinita reading list, iniziai dall’Alabama, perché è il primo in ordine alfabetico e perché il mio cuore è nel Sud.
Passiamo a qualche mese più tardi, quando il nuovo (allora) editore milanese NN fa il suo debutto con due autori americani molto promettenti, Jenny Offill e, appunto, il “mio” Haruf.
Arriviamo a oggi, e Kent Haruf è praticamente un autore di culto in Italia: a ogni uscita (i tre titoli della Trilogia della Pianura, per ora, ma aspettatevi Le nostre anime di notte alla fine di quest’anno, non avete idea di che gioiello sia) colleziona recensioni brillanti sui maggiori quotidiani nazionali, i blogger lo adorano, i lettori anche, e mica per nulla Benedizione è arrivato nei giorni scorsi alla sua settima ristampa.

Se un autore riesce a essere apprezzato in modo così universale, è perché parla a ciascuno in un linguaggio privato che solo quel lettore comprende; si crea una conversazione intima con l’autore, con i suoi personaggi, le sue storie. Di Haruf si è detto tanto: si è parlato della delicatezza del suo linguaggio, della grazia che contraddistingue le sue scene, della compassione con la quale tratta i suoi personaggi, dell’umiltà dell’uomo-scrittore.
Quello che ha colpito me, dalle prime pagine di Benedizione (il primo a uscire in Italia, ma il terzo nella trilogia) fino alle ultime di Crepuscolo, è il sense of place che vi ho trovato. La sensazione che bastasse aprire quei libri per ritrovarmi nelle Grandi Pianure che ho sempre amato.

Max Liu

Max Liu fotografa i paesaggi di Kent Haruf. Questa potrebbe benissimo essere la fattoria dei fratelli McPheron, che ne dite?

Qui siamo lontani dall’America da cartolina, quella delle due coste. Le Grandi Pianure sono una fascia verticale che occupa i territori al di là della valle del Mississippi e al di qua delle Montagne Rocciose, che scende dal Canada fino al Texas e include parecchi stati tra cui Montana, Nebraska, Kansas, Oklahoma, e il Colorado a est di Denver, dove ha appunto abitato Haruf per buona parte della sua vita. Un’area di più di un milione di chilometri quadrati che siamo abituati a definire come il “grande nulla”, ma che in realtà è ben lontana dall’essere tale.
Solo chi viene dalle coste, soprattutto da Est, può pensare che queste terre siano piene solo di assenze. Chi ci è nato, chi ci ha viaggiato con gli occhi aperti, sa che queste terre sono piene di storia, di storie, di natura, di cielo (che per Haruf è “pure blue”, “terso” nell’attenta traduzione di Fabio Cremonesi, un cielo che è solo delle Grandi Pianure). Sono le Great Plains narrate da grandi viaggiatori come William Heat-Moon e Dayton Duncan. Queste erano le terre dei bisonti, dei Cheyenne, dei Sioux.
Sono state poi le terre dei coloni più tenaci, quelli che giorno per giorno spostavano la frontiera un po’ più a ovest. I personaggi della Trilogia della Pianura sono i pronipoti di questi uomini e donne che vivevano ai limiti della società: Dad Lewis, in Benedizione, racconta di come la sua casa fu costruita nel 1904, quando quella zona era solo aperta campagna (la linea di frontiera era stata dichiarata ufficialmente sparita solo nel 1890).

