Leggere L’invulnerabile altrove di Maurizio Torchio è stato come precipitare in acque scure e agitate e lottare per restare a galla, per raggiungere una riva, per non desistere dalla ricerca di risposte.
Torchio, con voce levigata e raffinata, ha scritto una storia incredibile e magnetica da cui non ci si può sottrarre, sebbene ci si senta spesso al cospetto di un idioma incomprensibile ma dalle sonorità così attrattive che non si ha tempo per distrarsi.
Forse si tratta di una riflessione filosofica sull’eterno dibattere interiore tra l’io e l’altrove cui dare disperato ascolto; forse di una storia sull’infelicità che diventa sofferenza, solitudine, vera e propria malattia del vivere da cui non sembra possibile guarire; forse di una interpretazione del Prima e del Dopo, metafora temporale del passaggio tra la vita e la morte, ma anche di un mondo di vivi con un Prima perduto e un Adesso implicitamente peggiore.
Insomma, forse abbiamo letto una storia universale sul dolore e i conflitti dell’anima, sul passato e sul futuro.
Indugiando nell’atmosfera del libro, dove a fare da protagoniste sono una donna senza nome e la voce di una sconosciuta che le risuona dentro all’improvviso, vorrei provare a parlarne con Maurizio Torchio, alternando la mia voce alla sua (in grassetto), sperando di trovare qualche nuova linea di luce.
Già nelle prime righe viene posta la domanda cruciale. «Perché il mio presente è abitato, prosciugato dall’altrove? Perché in una parte della mia testa si è fatto posto per un pezzo della tua?». Una risposta ovviamente non sarà mai fornita, il lettore è lasciato da solo alle sue interpretazioni.
Ho subito pensato a una rappresentazione molto creativa della malattia mentale. Sentire le voci è, del resto, uno dei sintomi più ricorrenti della schizofrenia. Poi però questa “voce” risulta molto diversa dagli standard abituali: ha un nome, Anna, appartiene a una donna che è vissuta cento anni prima a Londra e che arriva direttamente dall’aldilà. Quando era in vita lavorava in una fabbrica di fiammiferi, ha sempre combattuto contro fame e povertà, ha generato numerosi figli, ha avuto un marito. Ora che è morta descrive il mondo in cui è arrivata, pieno di persone sconosciute e di animali, un mondo nuovo dove nessuno la sta aspettando, dove tutti chiedono e nessuno risponde. Un mondo fatto di sabbia e fiumi, ma che in fondo non sembra così diverso da quello dei vivi.
A questo punto le mie interpretazioni sono già entrate in confusione. Perché rivolgersi a un passato così remoto per raccontare il presente? Perché ricorrere all’idea di un aldilà, presupponendo non solo che esista ma che sia addirittura più vitale di quello dei vivi, per affrontare temi che affliggono l’umanità vivente?
Ma non sono mezzi per un fine: conta la favola, non la morale.
Ed è una favola ambigua, non c’è dubbio. Chi narra è soltanto malata o è davvero in contatto con l’aldilà? Io ho fatto il possibile per restare sul crinale, e mi rendo conto che questo può generare un certo disagio in chi legge.
Può darsi che Anna sia soltanto un sintomo della voce narrante. Oppure che (marzullescamente, philipdickianamente) la voce narrante sia soltanto un sintomo di Anna. A un certo punto Anna racconta di aver assistito a una parata, nella vita del Prima [nel libro di carta la voce di Anna è evidenziata, qui l’ho messa in grassetto]:
«Quale Re?» Non lo so. «Edoardo VII?»
Perché me lo chiedi?
«Provami di essere esistita».
Dici sul serio?
«No… Sí invece!»
Provamelo tu allora.
«No, tu sei stata qui». Io ho chiuso gli occhi, e quando li ho riaperti ho visto una casa, e abitato un corpo. Ma come faccio a essere certa che fosse davvero il tuo?
È vero. Io pura voce nella testa di Anna.
Anna che ha lavorato da Bryant&May e mangiato la cena dell’incoronazione offerta ai poveri di Londra il 5 luglio 1902, e applaudito la parata del 9 agosto, e forse persino quella del 25 ottobre. Anna rivestita di particolari, io nuda.
Io l’ombra, l’esangue, l’inganno senza nomi, luoghi, date o carestie.
Può darsi siano entrambe reali ma comunque malate: loro si vivono così. Forse questo libro è la storia di un’amicizia fondata su una reciproca malattia, una reciproca invasione (e sulla paura che i rispettivi mondi ne hanno).
Nel tempo presente la donna senza nome – sappiamo che fa l’ingegnere, ha un compagno e un amante, vive in due case, ha le tette grosse e i capelli neri, zoppica, è insonne però la notte, quando si sveglia, di solito è felice – va in cerca di maternità, in modo goffo e velleitario per la verità, un tentativo di cura per guarire il silenzio delle relazioni, una malattia diversa dalla follia. Anna invece ha avuto innumerevoli figli nel suo Prima, anche se non ricorda quanti e nemmeno come fossero. Nel Prima la maternità era vissuta in modo più vero, forse perché libero dal bisogno? Nel Dopo, in questo caso non più il tempo dei morti ma quello presente dei vivi, si fanno nascere figli, o ci si prova, per porre rimedio ai guasti di un’esistenza malata.
Il Prima di Anna tutto era fuorché libero dal bisogno. I figli arrivavano (e spesso morivano) senza pensarci troppo su semplicemente perché non c’era scelta: non c’erano né le risorse né il tempo per fare altrimenti.
Invece l’idea che fare un figlio insieme (Anna e la voce narrante; il corpo della voce narrante posseduto da Anna e dall’amante/fuco di voce narrante) sia una cura dai fantasmi, dalle voci disincarnate, è senz’altro balzana ma ha una sua tradizione. Non è certo la prima volta che il contatto fra mondi si trasforma in copula.
