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Musica per camaleonti #5 – Slumberland, il ritmo perfetto trasformato in prosa

MUSICA PER CAMALEONTI – Rubrica dedicata ai suoni della letteratura

di Pierluigi Lucadei

Slumberland non è il solito romanzo musicale, ma un ritmo travolgente che con un colpo di teatro Paul Beatty ha trasformato in prosa. Appena riproposto da Fazi con una nuova veste grafica dopo il trionfo dello scrittore losangelino all’ultimo Man Booker Prize con Lo schiavista, Slumberland mostra un Beatty al suo meglio, ironico, graffiante, disinibito e stonato.

slumberlandI fatti si svolgono in un luogo e un tempo cruciali per capire ciò che siamo diventati: Berlino, 1989. Il Muro non è ancora caduto (ma cadrà a metà del romanzo), e DJ Darky si reca in Germania per trovare il misterioso Charles Stone detto Schwa, nome di culto del free jazz di cui sono perse le tracce, l’unico in grado di completare il ritmo irresistibile scritto da Darky e di trasformarlo in qualcosa di imperfettibile, in una Gioconda musicale.
Darky ricorda per mezzo di suoni, memorizza attraverso fruscii, silenzi, frastuoni, e la sua incrollabile fiducia nel ritmo perfetto che ha in potenza lo porta a suggellare incanti sonori con la nonchalance del predestinato, a vivere la propria negritudine con l’imperturbabilità di un jazzista fumato, a sedurre donne come solo un vero alchimista sa fare. Si paga da vivere lavorando come jukebox sommelier allo Slumberland Bar, un locale nel quale l’amore platonico è bandito, in cui se sei nero e sai battere il piede a ritmo di funk hai altissime probabilità di ritrovarti seduto al tavolo «stretto tra donne bianche adoranti».
Cerca delle risposte e non ha ben chiare le domande, ma sa per certo che lo Schwa può aiutarlo a districare la sua matassa esistenziale, anche solo con una nota. L’amore stesso è un fenomeno acustico. Per non parlare dell’identità di un uomo privo di inni politici, interessato soltanto al suo beat salvifico, «la confluenza tra melodia e cadenza che trascende lo stato d’animo e il tempo. Un ritmo che si possa fischiettare, tamburellare sopra il bancone di una tavola calda, o sparare a tutto volume dagli altoparlanti merdosi e sottomodulari dello stereo della macchina, senza che perda mai la propria gravità marciata. Un ritmo che avrebbe spinto tutte le signore dentro la casa a esclamare “Ehi!”, senza però provenire da un rapper in concerto in presa a un assoluto bisogno di presenza scenica…. Un ritmo senza tempo, che non sarebbe mai diventato ‘buona vecchia musica’, ma sarebbe rimasto per sempre fresco come il pane francese».

Slumberland è un libro col quale scatenarsi, drizzare le antenne, aggrapparsi con le mani alle casse, sfondare muri per costruirne di nuovi, dipingerne i contorni con vernici improbabili, ubriacarsi di playlist da sogno, imitare un’esistenza funkadelica senza accorgersi di averne già vissute più di una, disfarsi dei luoghi comuni e decifrare il proprio io con la migliore lente d’ingrandimento che esista, la musica ovviamente.

Paul Beatty, nato a Los Angeles nel 1962, è stato il primo scrittore americano a vincere il Man Booker Prize, nel 2016 con Lo schiavista (Fazi) in cui ha immaginato, ribaltando la prospettiva, che un esponente della piccola borghesia afroamericana abbia uno schiavo e venga accusato di reintrodurre la segregazione razziale. La questione dei neri si trova anche in Slumberland, il libro precedente, uscito ora in Italia, sempre per Fazi editore. Paul Beatty vive a New York.