Lo stesso Haruf ha detto qualche tempo fa in un’intervista che ha «qualcosa come un legame sacro con quella parte del mondo», ed è d’altra parte evidente l’affetto con cui dipinge i suoi luoghi. Lo si vede in come preferisce il termine soapweed al posto del più comune yucca, evocando la funzione curativa di quella pianta presso i Nativi Americani, i quali dalle radici ridotte in polvere ricavavano una specie di sapone; da come sceglie il più dolce sundown e non sunset; lo si vede da come il paesaggio e il tempo atmosferico siano sempre parte integrante delle sue scene, così come i luoghi chiusi (case, taverne, supermercati, roulotte) sembrino tanto spesso luoghi di auto-isolamento per questi uomini e donne laconici e resilienti.
Fuori, a dominare sono i piani orizzontali: ed è anche per questo che nella Trilogia della Pianura si fa tanto riferimento alla luce. Quasi ogni capitolo di Benedizione ci offre un indizio che illumina la scena: «lui stava osservando il cortile laterale e l’albero e l’ombra sull’erba che si stava ritirando, il sole era più alto nel cielo» (p. 40), o «Il  cielo era ormai buio e si erano accesi i lampioni, lei pedalava avanti e indietro, da un cono di luce all’altro», (p. 130), ma ci sarebbero decine di altri esempi. E non è un caso che sia Dad Lewis sia Raymond McPheron vedano nell’aperta e piana campagna il loro luogo della pace, mentre Denver, la capitale dello Stato, non soltanto è una realtà completamente estranea e spesso incomprensibile per gli abitanti di Holt, ma è sempre foriera di una rottura degli equilibri nelle loro vite. Questi sono uomini la cui vita è plasmata dal luogo in cui vivono, al contrario di ciò che succede in altri spazi americani, che vengono continuamente ridefiniti dalle vite dei loro abitanti.
Quest’attenzione agli spazi e alle cose è stata spesso paragonata dalla critica ad altri autori che hanno riempito di significati e stratificazioni i loro luoghi: mi riferisco ovviamente a Faulkner e la sua Yoknapatawpha County in Mississippi, o la comunità di Winesburg nell’Ohio di Sherwood Anderson. Mi stupisco però che non vengano altrettanto spesso citati altri autori entrati nel canone della letteratura regionale o nazionale americana e che si sono dedicati, come Haruf, alla rappresentazione delle vite ordinarie e rurali dei loro personaggi, che sono figure incredibilmente umane e reali, poco eroicizzate. Penso a Willa Cather, o al Wright Morris del quasi-omonimo Plains Song (1981), per non tornare indietro al Hamlin Garland di Prairie Folks (1892).

Le Grandi Pianure del Nebraska dal treno California Zephyr, che corre da Chicago a San Francisco in 51 ore (foto di Elena Refraschini)

Le Grandi Pianure del Nebraska dal treno California Zephyr, che corre da Chicago a San Francisco in 51 ore (foto di Elena Refraschini)

Come forse si è capito, ho un debole per questi luoghi. Qualche anno fa, spronata da tante letture e da un’insana passione per i viaggi in treno, decisi di percorrere così gli Stati Uniti, zigzagando tra est e ovest, nord e sud attraverso quegli anacronistici bisonti che sono i treni Amtrak, l’azienda statale del trasporto ferroviario: il Coast Starlight, l’Empire Builder, il California Zephyr, il Sunset Limited, il City of New Orleans. Non vi viene voglia di saltarci su anche solo per la poesia che si srotola dai nomi delle loro linee?
A me è successo così. E quando si viaggia attraverso gli Stati Uniti in treno succedono cose molto belle. Tra le più belle c’è incontrare luoghi che chi viaggia in auto (ovvero: tutti gli altri) non vedrà mai. Cittadine nate grazie alla ferrovia e poi semi-abbandonate a causa di un’emorragia economica, campi che superano la linea dell’orizzonte, passi di montagna altrimenti inaccessibili.
E se le Grandi Pianure definiscono il paesaggio a stelle e strisce, così la vita nelle small town è la quintessenza dell’esperienza americana. Quei paeselli che non hanno come riferimento il classico grid, le “avenue”, le “street”: dove, per orientarti, ti basta trovare la Main Street, i binari della ferrovia, e la statale. Posti in cui impari a chiedere non “a quante miglia è” ma “a quante ore”. Dove le occasioni di socializzazione cittadina sono l’asta degli animali, la festa per i veterani, i fuochi d’artificio il quattro luglio. Insomma, posti come Holt.

tipica small town americana con taverna, negozio di ferramenta, piccolo bar e supermercato. Questa è Whitefish, in Montana. (foto di Elena Refraschini)

tipica small town americana con taverna, negozio di ferramenta, piccolo bar e supermercato. Questa è Whitefish, in Montana. (foto di Elena Refraschini)

Holt è in Colorado, ma potrebbe essere in qualsiasi altro stato delle Grandi Pianure: servono solo tre isolati commerciali sulla Main Street che ospitano una taverna, un piccolo alimentari, un negozio di ferramenta; la ferrovia, che separa i quartieri bene da quelli più poveri; un ristorante sulla statale, pronto a saziare con una cucina dalle poche pretese e ipercalorica le bocche affamate dei truck driver e i clienti abituali; l’ospedale, le chiese; fuori, solo aperta campagna, e qualche fattoria, i silos, il serbatoio idrico a punteggiare l’orizzonte.
Non mi stupisce aver letto, in una vecchia intervista, che l’autore aveva creato una mappa mentale di Holt in cui posizionava attentamente ogni luogo menzionato nelle sue opere. «Holt è come casa per me», aveva detto. «C’è certamente tanto da raccontare qui, sai a chi appartiene il camioncino parcheggiato là dove non dovrebbe stare, sai di chi è il cane che si è liberato dal guinzaglio, sai di chi è la bicicletta appoggiata al lampione di fronte alla panetteria. Tutte queste cose, per uno scrittore, sono importanti».
Holt è casa anche per noi, che abbiamo camminato lungo le novecento pagine della trilogia, percorrendo chilometri e decadi, e non sentiamo ancora la stanchezza nelle gambe.
È questo secondo me il regalo più bello che ci ha fatto Kent Haruf: poter voltare l’ultima pagina, ben sapendo che non ci scrolleremo più di dosso la polvere di quella terra immensa.

