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Un’autobiografia storta ma verissima – Intervista a Valentina Maini

di Emanuela D’Alessio

La mischia, primo romanzo di Valentina Maini uscito per Bollati Boringhieri alla vigilia della pandemia, è un esordio folgorante che annienta, pagina dopo pagina, il timore di trovarsi fra le mani qualcosa di acerbo, velleitario, irrilevante, come capita talvolta con un’opera prima.
Un’architettura narrativa complessa dove si procede per dissolvenze, un gioco di incastri e svelamenti, un percorso che si fa labirinto di specchi dove si smarrisce il discrimine tra reale e riflesso, una variegata gamma di toni, registri e strumenti narrativi, dialoghi mai superflui e sempre intonati, ecco le prove più eclatanti di un’opera letteraria tutt’altro che acerba o velleitaria.
Una storia tra Bilbao e Parigi con il terrorismo basco a fare da sfondo e due fratelli gemelli al centro, con il sovvertimento dei canoni più tradizionali con cui siamo abituati a interpretare il mondo e soprattutto la letteratura, non è affatto irrilevante, non foss’altro perché non consente distrazioni né semplificazioni.
Non mi dilungo nel riassunto della trama perché La mischia di trame ne contiene molte e tutte ugualmente centrali. Soltanto leggendo, però, si scopre che la “mischia” in cui Maini ci getta senza esitazione è una potente e straziante unica storia che ci accompagna dal caos all’equilibro, dal movimento dissennato alla quiete. Quando il cerchio si chiude tutto improvvisamente diventa evidente.
Ho preferito che fosse proprio Valentina Maini, in questa intervista, a fare un po’ di luce sul suo libro e sé stessa, e secondo me ne è valsa la pena.

Sei stata definita una “expat”, di quelle con la doppia città nella biografia sulla quarta di copertina. Da Bologna a Parigi e ritorno (forse?). Di che cosa si tratta: casualità, scelta consapevole, irresistibile impulso?
Con Bologna ho un rapporto riottoso, dopo il primo anno di università non la sopportavo più e mi sentivo a disagio: i miei amici fuori sede mitizzavano una città che a me sembrava caricaturale, stereotipo di sé stessa. Andarmene a vent’anni è stato in parte un desiderio, in parte l’esito di questa insofferenza, ma anche una specie di forzatura: come uno degli esercizi che i Moraza impongono ai figli per fortificarli. Mi sono fatta molte piccole violenze di questo genere, pensando che mi avrebbero aiutato a crescere, ma non so se ha funzionato. Però con Parigi è stato un esercizio felice, anche se l’ho scelta in maniera del tutto casuale.

Prima di approdare alla forma romanzo hai esplorato i territori della poesia e del racconto. Ripeto la domanda precedente: casualità, scelta consapevole, irresistibile impulso?
Ha avuto a che fare con un’apertura del mio carattere, ma anche della mia idea di letteratura. Ero trincerata dietro un’ideologia molto forte, un rifiuto netto della narrazione, della trama a tutti i costi: infiocchettare una tensione in una storiella ben concepita mi infastidiva, come una richiesta di giustificazione. E quindi facevo tutto il contrario: poesia fittissima, racconti scheletrici. Solo che poi questo modo di vedere le cose ha cominciato ad annoiarmi. Anche quello era un ritornello, una formula trita, ed era a suo modo una semplificazione, almeno per me: non mi assumevo nessun rischio, continuavo a scrivere in quella maniera che era quasi un automatismo. Omettevo, mi nascondevo troppo.
Per capirci: ho trovato facile scrivere le parti giudicate «sperimentali» (Gorane, i genitori), mentre star dietro a una storia è stata la vera sperimentazione per me: è stato quello il mio superamento. Un giorno, mentre scrivevo il capitolo dedicato a Jokin, il mio ragazzo di allora mi ha detto: se mettessi in quello che scrivi una minima percentuale della capacità che hai nella vita di farti dei viaggioni, hai svoltato. Ha detto anche: crealo nei libri, il conflitto (stavamo litigando). È come se quella frase mi avesse restituito un’idea diversa di me stessa: non tanto “lo sai fare”, quanto “è nella tua natura farlo”.
Ho una predisposizione mentale piuttosto selvaggia, tendo a diffidare di quelle forme di gentrificazione del sé che aspirano a mettere in ghingheri la personalità, a imbellettarla, normalizzarla, quindi il fatto che io ritrovassi quella predisposizione come una qualità naturale, e non un abbellimento imposto, mi ha aiutato a usarla: non mi stavo costringendo a raccontare storie per pubblicare; la forzatura era non farlo. È stato un passaggio fondamentale, come riprendersi una libertà che mi ero tolta da sola. La classica stanza buia che hai in casa e in cui non vai mai. Ci sono andata, all’inizio sbattevo ovunque, ma ho scoperto che mi piaceva starci. Vedere che il mio stile non era più farfallino, ma si radicava in una storia, è stato esaltante, mi sono accorta che scrivevo meglio e che controllavo molto meno, che ascoltavo, cambiavo. A volte ho l’impressione che questo romanzo mi abbia cambiato anche la faccia.

Valentina Maini

La mischia è arrivato in libreria poco prima che l’Italia entrasse ufficialmente in quarantena. Quali le conseguenze (se ce ne sono) di questa “falsa” partenza?
Non lo so, perché è il primo romanzo che pubblico, ma la cosa più difficile da sopportare non è stata la condizione in sé – che ha avuto i suoi vantaggi: odio parlare in pubblico, sono lievemente sociopatica e in fondo la penso come l’editore di Luque, «la letteratura è fuori controllo, non puoi tentare di direzionarla con qualche presentazione in giro» – ma le persone che definivano questi romanzi «aborti», «suicidi» e ci trattavano come povere vittime della sventura. Non sopporto fare la vittima, ma la cosa peggiore è quando vengo vittimizzata dagli altri. Probabilmente era un modo per dimostrare solidarietà, ma c’è sempre una certa dose di sadismo nel dire a un altro «povero te». I librai non l’hanno mai fatto e sono stata felice di questo, ma pensare che chi sta in questo ambiente da anni, chi ama i libri, chi ne scrive, abbia una visione così legata al consumo immediato di una merce in scadenza mi ha fatto parecchio incazzare.

«Io non avevo fiducia nelle parole, cercavo di non usarle mai: lui è quello che non parla. La gente ne era in qualche modo rassicurata. I problemi sarebbero arrivati nel caso in cui io avessi cominciato ad argomentare su qualcosa per un tempo superiore ai due minuti, fui fortunato perché non accadde mai, e così sono ancora vivo». Quello che dice Jokin, il fratello gemello di Gorane, mi offre lo spunto per chiedere quale è per te il ruolo delle parole e quindi il senso e il perché della tua scrittura.
Ho avuto un rapporto difficile con le mie doti. Per gran parte della mia vita – la parte Jokin – ho pensato che buttarmi via fosse un modo per esercitare la mia libertà, uscire dagli schemi delle aspettative, dai progetti di vita, dal miglioramento di sé. Nella passività trovavo una forma di rivendicazione, il che è abbastanza bizzarro. Io volevo restare punk, arrabbiata, imprecisa, immatura, forse anche frustrata.
Ho una componente adolescenziale molto forte nel carattere, direi quasi immortale. In particolare ce l’avevo con la scrittura, che è sempre stata la mia forma di felicità, ma che mi allontanava dagli altri: come dice Jokin, a proposito della musica, la scrittura era la prova che come essere umano io non funzionavo, che avevo bisogno di quella forma sbilenca di intensità per sentirmi felice. La mia esistenza produceva continui residui. Faticavo a vedere nella mia eccentricità una forza, ho sempre cercato di andare contro natura, di deviare dal percorso che percepivo come naturale, forse felice; desideravo essere il più normale possibile, rispetto alla mia famiglia e rispetto alle persone che avevo intorno, mi vergognavo di avere questo tarlo, non ne parlavo a nessuno. Ancora fatico a prendermi sul serio, ma non per insicurezza: fatico ad accettare che la mia natura è proprio questa e che scrivere è il mio modo di stare al mondo.

