di Emanuela D’Alessio
Ho finito di leggere La città dei vivi di Nicola Lagioia (Einaudi) già da un po’, ma non accenna a esaurirsi il profondo turbamento che sta insidiando le mie giornate, scandite da domande tanto incalzanti quanto prive di risposte definitive. In fondo, come dice lo stesso Lagioia, «un libro non dovrebbe dare risposte definitive ma sollevare le giuste domande».
Quando il caso Varani infranse la barriera dell’anonimato piombando su tutti i media nazionali il 6 marzo 2016, la mia reazione fu di immediato sconcerto per l’estrema ferocia e l’incomprensibile movente del delitto, poi però smisi di seguire la vicenda, come sempre mi capita con la cronaca nera. La prima domanda è, allora: perché ho deciso di leggere un libro che di quei fatti si è nutrito, trasformando migliaia di pagine di atti giudiziari, perizie, intercettazioni, sentenze, interviste, in una straordinaria narrazione letteraria della realtà? Perché sono vulnerabile al fascino dell’ossessione, volevo capire i motivi che avevano portato Lagioia a dedicarsi negli ultimi quattro anni a questa vicenda, una dedizione assoluta, ossessiva, appunto. A pag. 271 è lui stesso a spiegarlo raccontando dei suoi anni di adolescente a Bari. A quel punto, però, il perché dell’ossessione dell’autore non è più così essenziale rispetto a quanto si va svelando.
I due assassini, Marco Prato e Manuel Foffo, sono stati descritti dai famigliari, dagli amici, dagli avvocati, dai cronisti, come due ragazzi “normali”. Anche Luca Varani – la vittima innocente di questo disastro – era un ragazzo “normale”.
La seconda domanda dunque è: se la patente di normalità con cui ci sentiamo al sicuro è diventata carta straccia dopo il delitto Varani, allora siamo tutti potenziali carnefici? Lagioia solleva l’interrogativo (a pag. 383), ci fa sorgere un dubbio che difficilmente avremmo contemplato spontaneamente. «Tutti temiamo di vestire i panni della vittima. Viviamo nell’incubo di venire derubati, ingannati, aggrediti, calpestati. È più difficile avere paura del contrario. Preghiamo Dio o il destino di non farci trovare per strada un assassino. Ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di poter essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice? È sempre: ti prego fa’ che non succeda a me. E mai: ti prego fa’ che non sia io a farlo».
E, aggiungo io, l’essere vittima ci garantisce automaticamente il bonus dell’innocenza? La vittima è sempre innocente o anche responsabile, almeno un po’, dell’esplosione incontenibile e addirittura purificatrice del male? Nel caso Varani è stato abbozzato anche questo filone interpretativo (Varani era una marchetta, Prato e Foffo si facevano di cocaina senza limiti, Prato era omosessuale, etc.).
Non ci sono risposte definitive, ci affidiamo impotenti alla banale antinomia fortuna/sfortuna oppure all’azione del demonio (il colonnello dei carabinieri incaricato delle indagini aveva accostato l’omicidio Varani a un caso di possessione). Qualunque sia l’interpretazione adottata ci mettiamo al riparo dalla responsabilità, soprattutto se scegliamo lo zampino di Satana. Se commettiamo il male perché posseduti, allora non siamo irrimediabilmente cattivi ma soltanto deboli.
Nicola Lagioia. Foto di Nicola Garrone
Negli ultimi quattro anni Nicola Lagioia ha incontrato moltissime persone ricevendo da ciascuna un’informazione, un documento, una riflessione, un’opinione, un dono. Luigi Manconi, che allora era presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani al Senato, gli ha regalato Il libro dell’incontro, una testimonianza di un lungo esperimento, tra il 2009 e il 2015, di giustizia riparativa tra alcuni parenti delle vittime di terrorismo e alcuni diretti responsabili. Nel caso Varani non è accaduto nulla del genere, il padre della vittima non ha mai ricevuto dalle famiglie dei carnefici una richiesta di contatto, una lettera, una parola.
Arriva la terza domanda, questa però la rivolgo direttamente all’autore: perché non è stato mai ricercato né favorito quel tipo di incontro necessario per continuare a sentirsi umani? Dove sono finiti tutti gli “esperti della mente” che si sono prodigati in perizie e interpretazioni?