I  romanzi della Trilogia della Pianura di Kent Haruf sono:
Benedizione, NN editore, 2015, pp. 275, € 17
Canto della pianura, NN editore, 2015, pp. 301, € 18
Crepuscolo, NN editore, 2016, pp. 312 , € 18

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Il grande animale – Gabriele Di Fronzo

di Emanuela D’Alessio

grandeanimale«La sera che mia madre andò via, in televisione insistevo per vedere i cartoni animati, ma sul secondo canale c’era un film western».
È da questa frase, più o meno a metà dello stupefacente esordio del torinese Gabriele Di Fronzo, classe 1984, che vorrei iniziare per evidenziare lo sfuggente riferimento alla madre di Francesco Colloneve, protagonista e voce narrante de Il grande animale.
Mi è sembrata un’assenza eclatante, forse perché siamo abituati a ritenere la figura materna il perno sul quale, nostro malgrado, tutti ci avvitiamo, o forse perché è prevalso l’inconscio risentimento femminile per una storia dove la figura materna è solo effimera comparsa in una scena tutta al maschile, perché i protagonisti sono un figlio con l’anima cicatrizzata e un padre che l’improvvisa malattia ha reso fragile e vulnerabile, trasformandolo da iracondo carnefice a vittima spaurita.
Ma in questa latitanza dell’universo femminile (perché Colloneve vive isolato e rinchiuso e non mostra interesse alcuno per relazioni di qualsiasi tipo) ho trovato un’altra storia, sotterranea e inespressa, da cui ricavare un’ulteriore chiave di lettura.
È così che si procede leggendo Il grande animale, per deduzioni, in un presente pietrificato dall’annullamento delle emozioni ma disseminato di frammenti che, ricomposti, restituiscono le rappresentazione di un passato tutt’altro che indolore e con il quale si è costretti comunque a fare i conti.
Si tratta proprio di frammenti, perché è questa la cifra stilistica di Gabriele Di Fronzo, concentrato con estrema cura a sottrarre, svuotare, eliminare l’inessenziale, come lo è Colloneve con i suoi animali. Quasi a suggerirci che lo scrittore, come l’imbalsamatore, hanno in fondo lo stesso obiettivo: fissare nel tempo ciò che altrimenti scomparirebbe per sempre.
Francesco Colloneve, che di mestiere fa il tassidermista, si prodiga nel descrivere minuziosamente le fasi del suo lavoro, unica ragione di vita, indugiando nella rappresentazione asettica e chirurgica di corpi sventrati e svuotati, di pelli raschiate, di cavità lubrificate, per realizzare il sogno o l’illusione di fermare per l’eternità il trapasso della vita. Allo stesso modo descrive la manciata di giorni trascorsi ad accudire il padre malato, assecondando le intemperanze di una mente che sta svanendo, fino al disbrigo delle pratiche che ogni morte richiede.
Tutto avviene con un’anestesia emotiva sconcertante, ma dalla quale trapelano i segni indelebili di un dolore che si è insinuato inesorabile, provocato dall’assenza della madre e da un padre autoritario e anaffettivo, insensato nelle infinite crudeltà con le quali ha cresciuto il figlio.
«La collera con cui si scatenava su di me, la sua vastità, il tono roco che assumeva quando mi veniva addosso, il fracasso delle sue mani prima ancora di riceverle in faccia, la sua rabbia per accelerare le cose, perché andassi alla velocità che lui voleva corretta, nel legarmi le scarpe come nel crescere, mi rimproverava perché ero lento quando lui mi avrebbe desiderato rapido, esigeva che fossi lesto a sparecchiare e a capire come ci si dovesse comportare a scuola o a casa quando c’era un ospite».
Nefandezze subite per una vita intera che Colloneve non ha voluto o potuto rimuovere, «la mia testa tristemente piena di certi momenti, che io ricordi così dettagliatamente non è normale, avrei dovuto lasciarmi indietro queste cose, avrebbero dovuto essere già scomparse e altre avrebbero dovuto prendere il loro posto, invece come per lui anche per me c’era da sarchiarle, uno avvalendosi dell’aiuto delle mani dell’altro». Crudeltà che, al contrario, rievoca con spietata precisione, nel tentativo di recuperare, di fronte a un uomo «così ammaccato, rovistato dai malanni» un po’ di compassione e pietà, per diminuirne le colpe e convincersi che quelle forme di possesso non fossero poi granché.
Non è scontato il risultato, perché Colloneve non sembra scegliere tra odio e pietà, ma Gabriele Di Fronzo ha comunque trovato, con la sua voce inconsueta e priva di retorica, un’efficace e originale chiave di interpretazione dell’universale tema che accompagna l’umana esistenza: l’inesauribile lotta che un figlio ingaggia con il proprio padre, per liberarsi dal giogo e poi imparare a vivere l’irreversibilità della perdita.
Francesco Colloneve, mi piace pensare, porta a termine la sua lotta senza vendetta e comunque vittorioso. Ma la sua è una vittoria senza enfasi e soddisfazione, restano solo una grande stanchezza e un sollievo: «niente più spoglie che possano stormire e chiamare il mio nome quando sarà la notte».