Di te Andrea Bajani ha scritto: «Mi sembrava impossibile che qualcuno riuscisse a tenere per cinquecento pagine quella potenza e quella visionarietà, così al contempo poco addomesticata e raffinatissima, caotica e balisticamente micidiale. … un’autrice così anticanonica, che non per volontà ma per istinto, e dunque per stile, mette in discussione l’edificio del romanzo pur raccontando una storia vera e propria, non rinunciando cioè al patto col lettore». Che cosa ne pensi? In che cosa consiste il tuo “patto con il lettore”?
Credo che sia qualcosa tipo: se mi credi, ti prometto che alla fine è vero.

Valentina Maini

Dopo aver citato Bajani arriva la curiosità sulla gestazione del libro, su come è nato l’incontro con l’editore e su tutto quello che è accaduto fino alla pubblicazione.
La storia editoriale della Mischia è stata miracolosa, e forse la sfortuna della pandemia ha compensato la straordinarietà della vicenda, o l’ha raddoppiata. Ho buttato giù la prima riga nell’estate del 2016, ma ho interrotto quasi subito, dopo poche pagine, per poi riprendere in inverno. Ho chiuso il romanzo nel maggio del 2018 e il mio agente Leonardo G. Luccone, dopo averlo letto non so quante volte, ha avuto l’intuizione, francamente folle, di inviarlo così com’era, un mese dopo, senza che ci lavorassimo, senza provare a renderlo più digeribile.
Lo aveva ricevuto a pezzi nel corso dell’anno e mezzo precedente, e mi aveva incoraggiato a continuare, sentivo che gli sarebbe piaciuto e così è stato. Ho imparato anche da lui a essere molto severa con me stessa, più di quanto io lo sia di solito, cioè molto, quindi si può dire che in fondo, anche quando non lo aveva sotto gli occhi, ci abbiamo lavorato in silenzio.
La risposta di Andrea Bajani è stata fulminea. Ha voluto chiamarmi il giorno stesso della proposta, una telefonata lunghissima di cui ricordo poco, credo di non aver parlato, almeno così mi ha detto lui di recente: «Non hai spiaccicato parola, sembravi un animaletto». Ricordo che ha definito il mio romanzo un ufo, uno scritto extra-parlamentare e che ha cominciato a disquisire su Bolaño e qualche frase a doppio carpiato che avevo inserito nel testo. Ha anche detto che mentre leggeva aspettava che io cadessi e invece non cadevo mai. Questa sensazione gliela dava la struttura, non capiva bene come un romanzo potesse stare in piedi con una struttura così sbilenca, e invece «non cadevi mai, anche se sembrava sempre che stessi per farlo». Io ero attonita. Con Daniela Guglielmino, editor di Bollati, abbiamo riletto tutto molte volte, abbiamo cercato di capire se qualcosa non funzionava, se scovavamo incoerenze, sviste. Quello che legge il lettore, l’ordine in cui lo legge e l’incastro che ho costruito corrisponde grosso modo a quello che è arrivato a Bajani e ai suoi lettori nel luglio 2018 e corrisponde anche all’ordine in cui l’ho scritto e scoperto io.

Il terrorismo basco non è mai in primo piano ma fa da sfondo tematico a una storia complessa, dove si procede per dissolvenze fino all’ultima pagina. Un gioco di incastri e svelamenti, un percorso narrativo che si fa labirinto di specchi, dove si smarrisce di continuo il discrimine tra reale e riflesso. Perché hai scelto il terrorismo dell’ETA, più periferico e ideologico di altri?
Mi sono innamorata dei Paesi Baschi una decina d’anni fa, per colpa di una lezione all’Università in cui sono finita per sbaglio. Oltre a questa mia ossessione, e al fatto che per anni ho lavorato sulla guerra civile spagnola, c’è l’elemento nazionalista, quindi identitario, a caratterizzare il terrorismo dell’ETA che rappresenta un bel punto critico e apre uno spazio ambiguo molto fertile alla narrazione.
Storicamente, non ho mai capito davvero come mai nel pensiero di sinistra esista una specie di doppia verità sul nazionalismo, che a volte è buono altre volte cattivo: quando viene usato come giustificazione per opporsi all’immigrazione, per esempio, è cattivo, mentre quando si schiera contro la globalizzazione, la libera circolazione del capitale è buono e va difeso. È un ragionamento comprensibile, che condivido, ma allo stesso tempo mi infastidisce perché troppo malleabile, dunque strumentalizzabile: non definisce cos’è il nazionalismo in sé, ma lo adatta alla situazione, a valori, alle credenze di quel particolare pensiero politico. Credo che in questo si celi la sua pericolosità. Marx tifava per il movimento nazionale dei polacchi e degli ungheresi, che erano popoli rivoluzionari, mentre criticava quello degli jugoslavi; se pensi al nazionalismo basco, pensi subito a una rivendicazione di estrema sinistra – non solo per la sua inclinazione marxista-leninista, ma anche perché si è sviluppato come resistenza alla violenza legalizzata del franchismo – mentre non so se la stessa cosa varrebbe per quello catalano, per esempio.
Questo apre una serie di domande sulla questione identitaria, e forse questa doppia tensione tra il perdersi come individui, il disintegrarsi, il mescolarsi, forse l’omologarsi, e invece il fissarsi una volta per tutte come personalità distinte, separate dagli altri, originali, è la ragione per cui mi sono tanto appassionata a questo nazionalismo particolare. La loro tensione è, prima di tutto, umana. Lo ha detto benissimo Cordelli in una intervista stupenda: «La guerra all’Io è una dichiarazione politica. L’Io è una metafora di quanto accade nella vita sociale. Io penso, ad esempio, che nel Leninismo o nel Marxismo la rivendicazione della classe operaia di sé stessa, apparentemente simile a quella della Catalogna nei confronti della Spagna, sia in realtà una dichiarazione di guerra che ha una fisionomia ben diversa: più che una volontà di potenza è una volontà di abbattimento di un’altra potenza». L’idea che mi sono fatta dell’ETA è proprio di una rivendicazione di sé che ha perso il controllo e si è trasformata nel tentativo di demolire l’altro – la Spagna in questo caso – più che affermare sé stessa. Forse è una confusione che facciamo tutti.

Murales dell’ETA – Foto LaPresse

Un altro aspetto che probabilmente mi ha avvicinato a questo terrorismo minore è che la questione basca, per lo più ignorata dall’Europa, viene raccontata dai media sempre sotto il segno della demonizzazione, un po’ come accade con la questione palestinese (non a caso, penso, i due popoli hanno fortissimi legami di solidarietà): si trancia il contesto di partenza in cui l’ETA è nata – un contesto di repressione senza freni – e si elencano gli attentati con piglio indignato. Non si può raccontare una storia così. Ho cercato di andare contro questa falsificazione, senza dall’altra parte mitizzare la famiglia Moraza, senza farmi incantare dal fascino eroico, giovanilistico che le imprese terroriste, in generale, portano con sé.
Quello che mi interessava più di tutto, anche se l’ho capito alla fine, poco prima che il libro uscisse, era osservare la violenza da un punto di vista per così dire «ereditario». E per compiere al meglio questa osservazione mi serviva che il punto di origine di quella violenza fosse antico, che i colpevoli non fossero così definiti ma mescolati, che si passassero il testimone della responsabilità cosicché io non riuscissi a prendere nessuna posizione chiara che mi tenesse all’ombra, in pace. Una volta che nasce, che viene liberata, che giri fa la violenza? Resta nell’aria, si trasforma, tocca innocenti e responsabili, diventa una questione dei figli, dei figli dei figli, quando finisce, chi può interromperla? I figli più infelici e più rivoluzionari sono quelli che hanno il compito di spezzare la catena? L’accenno alla sperata sterilità dei gemelli è proprio un riferimento al sogno che, con la loro fine, cessi anche quella trafila di brutalità.
Questo episodio storico mi ha aiutato a pormi la domanda, una domanda che ritorna anche, forse soprattutto, da un punto di vista del singolo più che della Storia, nel testo. Le due facce sono profondamente connesse, anche se il romanzo sembra più familiare che storico: ho cominciato a pensare che sia più storico di quanto credevo. Poi c’è anche il fatto che da quando ho quindici anni mi dicono che ho la faccia da terrorista (dell’IRA però), l’ho presa come l’occasione perfetta per falsare al meglio la mia autobiografia.