Slumberland
Paul  Beatty

Trad. di Silvia Castoldi
Fazi, 2017
pp. 320, 18,50 €

#4 – Letture d’autore, una conversazione con Pierluigi Lucadei

MUSICA PER CAMALEONTI – Rubrica dedicata ai suoni della letteratura

di Emanuela D’Alessio

Quale sede migliore della rubrica Musica per camaleonti per parlare con Pierluigi Lucadei nella sua veste di autore?
Oggi 21 novembre, infatti, arriva in libreria il suo nuovo libro Letture d’autore (Galaad Edizioni), una raccolta di venticinque interviste a cantanti e musicisti italiani che indaga sullo stretto e spesso indissolubile rapporto fra musica e letteratura.

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Letture d’autore prosegue, ribaltandone la prospettiva, un’esplorazione avviata con Ascolti d’autore, uscito nel 2014 sempre per Galaad Edizioni. In quel caso Lucadei tracciò un quadro dei gusti, ricordi e idiosincrasie musicali di venticinque scrittori, italiani e internazionali.
Oggi, invece, con un approccio originale e intrigante indaga le modalità con cui un autore musicale si lascia influenzare e assorbire dalle proprie letture, stimolando la riflessione sul ruolo che musica e letteratura hanno nella nostra vita.
Un viaggio appassionato nel mondo musicale italiano contemporaneo che diventa percorso e scoperta letteraria. Tutti gli intervistati, musicisti di professione e di successo, sono anche appassionati lettori, alcuni di loro sono diventati apprezzati scrittori, e tutti hanno scritto almeno una canzone ispirata a un libro letto o a un autore.
Alla fine se ne esce un po’ frastornati e con alcune certezze incrinate. Non è vero che chi scrive canzoni non possa scrivere romanzi, o viceversa; non è vero che musica e letteratura siano da considerarsi comunque due categorie distinte.
Pierluigi Lucadei ce lo dimostra con semplicità e leggerezza.

Che tra musica e letteratura non esistano distinzioni o gerarchie di valore sembra essere stato sancito definitivamente con l’assegnazione del Nobel per la letteratura a Bob Dylan, il 13 ottobre scorso. Ma l’acceso e anche polemico dibattito che la decisione ha scatenato sembrerebbe dimostrare il contrario. Che cosa ne pensi?
È un dibattito solamente europeo. Mentre in America Joyce Carol Oates e Don DeLillo, che qualche motivo per essere delusi ce l’avrebbero, gioiscono pubblicamente per il vincitore, noi continentali ci sorbiamo le lamentele di Irvine Welsh e Alessandro Baricco. Se devo entrare nel merito del cosiddetto dibattito, per un gigante come Dylan a me il Nobel sembra il minimo.

Nei giorni scorsi è scomparso Leonard Cohen che, come tu stesso hai ricordato, prima di diventare l’inarrivabile cantante che tutti abbiamo conosciuto, è stato scrittore e poeta. Insomma, le due arti non si escludono a vicenda, ma nemmeno si influenzano a ogni costo. Ci sono musicisti che non hanno mai provato il desiderio di scrivere un romanzo, e scrittori di talento che sono anche degli ottimi musicisti. Mi pare che gianCarlo Onorato (una carriera da leader degli Underground Life e poi da solista, nonché autore di diversi libri) abbia fornito la sintesi più condivisibile (almeno per me): «Non mi sono mai pensato scrittore o musicista, sono ciò che riesco a essere nel momento in cui faccio qualcosa». Che cosa ne pensi?
Non immedesimandosi in alcuna categoria, Onorato riesce a sentirsi uno scrittore quando suona musica e un musicista quando scrive. C’è sempre una narrazione dietro le due forme espressive. Se si sceglie di raccontare una storia con una canzone invece che con un racconto è perché si ritiene di poterla narrare meglio con poche e precise parole, se c’è una musica ad accompagnarle. Leonard Cohen ha finito con il misurarsi sempre più spesso con il testo poetico e con il testo canzone, non dando seguito alle prove narrative della prima parte della sua carriera, perché era spaventato dall’imponderabile contenuto delle sue stesse frasi. Per un autore eccelso come lui, l’ossessione per la brevità è stata la spinta a scrivere alcuni dei versi più belli che la storia della canzone abbia mai conosciuto.