Nicola Lagioia ha risposto così:
Provo a risponderti, ma per quello che posso rispondere io, perché la mia è un’interpretazione come un’altra. Una volta che è finito il libro secondo me lo scrittore non necessariamente ne sa e ne capisce più del lettore. Sì, sarebbe stato bello se le famiglie si fossero parlate, però non è una cosa che uno come me può pretendere, ovviamente. Avrebbe potuto pretenderlo o può pretenderlo Giuseppe Varani che si è spesso dimostrato deluso per questo mancato avvicinamento. Che cosa sarebbe successo in caso? Non lo so. E anche tutti i vari esperti della mente, come li chiami tu, non avevano il compito di fare una terapia di gruppo ma di verificare, molto più modestamente, la capacità di intendere e di volere degli imputati. Quindi è un auspicio il mio, un sogno forse impossibile, tenendo conto della situazione e delle ferite. Nel Libro dell’incontro c’erano stati dei mediatori a prendere l’iniziativa, anche perché il terrorismo era una questione nazionale, pubblica. Questa invece è una vicenda eclatante, che ha avuto pubblica diffusione, ma non è una questione nazionale come il terrorismo che ha coinvolto moltissime persone. Sì, sarebbe stato bello, ma poi chi di preciso avrebbe dovuto fare da mediatore? Non è contemplata nel nostro ordinamento, né in altri, l’eventualità della giustizia riparativa. È questo forse il problema.
In La città dei vivi non c’è soltanto il delitto Varani, così difficile da derubricare in semplice fatto di cronaca nera, ma un’intera città. Roma non è solo la scena di un crimine atroce, ma di una corale tragedia contemporanea, con quotidiani smottamenti di legalità, civiltà, modernità. «La pioggia a Roma ricorda a tutti che la modernità è un battito di ciglia nell’infinito svolgersi del tempo». Roma ogni giorno è derubata, violata, intossicata, sporcata; Roma è vittima ma anche carnefice; da Roma si vuole fuggire, a Roma si vuole tornare. A Roma può accadere ogni cosa, è bellissima, è eterna.
Nel libro c’è un altro personaggio, sebbene secondario ed estraneo ai fatti dell’omicidio. È un turista olandese ma non un turista qualsiasi, è un pedofilo in cerca di prede finché non viene arrestato. Poi però lo ritroviamo al terminal 3 di Fiumicino a bordo di un Airbus della Thai pronto al decollo.
L’ultima domanda è questa: chi è il turista olandese, forse è il male che riesce sempre a insinuarsi in una crepa delle nostre armature di latta per colpirci e proseguire indisturbato il suo cammino?
Nicola Lagioia ha risposto così:
Sì, potrebbe essere come dici tu, forse una presenza metafisica del male che continua ad andare avanti senza mai fermarsi. Potrebbe essere quello, potrebbe essere la necessità di avere uno sguardo esterno su Roma da parte di una persona che viene per prendere qualcosa, è un predatore, però poi se ne va e non è detto che abbia preso di più di quello che ha ricevuto di negativo in cambio. Insomma, lascio aperto il finale.
La città dei vivi è un libro bellissimo, un romanzo di fatti veri, non credo di saperne di più dell’autore dopo averlo letto, non so nemmeno se mi sono posta le giuste domande. Però continuerò a provarci.
Nota a margine
Quando le mie domande hanno raggiunto Nicola Lagioia lui era in treno verso Firenze per la sua straordinaria attività di promozione di libri e librai, in giro per l’Italia. Dopo poche ore mi ha inviato un messaggio vocale. Apprezzo molto uno scrittore quando non si sottrae ai propri lettori.
Nicola Lagioia, in uno scambio con Giuditta Casale, ha elencato alcuni titoli di quella tradizione letteraria di “non fiction novel” che l’hanno sorretto in questi anni: A sangue freddo di Truman Capote, Compulsion di Meyer Levin, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, La pelle di Curzio Malaparte, La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia.
Nicola Lagioia (Bari 1973) ha pubblicato con minimum fax Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (2001) e con Einaudi Occidente per principianti (2004), Riportando tutto a casa (2009) e La ferocia (2014, vincitore del Premio Strega 2015). È una delle voci di Pagina 3, la rassegna stampa culturale di Radio3. Nel 2016 è stato nominato direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino.