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Un romanzo travestito da autobiografia – Intervista a Giulia Caminito

di Emanuela D’Alessio

Giulia Caminito, trentatreenne romana giunta al suo terzo romanzo in cinque anni, ha scritto una storia dolorosa, tagliente, aspra. Una storia in prima persona e al presente, sullo sfondo e in sottofondo il lago di Bracciano e Anguillara Sabazia, perché «sono cresciuta lì e ho un rapporto viscerale con il lago e con il paese, dove ho conosciuto le persone più importanti della mia vita».
Però L’acqua del lago non è mai dolce non è una biografia, un’autobiografia o un’autofiction, avverte l’autrice. È un romanzo che assorbe, digerisce e restituisce brandelli di vita reale, non importa di chi, perché il vuoto ordinario dell’adolescenza, la lotta quotidiana per la sopravvivenza, le discriminazioni imposte dal censo e dal pregiudizio, la distanza siderale tra città e provincia, la ricerca di un “posto” nel mondo o la rinuncia, sono temi universali.

Con voce incalzante, scandita, stentorea, inequivocabile Caminito ci porta in riva al lago, l’acqua immobile e torbida, sul fondo solo fango, alghe, vetri rotti e leggende, in superficie tutto quello che riguarda la vita di una bambina che si fa donna: promesse tradite, amori consumati e perduti, desideri mancati. Affida la parola a Gaia, voce narrante, che studia con ostinazione e furore perché così vuole sua madre, che legge molti libri, frequenta «il liceo classico dei ricchi», si laurea in filosofia, ma resta sempre «donna spezzata e opaca, quella che si rinfrange sulla superficie e la vedi sempre a metà». Che ci racconta di Antonia, la madre, una vera combattente, un’Enea al femminile che porta in salvo sulle spalle una famiglia intera, da quando il marito si è spezzato le gambe in cantiere. Antonia lavora, organizza, pulisce, impartisce, accudisce, punisce, decide, concede, toglie, non si arrende. Che ci parla, ancora, di tutto il resto, le “voci” del paese e i muri scrostati della scuola, le feste di capodanno e di compleanno, capelli e pesci rossi, cinghiali e cigni, incendi appiccati e fari spenti nella notte.
Una storia che si aggroviglia e si dipana con scrittura essenziale ed efficace, che lascia sotto la superficie ciò di cui si nutre, che non concede pause né infingimenti.

Giulia Caminito. Foto profilo Facebook

Sei nata a Roma, hai trentatré anni, hai una laurea in filosofia politica, fai l’editor, il tuo primo libro è uscito nel 2016. Che cosa puoi aggiungere a questa breve presentazione?
Sono per le biografie brevi quindi mi sembra giusto così.

A cinque anni dal tuo esordio letterario hai già all’attivo tre romanzi e una raccolta di racconti. Scrivi libri per necessità, vocazione, casualità?
Scrivo molto, troppo, per tante ragioni, i tre romanzi però sono nati proprio da una mia forte voglia di raccontare quelle storie, non so se si possa dire vocazione, certo casualità a volte perché certe intuizioni su quello che scriverai arrivano per caso e poi inizi a coltivarle e nutrirle. Necessità probabilmente sì, sia perché è l’unica cosa che riempie la mia vita (scrivere, leggere, occuparmi di libri), sia perché certe volte sento le mani prudere e devo scrivere le idee che girano per la testa, anche solo per ricordarle. Scrivo moltissimi appunti, dialoghi, citazioni, sogni, scalette, liste, tracce e poi le tengo lì in attesa di un inizio o semplicemente a riempire la mia soffitta di scritture possibili.

La forma racconto è in genere quella prescelta per mettersi alla prova e farsi conoscere. C’è chi, a torto, considera il racconto una forma di scrittura meno impegnativa del romanzo, più semplice da gestire. Tra racconto e romanzo qual è, se esiste una preferenza, il genere a te più congeniale?
Mi piacciono entrambi i generi, i racconti per me sono un luogo di sperimentazione sia linguistica sia tematica, amo scriverli, sono più diretti e meno mediati dal progetto, mentre i romanzi sono più faticosi, impegnativi, prevedono un grande sforzo per focalizzarsi sulla storia scelta, sulla sua organizzazione, sul tipo di scrittura, sull’omogeneità e molti altri fattori.
Come lettrice ai miei occhi sono equivalenti e come autrice entrambi mi danno soddisfazioni diverse in corso di stesura. Amo molto anche le forme ancora più brevi come gli epistolari, le raccolte di frammenti o appunti, la poesia. Uno dei miei libri preferiti di sempre è Passages di Walter Benjamin, essenzialmente tantissimi appunti raccolti su vari argomenti in funzione di un libro che non è mai stato scritto.

In merito al modo in cui scrivi hai spiegato che rileggi molte volte la prima stesura, anche ad alta voce. Questo particolare mi riporta alla tua esperienza di editor e giurata nel famoso concorso letterario 8×8 organizzato da Oblique Studio, dove viene valutata anche la resa “vocale” del racconto. L’incontro con 8×8 ha influenzato la tua “voce” di scrittrice e, in caso affermativo, come?
Non ci ho mai pensato, è un concorso che mi piace molto perché mi ha permesso di incontrare autori e autrici giovani con cui sono rimasta in contatto negli anni. Con una di loro, Martina Tiberti, sono diventata amica e ha scritto la drammaturgia di una mia raccolta di racconti, anni dopo la serata del concorso. Leggere ad alta voce a me serve non per considerare l’interpretazione, come accade nel concorso, ma per capire il ritmo, le pause, gli errori possibili. Leggendo ad alta voce ci rendiamo conto delle mancanze di fiati, delle lungaggini, dei periodi che non girano bene, per questo se voglio controllare qualcosa che ho scritto oltre a leggerlo su vari schermi e stampato, lo leggo ad alta voce.

La tua “voce”, leggendo questo romanzo, è incalzante, scandita, stentorea, inequivocabile. Si traduce in una scrittura essenziale, efficace, a tratti tagliente, che lascia sotto la superficie ciò di cui si nutre. Insomma, la tua scrittura è come l’acqua del lago che, tra l’altro, non è mai dolce. Da dove nasce tutto questo?
Nasce da alcuni anni di lavoro sullo stile, volevo infatti creare un mio linguaggio riconoscibile in questo nuovo romanzo. Credo infatti di amare, come lettrice, due tipi di scrittura: o quella piana, elegante delle bellissime descrizioni esterne e interne, dei riferimenti letterari adatti e delle narrazioni a tutto tondo; oppure mi piace trovare una lingua peculiare nei libri, una impronta. Io di natura non sono portata al primo tipo di scrittura, ma da sempre mi sento più vicina alla seconda, tendo infatti a condensare, accumulare, listare mentre scrivo. Sono pochi i campi lunghi nella mia scrittura, molte invece le insistenze sull’uso del vocabolario e sui dettagli. Credo faccia parte proprio di me e di come mi viene di parlare del mondo sulla pagina scritta, quindi cerco di elaborare sempre di più questo mio stile in modo che sia adatto secondo me al romanzo che in quel momento sto scrivendo. Qui mi serviva un io carico, giudicante, tragico, deciso, e su quello ho lavorato con la scrittura e lo stile.

Anguillara Sabazia. Foto di Alessio Trerotoli Photographer (2013)

Nella nota conclusiva di L’acqua del lago non è mai dolce hai scritto che la storia «non è una biografia, né un’autobiografia, né un’autofiction». Puoi spiegarci meglio come è stata la gestazione del libro, come è nato l’incontro con l’editore e tutto quello che è accaduto fino alla pubblicazione?
L’incontro con l’editore è avvenuto anni fa, nel 2014 circa, quando ho iniziato a lavorare a un progetto web per Giunti. Intanto avevo cominciato già da qualche anno a scrivere La Grande A e a metà stesura lo mandai in casa editrice per un parere, loro mi dissero che erano interessati, quindi io finii e da lì iniziammo l’iter per la pubblicazione. Sono rimasta sempre nello stesso gruppo editoriale, ma quando Giunti ha comprato Bompiani, il direttore editoriale Antonio Franchini mi ha spostata in Bompiani perché stavano riorganizzando le linee editoriali. E così sono arrivati gli altri due libri con Bompiani.
L’acqua del lago non è mai dolce è nato dopo due romanzi storici con la voglia di cambiare genere, buttarmi nel contemporaneo, provare a raccontare tutto in prima persona e travestire da autobiografia un romanzo che attraversasse temi di cui volevo parlare come il consumismo, la nuova povertà e la violenza giovanile. La nota è stata necessaria perché i riferimenti ai luoghi sono molto precisi e alcune parti della mia vita fanno da base alla narrazione, era importante quindi definire i confini e ribadire la mia voglia di costruire un io-romanzo e non un io-confessione.

Il primo protagonista del libro è il lago, quello di Bracciano, di fronte al quale si susseguono, tra la fine degli anni ’90 e la prima decade del 2000, accadimenti e accidenti dei vari personaggi. Le sue acque sono immobili e torbide, sul fondo giacciono fango, alghe, vetri rotti e leggende, ma su tutto incombe una menzogna. L’acqua del lago non è dolce, non lo è mai, come ci avverte il titolo, «ha il sapore della benzina, quando avvicini l’accendino prende fuoco». Un’immagine, tra le tante, che hai utilizzato per sparigliare gli stereotipi con cui siamo abituati a decrittare l’esistenza. Perché hai scelto il lago di Bracciano e Anguillara Sabazia a fare da sfondo e sottofondo alla tua storia?
Li ho scelti perché sono cresciuta lì e ho un rapporto viscerale con il lago e con il paese, dove ho conosciuto le persone più importanti della mia vita. Mi serviva uno scenario molto noto, che fosse per me attraversabile e sondabile in profondità, volevo che non fosse uno sfondo, ma una creatura tra le altre, che avesse una identità. Sapevo che prima o poi avrei scritto qualcosa sul lago, perché mi è troppo caro e famigliare, però non ero sicura lo avrei fatto in questo modo e adesso. Semplicemente quando ho iniziato ho capito che volevo provarci e mi sono tuffata.

Foto profilo Instagram di Giulia Caminito

Un’altra grande menzogna che il tuo romanzo sembra smascherare è quella sull’effetto riparatore della “cultura”. Viene frantumata l’idea che la conoscenza, lo studio, i libri siano gli unici antidoti agli effetti letali di un’esistenza indigente, priva di mezzi e opportunità. Gaia, protagonista e voce narrante, studia con ostinazione e furore perché così vuole sua madre, Antonia la rossa. Legge molti libri, frequenta «il liceo classico dei ricchi», si laurea in filosofia. Eppure, tutti gli strumenti culturali conquistati non le servono a molto. Gaia non si emancipa dalla povertà, dal dominio materiale e psicologico della madre, dall’incedere annoiato del paese, dall’immobilità limacciosa del lago che diventa attrazione quasi fatale. Di che cosa si tratta?
L’idea del libro è quella di porre l’interrogativo sulla possibilità che questa emancipazione sia diventata una chimera per molte e molti. È sempre più evidente infatti che i settori culturali e creativi sono meno disposti a pagare i neolaureati e i più giovani per lavorare. La conseguenza è che chi ha una famiglia in grado di sostenerlo riesce ad andare avanti, chi come la mia protagonista non ce l’ha deve abbandonare. Credo sia una realtà di fatto, che sta rendendo i lavori legati agli studi umanistici sempre più elitari, quando invece nel dopoguerra questa occupazione si era allargata. Era ancora possibile infatti per mia madre, figlia di un bigliettaio dell’Atac di Roma, riuscire a laurearsi in Lettere ed entrare nel sistema bibliotecario. Oggi tra i bandi pubblici bloccati, le aziende del settore sovraffollate, gli stages infiniti, la precarietà prolungata, l’editoria e il giornalismo (per fare due esempi) sono diventati nuovamente accessibili a pochi.

Lo smantellamento dell’assioma materno «se non studi non sei nessuno» trova piena attuazione nel fratello di Gaia, quel Mariano che a diciotto anni parte per il G8 di Genova contro il volere furioso di sua madre, fa l’anarchico, non studia e si sottrae. Eppure lo ritroviamo trasformato in adulto, capace di fare esattamente ciò che era necessario e risolutivo. Anche l’amico Cristiano manda in frantumi lo stereotipo. Lui che «reagisce al mondo e ai suoi affronti con freddezza, se c’è da fare lui fa», non importa se si tratta di svaligiare una casa di ricchi, di appiccare un incendio, di cacciare di frodo un cinghiale, di guidare a fari spenti sulla Braccianese o di contenere l’ira funesta di Gaia. Anche Cristiano ha completato la costruzione di sé e senza particolari supporti. Perché Gaia non ci riesce?
Mariano partecipa a una visione collettiva, politica del mondo e questo lo rende abitato da idee, visioni, lotte, sguardi. Cristiano vive coi piedi nel terreno dove è cresciuto, quello che vuole è portare avanti le tradizioni di famiglia, l’eredità feroce, contadina, sincera del paese, del suo lato più scuro, forse, ma anche più vero, autentico, vivo. Gaia si affanna sempre per le cose che non possiede, per le mode che non può seguire, per le persone che non la amano abbastanza, ma non racconta mai al lettore in cosa crede. Non credere è una grande maledizione secondo me. Ho affrontato il tema delle credenze in Un giorno verrà portando nella stessa storia la fede politica e la fede religiosa per parlare di quelle vite che si sono date uno scopo superiore rispetto alla propria affermazione individuale.