Leonard Cohen Photo by Michael Ochs Archives/Getty Images

Leonard Cohen Photo by Michael Ochs Archives/Getty Images

Quale tipo di risposta hai ricevuto alla domanda, più o meno ricorrente nelle interviste, di spiegare in che cosa si assomigliano e si distinguono musica e letteratura?
Credo che un romanzo debba trovare un lettore disposto a dimenticarsi di sé stesso per tutto il tempo della lettura. Se si sottoscrive all’inizio questo tacito patto, un buon romanzo non può che toccare nel profondo chi legge. La musica, invece, possiede un elemento fondamentale che manca alla letteratura, quello dionisiaco. Non solo la musica non vuole escludere l’ascoltatore, ma vuole travolgerlo. Questo è ciò che penso io e, tra gli autori intervistati, è anche Niccolò Fabi a pensarla più o meno così quando dice che la letteratura è più utile per conoscere altro, la musica per conoscere sé stessi.

Facciamo un passo indietro e parliamo dei protagonisti del tuo libro, rappresentanti di un panorama molto variegato del mondo musicale italiano, dal rock degli anni Ottanta in poi. Alcuni di loro si sono cimentati con la scrittura, altri non hanno mai pensato di scrivere un romanzo. Quali criteri hai utilizzato per selezionarli e con quali obiettivi?
Dai Diaframma ai Baustelle, dai Cccp agli Afterhours, dai Moda al Teatro degli Orrori, volevo che ci fossero tutte le generazioni del rock italiano da quando quest’ultimo ha acquisito un’autorevolezza tutta nuova e cioè dagli anni Ottanta in poi. E poi ho voluto coinvolgere autori difficilmente classificabili come Paolo Benvegnù, Marco Parente, Bugo, Patrizia Laquidara, giovani molto interessanti come Colapesce, Giuliano Dottori, Levante e musicisti come Niccolò Fabi o Nada, che, pur essendo partiti da latitudini sanremesi, sono stati capaci col tempo di disegnare coraggiose parabole artistiche sempre più lontane da rotte radiofoniche e commerciali.

Anche le interviste, pur seguendo una traccia comune, sono differenti tra loro. Con ognuno hai intrattenuto un discorso personale, diretto, esclusivo. È questo uno degli aspetti più interessanti del libro. Dopo quanto tempo sei arrivato al risultato finale e dopo quali percorsi?
È stata una scelta giornalistica di partenza quella di non proporre a tutti gli intervistati lo stesso set di domande, ma di intrattenere con ciascuno di loro una chiacchierata che fosse il più possibile mirata su background e percorsi diversi. Ho impiegato quasi due anni per raccogliere tutte le interviste. Alcuni degli autori, quelli con i quali si è stabilito nel tempo un rapporto d’amicizia, hanno aderito subito a scatola chiusa. Per riuscire a intercettare gli altri ho dovuto invece aspettare che uscisse il loro nuovo disco e partisse una vera e propria promozione.

Ad alcuni hai chiesto di individuare uno scrittore che meglio di altri ha parlato della loro città o terra di origine (da Roma a Milano a Firenze, dalla Calabria alla Sicilia). È uscito fuori un piccolo atlante geografico letterario. Ce ne parli brevemente?
Mi intrigava conoscere il rapporto dei musicisti con gli scrittori della propria terra. E mi sono accorto che, per esempio, ogni siciliano che ho intervistato è intriso dei libri di Sciascia, Bufalino, Pirandello, Capuana, Verga. La risposta migliore è stata però quella di Manuel Agnelli: il romanzo che secondo lui racconta meglio Milano è americano, Daisy Miller di Henry James, che, tra l’altro, è ambientato a Roma.

A tutti hai chiesto di indicare i tre romanzi preferiti della vita. Ho potuto comporre un variegatissimo catalogo dove i classici russi (Dostoevskij in testa) se la battono con i classici e contemporanei americani (da Faulkner a Cormac McCarthy, passando per Henry Miller e Philip Roth). Ma gli autori citati sono molti altri, hai qualcuno di sorprendente da segnalare?
Se utilizzassimo un pallottoliere per raccogliere le preferenze, oltre ai classici della letteratura russa e americana, nelle prime posizioni troveremmo anche autori italiani come Buzzati e Calvino e Lo straniero di Camus, che sembra aver sconvolto e segnato molti musicisti. Ma ci sono anche scelte del tutto inaspettate. Che ne dici dell’Ercole Patti de Gli ospiti di quel castello?

Hai anche chiesto di indicare lo scrittore più odiato. Qualche sorpresa?
Cristiano Godano dei Marlene Kuntz è allergico alla prosa di Thomas Bernhard. Ero convinto che un romanzo come Il soccombente fosse perfettamente nelle sue corde.

Molti dei musicisti intervistati hanno pubblicato uno o più libri, Colapesce ha scritto una graphic novel. Ne hai letto qualcuno e, se sì, puoi esprimere un giudizio spassionato?
Certo, ne ho letto diversi. Tra i musicisti italiani, il vero scrittore è Emidio Clementi, riconosciuto come tale anche dai suoi stessi colleghi. I suoi libri non sono mai stati dei tentativi velleitari di misurarsi con un’altra forma espressiva, tutto il contrario, mi sono sempre sembrati una naturale prosecuzione di quanto fatto in musica con i Massimo Volume.

Con Letture d’autore la tua esplorazione tra musica e letteratura si è conclusa?
No. Il rapporto tra musica e letteratura è un tema troppo poco dibattuto in Italia e le interviste raccolte, dando voce ai diretti interessati – musicisti e scrittori – sull’argomento, non sono che uno dei possibili punti di partenza per approfondirlo.

Pierluigi Lucadei

Pierluigi Lucadei

Quali sono i tre romanzi della tua vita?
Avendo preteso una risposta da tutti i musicisti intervistati, non posso sottrarmi al gioco, anche se è davvero complicatissimo per me scegliere tre romanzi. L’unico modo per rispondere è pensarci meno possibile e dirti i primi che mi vengono in mente. Tropico del capricorno di Henry Miller: letto all’età giusta può convincerti che la cosa più eccezionale e assurda che si possa fare nella vita è diventare uno scrittore. Il libro nero di Orhan Pamuk: indimenticabile viaggio letterario in quel continuo mescolarsi di vero e falso, possibile e impossibile, paradiso e inferno che è il Bosforo. L’avversario di Emmanuel Carrère: più passa il tempo e più diventa difficile farsi sconvolgere dalla lettura di un romanzo e, recentemente, non ne ricordo uno che mi abbia sconvolto più di questo.

Letture d’autore
di Pierluigi Lucadei
Galaad edizioni, 2016
pp. 158, 14€

#2 – La verità arrabbiata di Jonathan Coe e Thom Yorke

MUSICA PER CAMALEONTI – Rubrica dedicata ai suoni della letteratura

di Pierluigi Lucadei

jcIl nuovo romanzo di Jonathan Coe, Numero undici, prende lo spunto iniziale dalla tragica fine di David Kelly, massimo esperto di biotecnologie e ispettore ONU in Iraq che aveva svelato al mondo le menzogne di Tony Blair nel caos geopolitico post 11 settembre.

Da raffinato cultore delle sette note (tra le sue grandi passioni gli Smiths e gli High Llamas), Jonathan Coe ha sempre riempito i suoi romanzi di musica. Stavolta non succede. Numero undici procede freneticamente dalla prima all’ultima pagina, attraverso salti temporali e colpi di scena continui, senza una vera e propria colonna sonora. C’è una canzone, però, che suona di tanto in tanto nel romanzo, una canzone che è, a sua volta, ispirata alla vicenda di David Kelly. Si intitola Harrowdown Hill ed è contenuta in The Eraser, il primo disco solista di Thom Yorke dei Radiohead.

Harrowdown Hill è il bosco dove è stato trovato il corpo senza vita di Kelly, nell’Oxfordshire. In un’intervista con il giornalista Andrew Gilligan, lo scienziato rivelò l’infondatezza del dossier sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein che il governo Blair aveva usato come pretesto per attaccare l’Iraq. Il 29 maggio 2003 Gilligan parlò delle scoperte di Kelly alla BBC, scatenando un terremoto politico. Il 17 luglio Kelly morì nel bosco, a meno di un chilometro dalla sua abitazione, secondo la versione ufficiale a causa dei tagli ai polsi autoinfertisi a scopo suicidario. Per alcune incongruenze medico-legali, per l’incredibile tempismo e l’evidente convenienza politica per la premiata ditta Blair-Bush, il suicidio generò più di un sospetto.

I personaggi di Numero undici sono molto colpiti dalla morte di Kelly. Per bocca della sua protagonista Rachel, Jonathan Coe non lascia spazio a dubbi sull’opinione che si è fatto riguardo la vicenda. «La morte è un evento definitivo. Può essere un’affermazione banale, ma quello che sto cercando di dire è che fu a Beverley, quella settimana, che per la prima volta capii davvero cosa volesse dire. Sì, dev’essere stata questa la vera ragione per cui non ho mai dimenticato la morte di David Kelly. Prima di allora non mi era mai capitato di pensare alla morte come a una realtà. In un certo senso, fu quello il primo decesso nella mia famiglia. Fino a quel momento non sapevo niente della guerra con l’Iraq, ma ora era chiaro che qualcosa era cambiato, come se una linea di demarcazione fosse stata oltrepassata. Una persona di valore era morta e niente poteva riportarla in vita. E il nostro primo ministro aveva le mani sporche di sangue».

Ma Rachel è soltanto una ragazzina impressionata dalla morte solitaria di uno scienziato nel mezzo di un bosco. Laura, invece, è un’adulta, una professoressa, ed anche attraverso la sua voce il messaggio di Coe è il medesimo. «C’è un momento in ogni generazione in cui questa perde la sua innocenza. La sua innocenza politica. È quello che la morte di David Kelly ha rappresentato per noi. Fino a quel momento, eravamo stati scettici nei confronti della guerra in Iraq. Sospettavamo che il governo non ci dicesse tutta la verità. Ma il giorno in cui Kelly morì, una cosa divenne assolutamente chiara: la faccenda puzzava. Che si trattasse di un suicidio o di un omicidio non era così importante. Una persona perbene era morta e, in un modo o nell’altro, erano state le bugie costruite attorno alla guerra a ucciderla. Tutto qui. Nessuno di noi poteva più fingere che a governarci fossero delle persone oneste».

Thom Yorke non ha amato Tony Blair più di Jonathan Coe, anzi. In un’intervista di pochi mesi fa ha addirittura accusato lo staff di Blair di averlo ricattato quando, nel 2003, si era rifiutato di incontrare il primo ministro e di farsi fotografare con lui.
E la morte di Kelly ha colpito a tal punto il musicista inglese da ispirargli quella che, per sua stessa ammissione, è la canzone più arrabbiata che abbia mai composto. Harrowdown Hill, appunto.
Yorke non intende cavalcare l’ambiguità, vuole invece urlare al mondo nel modo più chiaro possibile di non credere alla versione del suicidio. È la voce di David Kelly quella che parla a Thom Yorke:

«Don’t walk the plank like I did/you will be dispensed with/when you become inconvenient
(Non superare il limite come ho fatto io/si sbarazzeranno di te/appena sarai diventato scomodo)
Up on Harrowdown Hill/the way you used to go to school/that’ where I am/that’ where I’m lying down
(Su a Harrowdown Hill/lungo la strada che facevi per andare a scuola/è lì che mi trovo/è lì che giaccio)
Did I fall or was I pushed?/Did I fall or was I pushed?/And where’ the blood?/And where’ the blood?
(Sono caduto o sono stato spinto?/Sono caduto o sono stato spinto?/E dov’è il sangue?/E dov’è il sangue?)”