La nostra intervista a Gabriele Di Fronzo.

Nota sull’autore
Gabriele Di Fronzo è nato a Torino nel 1984. Collabora con L’Indice dei Libri del Mese. Ha pubblicato racconti su Nuovi Argomenti e Linus.

Il grande animale
Gabriele Di Fronzo
nottetempo, 2016
pp. 161, € 12,00

A pietre rovesciate – Mauro Tetti

di Anna Castellari

A pietre rovesciate, più che un romanzo, è un viaggio nella storia ancestrale che si mescola a quella di un bambino, di un adolescente, di un ragazzo, di un adulto, e a quella di Giana “l’innamorata mia”.

La voce narrante è esattamente quella di un cantastorie, il tono favolistico riecheggia nella mente del lettore ben oltre il momento della lettura. Il suo ritmo incessante e inesorabile ricorda quello dei racconti orali, e infatti il narratore è nonna Dora, come nella migliore tradizione fiabesca.

Ciò che colpisce in questo libro è il continuo riassemblarsi delle storie antiche con quelle che vivono i due protagonisti, che abitano un luogo dal nome tanto mitico quanto evocativo: Nur, con evidenti relazioni con i nuraghi.

Il vero narratore dice ma non dice, o meglio: dice attraverso la voce di storie dal colore locale che diventano storie universali, comuni a tutti gli uomini. Il romanzo esce quindi dal semplice riportare le storie locali per diventare un veicolo consapevole del concetto che le fiabe, le più crudeli – perché le vere fiabe sono sempre crudeli, se si vuole considerarle tali, mai edulcorate – sono quelle che raccontano la verità.

Nell’introduzione alle sue Fiabe italiane, anche Calvino sostiene la verità delle fiabe. Sarebbero un «catalogo dei destini che possono darsi ad un uomo e ad una donna» durante la loro vita, «dalla nascita che sovente porta con sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano». Pur volendo classificare le fiabe, differenziarle tra loro per tipo (fiaba popolare, classica, d’autore, contemporanea) a fini meramente pratici e utili a chi le studia, la caratteristica di verità è comune a tutte, che vi siano o no elementi di fantasia, mitologici o leggendari.

E questo libro ne è la chiara dimostrazione. La crudeltà arriva dall’osservazione quasi di sguincio delle caratteristiche dell’altra protagonista, Giana, che da bambina innocente, in un paese isolato e degradato diventa una donna vittima di soprusi e violenze, sovrappeso, alcolizzata, della quale intuiamo il destino terribile a cui sta andando incontro.

Tra gli elementi stilistici possiamo reperire una certa musicalità delle parole, nella quale si può leggere però, sempre, il filo rosso della storia, senza mai perderlo realmente di vista. Non c’è vaghezza, c’è solo lo sguardo sul mondo con gli occhiali dell’infanzia, forse di un bambino che si rifugia nelle storie della storia del mondo per sfuggire a quella del presente. Ma in fondo, rifugiarsi in quelle storie non è una vera fuga, semmai è un riconoscimento delle proprie vicende in quelle di altri, è un modo di sentirsi meno solo.

Che è il fine ultimo, poi, di tutte le fiabe, che siano destinate ad adulti o a bambini: affrontare dolore, paura, risentimento attraverso una narrazione, per non sentirsi da soli con i propri momenti di difficoltà.