Gorane e Jokin sono cresciuti con due genitori terroristi, hanno ricevuto un’educazione senza regole e senza limiti, ma allo stesso tempo estremamente impositiva sul piano ideologico. Le conseguenze appaiono devastanti per tutti, non solo per le vittime degli attentati. Risultano “scardinati” alcuni fondamenti del canone di vita occidentale cui siamo abituati.  Il primo che mi viene in mente riguarda l’universo-famiglia, con l’implosione e la dissoluzione delle figure genitoriali ma anche con l’impossibilità di un’evoluzione liberatoria per i figli. Si tratta di questo o di altro?
È vero, le figure genitoriali nella Mischia sono dissolte, eppure sono molto presenti. Dissolte nella loro funzione genitoriale, presenti nella loro natura di essere umani. In questo senso, l’immagine degli spettri è esatta, non tanto perché i genitori muoiono, ma perché, pur essendo morti, non riescono a morire. Per dirla con le parole di un noto personaggio beckettiano, non finiscono di morire. E così il processo di distacco è inceppato, sia per loro che per i figli; l’ingresso alla vita adulta differito di continuo.
Yera e Inaki non sono due figure esemplari di un certo tipo di genitori, li ho trattati come due persone in carne e ossa, contraddittorie, sfaccettate, e non come tipo umano, ma è vero che molti genitori ex sessantottini possono in parte riconoscersi in questa ricerca di rapporti orizzontali coi figli. Il ’68 è servito anche a questo, e lo ringraziamo tutti, ma forse una parte della mia generazione sta a fatica ricercando una verticalità di rapporti, qualcuno da seguire, un’autorità a cui rispondere, da cui poi distaccarsi, liberarsi. Un perimetro di movimento. Come facciamo a liberarci, se siamo già liberi? Mi viene in mente quello che si diceva ai tempi dei miei a proposito dell’amore libero: «coppia aperta, aperta, quasi sfasciata».
Lo stesso forse si può dire a proposito dell’identità. Sono convinta che più importante della libertà sia il processo di liberazione che a molti di noi è stato negato; e così finisce che le gabbie ce le costruiamo da soli. Lo diceva David Forest Wallace in uno scritto straordinario: è vagamente umiliante pensare che non vedi l’ora che i tuoi genitori tornino a darti direttive, che ritornino i maestri, i divieti, qualche forma di autorità, ma credo che come generazione viviamo questa confusione dei ruoli, insieme a un concetto guasto di libertà, che è finita per coincidere con la libertà di consumare (senza un soldo in tasca, tra l’altro). L’unica verticalità che i Moraza impongono ai gemelli è quella ideologica, e paradossalmente è un tipo di autorità che, per quanto violenta, è più facile superare: se la vedi, te ne puoi distanziare. Gorane ci riesce. Quel limite, quella violenza, è visibile e ci si può posizionare rispetto ad essa, la si può accettare, criticare, superare. È su tutto il resto che la famiglia Moraza è una mischia totale ed è lì, in questa perdita dei confini, che si genera il dolore. Ma è lì che ha origine anche la loro peculiare smania amorosa. C’è del tragico in questo, perché è un conflitto non sanabile, come in tutte le dipendenze: in ciò che ti dà piacere si cela la fonte della tua sofferenza.
Questa mescolanza identitaria è il luogo della contaminazione, del caos, dell’invasione dove è impossibile circoscrivere il trauma, trovarlo, come scrive Daniele Giglioli. E se non lo vedi, se non sei certo che esista, non lo superi. Tra i Moraza la possibilità di delimitazione è negata come lo è di conseguenza la possibilità di distacco, perché il trauma c’è, ma i figli non riescono a circoscriverlo esattamente, se non in merito alla questione ideologica: serve un delitto forse, serve la morte, e comunque non basta.
In un certo senso, la stessa cosa accade nella famiglia Luque, in merito all’attrazione di Dominique nei confronti della figlia Germana: la violenza sessuale è nell’aria, non viene mai attuata, ma lei la percepisce come una minaccia costante. Se suo padre l’avesse messa in atto, se avesse abusato di lei, Germana avrebbe visto la violenza e avrebbe potuto distaccarsene (con altre dolorose conseguenze, ovvio): mentre così, in questa sorta di potenzialità inespressa, lei non vede, o vede male, mette in dubbio la sua visione, si confonde, si crogiola nell’ambiguità, pensa: me lo sto immaginando o è vero? Mi vuole o è solo la mia immaginazione? Un po’ il discrimine che esiste tra violenza fisica e violenza psicologica. Forse per questo Germana ha la furia dell’incendio, vuole vedere il fuoco, sentire che brucia, mettere i suoi occhi di fronte al disastro, anche se la conseguenza è l’accecamento.

Al centro del romanzo ci sono loro, i due fratelli Gorane e Jokin.  Declini con cura e determinazione, a volte anche accanimento, la metafora dei gemelli, particolarmente adatta a rappresentare quella dicotomia esistenziale e universale che riguarda ogni individuo. Puoi approfondire il perché di questa scelta?
Tralasciando la sterminata bibliografia sui gemelli nella letteratura – la cui presenza nel mito, di solito, anticipa un conflitto – credo di averlo fatto per scindere da me due parti del carattere che confliggono e che ho provato a separare. Forse volevo fargli fare pace (scoop: non è successo). Ci sono sicuramente richiami più o meno consci a scritti che ho molto amato – la Trilogia della Kristof, Incendies di Mouawad, i Menecmi di Plauto – ma ci sono anche echi a coppie di fratelli «semplici» – penso a Un romanzetto lumpen di Bolaño – o a coppie senza alcun legame di parentela, come accade tra Molloy e Moran in Beckett. Ma perché no, anche Gospodinov.

I Menecmi di Plauto

Il nodo di questo romanzo è la mischia, la tentazione dell’indistinto, ben rappresentata dai gemelli, e la parallela tensione verso il singolo, il separato. La figura dei gemelli è espressione di questa doppia forza – la differenza nell’identità, l’identità nella differenza, ancor più spiccata quando dallo stesso parto nascono un maschio e una femmina – per cui mi è venuto naturale metterli in scena, erano i soli protagonisti possibili. Anzi forse i gemelli sono più di due: Germana moltiplica Gorane – lo vedi anche da come si somigliano i nomi – Jokin è un moltiplicatore di sé stesso, così come Gorane che ha addirittura tre nomi, i genitori, per il loro rapporto viscerale, si descrivono come «nemici e fratelli» mentre Dominique Luque è anche lui agente di una moltiplicazione falsata, ma allo stesso tempo rivelatrice di tutte le altre.
Questa tentazione dell’indistinto è anche la lusinga dell’infantile, «ciò che è ancora privo di forma» come si dice a proposito di Germana, il richiamo irresistibile del non crescere mai del tutto, di avere pronta una persona depositaria del nostro pezzo mancante a cui chiedere di noi. Come siamo, che cosa ci manca. Quando viene a mancare forse non ci vediamo più. Ha anche qualcosa a che fare con la fratellanza in senso più universale, credo, il sentire il dolore o il piacere dell’altro come nostro fino in fondo.
Il dolore dei miei personaggi non viene dalla solitudine, ma dalla perenne presenza dell’altro, anche se loro credono il contrario: Gorane pensa di soffrire perché suo fratello se n’è andato, mentre forse soffre di non riuscire a liberarsene. O forse questa sono io. Ho sempre confuso l’amore di coppia, quello sentimentale insomma, con quello fraterno. Posso tirare in ballo molte questioni teoriche, parlarti di Tournier o della brutta fine che fanno Eteocle e Polinice e di come la loro storia mi devasti, ma la verità è che questo romanzo è un’autobiografia storta ma verissima, quindi è con la mia vita, e non con i libri, che ho dovuto fare i conti. Avevo l’illusione di vedere meglio alcune parti di me, trasformandole in personaggi, di capirle meglio. O forse ho trasformato delle persone che amo in pezzi di me, per non dimenticarle. Ho grandissima difficoltà a delimitare i miei confini, a percepirmi come individuo separato dagli altri, e questo per la maggior parte del tempo mi causa problemi, ma nella scrittura mi viene in aiuto.

«Non sono qui per guarire nessuno, sono qui per restituire al malato la sua libertà. Forse è questo il ruolo di chi cura: condividere una parte della pena. Assumersi il dolore altrui, diluirlo e farlo sparire in qualche parte dell’universo». Carl Jespersen è lo psicoanalista che in momenti diversi ha avuto in cura i gemelli Gorane e Jokin. Lo incontriamo quando ha già compiuto la sua trasformazione, abbandonando i canoni tradizionali della psicoanalisi per un nuovo approccio, più visionario ma probabilmente più velleitario. Anche con la psicanalisi, come con la famiglia, hai messo in discussione i canoni classici? È veramente possibile diluire nell’universo tutto il dolore in circolazione?
Il merito di Jespersen – a parte le sue derive mistiche, a tratti retoriche – è di aver compreso che il lavoro di cura è prima di tutto una relazione tra due persone. Se per tutta la sua vita si è limitato a impartire una lezione e dispensare pillole, con Gorane gli accade di essere trasformato, non più di trasformare e basta. Per la prima volta è lui a ricevere un insegnamento, è lui a entrare in crisi. Questo lo ha reso ai miei occhi un personaggio da amare. Non mi interessava mettere in discussione nessun canone – c’è qualcosa di più conservatore, oggi, che andar contro alla tradizione? –, ma osservare il lavoro di uno psichiatra che comincia a dubitare dei suoi strumenti a seguito di un incontro con una paziente problematica facilmente classificabile come schizofrenica: potrebbe manipolarla, imporle una guarigione, ma sceglie di non prendere questa strada e di ascoltare il malato, più che la malattia; di rinunciare ai suoi punti fermi e vedere l’altro come un pari. Diciamo che si disfa della sua mentalità colonialista, comincia a guardare sé stesso con gli occhi dell’altro senza definirlo «barbaro», «anormale».
È questa la componente rivoluzionaria di Jespersen. Che poi la gestisca bene o male, questa sua intuizione, sono affari suoi. A me importava che accettasse di non rimuovere il dolore di Gorane e Jokin, di non risolverlo, ma decidesse invece di assumersene una parte; senza pretendere di guarirlo: piuttosto cercando di capire da dove viene, perché è arrivato e a che cosa serve.
Ho molto a cuore la questione dell’anormalità, del disagio psicologico, e penso che la parte migliore dei curatori si sveli nella loro capacità di immedesimarsi nella storia di qualcuno, soffrire con lui, accettando che certi mali non guariscono, ma si possono condividere. Un po’ è quello che fa anche la letteratura ed è il motivo per cui mi sono avvicinata a lei.
Come dicevo prima a proposito dei percorsi di una violenza, anche il dolore resta in circolo, si trasforma, passa da una persona all’altra, e forse il ruolo dei curatori non è disintegrarlo, farlo sparire, ma assorbirlo in parte, accettare questa invasione del dolore dell’altro, ed essere abbastanza equilibrati da non farsi distruggere.

«Mi chiamo Gorane, ho ventisei anni, e ho commesso un delitto. In questo autobus ci sono quarantatré persone, me compresa… Queste vecchie vanno in Francia per le ostriche, le rane e le luci. Io vado a Parigi perché ho letto un libro…ho letto un libro che racconta la nostra storia, la storia di me e della mia famiglia». Questo incipit (siamo nella seconda parte del romanzo) introduce un altro elemento portante di questa ardita architettura narrativa. Gorane va alla ricerca del fratello (e anche di sé stessa) seguendo le pagine del libro di Dominique Luque, lo «scrittore digestivo», come lo definisce il suo editore. Una felice scelta narrativa per riprodurre il binomio fiction – realtà restando comunque nell’ambito della creazione letteraria, quindi dell’immaginazione. Pretesto anche per sferrare un nuovo attacco, questa volta al mondo letterario e alle tipologie di scrittori che lo popolano, introducendo un’ulteriore riflessione sul significato della letteratura e della scrittura. Approfondiamo anche questi aspetti?
Non ho ancora capito se quello è un attacco o una forma di autocritica. Probabilmente entrambe le cose. Certo, le figure di certi scrittori e intellettuali, per come li vedo io da lontano, fanno ridere. Ho un po’ la spocchia dell’outsider, che però va bene, perché da minore posso sfottere chi mi pare. Più probabilmente, comunque, è un modo perentorio di porre una domanda.
Lo scrittore, di base, ha un ruolo fastidioso, perché non è mai davvero dentro a ciò che racconta, è sempre parzialmente salvo. Sono pochissimi gli scrittori che hanno davvero fatto la guerra, e non si sono limitati a raccontarla, a inventarla, scandalizzarsi, schierarsi di qua o di là. E spesso, quelli che l’hanno fatta poi l’hanno raccontata male. Questo è il mio parere, con le dovute eccezioni, ovviamente.
Ogni tanto penso che per essere scrittore devi per forza essere spostato, rispetto alla vita, rispetto ai fatti che racconti, che se ti ci immergi completamente, se partecipi, qualcosa si perde, diventi una schiappa. Se ti schieri da una parte, se scegli un nemico, cominci a vedere male. Questa lontananza è viltà o è il presupposto del talento? Non lo so.

Un libro nel libro, i verbali di polizia sugli interrogatori a Jokin, i resoconti e il diario dello psicoanalista Jespersen, le registrazioni di Gorane, dialoghi sempre efficaci e perfettamente sintonici con chi li sta esprimendo.  Maneggi con maestria e disinvolta raffinatezza registri e strumenti narrativi differenti, esplorando tutte le potenzialità della scrittura. Come è stato, a questo riguardo, il tuo percorso?
Una delle cose che mi piace di più al mondo è ascoltare gli altri, sentire come parlano, scovare i tic e gli intercalari rassicuranti su cui si appoggiano per prendere tempo o dare un ritmo ai loro racconti. Da piccola ero una discreta imitatrice (la mia specialità era Buttiglione) ed ero anche timidissima, una timidezza patologica che mi ha aiutato a tacere e a sviluppare alte capacità di ascolto, credo.
Per spiegarti come è andata, prendo in prestito le parole della mia insegnante di danza contemporanea: ci faceva lavorare con il legno, bastoni recuperati non so dove, ma soprattutto con il parquet del pavimento. Venivamo tutte dalla danza classica, una disciplina che impone una certa rigidità al corpo, e la sua intenzione era scioglierci, trasformarci in danzatori più malleabili. Una volta ci ha detto: il legno non cambia, non cambierà mai, è lì, e la sola cosa che potete fare, per ballare con lui, è imporre a voi stesse un cambiamento. Siete voi a dover cambiare per poter entrare in rapporto con il parquet, solo allora comincerà a fare qualcosa per voi, ad aiutarvi. Per un ballerino il rapporto con il suolo è fondamentale per saltare, ad esempio, ma fino ad allora non avevo mai concepito il mio lavoro come uno sforzo per entrare in relazione con qualcosa o qualcuno: lo consideravo solo in riferimento a me stessa – devo allenarmi, devo mangiare bene, devo essere costante – o in una logica di «sfruttamento» (più creo attrito con il suolo meglio salterò, il suolo «mi serve», lo devo usare). Lo stesso facevo con ciò che scrivevo: non permettevo alle trame, ai personaggi, di imporsi su di me. Io ero sempre più forte, il nostro era un rapporto noioso, prevedibile.
L’impressione che ho avuto subito con La mischia è stata quella di essere di fronte a un libro «più grande di me», come mi ha detto anche il mio agente un giorno: io non ero pronta a scriverlo, credevo di non avere la forza emotiva né la pazienza per affrontarlo, ma è come se lui mi avesse costretto a crescere. Era come il pavimento di cui parlavo prima: La mischia era lì, era già fatto e non sarebbe mai cambiato per fare un favore a me, perché io riuscissi a scriverlo come volevo io: l’unica chance che avevo era ascoltarlo e scoprire il più possibile la sua sostanza. Ho scoperto che era composita, sporca, stratificata, piena di grumi e addensamenti: l’esatto contrario del libro che «funziona», il libro accettabile da buttare giù tutto d’un fiato. C’erano tutti questi innesti e delle voci che non somigliavano alla mia, e che a volte volevano emergere nei modi più bizzarri, come registrazioni audio o interrogatori. Ho scoperto anche che questa sua natura frastagliata mi aiutava, mi faceva divertire: la scrittura era ritmata, la superficie increspata e piena di onde che dovevo essere brava a prendere.
Credo davvero che i romanzi esistano già, da qualche parte, e quando li troviamo dobbiamo portar loro rispetto e restituire la loro natura senza metterci in mezzo.

«Gorane, intorno a te il mondo si scioglie, tu ti irrigidisci, l’uovo si apre scoprendo il suo tuorlo rosso in una poltiglia di candore. Questa sei tu, quella eri tu. Cellula ricoperta da povero guscio. Bianco macchiato, macchia indelebile. Anche se adesso pari maciullata, sei sempre lo stesso uovo». Arrautza, che significa uovo in basco, è il titolo del terzo capitolo (quello dove dai voce ai genitori di Jokin e Goran). Gorane da piccola disegnava solo uova ed è diventata un’artista di successo dipingendo volti che somigliano a uova. Jokin sogna di sua madre intenta a riempirlo di un liquido bianco fino a farlo diventare un uovo. Uovo come simbolo di protezione e rinascita ma anche di vita o di morte, come prova a spiegare lo psicoanalista Jespersen. Uovo come metafora che ricorre in tutto il romanzo. Puoi spiegarne la sua origine e i suoi significati?
C’è da dire che prima di farne una metafora ricorrente è arrivata l’immagine di Gorane che si è messa a disegnare queste forme ovali o ellittiche senza che io capissi bene il perché. Ho cercato di andarle dietro e ho compreso non solo che il simbolo dell’uovo – insieme all’immagine dell’ellisse – era significante, ma che era una spia della struttura che andavo costruendo. L’ellisse ha due punti fissi, i fuochi, distanti e necessari l’uno all’altra affinché la figura resti in piedi. Li ho immaginati come Gorane, completamente chiusa, creatrice del suo mondo, respingitrice dell’esterno, e Jokin, che è tutto fuori, tutto «fatto» dagli altri, mutevole e senza centro, fagocitatore dell’ambiente esterno che ingloba quasi interamente nella sua immensa orbita. Gorane è tutta centro, lui ne è privo, diciamo che è un personaggio periferico di cui la sorella raccoglie i resti, provando a mantenerlo in vita. Gorane e Jokin sono una specie di sistema solare: anzi, sono gli astri principali di un sistema solare complesso che nella mia immaginazione ha assunto la forma di un ovale.
Sulla parallela metafora dell’uovo ci sarebbero troppe cose da dire perché è oggetto di miti molto complessi; in particolare a interessarmi, oltre alla visione che ne ha l’alchimia, è stato il simbolo dell’uovo cosmico, immagine dell’unità primordiale dell’essere, una sorta di mischia dove l’individuazione non è ancora avvenuta. Una delle coincidenze sorprendenti che ho incontrato scrivendo è che spesso, nelle rappresentazioni, attorno all’uovo cosmico si attorciglia un serpente, molto simile a quello che si avvolge attorno a un’ascia nel simbolo dell’ETA. Sembra una sciocchezza, ma mentre scrivo questi parallelismi mi lasciano senza fiato. Mi confermano che il romanzo esiste già, come ti dicevo prima, e che sono nella direzione giusta, sto levando via la sabbia e la sagoma che emerge è la sua, non la mia.

Molti si appassionano alla ricerca dell’autore di riferimento (ovviamente celeberrimo) per l’ultimo esordiente, forse più preoccupati di dimostrare erudizione letteraria che di leggere veramente la nuova opera. Nel tuo caso sono stati evocati i libri di Roberto Bolaño. A me interessa però chiederti chi hai incontrato lungo il tuo percorso di lettrice, chi non avresti voluto mai incontrare e chi al contrario mai dimenticare.
Non fagocito libri a macchinetta, e un po’ me ne vergogno. Leggo piano, non tantissimo, a me leggere fa male, devo essere emotivamente salda. Se stacco per due giorni, poi non riesco a riprendere da dove sono arrivata, ricomincio tutto daccapo, è faticoso. Rileggo molto – forse è una forma di codardia. Poi ci sono mesi in cui esagero.
Nella mia formazione ci sono i russi, in particolare Dostoevskij e Gogol’, i surrealisti francesi e il modernismo, soprattutto Eliot e Joyce. Proust dove lo metto? E poi tanta poesia italiana, gli italiani in poesia sono grandi. In tutti i secoli, anche nella contemporaneità – quando non si chiudono troppo. Mi piace molto Tozzi, gli voglio bene come a Campana. Preferisco Pavese a Calvino, Parise a Moravia, Arbasino e Cordelli a Eco, Samonà a Sciascia (tra questi ultimi la lotta è all’ultimo sangue).
Se dovessi farti i nomi dei miei grandissimi amori ti direi: Beckett, Kafka, Cervantes, Melville, Gramsci, Camus, Morante, Kosinski, Kristof, Campo, Borges (che ho cominciato ad amare da poco: anni fa, tranne qualcosa dell’Aleph, non riuscivo a trarne piacere, facevo troppa fatica). Bolaño non lo cito, ok? Comunque è uno degli ultimi arrivati. Ho macinato parecchio teatro, Čechov, Shakespeare, Kane, Pinter, Williams, Vișniec, Reza, Fosse, Mouawad. Sono bravi e bravissimi. Mi piace tantissimo leggere testi teatrali, più che andare a teatro, una volta mi ero messa in testa di scrivere un romanzo di sole didascalie.
Un immenso amore che ho è Artaud, ma non è un amore possessivo, vorrei lo amassero tutti quanti, ma non accadrà mai. Bernhard, Dürrenmatt e i romanzi gialli che rubavo a mia nonna. Stevenson è un grande, ti tiene attaccato alla pagina ed è uno scrittore coraggioso sul serio che non esibisce il coraggio. Ho scoperto Shelley Jackson (non Shirley) mentre scrivevo La mischia, mi hanno detto che i nostri libri avevano qualcosa in comune, è incredibilmente brava.
Mi vanto di essere nata lo stesso giorno della Bachmann (e Orwell, ma Bachmann mi fa inorgoglire di più). Ho incontrato per la prima volta la Lispector in un regionale, tornavo da Roma in lacrime, non riuscivo a fermarmi e lei mi ha dato un bacio leggero sulla guancia, mi ha aiutata. Non me ne dimentico.
Gli americani li leggo poco, non so molto degli americani. Ho letto qualcosa di DeLillo, penso mi sia piaciuto, ne ho un bel ricordo, a parte Zero K, ho letto diversi libri di Wallace, ma Infinite Jest no, non ce l’ho ancora fatta. Però sono contenta di averli incontrati. Tutta questa tensione nei confronti degli americani mi infastidisce. Roth non mi scuote più di tanto, ma quando è morto sono stata in lutto per due giorni: è senza senso. Guimarães Rosa mi fa saltellare e prudere il naso. Ultimamente ho una bizzarra intolleranza per le distopie, mi sembrano strategie finto radical per infiocchettare una morale. Passerà. I libri più sono brevi meglio è (autogoal).
Un autore con cui sono in lotta da tempo è Cortázar, l’ho immensamente amato per anni, adesso comincio a credere che ci abbia preso tutti per il culo. A volte lo penso anche di Beckett, piccoli screzi del nostro rapporto coniugale. Claude Simon l’ho tradotto e amato, non te lo consiglio (ma non è colpa sua): è proprio un autore che non puoi consigliare a nessuno, puoi sperare che qualcuno ci si imbatti, anche se non lo saprai mai, perché nemmeno lui oserà parlartene. Lo stesso vale per Juan Benet, è straordinario ma non leggerlo.
Un’autrice che ho scoperto da poco è Mavis Gallant, la immagino come un peperino di donna, scrive con una leggerezza strana, malinconica ma c’è sempre un’energia tra l’ironico e lo strafottente nei suoi personaggi che adoro. Secondo me ci staremmo simpatiche, mi immedesimo molto nelle sue donnine pazze che si chiudono in casa ed escono solo quando hanno la febbricola e la città è deserta. In un’intervista, mi pare, ha detto che vivere a Parigi è come non avere mai i documenti ed è la stessa cosa che sento anche io; o forse non è stata lei a dirlo, gliel’ho solo attribuito.
Un autore che non avrei mai voluto incontrare è Malraux: due palle. Ho mollato a metà Denti bianchi, ma questo non vuol dire che non avrei mai voluto incontrarlo; però ecco, mi sono annoiata, forse mi aspettavo troppo o non era il momento. C’è anche da dire che non sono una che insiste, abbandono uno scritto facilmente se non mi prende. Ho mollato anche Il libro dell’inquietudine, non mi sembrava abbastanza inquieto. Al liceo mi sono innamorata di Pasolini leggendo le Lettere luterane, ricordo nottate a saltare sul letto commossa o esaltata, ma leggere i suoi romanzi e le poesie mi ha delusa. Lo amo, ovviamente, come pensatore è grande.
In quarantena ho letto per la prima volta Sally Rooney perché avevo voglia di pettegolezzi e chiacchiere da bar. Ho avuto quello che volevo, ma davvero tutto questo casino per un librino così? Capisco che i vecchi provino una sorta di fascinazione esotica per il nostro approccio liquefatto alle relazioni e al sesso, capisco anche che a noi trentenni piaccia crogiolarci nel nostro approccio liquefatto alle relazioni e al sesso, ma urlare al caso letterario mi pare inquietante. Dove è finito quel «resistere all’aria del tempo» di camusiana memoria?
A me non piacciono i libri che non fanno attrito con la realtà. Ecco, mi dà fastidio chi scambia l’attuale per il contemporaneo; chi pensa che basti infilare in un testo i caratteri di una generazione per raccontarla. Questi autori non mi va di incontrarli, mi danno poco, la realtà mi piace di più, non ne ho bisogno. Forse per questo ho un bel problema con il cinema.

Concludo con la domanda di rito per Via dei Serpenti. In questo momento che cosa c’è da leggere sul tuo comodino?
Una trilogia palestinese di Mahmud Darwish, Kentuki di Samanta Schweblin, L’uomo Mosè e la religione monoteistica di Freud, e una vecchia edizione di Nadja di Breton che ho ritrovato nella mia libreria.

La mischia
di Valentina Maini
Bollati Boringhieri, 2020
pp. 496, 18,50€

Valentina Maini è nata nel 1987 a Bologna. Ha conseguito un dottorato in Letterature comparate tra Bologna e Parigi e ha pubblicato racconti su «retabloid», «TerraNullius», «Atti Impuri», «Horizonte» e altre riviste. Alcuni suoi articoli sono comparsi su «Poetiche», «La Deleuziana», i «Classiques Garnier». Con la raccolta di poesie Casa rotta, (2016) ha vinto il premio letterario Anna Osti. Traduce dal francese e dall’inglese. La mischia (Bollati Boringhieri, 2020) è il suo primo romanzo.

RACCONTI ITALIANI #4#5 – Intervista a Luca Romiti, una voce alla ricerca di sé

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

di Emanuela D’Alessio

Luca Romiti, romano di ventinove anni, quando ne aveva quattordici ha subìto un trauma leggendo  Samuel Beckett, dal quale non si è ancora ripreso. Ha iniziato a scrivere per necessità, poi per passione. Con la sua “voce”  fuori dal coro ha vinto le ultime due edizioni di 8×8, il concorso letterario dove si sente la voce (appunto). La sua scrittura arriva da poche ma insistenti letture, come Beckett o Berto.  Ora sta provando a adattare la forma racconto a un romanzo. Aspettiamo di leggere come è andata.

I suoi racconti Bologna è un enorme posacenere e Quasi si potesse

Sei nato a Roma e vivi a Roma, hai fatto il liceo scientifico e ti sei laureato in Lettere moderne  Puoi aggiungere qualche altro dettaglio a questa stringata presentazione?
Ho fatto la triennale e La Sapienza e subito dopo la laurea ho frequentato il corso principe per redattori editoriali di Oblique studio; poi mi sono trasferito qualche mese a Milano per uno stage nella casa editrice Indiana editore. Da Milano sono andato a Bologna per la magistrale e da Bologna a Torino per il biennio della Scuola Holden. Da un anno sono tornato a Roma.

Sei forse l’unico (a mia memoria) che ha vinto per due volte di seguito (quest’anno e nel 2018) il concorso letterario 8×8 ideato da Oblique. Complimenti, mi viene da dire, ma anche, perché tornare sul “luogo del delitto”?
Quest’anno ho scritto un racconto con uno stile particolare, molto diverso da quello scorso, e volevo metterlo alla prova. Avevo appena finito di leggere La cosa buffa di Giuseppe Berto e la sua voce mi aveva colpito molto. Allora ho scritto quel racconto, che per lo stile e in effetti anche per quel poco di storia che c’è è molto ispirato da quella lettura. Qualche giorno dopo è uscito il bando del concorso e l’ho inviato senza pensarci troppo. 8×8 è un bel concorso: ti permette di essere letto dagli addetti ai lavori e di entrarci in contatto, anche tramite l’editing; ricevi critiche e apprezzamenti che possono essere utili a dare una direzione a quello che scrivi. Insomma, è un modo per crescere, per farsi leggere e conoscere. E poi, ovviamente, per essere l’unico a vincerlo due volte.

La tua scrittura è una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
Ho cominciato a scrivere quando ho iniziato il liceo, ero abbastanza sfigato e quindi ho aperto un blog. Se me l’avessi chiesto allora avrei detto necessità: quella cosa per cui scrivere è l’unico modo per esprimere qualcosa che non riesci a tirare fuori in un altro modo. Scrivevo molto male. Questa fase è durata forse un po’ troppo, più o meno fino a ventitré anni. Poi, per fortuna, ho cambiato approccio. Direi che è conseguenza di una passione; per che cosa, di preciso, non lo so. Per la lingua, forse. Per un modo specifico di vedere le cose.

Samuel Beckett

Beckett diceva che «forse solo l’artista può finire per vedere (e, se si vuole, far vedere ad alcuni per i quali egli esiste) la monotona centralità di ciò che ciascuno vuole, pensa, fa e soffre; di ciò che ciascuno è». E questo focolaio lo chiama bisogno. Subito dopo dice che è il bisogno di avere questo bisogno a fare l’arte. Beckett era fissato con ciò che ciascuno è; ma penso che scrivere possa darti delle buone coordinate per capirlo (e, se si vuole, farlo capire ad alcuni). È quello che diceva Rezzori, che scriveva «per conoscere i segreti dell’io che non può mai andare perduto nonostante tutti i cambiamenti che attraversa nel corso della vita». Quello che scrivevo al liceo è davvero brutto e mi vergognerei a leggerlo al mio gatto; ma posso riconoscerci dei tratti di quella persona che diceva “io” a quattordici, quindici, ventitré anni.

Mentre leggevo Bologna è un grande posacenere mi è venuto in mente Thomas Bernhard. Senza alcuna velleità di trovare i tuoi modelli letterari, vorrei solo evidenziare come la tua “voce” sia risultata immediatamente fuori dal coro, distante dai canoni stilistici più tradizionali. Puoi provare a spiegare come si è formata?
Nel caso di questo racconto la voce è derivata, come ti dicevo, dalla lettura di Berto – da La cosa buffa più che da Il male oscuro. Lo stile dei due romanzi è molto simile ma forse nel Male oscuro è ancora più estremo; ne La cosa buffa, anche per l’uso della terza persona, è più controllato e dà un po’ più di respiro al lettore.  È un tipo di voce che mi interessa, ansiosa di parlare ma allo stesso tempo molto preoccupata di essere compresa. Scrivere con quella voce è anche un ottimo esercizio: mette in evidenza tutti i tic linguistici, le scelte “facili”; la quasi totale assenza di punteggiatura impone un controllo su tutta la struttura della frase. In generale direi che si è formata con le letture, poche ma piuttosto insistenti.