Il testo è straordinariamente esplicito per gli standard di Yorke e necessita soltanto di un paio di chiarimenti. Harrowdown Hill è poco lontano dai luoghi dove Yorke è cresciuto: questo, oltre a spiegare il particolare orrore del cantante per la morte di Kelly, spiega il verso «the way you used to go to school». Il verso «and where’ the blood?» si riferisce, invece, al fatto che la quantità di sangue trovata vicino al cadavere non sarebbe stata sufficiente a causare la morte: soltanto uno dei tanti dettagli misteriosi e mai fino in fondo chiariti che hanno portato molti ad abbracciare la tesi dell’omicidio.

A dieci anni dalla sua uscita, ascoltare Harrowdown Hill avendo bene in mente la vicenda David Kelly mette ancora i brividi. La contemporanea lettura di Numero undici di Jonathan Coe dona all’ascolto un tocco di gotico e un po’ di sana paranoia.

Jonathan Coe è nato a Birmingham nel 1961 e vive a Londra. Ha scritto tre biografie (di Humphrey Bogart, James Stewart e B.S. Johnson) e numerosi romanzi. Numero undici è il suo ultimo romanzo.

Thom Yorke, nato nel 1968, è un musicista britannico, voce solista del gruppo rock Radiohead. Il suo album di debutto come solista, The Eraser, è stato lanciato il 10 luglio 2006 nel Regno Unito e l’11 luglio negli Stati Uniti.

Numero undici
Jonathan Coe
Traduzione di M. Castagnone
Feltrinelli, 2016
pp. 381, € 19

#1 – Dylan e i dissidenti del Greenwich Village

MUSICA PER CAMALEONTI – Rubrica dedicata ai suoni della letteratura
Con la nuova rubrica, che prende il nome da un’opera di Truman Capote, il nostro percorso di lettura diventa anche scoperta musicale.

di Pierluigi Lucadei *

giardino_dissidentiIl giardino dei dissidenti non è il capolavoro di Jonathan Lethem, ma la sua confusione ha un suono. Inside Llewin Davis è un film dei fratelli Coen uscito in Italia con il titolo A proposito di Davis e ispirato alla vita del cantautore Dave Van Ronk. Non è il miglior film dei fratelli Coen ma ha lo stesso suono della confusione de Il giardino dei dissidenti.
Curioso che entrambi, il romanzo di Lethem e il film dei Coen, siano usciti nel 2013, raccontando lo stesso luogo e lo stesso tempo. New York. I primi anni Sessanta. Il folk. Il Greenwich Village.

Dave Van Ronk compare ne Il giardino dei dissidenti dove, come sempre accade in Lethem, la musica è molto più di un elemento di contorno. Tutto vibra e si scuote nella prosa di Lethem: il funk arroventava La fortezza della solitudine, il sesto romanzo dello scrittore statunitense uscito nel 2003, la verbosità dei cantautori folk del Village rende greve e politico Il giardino dei dissidenti. Eccolo il ‘Sindaco di MacDougal Street’ (così era soprannominato Dave Van Ronk), alle prese con il brano In The Pines, uno standard americano che la sua voce rendeva fumigante di brividi.

House Carpenter è un altro standard rivitalizzato da Van Ronk. L’artista newyorkese lo scelse come brano d’apertura del suo disco Inside Dave Van Ronk, che cinquant’anni dopo ispirerà il titolo dei Coen.

Anche Phil Ochs compare nelle pagine di Lethem. Ochs era un guerriero armato di voce e chitarra, erede di Woody Guthrie, ostinatamente contro. Automation Song, dal suo album All The News That’s Fit To Sing, è uno dei più profetici anti-inni venuti fuori dal Village.

Il film dei Coen A proposito di Davis si chiude con il protagonista che lascia il palco a un ragazzo destinato a diventare non solo il più celebre inquilino di MacDougal Street, ma uno dei pilastri della cultura del dopoguerra, Bob Dylan. Con la velocità di un battito d’ali, Dylan si emancipò dalla nicchia intellettuale del Village per raggiungere l’irraggiungibile e Lethem descrive perfettamente il suo volo: «Era decollato come un razzo dal marciapiede umano del loro mondo, e bisognava abituarsi a vedere la sua goffa sagoma spigolosa, costellazione di gomiti e reggiarmonica, lontano, nel cielo».

La musica di Dylan andava più veloce delle linee della metropolitana di New York e batté sul nascere tutta la scena folk newyorkese messa insieme. Lo fece molto tempo prima di scritturare Mike Bloomfield e Al Kooper, e di iniettare elettricità a un immaginario poetico capace di contenere un’epoca, oltre che di reinventare il rock.

Dopo il giro d’organo più famoso e l’how does it feel più tagliente che la storia della musica popolare ricordi, la velocità non contava più perché il rock, nel frattempo, si era trasformato in qualcosa di diverso.

Si poteva partire da MacDougal Street per un concerto che aveva per pubblico il mondo intero e poco importava se questo tradiva, smentendolo, il senso di comunità di una scena convinta della superiorità dell’espressione collettiva sulla voce del singolo. Nessuna invidia o rivalsa di strada poteva opporsi al semplice fatto che la musica di Dylan, più di ogni altra, rendesse chi la ascoltava una persona migliore.

Poco lontano, Washington Square continuava a riempirsi dei suoi giocatori di scacchi, di fumatori d’erba, di artisti e non artisti vestiti da artisti, di gay e lesbiche, di studenti, poeti, pazzi e di tutti quegli individui che avevano la risposta più intelligente alla domanda che nessuno gli aveva rivolto. «In quel parco bastava aprire un libro perché arrivasse qualcuno a dirti che non era niente di speciale e avresti dovuto leggerne un altro».

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Nell’articolo si parla di: 

Jonathan Lethem, nato a New York nel 1964, è figlio di un pittore e di una militante della sinistra radicale. È cresciuto leggendo Calvino e la Highsmith, Dostoevskij e Ray Bradbury, e se fino all’adolescenza da grande voleva fare il pittore, a vent’anni si è ritrovato sulla West Coast a lavorare fra gli scaffali di una libreria – e alle prime versioni dei suoi romanzi. Il vero successo è arrivato nel 2000, con il romanzo Motherless Brooklyn (Testadipazzo, Tropea, 2000 – Brooklyn senza madre, Il Saggiatore, 2008), un omaggio alla sua Brooklyn (riscoperta nel 1996, quando è tornato a viverci) travestito da detective story. Lethem ha vinto la MacArthur Fellowship e il National Book Critics Circle Award per la narrativa. Collabora, fra gli altri, con «New Yorker», «Harper’s», «Rolling Stone», «Esquire» e il «New York Times». Il giardino dei dissidenti è uscito per Bompiani nel 2014.

Dave Van Ronk (Brooklyn, 1936 – New York, 2002) è stato un musicista e cantautore statunitense. Chitarrista, arrangiatore e intimo amico di Bob Dylan, è stato figura di rilievo nel panorama della musica folk, che negli anni Sessanta gravitava attorno al Greenwich Village di New York. Era soprannominato il Sindaco di MacDougal Street.

Philip David Ochs (El Paso, 1940 – Far Rockaway, 1976) noto come Phil Ochs, è stato un cantautore di protesta statunitense; preferiva però definirsi topical singer. È stato anche musicista, interprete e giornalista (le sue canzoni topical, ovvero ispirate a temi di attualità e alla cronaca, ricordano infatti molto di certo giornalismo militante), famoso per il sarcasmo tagliente, l’umorismo e l’attivismo politico.

* Pierluigi Lucadei (San Benedetto del Tronto, 1976) di mestiere fa il medico legale, ma scrive da molto tempo prima di diventare medico. Si occupa di musica e letteratura sul «Mucchio Selvaggio», sul blog minima&moralia e sul quotidiano online «Il Mascalzone». Nel 2014 ha pubblicato, per Galaad, Ascolti d’autore, raccolta di venticinque interviste ad altrettanti scrittori, tra i quali Hanif Kureishi, Michael Chabon e Niccolò Ammaniti, sul tema della musica, con una postfazione di Nicola Lagioia. È uno degli autori della nostra rubrica Il comodino dei Serpenti.