Per proseguire la ricerca di antinomie, il personaggio di Antonia la rossa (chiamata così per i suoi lunghi e fiammanti capelli) mi sembra quello più emblematico. È una vera combattente, un’Enea al femminile che porta in salvo sulle spalle una famiglia intera, da quando il marito si è spezzato le gambe in cantiere. Lei lavora, organizza, pulisce, impartisce, accudisce, punisce, decide, concede, toglie. La sua forza ha del sovrumano, la sua ostinazione la rende invincibile. Ma in questa frenetica lotta per la sopravvivenza quotidiana risultano banditi i sentimenti e ancor prima le parole. Fra Antonia, suo marito, i suoi figli, non circolano parole ma silenzi carichi di solitudine, oppure litigi furibondi. C’è un doloroso analfabetismo emotivo in questa famiglia così provata e indigente, ma non risulta che quelle più agiate – ce le fai incrociare di sfuggita –  siano più attrezzate. Nessuno dei tuoi personaggi sembra capace di sorridere. Non c’è più spazio per una sospensione del dolore in questo mondo sgangherato e ferito?
C’è sicuramente spazio e in realtà nella lettura spero traspaia spesso anche una certa ironia, un sarcasmo strisciante. Il libro è volutamente caricato di alcuni sentimenti e li mette a tema, ma non esaurisce le esperienze del mondo reale, neanche quelle simili a Gaia e a sua madre. Il romanzo esaspera certe dinamiche per rendere più forte l’impatto e i pensieri che potrebbe generare.

Giulia Caminito. Foto profilo Instagram

Con due genitori bibliotecari è probabile che tu abbia avuto un accesso agevolato alla lettura. Parlando del tuo patrimonio letterario accumulato, puoi citare qualche titolo che ha avuto un impatto veramente significativo per la tua esperienza di lettrice e perché?
I tre libri che di solito nomino sono: L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers, La morte e la primavera di Mercé Rodoreda e Mio padre la rivoluzione di Davide Orecchio. Tre libri che non c’entrano nulla l’uno con l’altro, ma da ognuno ho imparato qualcosa nel corso della mia vita adulta sulla scrittura, sulla libertà, sullo stile, sui mondi possibili, sulla creatività e la bizzarria.

Concludo con la nostra domanda di rito. Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
In questo momento sto per finire Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti e ho solo iniziato Dopo la pioggia di Chiara Mezzalama.

Giulia Caminito è nata a Roma nel 1988 e si è laureata in Filosofia politica. Oggi vive a Roma e lavora nell’editoria. Ha esordito nel 2016 con il romanzo La grande A (Giunti), vincitore del premio Bagutta opera prima e il premio Berto opera prima. Nel 2017 ha pubblicato la breve raccolta di racconti Guardavamo gli altri ballare il tango (Elliot) e nel 2019 Un giorno verrà (Bompiani), vincitore del Premio Fiesole Under 40). L’acqua del lago non è mai dolce è il suo terzo romanzo.

Otto anni nei boschi narrativi #7 Alcide Pierantozzi

Titolo?
Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
Introduzione?
Leonardo G. Luccone
Editore?
Via dei Serpenti
Uscita?
Settembre 2019

Di Alcide Pierantozzi, caso editoriale nel 2006 con Uno in diviso per Hacca, non ci limitiamo a un assaggio. Pubblichiamo integralmente la sua nuova intervista a Via dei Serpenti che troverete, insieme alla precedente (luglio 2015), in Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti.

Il tuo ultimo libro, Tutte le strade portano a noi, è uscito nel 2015. Da allora, quando dicevi: «Credo che sia arrivato il momento di cominciare a scrivere sul serio», che cosa è successo al Pierantozzi scrittore?
Gli ultimi quattro anni non sono stati facili per me, sono successe molte cose, molti eventi della vita che mi hanno scosso e cambiato. Ho perso i miei nonni, con i quali sono cresciuto, e sono andato più di una volta in crisi con la scrittura. Per molto tempo sono rimasto impantanato su un libro piuttosto difficile, sul disastro di Chernobyl, nella convinzione che fosse il «mio» libro – e tale è rimasto, in un certo senso, perché ci lavoro continuamente. Quando però sembrava che non riuscissi a scrivere altro, è arrivata Bompiani, nella persona dello scrittore e consulente Alessandro Mari. Con lui, e poi con Beatrice Masini, è nata l’idea di un nuovo romanzo, molto diverso dai miei precedenti (anche se, forse, li riecheggia tutti). Ci ho lavorato per un anno, con grande ispirazione.

Dopo il caso editoriale di Uno in diviso, che nel bene e nel male suscitò molto scalpore, hai continuato a scatenare forti reazioni, perché i tuoi libri sono «senza confini di stile», disorientano il lettore, lo costringono a nuotare in un mare aperto e agitato, tra ossessioni e interrogativi complessi e scomodi sull’esistenza. Se, come sembra evidente, lo scopo della tua scrittura non è compiacere il lettore e probabilmente nemmeno l’editore, puoi provare a spiegarci il percorso della tua ricerca letteraria e, nel caso esista, il suo obiettivo?
Compiacere il lettore no, ma stupirlo sì. Sempre. Lo stupore conta parecchio in un libro, o in un film, o in un discorso. Ogni scoperta scientifica si fonda sullo stupore. Il «thauma» di Aristotele non è la meraviglia, è lo stupore. Se non vuoi stupire, non fai Titanic, non scrivi la Divina Commedia, e soprattutto non fai la rivoluzione. Il punto è che lo stupore non puoi suscitarlo a tavolino, non è fatto di trucchi, non viene da noi ma siamo noi a doverlo accogliere; a volte è un luogo specifico della nostra memoria da cui attingere, è il nostro sé più lontano, è un giro di accordi di una canzone. Io il lettore lo devo stravolgere, capovolgere, devo metterlo in discussione da cima a fondo. Lo stupore è il mezzo per l’unico obiettivo che ho di fronte: il contenuto della materia che sto affrontando, e come riuscire a esplicitarlo al meglio per farlo arrivare a chi mi legge.

Alla domanda sul perché della tua scrittura avevi risposto che scrivi «per imparare a morire». Sei appassionato, tra le altre cose, di horror, perché è l’unico genere ad avere impostato un discorso sulla morte. A che punto sei con il tuo personale discorso al riguardo?
Appena finito di scrivere L’inconveniente di essere amati ho cominciato a lavorare a un progetto diciamo «quasi horror», che dovrebbe essere il mio nuovo libro. E il titolo del file Word è, non a caso, entrarenellamorte.doc. Il cinema dell’orrore è una mia grande passione, che si rinnova ogni volta che vedo film come Hereditary – Le radici del male, o Noi, o Suspiria di Guadagnino.
Più che un genere, credo che l’horror sia, per qualsiasi artista, una specie di miniera di pepite d’oro in grado di accendere la fantasia di chi se ne lascia ispirare, perché la paura e la fantasia sono migliori amiche. I film horror sanno fare il loro sporco lavoro meglio della maggior parte degli psicanalisti, sono come i cristalli di Sturgeon, che sognano. Gli Urania sono libri che sognano. E quello che sognano genera altre immagini, altre storie. Che a loro volta sognano rigenerando altre immagini, altre storie… Michele Mari, in Tu, sanguinosa infanzia, dedica pagine indimenticabili a questo discorso.

Prima ho parlato di ossessioni, i tuoi libri sono densi di simbologie che le rappresentano. Provi ad analizzare la tua narrazione con la lente di ciò che ti ossessiona?
È difficile per me dire la verità su questo punto, perché io non credo affatto che la mia scrittura sia il risultato delle mie esperienze di vita e culturali, quindi di una mia certa idea del mondo. Non credo nemmeno di scrivere per mettere meglio a fuoco le cose, perché pensiero profondo e scrittura per me sono distinti, bicameralmente separati.
Io vengo continuamente visitato da immagini, che quando non spariscono si ripresentano sempre più ricche di dettagli, come le onde quando montano e fanno sempre più la spuma, e da lì parto per un viaggio di cui all’inizio non so niente, non mi interessa sapere niente. Nel tempo mi sono accorto che tutte le volte che ho provato a razionalizzare uscendo da questo esercizio di canalizzazione, i risultati non erano buoni, le parole fingevano, sembravano facce truccate male. Le parole sono molto brave a fingere.
Così come non è detto che un ragazzo carino sia l’uomo della tua vita, non è detto che una certa parola sia quella giusta. Allora come si fa a sapere qual è quella giusta? Si aspetta, si sente. Aspettare di sentire qualcosa di diverso, qualcosa che non sia una cosa tra le cose, è quello che faccio io, ogni giorno, è il mio mestiere. Non faccio altro che immaginare, sognare, di continuo. Ogni tanto sento una mano sulla spalla, è come se mi dicesse: «Ecco, è questo quello che cercavi». Se rispetto il volere di questa mano, allora la parola che ho scelto, o l’immagine sulla quale mi sono concentrato, è quella giusta. Giusta perché mi rispecchia, mi permette di capire un po’ meglio chi sono attraverso di lei.

Sul numero di dicembre 2018 della rivista «Nuovi Argomenti» è uscito un estratto del tuo nuovo romanzo, L’inconveniente di essere amati, che sarà pubblicato da Bompiani nel 2019. È una storia d’amore impossibile fra un uomo e una donna e nello scriverla sei partito dalla considerazione che forse nessun amore è impossibile sulla Terra. Senza scendere troppo nei particolari, che cosa puoi aggiungere a questa scarna presentazione?
Come dicevo prima, è un libro diverso dai miei precedenti. È una storia d’amore molto contemporanea, anche se ambientata in un paese immaginario di nome Calanchi a confine tra Marche e Abruzzo. Il protagonista, Paride Negri, è un cantautore trentenne che dopo una discreta fama è finito nel dimenticatoio. Lasciata Milano per tornare in Abruzzo, dopo aver troncato con il suo compagno, si trasferisce nella vecchia casa dei nonni morti. Al piano di sopra vive suo zio con la moglie Sonia, che Paride non ha mai conosciuto, e il cuginetto di cinque anni. L’incontro con questa donna e con questo bambino cambierà per sempre la sua vita costringendolo a mettere in discussione ogni cosa, obiettivi, bisogni, sogni e sensi di colpa.

Il cinema è tra le tue grandi passioni, sia come fruitore, sia come autore di sceneggiature. L’ultimo tuo libro sembra ispirato e dedicato a Bernardo Bertolucci. In che modo la tua scrittura cinematografica e la sua traduzione in immagini contaminano la tua scrittura letteraria, o viceversa?
Quando andavo al liceo mia madre un giorno tornò a casa e mi disse «dobbiamo vedere La luna di Bertolucci», uno dei suoi film più duri. Ricordo che fui molto colpito da come questo regista usava le tende o da come fotografava i cancelli. Io venivo da una forte e precoce passione per Pasolini e per il cinema horror, soprattutto Dario Argento, perciò ero abituato ad attori con poche sfumature facciali, piuttosto bidimensionali. Nei film di Bertolucci agli attori succedeva qualcosa di diverso, lui si muoveva tantissimo con la cinepresa attorno a loro, attorno agli oggetti, era come se stesse sempre rincorrendo qualcosa. Era come Proust, o forse come suo padre Attilio quando ha scritto il capolavoro La camera da letto. Dopo La luna mi immersi in tutto il suo cinema, io e una mia amica avremmo visto The dreamers in sala almeno dieci volte, a casa lei fingeva di essere la Venere di Milo come Eva Green. E poi Ultimo tango a Parigi, ricordo ancora il pomeriggio in cui l’ho visto, il senso di poetico disgusto che provai, speculare alle sensazioni che avevo provato vedendo Salò di Pasolini. Poi, dopo l’uscita del mio primo romanzo, il tempo di dedicarmi al cinema è stato poco, soprattutto è stato poco il tempo per studiare quelle formule di scrittura tipiche del cinema che avrebbero potuto servirmi per scrivere meglio, per costruire meglio una storia, perché a vent’anni c’erano ancora tanti libri fondamentali – Dostoevskij, Flaubert, Carver – che non avevo mai letto, e se uno vuole fare lo scrittore deve leggerli.
Nel 2015 la mia amica Monica Stambrini mi portò a cena da lui, nella sua magnifica casa di Viale Giulia a Roma, ignara dell’enormità del suo dono. Mi comprai un cappello di paglia a Trastevere quel giorno, mi presentai da lui in veste di contadinello abruzzese. Lo trovai di fronte a un maxischermo a parete, semidisteso su una poltrona reclinabile accanto al grande divano di casa, circondato di libri, la sigaretta che in bocca a lui sembrava fuori contesto, perché Bernardo, per quel poco che l’ho conosciuto io, per quelle poche serate, era davvero un bambino. Un bambino magico, dall’aura a volte luciferina, coltissimo, spudorato. La prima volta si divertì molto a interrogarmi, se avevo letto questo o quel libro, se conoscessi quel certo mediometraggio tedesco degli anni Trenta. Oppure, con il supporto della sua amica Patrizia Cavalli, si metteva a recitare dei versi a casaccio e chiedeva agli ospiti di chi fossero. Al vincitore veniva riservato il riverbero soddisfatto dei suoi occhi, l’allegria malinconica di cui solo lui era capace. Una sera mi chiamò in disparte, chiedendomi di spingere la carrozzella in fondo al corridoio, e mi disse: «Keep smiling, ricordatelo sempre Alcide». Vedi, ora ad esempio è successa una cosa strana, perché il computer ha trasformato keep smiling in keep smoking. Dev’essere un suo messaggio, visto che lui, che ha sempre girato in pellicola, amava fumare sul set così da rendere più denso lo spessore della luce.

Tra i tuoi riferimenti letterari e culturali spiccano Pier Paolo Pasolini, Emanuele Severino, W.S. Burroughs, Fëdor Dostoevskij. Lascio a te aggiungerne altri e spiegarci, se possibile, che cosa di ciascuno ha lasciato un segno.
Sono tanti, ho avuto una forte passione almeno per cinquanta scrittori. Poi, però, bisogna stare attenti alle proprie passioni, perché tu puoi amare alla follia Patrick Modiano – faccio davvero un esempio a caso – o la filosofia di Spinoza, o i thriller di Vargas. Ma la crescita culturale e psicologica di un autore non va di pari passo con la lista dei libri letti su Anobii, se funzionasse così ogni singolo studioso di sant’Anselmo d’Aosta, ogni bibliotecario, ogni laureando in Lettere, sarebbe più titolato di Arthur Rimbaud a scrivere qualcosa. Bisogna leggere, certo, e tanto, procedendo secondo una dialettica negativa che ci consenta di accantonare per sempre il loglio. Dobbiamo augurarci una vecchiaia circondata di grano.

In una delle poche interviste che hai rilasciato negli ultimi anni hai parlato del tuo vero desiderio: andare a vivere in Texas per sempre. Vivi tra Milano e l’Abruzzo, hai ambientato i tuoi libri in paesi remoti, idealmente e geograficamente. Dalla provincia marchigiana al Texas, passando per l’Albania: dove finisce la realtà e inizia la metafora?
Io non ci credo nella realtà. Non ci credo talmente tanto che anche se quando faccio questi discorsi mi considerano pazzo, preferisco essere considerato pazzo ma continuare a farli. Mettiamola così: mi dicono che sono nato, trentacinque anni fa, a San Benedetto del Tronto. Io però non me lo ricordo. Me l’hanno detto gli altri, okay, e ho visto nascere altra gente. Purtroppo non basta, perché io, di me, non me lo ricordo. Che io non me lo ricordi è una cosa irreale. Io ricordo un paesaggio, la mia bisnonna che affilava i coltelli, i calanchi d’Abruzzo sopra casa mia, il pane con l’olio di mia nonna, l’amore per i cani, io so di appartenere a questo paesaggio, e allora lo cerco, e le storie che racconto possono avvenire solo dentro questo paesaggio certo, assodato dentro di me. Ecco, credo che la realtà sia una grande metafora, un grande indizio di questo paesaggio.

Com’è il tuo sguardo sul futuro e che cosa puoi dirci dei tuoi prossimi progetti?
Bisognerebbe chiederlo al futuro, quale sia il suo sguardo su di me. Cosa fanno i miei prossimi progetti mentre aspettano che io mi avvicini a loro, che io oltrepassi questi anni così pieni, folli e tristi?

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Le poesie di Milo De Angelis.

 

I consigli dei Serpenti per l’estate 2017: Pierluigi Lucadei

Pierluigi Lucadei, l’autore della nostra rubrica Musica per camaleonti, consiglia:

Lars Gustafsson – Il pomeriggio di un piastrellista (Iperborea)
Uno dei migliori romanzi dello svedese Lars Gustafsson ripubblicato da Iperborea nella nuova collana Luci, Il pomeriggio di un piastrellista è un romanzo dalla trama esile, ma dai tanti significati nascosti sotto la superficie della prosa misurata e dell’assenza di qualità del suo protagonista.  Un romanzo che si svolge in un solo giorno, ambientato nella casa sbagliata al momento sbagliato, sottilmente perturbante, splendidamente indefinito.

Edith Pearlman – Intima apparenza (Bompiani)
Storie di periferia con la capacità di far entrare il lettore nelle invisibili crepe del quotidiano, in quel regno di sofferenza, silenzio, crudeltà ma anche di inattesa gioia che si cela immancabilmente dietro le tende di una casa piccolo borghese. A scriverle sotto forma di raffinati racconti è Edith Pearlman, coetanea di Alice Munro e Edna O’Brien e come loro maestra della preziosa e necessaria arte dello scrivere breve.

Arthur Ashe – Giorni di grazia (add)
Per chi ama gli eroi del tennis e le autobiografie poco convenzionali o celebrative, Giorni di grazia, scritta con il giornalista Arnold Rampersad e completata solo una settimana prima di morire a 49 anni a causa dell’AIDS, racconta l’uomo Arthur Ashe e solo marginalmente il campione. Primo tennista di colore a conquistare un torneo del Grande Slam e a indossare la maglia della nazionale statunitense in Davis, Ashe fu un instancabile attivista per i diritti civili, amico di Nelson Mandela, persona dai modi gentili e uno dei più acuti intellettuali mai prestati al mondo dello sport.

#1 – Dylan e i dissidenti del Greenwich Village

MUSICA PER CAMALEONTI – Rubrica dedicata ai suoni della letteratura
Con la nuova rubrica, che prende il nome da un’opera di Truman Capote, il nostro percorso di lettura diventa anche scoperta musicale.

di Pierluigi Lucadei *

giardino_dissidentiIl giardino dei dissidenti non è il capolavoro di Jonathan Lethem, ma la sua confusione ha un suono. Inside Llewin Davis è un film dei fratelli Coen uscito in Italia con il titolo A proposito di Davis e ispirato alla vita del cantautore Dave Van Ronk. Non è il miglior film dei fratelli Coen ma ha lo stesso suono della confusione de Il giardino dei dissidenti.
Curioso che entrambi, il romanzo di Lethem e il film dei Coen, siano usciti nel 2013, raccontando lo stesso luogo e lo stesso tempo. New York. I primi anni Sessanta. Il folk. Il Greenwich Village.

Dave Van Ronk compare ne Il giardino dei dissidenti dove, come sempre accade in Lethem, la musica è molto più di un elemento di contorno. Tutto vibra e si scuote nella prosa di Lethem: il funk arroventava La fortezza della solitudine, il sesto romanzo dello scrittore statunitense uscito nel 2003, la verbosità dei cantautori folk del Village rende greve e politico Il giardino dei dissidenti. Eccolo il ‘Sindaco di MacDougal Street’ (così era soprannominato Dave Van Ronk), alle prese con il brano In The Pines, uno standard americano che la sua voce rendeva fumigante di brividi.

House Carpenter è un altro standard rivitalizzato da Van Ronk. L’artista newyorkese lo scelse come brano d’apertura del suo disco Inside Dave Van Ronk, che cinquant’anni dopo ispirerà il titolo dei Coen.

Anche Phil Ochs compare nelle pagine di Lethem. Ochs era un guerriero armato di voce e chitarra, erede di Woody Guthrie, ostinatamente contro. Automation Song, dal suo album All The News That’s Fit To Sing, è uno dei più profetici anti-inni venuti fuori dal Village.