A-PIETRE-ROVESCIATENota sull’autore
Mauro Tetti. È nato nel 1986 e vive a Cagliari. Ha pubblicato racconti su FlaneríInchiostro e altre riviste. Nel 2011 ha vinto il Premio Masala con il monologo Adynaton. A pietre rovesciate, vincitore del Premio Gramsci per inediti, è il suo primo romanzo.

A pietre rovesciate Mauro Tetti Tunué 2016 pp. 96, €9,90.

Libri in carcere

di Emanuela D’Alessio

il-canto-del-crepuscolo«Più tardi, quella sera, gli uomini della camerata di James, tranne James stesso e Stevens, si spostano in un’altra camerata della stessa baracca per giocare a carte. Come sempre, i due se ne stanno sdraiati sulle brande, a lanciarsi in grandi chiacchierate per poi chiudersi in prolungati silenzi. È bizzarro parlare con qualcuno senza vederlo, ma James ci ha fatto l’abitudine e anzi trova rassicurante la voce profonda di Stevens che sale fino a lui dalla branda di sotto, dove l’amico è steso, appoggiato su un gomito a leggere uno dei suoi infiniti romanzi. La Croce Rossa ha inviato un altro rifornimento di libri e i prigionieri hanno attrezzato una biblioteca per i prestiti. Stevens se ne serve tutti i giorni e nonostante ormai siano arrivati a qualche migliaio di volumi, James non si stupirebbe se l’amico riuscisse a leggerli tutti entro Natale».
James e Stevens, due ufficiali inglesi fatti prigionieri dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, sono diventati amici e trascorrono le loro giornate da reclusi adottando ciascuno la propria resistenza alla comune assenza di libertà e di futuro. James si scopre scrupoloso e ossessivo osservatore di una famiglia di codirossi (uccelli dalla coda striata di rosso), Stevens legge un libro dopo l’altro, trascorrendo gran parte del tempo sdraiato sulla branda e in silenzio.

La guerra e i suoi orrori rimangono sullo sfondo in Il canto del crepuscolo, l’ultimo romanzo di Helen Humphreys, uscito per Fandango/Playground nel 2015 con la copertina di Maurizio Ceccato e la traduzione di Fabio Viola. La scrittrice canadese ha voluto privilegiare un’altra angolazione da cui osservare il carattere umano e le sue infinite modalità di reazione e di adattamento ai grandi traumi dell’esistenza. Una di queste è proprio la lettura. I libri salvano la vita, o per lo meno aiutano a renderla meno insopportabile e penosa. Viene da sorridere al pensiero che in un campo di concentramento tedesco durante la seconda guerra mondiale esistesse una biblioteca a disposizione dei prigionieri.

dentroÈ comunque una suggestione e ne richiama un’altra, quella che propone Sandro Bonvissuto in Dentro, una raccolta di tre racconti pubblicati nel 2012 per Einaudi. Nel primo, Il giardino delle arance amare, cronaca di un periodo di vita in carcere di un uomo senza identità e colpa, leggiamo: «La biblioteca stava al piano di sotto. Era una stanza con delle mensole vuote, una scrivania, pure quella vuota di ogni cosa. E una sedia. In certi giorni stabiliti, che nessuno aveva mai capito bene quali fossero, era previsto che venisse un volontario per distribuire i libri ai detenuti. Una volta, durante l’ora d’aria, mi capitò di trovare quella stanza aperta. Allora decisi di entrare per prendere un libro in prestito. Dentro c’era l’incaricato seduto alla scrivania. Forse aspettava qualcuno, o forse aspettava solamente che finisse il suo turno, per tornare a essere involontario. Mi guardai intorno cercando i libri. Sugli scaffali però c’era un solo volume. La cosa mi parve assurda, ma poi mi vennero in mente altre cose che avevo visto lì dentro molto più assurde di quella e decisi di dire all’incaricato che desideravo un libro in lettura. Quello rispose che andava bene. Allora chiesi quali libri fosse possibile avere in prestito. L’incaricato si alzò dalla scrivania; rispose che avrebbe controllato. Scorse con lo sguardo tutta la libreria come se fosse piena. E lo fece lentamente, quasi si stesse impegnando davvero a leggere i titoli sugli scaffali. Poi si girò verso di me e, costernato, disse che purtroppo era disponibile un solo libro: il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes Saavedra. Era stato donato all’istituto di pena da un ex direttore. Risposi che avrei preso quello. Lui accolse le mie parole con una punta di stupore, come se con la mia scelta avessi ignorato l’esistenza di molte altre possibilità. Chiesi allora se fossero disponibili altri libri che magari non erano lì al momento. Rispose che ci sarebbero anche stati, ma erano andati in prestito e purtroppo non avevano più fatto ritorno. Mi venne da ridere. Gli dissi che comunque avrebbero potuto anche comprarne di nuovi, ma lui replicò che non c’erano soldi a sufficienza, e i pochi a disposizione dell’amministrazione dovevano essere usati per acquistare cose più importanti per i detenuti. Feci presente che i libri dovevano essere cose molto importanti per i detenuti; se non fosse stato così, li avrebbero di certo restituiti. Perché al mondo non c’è nessuno in grado di stabilire se una cosa ha valore o meno meglio di un carcerato».

Da una biblioteca con migliaia di volumi ai tempi della seconda guerra mondiale a quella con un solo libro disponibile in un carcere contemporaneo, da Helen Humpreys a Sandro Bonvissuto il salto sarebbe vertiginoso a volerlo compiere, ma l’intento non è confrontare i due autori e le loro scritture, bensì cogliere questo comune riferimento alla funzione “terapeutica” dei libri.
Leggere per anestetizzare l’orrore della guerra e la paura della morte, leggere per ingaggiare una sfida con il tempo quando diventa improvvisamente vuoto e privo di scopo, leggere per curare la mente e lenire l’anima.

Bonvissuto_DionisiIn carcere si legge? «Dipende dalle situazioni – aveva risposto Sandro Bonvissuto durante l’incontro di Cosa si fa con un libro? del 16 gennaio – esistono carceri modello dove sono previsti percorsi di lettura e altri penitenziari dove il concetto di detenzione è fermo a qualche secolo fa».
L’associazione Antigone, che da oltre trent’anni segue la realtà carceraria italiana, redige un rapporto annuale sulle condizioni di detenzione in Italia, una fotografia abbastanza puntuale e rappresentativa dei 205 istituti di pena presenti sul territorio. Solo per fare un esempio: nel Lazio ci sono quindici penitenziari, soltanto quattro hanno una biblioteca e l’unica a risultare funzionante e rifornita regolarmente di libri (oltre 8.000 volumi) è quella del carcere femminile di Rebibbia, a Roma.

Di certo non è questa la sede per affrontare un tema abbastanza complicato come la realtà carceraria italiana, con tutte le sue drammatiche carenze e criticità. A fronte di spazi sovraffollati e condizioni di vivibilità molto spesso disumane e folli, il problema della lettura in carcere può risultare anacronistico, se non del tutto incomprensibile.
Ma si era partiti da una suggestione letteraria e, per una volta, perché non iniziare dall’immaginazione per approdare alla realtà e provare a comprenderla?

Il paradiso degli animali – David James Poissant

di Elena Refraschini

il_paradiso_degli_animaliNella raccolta di racconti Il paradiso degli animali, appena pubblicata dalla milanese NN editore, il giovane esordiente David James Poissant ci parla della natura umana, di dolore, di fede, di resilienza, di redenzione. E lo fa con uno stile lineare e misurato, scevro da facili ammiccamenti, che conquista subito, grazie anche alla resa fluida ed efficace di Gioia Guerzoni.
Il titolo viene da una poesia di James L. Dickey: «Sotto l’albero / cadono / sconfitti / si rialzano / si rimettono in cammino»: il poeta immagina l’aldilà degli animali che in vita furono prede, ed è un paradiso dove continuano a dover scappare, ma non c’è dolore.
Ha spiegato l’autore: «Non credo che si riesca mai a superare certe perdite, e commettiamo alcune crudeltà per le quali speriamo di essere perdonati, ma non ci sarà mai una vera redenzione. A dispetto di queste, non abbiamo altra scelta se non l’andare avanti, rialzarci, rimetterci in cammino».

I personaggi che animano questi sedici racconti sono tutti ritratti prima, durante o dopo il momento di rottura: antieroi intrappolati nelle loro vite imperfette, nella loro incapacità di comunicare e di chiedere perdono. Le storie sono piene di padri e figli, mariti e mogli, amici, fratelli, che inconsapevolmente feriscono chi più amano. E in ciascuna fanno capolino gli animali (un coccodrillo, una mandria di bisonti, un lupo, un gatto scomparso, uno sciame di api) che, lontani dall’essere sterile metafora, danno più spessore e significato al racconto.