Eudora Welty diceva che nel racconto non importa la fine ma come ci si arriva. I tuoi racconti, essenziali ma ricchi di dettagli, soddisfano in pieno questa caratteristica. In 8000 battute sei riuscito a raccontare un mondo intero, lasciando comunque libero il lettore di interpretare e concludere. È un risultato straordinario di cui sei consapevole?
Non la conosco, ma sono d’accordo con Eudora. Il finale, e la storia in generale, non mi interessa molto, né in quello che leggo né in quello che scrivo (e questo, soprattutto nell’ottica di un romanzo, è un problema abbastanza grosso). Qualcun’altro diceva che il racconto è un pezzo di storia a cui manca il prima e il dopo. In genere ho in mente un’immagine, piccola, precisa e banale (un pranzo dalla nonna; due fratelli che cercano insetti; un ragazzo che lascia una ragazza dicendole “ti amo”) e comincio a scriverci intorno. Poi, se è un buon racconto, non parlerà solo di quello. Non sono consapevole di come ci arrivo e spesso mi capita di arrivarci senza rendermene conto. Però credo di essere bravo a capire se, alla fine, ci sono riuscito oppure no.

La forma racconto è in genere quella prescelta per mettersi alla prova e farsi conoscere. C’è chi, a torto, considera il racconto una forma di scrittura meno impegnativa del romanzo, più semplice da gestire. Nel tuo caso il racconto sembra essere la naturale conseguenza di una vocazione. Pensi di poterla “adattare” a un futuro romanzo?
Ci sto provando. Il progetto a cui sto lavorando adesso potrebbe essere una specie di adattamento di quella forma al romanzo, come già ce ne sono state tante (penso a Felici i felici o a Tutto quello che non ricordo). Il mio problema però rimane la storia: quel prima e dopo che nei racconti non compare ma che in un romanzo è necessario.

Prima di scrivere si deve (o dovrebbe) leggere. Hai citato tre libri che hanno aggiunto qualcosa di importante nella tua vita. Puoi spiegarci che cosa? Quali sono stati e sono i tuoi percorsi di lettore?
Nella mia famiglia leggeva solo mio padre, e leggeva solo classici. Io ho cominciato alle medie, prendendo libri a caso dalla libreria. Quasi sempre mi imbattevo in libri non proprio adatti. A dodici anni, per esempio, ho pescato Frammenti di un discorso amoroso. Trauma. Pensavo che i libri fossero una cosa esclusivamente da grandi e quindi volevo leggerli; ma non li capivo. Poi, finalmente, sono incappato nella saga dei Malaussène. Ma è stato un caso. Ho ricominciato a pescare a caso e all’inizio del liceo ho letto Watt di Beckett. Altro trauma, ancora non superato. Penso sia da lui che derivi l’ossessione per la lingua. Leggo poco, comunque. Ritorno spesso ai libri che conosco, mi piace rileggere piuttosto che leggere. Ho conservato un approccio infantile: prendo un libro, lo comincio, mi stanca subito, lo abbandono, ne comincio un altro e così via. Poi torno a quello che conosco.
Riguardo ai libri che ho citato: Casa d’altri è un racconto lungo, la  cui storia sta dentro una parentesi (un prete viene mandato in un paesino sperduto sull’Appennino e forse si innamora di una vecchia); ma la lingua è ipnotica, sembra una cantilena. Ci puoi leggere frasi come «Me ne venivo giù dalle torbe di monte. Né contento né triste: così.», oppure «Era vero, e così respirai». Il Tristram è forse il libro più divertente che ho letto; uno dei primi che ha giocato con la struttura del romanzo. Le storie mi interessano poco: mi piacciono i libri che si distinguono per la voce, che continuano a parlarti e a suggerirti un modo di vedere le cose.

Qual è la tua libreria ideale e ti è capitato di entrarci almeno una volta?
Non saprei dirti com’è fatta. A dire il vero, in libreria, non ci vado quasi mai. Continuo a rubare i libri da quella di mio padre, quando mi capita di andare a casa sua. Oppure li compro usati (in via Silla, a Roma, c’è una libraia sommersa dai libri: è incredibile, ma sa dove trovare ogni libro che le chiedi). C’è una libreria in cui passo sempre quando capito a Bologna, ma solo perché è a fianco al bar.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
I libri sul comodino sono la conseguenza di quell’approccio infantile (e del mio disordine). Alcuni sono lì da chissà quanto e non li ho neanche aperti; alcuni li tengo come amuleti, altri non so come ci siano arrivati. Ora sono questi: Nemico, amico, amante… di Alice Munro; Gli scrittori inutili di Ermanno Cavazzoni; Vizio di forma di Thomas Pynchon; Renuntio vobis di Sergio Claudio Perroni; La cosa buffa di Giuseppe Berto; Sillabari di Goffredo Parise; Watt di Samuel Beckett; Il pataffio di Luigi Malerba.

*Luca Romiti è nato a Roma nel 1990. Si è laureato in Lettere moderne a Roma e dopo una breve incursione nella piccola editoria a Milano ha concluso gli studi a Bologna. I suoi racconti  Quasi si potesse e Bologna è un enorme posacenere hanno vinto le ultime due edizioni di 8×8 e sono stati pubblicati sulla rassegna Retabloid di Oblique. Il racconto Insettile è uscito sul numero #12 di L′Inquieto.
I tre libri che hanno aggiunto qualcosa di importante alla sua vita: Casa d’altri di Silvio D’Arzo; Il male oscuro di Giuseppe Berto; Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne.

RACCONTI ITALIANI #3 – Intervista a Laura Fusconi, una voce che arriva dal passato

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

di Emanuela D’Alessio

Laura Fusconi, piacentina, ha 28 anni, lavora come grafica e appena può scappa in campagna per leggere e disegnare. Scrive storie per piacere. «Ci sono storie ovunque, alcune sono così belle che è un peccato vadano perse». Per scrivere ci vogliono pazienza e umiltà, ma più di ogni altra cosa «prepararsi a sputare sangue». A settembre uscirà il suo primo romanzo, Volo di paglia,  nato da una fotografia di sua madre del 1981,  «lei bella come il sole al castello di Boffalora, dove aveva affittato una stanza per l’estate». La “voce” di Laura Fusconi arriva dalla sua infanzia, dalle letture di Roald Dahl, dal suo film preferito Novecento, dalle fotografie della nonna.

Sei nata a Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, pochissimi anni fa, dopo gli studi classici ti sei dedicata alla grafica e alla scrittura, passando dalla scuola Holden di Torino. Hai scritto qualche racconto ma sei subito arrivata al romanzo, di cui aspettiamo l’uscita a settembre. Ebbene, che cosa fai in attesa di trovare il tuo primo libro in libreria?
In realtà continuo la mia vita di sempre: lavoro come grafica nel reparto creativo di un’azienda di Lodi e nei weekend scappo in campagna, a Verdeto, dove posso leggere, disegnare con gli acquerelli e farmi viziare dalla cucina di mio padre.
Certo, il pensiero del libro in uscita rende belle anche le giornate con trentasette gradi passate sui binari ad aspettare treni in ritardo.

Raccontare storie è, per te, una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
Raccontare storie per me è un piacere: mi diverto a inventare situazioni e personaggi, a scrivere dialoghi e a cacciare qua e là dettagli, pezzi di frasi e di persone che mi hanno colpito. Ci sono storie ovunque, alcune sono così belle che è un peccato vadano perse. Mi piace fermarle sulla carta. Avere l’impressione di riuscire in qualche modo a trattenerle.