Il film dei Coen A proposito di Davis si chiude con il protagonista che lascia il palco a un ragazzo destinato a diventare non solo il più celebre inquilino di MacDougal Street, ma uno dei pilastri della cultura del dopoguerra, Bob Dylan. Con la velocità di un battito d’ali, Dylan si emancipò dalla nicchia intellettuale del Village per raggiungere l’irraggiungibile e Lethem descrive perfettamente il suo volo: «Era decollato come un razzo dal marciapiede umano del loro mondo, e bisognava abituarsi a vedere la sua goffa sagoma spigolosa, costellazione di gomiti e reggiarmonica, lontano, nel cielo».

La musica di Dylan andava più veloce delle linee della metropolitana di New York e batté sul nascere tutta la scena folk newyorkese messa insieme. Lo fece molto tempo prima di scritturare Mike Bloomfield e Al Kooper, e di iniettare elettricità a un immaginario poetico capace di contenere un’epoca, oltre che di reinventare il rock.

Dopo il giro d’organo più famoso e l’how does it feel più tagliente che la storia della musica popolare ricordi, la velocità non contava più perché il rock, nel frattempo, si era trasformato in qualcosa di diverso.

Si poteva partire da MacDougal Street per un concerto che aveva per pubblico il mondo intero e poco importava se questo tradiva, smentendolo, il senso di comunità di una scena convinta della superiorità dell’espressione collettiva sulla voce del singolo. Nessuna invidia o rivalsa di strada poteva opporsi al semplice fatto che la musica di Dylan, più di ogni altra, rendesse chi la ascoltava una persona migliore.

Poco lontano, Washington Square continuava a riempirsi dei suoi giocatori di scacchi, di fumatori d’erba, di artisti e non artisti vestiti da artisti, di gay e lesbiche, di studenti, poeti, pazzi e di tutti quegli individui che avevano la risposta più intelligente alla domanda che nessuno gli aveva rivolto. «In quel parco bastava aprire un libro perché arrivasse qualcuno a dirti che non era niente di speciale e avresti dovuto leggerne un altro».

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Nell’articolo si parla di: 

Jonathan Lethem, nato a New York nel 1964, è figlio di un pittore e di una militante della sinistra radicale. È cresciuto leggendo Calvino e la Highsmith, Dostoevskij e Ray Bradbury, e se fino all’adolescenza da grande voleva fare il pittore, a vent’anni si è ritrovato sulla West Coast a lavorare fra gli scaffali di una libreria – e alle prime versioni dei suoi romanzi. Il vero successo è arrivato nel 2000, con il romanzo Motherless Brooklyn (Testadipazzo, Tropea, 2000 – Brooklyn senza madre, Il Saggiatore, 2008), un omaggio alla sua Brooklyn (riscoperta nel 1996, quando è tornato a viverci) travestito da detective story. Lethem ha vinto la MacArthur Fellowship e il National Book Critics Circle Award per la narrativa. Collabora, fra gli altri, con «New Yorker», «Harper’s», «Rolling Stone», «Esquire» e il «New York Times». Il giardino dei dissidenti è uscito per Bompiani nel 2014.

Dave Van Ronk (Brooklyn, 1936 – New York, 2002) è stato un musicista e cantautore statunitense. Chitarrista, arrangiatore e intimo amico di Bob Dylan, è stato figura di rilievo nel panorama della musica folk, che negli anni Sessanta gravitava attorno al Greenwich Village di New York. Era soprannominato il Sindaco di MacDougal Street.

Philip David Ochs (El Paso, 1940 – Far Rockaway, 1976) noto come Phil Ochs, è stato un cantautore di protesta statunitense; preferiva però definirsi topical singer. È stato anche musicista, interprete e giornalista (le sue canzoni topical, ovvero ispirate a temi di attualità e alla cronaca, ricordano infatti molto di certo giornalismo militante), famoso per il sarcasmo tagliente, l’umorismo e l’attivismo politico.

* Pierluigi Lucadei (San Benedetto del Tronto, 1976) di mestiere fa il medico legale, ma scrive da molto tempo prima di diventare medico. Si occupa di musica e letteratura sul «Mucchio Selvaggio», sul blog minima&moralia e sul quotidiano online «Il Mascalzone». Nel 2014 ha pubblicato, per Galaad, Ascolti d’autore, raccolta di venticinque interviste ad altrettanti scrittori, tra i quali Hanif Kureishi, Michael Chabon e Niccolò Ammaniti, sul tema della musica, con una postfazione di Nicola Lagioia. È uno degli autori della nostra rubrica Il comodino dei Serpenti.

Consigli di lettura di Chiara Condò – Libreria Il Pensiero Meridiano

INDILIBR(A)I – Rubrica dedicata ai librai e ai lettori indipendenti

Il Pensiero Meridiano
Via Indipendenza, 12 – Tropea (Vibo Valentia)
0963 62096
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Chiara Condò, la giovane libraia di Tropea, consiglia:

libro-estateIl libro dell’estate, Tove Jansson (trad. di C. Giorgetti Cima), Iperborea (€9,50)
Nonna e nipote in una piccola isola del golfo della Finlandia, molte domande a cui rispondere, un’estate nordica tenue e delicata, ben distante dalle nostre stagioni crudeli. Il libro dell’estate è il racconto di una bambina che cresce e di una donna che ritorna piccola raccontato da una delle penne più felici della letteratura scandinava. Tove Jansson, resa famosa dai suoi piccoli “Moomin”, descrive non solo l’incanto di una coscienza che si trasforma, ma il modo in cui questa scoperta vada di pari passo con la natura che la circonda. L’isola del romanzo è luminosa e piena di vita, e l’estate di cui leggiamo è quella nordica, breve e luminosissima, che si vive di corsa prima dell’inverno.

2856937-9788845274480L’utilità dell’inutile, Nuccio Ordine, Bompiani (€9,00)
Non un saggio, ma piuttosto un elogio delle cose effimere, belle, inutili; questo piccolo volumetto del calabrese Nuccio Ordine è una difesa della bellezza più indifesa: quella che non produce nessun profitto, ma che esiste solo per se stessa. Il tratto è appassionato, la scrittura elegante e credo sia fondamentale per tutti quegli appassionati che hanno fatto degli studi umanistici (i più bistrattati e giudicati, per l’appunto, inutili) il loro lavoro. Il saggio è completato inoltre da uno scritto dello scienziato americano Abraham Flexner. Imperdibile.

Le domande dell’infanzia narrate da Paolo Di Paolo

di Rossella Gaudenzi

Paolo Di Paolo

Paolo Di Paolo

Le domande dell’infanzia narrate da Paolo Di Paolo – Intervista all’autore di La mucca volante

L’ultima cosa che io, e suppongo  tanti altri, mi sarei aspettata da Paolo Di Paolo? Che scrivesse un libro per bambini e ancor più che lo illustrasse. Eppure durante l’estate apprendo la notizia direttamente dall’autore e dallo scorso 3 settembre La mucca volante (Bompiani) ti fa l’occhiolino dagli scaffali delle librerie. Oggi il libro è alla seconda ristampa. Stando alle parole di Paolo, spese in un accogliente locale romano davanti a un chinotto e a un bicchiere di vino, la storia della mucca volante viene da molto lontano e  lo aspettava al varco.