Una delle storie più belle è L’Uomo lucertola, che apre la raccolta. Siamo nella Florida rurale, dove Dan e Cam stanno viaggiando per tornare a casa del padre di quest’ultimo, appena deceduto. Cam deve fare i conti con tutto ciò che non ha mai detto e che non potrà più dire al padre, violento e alcolizzato; Dan, invece, non riesce a liberarsi dal rimorso dell’aver ferito il proprio figlio, scoperto a baciare un ragazzo, scaraventandolo contro la finestra del soggiorno. Le sottotrame s’inseriscono in filigrana grazie all’uso sapiente ed equilibrato del flashback, e verso la fine del racconto siamo anche noi con i due amici quando, in una sequenza di rara drammaticità, cercano di riportare un alligatore alla libertà delle paludi: un gesto forse inutile, perché la natura è mostruosa, e perché agli uomini il perdono viene concesso con parsimonia.

Insieme all’ultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta, L’Uomo lucertola forma la coppia perfetta di fermalibri. In Il paradiso degli animali, infatti, ritroviamo lo stesso Dan, una quindicina d’anni e di rimpianti più tardi, in una disperata corsa attraverso gli Stati Uniti per salutare il figlio Jack, malato terminale di AIDS. In tutti i racconti si avverte un incredibile senso di empatia, ancora più acuto in questa coppia: perché il punto di vista è quello del padre violento, non del figlio omosessuale. «Sarebbe stato più facile scriverne dal punto di vista di Jack, ma farlo da quello di Dan era la strada più difficile, così ho capito che era la scelta giusta», ha detto l’autore.

Personaggi e grandi tematiche, dunque; ma non sono questi, almeno non all’inizio, a muovere l’autore: «Il mio ingresso in una storia è sempre grazie all’ambientazione, fin proprio a uno specifico parcheggio», ha dichiarato Poissant. «Io amo i luoghi, e cerco di essere il più fedele possibile. Quindi se i personaggi sono inventati, spesso i luoghi non lo sono: (…) vedo un certo posto nella memoria, poi vi inserisco i miei personaggi, e li seguo ovunque vogliano andare».
E se nella voce è chiara l’influenza di Carver, per il suo sense of place non si può non avvertire l’eco di grandi cantori del Sud come Flannery O’Connor e ancor più Frederick Barthelme, inarrivabile nell’uguale elevazione del brutto e del bello di questo panorama culturale.

Ero sicura che Poissant provenisse da qualche parte della Georgia, dell’Alabama, della Florida: è nato invece nello stato di New York, eppure da ogni pagina traspare il suo affetto verso questi luoghi. Ne Il paradiso degli animali c’è tutta l’America che Poissant ama, e che amo anche io, quella a cui stanno stretti i simboli per il quale è nota, e che fatica a far sentire la propria voce al di là degli stereotipi. Che la si chiami Dixie, Bible Belt, o semplicemente “il Sud”, è l’America delle villette in periferia, dei centri commerciali, delle strade sempre dritte, costellate da insegne di motel alla buona e catene di fast-food aperte tutta la notte, l’America rurale e dei piccoli paesi, dove la stella polare è il campanile bianco della più vicina chiesa battista.

David James Poissant

David James Poissant

Un’autenticità di voci e geografie culturali davvero rara, unita a un’invidiabile empatia nei confronti di personaggi con i quali non sempre vorreste trovarvi a cena: anche solo per questi motivi, fossi in voi non mi perderei questo nuovo, grande autore americano.

Nota sull’autore
David James Poissant. 
 I suoi racconti sono apparsi in diverse riviste e nella antologia Best New American Voices, e hanno vinto numerosi premi, tra cui l’Alice White Reeves della National Society of Arts & Letters. Con Il paradiso degli animali ha vinto il Florida Book Award 2014, ed è stato finalista al Los Angeles Times Book Prize e al PEN/Robert W. Bingham Prize. Docente del master in Fine Arts all’University of South Florida, nel 2015 viene nominato vincitore al New Writers Award for fiction, come in passato autori del calibro di Alice Munro e Richard Ford. Vive a Orlando (Florida) con moglie e figlie.

Il paradiso degli animali
David James Poissant,
traduzione di Gioia Guerzoni,
NN editore, 2015,
pp. 304, €17.

L’estate del cane bambino: l’ultima estate da bambini (1)

copertinadi Emanuela D’Alessio

L’estate del titolo è quella del 1961 e tutto si svolge a Brondolo (sono andata a controllare che non fosse un nome di fantasia!) sul Brenta, vicino Chioggia. Ci troviamo nella provincia veneta di cinquant’anni fa, ma sembra essere precipitati in un medioevo morale e culturale, indifferente agli attacchi del tempo e della Storia. Mi sono ripetuta spesso, tra una pagina e l’altra, che in fondo stavo leggendo una storia di fantasia anche se tremendamente realistica. Eppure non faccio fatica a credere che di luoghi come Brondolo, a prescindere dalle vicende del romanzo, sia piena l’Italia, ancora oggi.