«Zoppicare vuol dire: camminare appoggiato a chi manca. Ogni passo perdere l’equilibrio, come chi sta per addormentarsi, o morire; e ogni passo stupirsi, perché il passo prima non ti ha insegnato niente, e continui a sbilanciarti, a sperare». La speranza è una dimensione interiore, una prospettiva di visione, un’interpretazione attiva dell’esistenza, «se non hai vissuto tutto quello che avevi da vivere si può rimediare». Ma il cambiamento riguarda solo chi si risveglia alla fine di una trasformazione profonda, solo chi è diventato talmente diverso da aver fatto scomparire quello che era prima.
La speranza è una dimensione interiore ma deve trovare appigli nel mondo. Una delle promesse del Dopo è dare spazio, tempo e spazio a quello che non si è stati (e questo naturalmente può trasformarsi in un alibi per continuare a centellinarsi nel Prima). Cito:
Arrivi come te lo aspetti.
«E chi era senza braccia?» Come eri abituata. «Chi è diventato adulto sbavando?» Arriverà cosí. «Non è crudele?» Ma qui, qui dura un battito di ciglia. Sarebbe mostruoso se fosse la fine: è soltanto l’inizio. E chi è vissuto sbavando tornerà ad avere sei mesi, torna all’età in cui si notava di meno. E da lì riparte.
E chi è arrivata bambina diventa ragazza, chi è arrivata vecchia ritorna ragazza.
Tutto quello che hai saputo, non quello che avresti potuto imparare. Il massimo della tua bellezza, per quanto eri brutta. Il più possibile equanime, e generosa, divertente, coraggiosa – come di più non lo sei mai stata.
Anzi: come non lo sei stata mai, cosí, tutta insieme.
Anche se non sei arrivata nel tuo giorno migliore, si può rimediare. Si può rimediare… Se non hai vissuto tutto quel che avevi da vivere si può rimediare. Sono le piccole mute frenetiche che si fanno da soli, appena arrivati, e riguardano il passato. È un modo per fare il punto, tirare una riga. E da lì in avanti fiorire davvero. Cominciare le metamorfosi che riguardano il futuro, quello che ancora non si aveva l’idea di poter diventare.
Diventare più complicati e più semplici.
E queste sono rare, e si fanno insieme agli altri, di notte.
Il mondo da dove viene Anna, il Dopo, l’aldilà di sabbia e fiumi, è popolato da “idioti”, che sono contagiosi e avvelenano i fiumi. Quindi due persone che si incontrano si infettano, si contagiano di dolore inutile che continua anche quando non serve più? «Dicono che gli insetti non soffrano, perché il dolore serve a imparare, a cambiare, e loro vivono troppo poco, non ne avrebbero vantaggio. Per un insetto appena nato è già tardi. Sarebbe uno spreco». Ma il dolore a cosa serve?
Cito:
Ormai Anna ha imparato che esistono dolori inutili, o che continuano anche quando non servono più.
Arti amputati che soffrono. Arti fantasma.
Campanelli che suonano, e non ci sono porte da aprire.
I morti del libro traggono energia dallo stare insieme, dall’essere presenti insieme agli altri. Non scrivono, non hanno oggetti: cantano e ballano, improvvisano coreografie e acrobazie. Guai a chi perde sincronia col gruppo, a chi sposta altrove il baricentro della propria esistenza, a chi sprofonda in sé stesso e/o nel passato. Idioti e lutto sono tabù. Vanno espulsi. Parte dello stigma di Anna viene dall’avere avuto un compagno, nel Dopo, che è diventato idiota. E dal sentirne la mancanza. Cito:
Io pensavo il lutto fosse una cosa del Prima, come la fame, uccidere, nascere, recintare. Qualcosa che non mi avrebbe riguardato mai più.
È quasi impossibile che gli idioti avvelenino i fiumi. Sono dicerie, come per gli appestati.
Nella pagina finale dei ringraziamenti sono citate molte persone tra le quali mi piace evidenziare Jack London, Roberto Calasso, Philip. K. Dick, Sylvia Plath. Sarebbe bello se Maurizio Torchio spiegasse il perché del suo legame con ciascuno.
Jack London non è il mio autore preferito ma ha avuto un ruolo inspiegabilmente decisivo in tutti i libri che ho scritto finora. In questo caso con Il popolo degli abissi e con le foto che scattò in quell’occasione. La Londra di Anna viene in buona parte da lì.
Roberto Calasso non tanto per L’impuro folle, come ci si potrebbe aspettare, ma per Le nozze di Cadmo e Armonia, per il contatto fra mondi – anche carnale, violento, persecutorio – che lì è raccontato.
Philip Dick per l’ossessione verso i simulacri che si trova sia nei suoi libri sia – a quanto ci raccontano Sutin e Carrère – nella sua vita.
Sylvia Plath per La campana di vetro.
Concludo con una domanda che non ha nulla a che fare con L’invulnerabile altrove ma con il suo autore. Una domanda in apparenza banale e generica, una domanda di quelle che fanno cadere le braccia o alzare gli occhi al cielo: perché scrive Maurizio Torchio?
Beh, è il mio angolino di (quasi) invulnerabile altrove.
L’invulnerabile altrove
Maurizio Torchio
Einaudi, 2021
pp. 160, € 17,50
Maurizio Torchio è nato a Torino nel 1970 e vive a Milano con una moglie e un figlio. Ha una laurea in filosofia e un dottorato in sociologia della comunicazione. L’invulnerabile altrove è il suo ultimo romanzo dopo i racconti Tecnologie affettive (2004) e i romanzi Piccoli animali (2009) e Cattivi (2015).