«Ho pensato di scrivere questo libro all’età di sette-otto anni. È veramente quel che considero il mio primo libro perché, se torno a me stesso bambino e al sogno di scrittore, so che immaginavo, magari sull’agenda di mio padre, uno spazio bianco su cui campeggiasse la scritta La mucca volante, il mio nome e una mucca disegnata. Successivamente ho ipotizzato di cambiare il titolo, che sarebbe potuto diventare Volare via, molto più poetico, ma per fedeltà al me stesso bambino che lo aveva immaginato come La mucca volante è rimasto invariato. Sebbene questo libro non abbia a che fare con l’esperienza del volo, con la logica tradizionale dell’imparare a volare; il volare via della mucca ha a che fare con tutt’altro tema. Tutto nasce una mattina della mia infanzia, quella in cui comincia il libro, in cui arrivo alla mia scuola, una scuola alle pendici dei castelli romani circondata dal verde a cui talvolta si avvicinavano delle mucche. Quella mattina vedo una mucca immobile con la pancia molto gonfia ferma sul prato della scuola. La mucca era ovviamente morta e in qualità di bambino ho vissuto questa esperienza come una rivelazione. La mucca con la pancia gonfia non mi ha spaventato ma mi ha incuriosito: le altre continuavano a brucare mentre questa restava immobile, ho iniziato a fare domande agli adulti che mi negavano una risposta fino a che l’indomani la mucca non c’era più. Dov’era finita? Per dare una spiegazione, fuori tempo massimo e a posteriori, alla sparizione della mucca di cui nessuno mi aveva detto nulla all’epoca, ho scritto un libro in un momento in cui volevo anche un po’ disintossicarmi dal mio essere adulto circondato da adulti. È avvenuto nel momento in cui non era più rinviabile un appuntamento con me stesso rimandato per venticinque anni».

Ripeto, l’ultima cosa da aspettarsi da Paolo di Paolo
Una sorpresa anche per me. Ma questa possibilità di stupirsi dovrebbe essere alla base del lavoro che si svolge. Venuto a contatto con la capacità di stupirmi ancora, di fare qualcosa che non stupisse gli altri ma che stupisse me, l’unica cosa che potessi fare era mettermi a scrivere una storia che avevo in testa, o almeno la sua origine, quindi una storia che veniva da molto lontano, dandole uno sviluppo fedele a quel progetto e alla mia prima e viscerale passione, che non era la scrittura bensì il disegno. Da bambino mi veniva molto naturale disegnare e per La mucca volante ho fatto disegni degni di un bambino, dal tratto non sofisticato. La casa editrice Bompiani non abbraccia al momento una collana per bambini, non esisteva quindi un’illustrazione di copertina standard già pronta e si è posto il problema: l’editor Beatrice Masini mi ha chiesto di tentare di fare le illustrazioni. Mi piacerebbe, quanto a progetti futuri, fare il lavoro di scrittore e affiancarmi a un illustratore, la collaborazione con l’altra creatività mi interessa molto. In questo caso si è trattato invece di riprendere possesso di una facoltà che avevo rimosso – non disegnavo da venti anni –  nel momento in cui ho smesso di sognare di diventare disegnatore. Nel momento in cui ha preso forma un progetto che è quello che avevo da ragazzino, ho ripreso in mano la matita quasi tremando.

Chi ti leggeva i libri quando eri bambino, e quali?
Mia madre, insegnante di scienze e matematica, forse per paura di comunicarci troppo la sua passione e poco quella per la lettura e la letteratura, oltre a insegnarci a leggere un po’ prima di andare a scuola ha riempito me e mia sorella – gemella – di libri illustrati, libri per bambini, libri pop-up.Il primo contatto con l’idea di letteratura l’ho avuto con corposi libri con costa viola, edizioni illustrate dei grandi classici della letteratura: Molière, Shakespeare e altri. Ne ero entusiasta e ammirando le figure cercavo di travestirmi da mercante di Venezia o malato immaginario, così come venivano rappresentati, cercando tra gli indumenti di mio padre e per, trasformarmi in malato immaginario, ad esempio, cospargendomi il borotalco sul viso. È stata incisiva la paura di mia madre di non comunicarci quel che non era nel suo orizzonte.

Esistevano eroi e antieroi nell’universo del bambino Paolo Di Paolo?
Esistono sicuramente storie in cui parteggiavo per qualcuno, ma in realtà non ero affascinato dai supereroi. Ero attratto da personaggi quotidiani, per questo mi appassionava il mondo dei Peanuts o di Topolino. Quanto a Paperopoli e Topolinia ogni storia, anche la più rocambolesca, partiva sempre da una situazione tranquilla: giornate di sole il più delle volte accompagnate da Paperina che annaffia i gerani e Paperino sull’amaca. In questa situazione di quiete qualcosa irrompe e la sconvolge. La mia testa vagava dentro Paperopoli, in uno spazio inesistente di cui mi sembrava di conoscere atmosfera, clima, come se io sovrapponessi quel che leggevo con la vita. Avevo residenza a Paperopoli e non a casa mia… questo spiega il fatto che trascorressi trepidante i mercoledì estivi sul balcone nell’attesa che il postino consegnasse Topolino a cui ero abbonato. La stessa cosa vale per i Peanuts. Snoopy era il mio vero eroe: con la sua macchina da scrivere iniziava a battere tasti di romanzi spesso rifiutati e questa era per me la situazione più divertente. snoopyMi affezionavo a personaggi ordinari, vicini alla mia realtà, in linea con i personaggi dei miei romanzi che devono sempre misurarsi con il fallimento: Lucien di Raccontami la  notte in cui sono nato è un insoddisfatto; Italo Tramontana di Dove eravate tutti non riesce a finire la tesi di laurea, Moraldo di Mandami tanta vita incarna la frustrazione massima. Trovo più interessante il fallimento rispetto alla riuscita. Divagando, il film A proposito di Davis dei fratelli Coen è incentrato sul fallimento di un musicista: il protagonista si arrabatta, non riesce a emergere e verso la fine ascolta in un locale una voce molto forte e chiara, altro non è che l’allusione agli esordi di Bob Dylan. Questo è quel che mi interessa: il momento in cui stai tentando di diventare qualcosa e un ostacolo te lo impedisce. Ecco perché Snoopy, Charlie Brown e Paperino mi interessano molto: la relazione con la mediocrità, molto più diffusa del talento, e quell’attrito tra il cercare di spendere il talento e il ritornare nella mediocrità come zona grigia dell’esistenza.

Dopo aver scritto questo libro sono cambiate delle cose nel tuo modo di essere e di vederti?
Sì. In passato ho parlato spesso dei miei libri nelle scuole medie e superiori; in questo caso mi sono trovato a interagire con bambini delle elementari e la relazione è completamente diversa. I bambini ti mettono sempre davanti alle domande fondamentali. Facendo domande su La mucca volante i bambini ripristinano un rapporto di causa/effetto, razionalizzano e, ovviamente a modo loro, trattano tutto in modo trasparente, puro ed essenziale. Questa per uno scrittore è una grande lezione. Altro aspetto per me nuovo è la riconquista dell’innocenza delle parole: tornare, come ha commentato un caro amico scrittore “per sentirsi espresso… a una innocenza da primo mattino del mondo”. Ho sempre sostenuto il contrario, che la costruzione dello stile dovesse allontanarsi dall’innocenza. Non avevo compreso di aver raggiunto con La mucca volante un grado di espressione forse più totalizzante di quanto non avessi fatto con gli altri libri, nel momento in cui ho dovuto alzare l’obiettivo ad “altezza bambino” e restituire al linguaggio l’innocenza da primo mattino del mondo. Ho toccato anche in questo libro temi come morte e distacco (che indubbiamente mi sono propri), ma trattandoli in modo totalmente puro. Questa trasparenza mi ha portato a manifestarmi maggiormente rispetto a quando uso un linguaggio più alto e complesso, attraverso il quale anziché chiarire nascondo. Ricordando Calvino: “Scrivere è talvolta nascondere”; ebbene sì, a volte l’artificiosità stilistica nasconde l’innocenza da primo mattino del mondo. Se La mucca volante riesce a commuovere è perché dovendo parlare ai bambini ho attenuato il controllo dell’emozione, Di Paolo 2non mi sono preoccupato di essere sentimentale, cosa che solitamente rifuggo.

Questa esperienza ha generato in te un qualche stupore?
Fino ad ora ero convinto di non saper costruire trame ma di scrivere libri di atmosfera con intreccio molto esile. Sembra che nello scorrere delle pagine La mucca volante alimenti la voglia di scoprire cosa accade: per la prima volta ho costruito un piccolo intreccio in cui l’avventura passo passo ti porta a voler sapere come finirà la storia.

Domanda di rito: crisi del libro e della lettura ormai cronica, come confermerebbero gli annuali bollettini del settore. Però è nuovamente in controtendenza l’editoria per ragazzi. I lettori dai 6 ai 16 anni sono in crescita. Quali sono secondo te le ragioni di questo fenomeno e perché i giovani lettori, una volta adulti, smetterebbero di leggere?
Si può essere lettori molto famelici a dieci anni e nella pre-adolescenza o adolescenza perdere del tutto il contatto con la lettura. Innanzitutto perché interviene l’obbligo scolastico e la lettura non è più gioco. Quando ai bambini delle elementari si chiede cosa fa uno scrittore la risposta è che racconta storie, non che scrive libri. L’aspetto ludico è dominante. Quando entra in gioco l’aspetto di studio cambia la prospettiva e nella fase di pre-adolescenza anche il genitore riesce a essere meno incisivo con i suoi consigli e la sua presenza, anzi, ciò che i genitori propongono è quello che non fai. Fino a che sei bambino anche il libro fa parte dei giochi; quando devi leggere un determinato libro, come il libro per l’estate, perseveri solo se ti anima una passione forte. La qualità della produzione per bambini e ragazzi in Italia è molto alta e sta crescendo l’attenzione degli editori a tutto questo, cresce l’investimento; aumenta l’attenzione all’illustrazione e quindi al cosiddetto settore cross-over non più limitato alla sfera infantile. A detta di Barbara Schiaffino, direttrice della rivista di settore più autorevole, «Andersen», anche l’attenzione per quel che produce l’Italia sta crescendo nel mondo: i nostri autori per bambini, dati alla mano, cominciano a riscuotere successo nel mondo. Non dimentichiamo che il nostro titolo più tradotto al mondo in assoluto è legato al personaggio del topo Geronimo Stilton, che supera anche Umberto Eco.

Se Paolo Di Paolo fosse bambino oggi, con quale libro uscirebbe da una libreria?
Con un libro pop-up. E comunque catturerebbero la mia attenzione il colore e l’illustrazione.

E quali libri ti aspettano sul comodino?
Dopo tanto tempo in cui non riuscivo più a stupirmi dei libri di narrativa contemporanea, sono rimasto folgorato da due scrittori notissimi al mondo, che fanno parte di una triade intoccabile di autori israeliani (Grossman-Yehoshua-Oz): l’ultima opera di Amos Oz Giuda (Feltrinelli) che ho trovato straordinaria, di grande intelligenza e profondità: un Giuda rivisitato, letto non come il traditore ma come colui attraverso il quale si sono compiute le scritture e senza il quale il Cristianesimo non sarebbe nato. Calato in una in una piovosa Gerusalemme di fine anni Cinquanta. Più trascinante ancora, Applausi a scena vuota di David Grossman (Mondadori), titolo così tradotto in Italia ma in lingua originale ispirato alle battute iniziali di una barzelletta: Un cavallo entra in un bar. Strepitoso, ne sono rimasto affascinato. Se ti aspetti di trovare il Grossman che già conosci ti spiazza e a  pensare che uno scrittore sessantenne riesca a scrivere qualcosa di così radicalmente diverso dal solito ti togli il cappello. È la storia di un cabarettista cinquantasettenne senza troppa arte né parte che in un locale, un po’ sudaticcio, inizia a raccontare barzellette ma il cabaret deraglia perché inizia a inserire pezzi della sua vita privata. Diventa una sorta di confessione più o meno volontaria, intrisa di brani esilaranti, in cui convergono la difficoltà dell’attore di far ridere, la difficoltà del pubblico di abbandonarsi al riso, la scommessa di tenere le persone ancorate alla propria storia e non più al copione. I pochi che restano in sala sono coloro che sono disposti, in generale nella vita, ad ascoltare la storia di qualcun altro. Un libro bellissimo sulla tragedia e sul riso, sulla vita che va avanti nonostante tutto, sulla zona segreta di ciascuno.

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Paolo Di Paolo, classe 1983, finalista allo Strega 2013 con il suo Mandami tanta vita (Feltrinelli), ha esordito nel 2004 con i racconti Nuovi cieli, nuove carte (Empirìa). Nel 2008 ha pubblicato per Giulio Perrone Raccontami la notte in cui sono nato e nel 2011 Dove eravate tutti per Feltrinelli. Nel 2014 è uscito La mucca volante (Bompiani), il suo primo libro per bambini.

Paolo Di Paolo sarà, con Giulio Perrone, l’ospite finale di Cosa si fa con un libro? il 7 maggio 2015.