L’estate del cane bambino, l’esordio letterario di Mario Pistacchio e Laura Toffanello, «scriviamo insieme, siamo una coppia, ci siamo incontrati a Torino quasi dieci anni fa e non ci siamo più lasciati», è una storia intrisa di emozioni dense, tenute a bada sotto una coltre di silenzio o liberate in modo violento e primitivo. Una storia di dolore e vendetta, di colpe taciute e mai rimosse, di speranze interrotte e sogni infranti, una storia sull’ineluttabilità della perdita.

«Menego aveva quattordici anni, io, Michele e Ercole dodici, Stalino quasi, e il cane nero chissà. Era l’estate del 1961. Il nostro mondo di allora era fatto di morti che resuscitavano per uccidere pescatori ingrati, di velieri portatori di peste, topi e vampiri, di nuvole combattenti e cavalieri inesistenti. Era un tempo in cui le leggende erano vere, e se qualcuno ci avesse detto che non era possibile che un bambino si trasformasse in cane, ci saremmo stretti nelle spalle, infischiandocene».

In queste poche righe di introduzione c’è il succo del racconto di Vittorio Boscolo, voce narrante e protagonista, insieme ai suoi amici, di quell’estate del 1961 in cui andarono perdute molte cose, prime fra tutte l’innocenza e la libertà dei sogni.
Nel 1961 gli autori non erano ancora nati, Mario Pistacchio è di Cerignola e Laura Toffanello di Torino. Perché quindi una storia con questi riferimenti temporali e spaziali?
«Perché cercavamo l’istante limite, quello che separa la banalità dall’irreparabile. È in quel momento che il sistema si rivela per quello che è e va in crisi, abbassa la guardia, mostra il suo lato più vulnerabile. Ed è esattamente lì che bisogna colpirlo».

Toffanello_PistacchioE cercando quell’istante Pistacchio e Toffanello hanno scritto una storia sull’arretratezza culturale ed economica dell’Italia rurale e arcaica degli anni Sessanta. Omertà e violenza, ignoranza e intolleranza sembrano le caratteristiche dominanti degli abitanti di Brondolo, grigi e silenziosi, induriti dalla terra e incapaci di esprimere sentimenti. È anche una storia sull’amicizia e sulla sua trasformazione, sulla perdita dell’innocenza e dei sogni, sull’ineluttabilità e la possibilità di riscatto, sulla menzogna e la forza della verità. È una storia, infine, di terribili abusi e violenze di un padre sui figli.
Nonostante sia tutto questo, il libro di Pistacchio e Toffanello è anche una fiaba, ma di quelle nerissime dove il lieto fine non è scontato. Leggendo L’estate del cane bambino si resta quasi sempre in bilico tra mistero, magia e realtà, immersi in un’atmosfera di leggende d’altri tempi, tra cani neri e uomini con le corna.

Di interpretazioni se ne possono trovare molte altre perché, come dicono gli autori, «ognuno può leggere quello che vuole. Per esempio che non c’è giustizia a questo mondo per i deboli e gli indifesi, siano bambini o cani. Oppure che là fuori è ancora pieno di ghetti, di prigioni, di posti che annullano la vita e cancellano l’identità, nei quali si entra e forse non si esce più. Che ogni uomo è una storia e ci sono storie troppo dure per riuscire a raccontarle, eppure sono proprio quelle le storie vere, quelle che hanno lo splendore dei naufragi e il coraggio dei naufraghi. Franco Basaglia ha scardinato i cancelli dei manicomi, cancellando un sistema fatto di oppressione, ignoranza e violenza, ma il drago non è morto, rinasce sotto altre forme tutte le volte. Il diavolo cammina in mezzo a noi, anche nel giardino più curato».

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Ho chiuso il libro di Pistacchio e Toffanello con il cuore gonfio e la mente in affanno, tentando di ricordare quando e come mi fossi trasformata mio malgrado in adulta. Non mi è venuto in mente nulla di preciso, quindi, ho pensato con sollievo, si può diventare adulti anche senza accorgersene e per questo essere in salvo.

L’estate del cane bambino
Mario Pistacchio e Laura Toffanello
66thand2nd, 2014
pp. 218, € 16