Hai frequentato la celebre scuola Holden che, nel tuo caso, sembra aver determinato ottimi risultati. Devo quindi ricredermi sull’effettiva utilità delle scuole di scrittura?
I due anni della scuola Holden sono stati un tempo mio in cui ho potuto chiedermi se scrivere era davvero quello che volevo fare. Il confronto quotidiano con tanti ragazzi di talento ha rappresentato per me uno stimolo e un’occasione fondamentale per riflettere. Lì ho incontrato Leonardo Luccone, che mi ha subito colpito per la sua sensibilità e il suo gusto in ambito letterario.
Per quanto riguarda le scuole di scrittura in generale, credo che possano rappresentare una palestra significativa: certo non insegnano propriamente a scrivere, ma letture, incontri, discussioni, analisi ed esercizi aiutano a focalizzarsi meglio sulla scrittura e a trovare la propria voce. Il rischio da scongiurare è quello dell’appiattimento e dell’omologazione, perché l’originalità e l’anticonformismo non sempre vengono premiati.

Da una parte ci sono le scuole di scrittura con costi di iscrizione anche elevati, dall’altra i forzati del self publishing, sempre più numerosi e incoraggiati dalla prospettiva di celebrità a costo zero e senza intermediari. In mezzo ci sono gli agenti letterari, ad esempio Oblique Studio che ti rappresenta, e in un angolo le centinaia di manoscritti nelle case editrici con l’unica prospettiva di prendere polvere. Che cosa c’è di giusto e sbagliato, necessario e superfluo in questo scenario?
Non mi ritengo la persona adatta per dire cosa c’è di giusto o di sbagliato in tutto questo: sono l’ultima arrivata. Nel mio piccolo, parlando della mia esperienza, penso che le parole chiave siano pazienza e umiltà. La pazienza perché il tutto e subito non esiste, e l’umiltà per non credere che quello che hai scritto sia da Nobel e tu un genio incompreso perché al 99% non lo sei. Penso sia sbagliato voler pubblicare a tutti i costi senza confrontarsi: puoi piangere finché vuoi, ma è fondamentale ascoltare le critiche, tutte, tornare e ritornare testa china sul proprio lavoro, lasciare da parte presunzione e arroganza che non portano a niente, trovare un buon agente, cercare di pubblicare su riviste, online e soprattutto cartacee e, più di ogni altra cosa, prepararsi a sputare sangue.

Soffermiamoci sul tuo racconto Le bambole non muoiono, una storia dai toni fiabeschi che, come tutte le favole, si nutre di mistero e magia, sempre in bilico tra realtà e fantasia, con un finale che lascia un brivido di inquietudine. Il tuo sguardo contemporaneo si sofferma sugli echi del passato per restituire voce a chi non è più. Uno sguardo profondo e intenso che suscita sorpresa e incanto. Da dove arriva questo sguardo?
Arriva dalla mia infanzia, dai miei genitori, dalle domeniche passate nella casa delle zie di mia madre, dai libri di Roald Dahl che leggevo da piccola, dalle storie che inventavo per terrorizzare mia sorella e da quelle che raccontava mio fratello non facendomi dormire la notte. Arriva da Novecento di Bertolucci che è il mio film preferito, dalle foto che mia nonna tirava fuori da una scatola di latta che teneva sopra l’armadio.

I tuoi racconti sono comparsi, oltre che sulle rassegne di Oblique, su alcune riviste letterarie. Qual è o dovrebbe essere il ruolo delle riviste letterarie nel mondo (ristretto) dell’editoria: palestre di scrittura, trampolini di lancio, luoghi culturali alternativi, rifugio per disillusi?
Le riviste letterarie sono un’occasione per chi vuole scrivere, una tappa fondamentale nel percorso di un autore dato che rappresentano il primo momento di confronto con l’editoria e il pubblico. Leggerle è piacere per la cura, l’attenzione ai dettagli e alla qualità che le caratterizzano.

Non parleremo ovviamente del tuo romanzo, Volo di paglia, perché lo faremo quando lo avrò letto. Però posso chiederti di raccontare rapidamente la sua gestazione, che mi sembra sia stata abbastanza lunga, e ancor prima, la sua idea originaria e l’incontro con Leonardo Luccone.
Del romanzo posso solo dire che è stato un lavoro lungo e bellissimo, non si arriva mai alla fine: ancora adesso non ci credo; forse quando lo vedrò in libreria incomincerò finalmente a realizzare. L’idea originaria è una fotografia di mia madre: 1981, lei bella come il sole al castello di Boffalora, dove aveva affittato una stanza per l’estate.

Scrittori e libri non possono fare a meno delle librerie, che restano sempre l’anello più debole della filiera editoriale. Confesso di non sapere affatto se Piacenza sia o meno una città viva sul piano culturale e letterario. Né conosco il contesto librario piacentino. Puoi fornire tu qualche indicazione?
La mia città ospita da sempre festival culturali di caratura nazionale: il mio preferito era Carovane, che ha portato in Italia scrittori come Luis Sepúlveda e Paco Ignazio Taibo II.
Lì, da ragazzina, avevo incontrato Bianca Pitzorno: era stata un’emozione farmi fare la dedica su Ascolta il mio cuore, quando ancora mi stavano antipatiche tutte le bambine che si chiamavano Sveva ed ero sicurissima che avrei chiamato mia figlia Prisca. Ora il posto di Carovane è stato preso dal festival blues Dal Mississippi al Po, che alla letteratura ha aggiunto la musica. In città ci sono tre librerie indipendenti (Fahrenheit, Bookbank, Romagnosi) che costituiscono importanti punti di aggregazione.

Come dovrebbe essere la tua libreria ideale e ti è capitato di entrarci almeno una volta?
Una via di mezzo tra Shakespeare and Company a Parigi, Strand a New York e City Lights a San Francisco: un posto pieno di divani e corridoi stretti, dove puoi passare ore a vagare tra gli scaffali e a parlare coi librai e con altri lettori.

Che tipo di lettrice sei (ordinata, compulsiva?) e qual è stato fino ad ora il tuo percorso di lettura?
Leggo molto, da sempre, di tutto. Quando trovo uno scrittore che mi è affine divento compulsiva e leggo tutto quello che trovo di suo. I primi che mi vengono in mente sono Cesare Pavese, Haruki Murakami, Irène Némirovsky, Kent Haruf, Alice Munro, Marilynne Robinson ed Elizabeth Strout. A proposito, non smette di emozionarmi il pensiero che il mio Volo di paglia uscirà proprio nella stessa collana dei romanzi Olive Kitteridge, I ragazzi Burgess, Resta con me, Amy e Isabelle.

Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
In questo momento La famiglia Aubrey di Rebecca West. In pianta stabile La luna e i falò di Cesare Pavese, Il fucile da caccia di Inoue Yasushi, La banda dei brocchi di Jonathan Coe e tutto il teatro di Sarah Kane.

 

 

Le parole chiave di effe – Intervista a Carlotta Colarieti

di Emanuela D’Alessio

Con Carlotta Colarieti, editor e curatrice di effe – Periodico di Altre Narratività, abbiamo fatto il punto su un progetto editoriale che in cinque anni si è inserito a pieno titolo nel mondo delle riviste letterarie. Le parole chiave sono: la ricerca di voci inedite da affiancare  a voci già note, l’abbinamento tra racconto e illustrazione, la pubblicazione cartacea senza ristampe, la distribuzione diretta, il rapporto personale con i librai.
effe è un progetto auto-sussistente che riesce a finanziare ogni nuova uscita con le vendite del numero precedente.

Tra gli autori comparsi nei sette numeri di effe ci sono: Paolo Cognetti, Luca Ricci, Enrico Macioci, Athos Zontini, Riccardo Gazzaniga, Paolo Zardi, Vins Gallico, Demetrio Paolin.
Tra quelli che invece hanno scritto su effe da esordienti e poi sono arrivati alla pubblicazione ci sono: Luciano Funetta, Elisa Casseri, Gianni Agostinelli, Elvis Malaj e Alessandra Minervini.

Il numero #effe8 è in preparazione. Il tema scelto è Disobbedienza.

Illustrazione di Alessandra De Cristofaro

Nel viaggio tra le riviste letterarie indipendenti, compiuto da Il Libraio nei mesi scorsi, una tappa è dedicata anche a effe, il semestrale di narrativa inedita illustrata di cui sei editor e curatrice. Proviamo a definire rivista letteraria? E qual è lo stato di salute di cui godono attualmente le riviste letterarie in generale?
Il compito di una rivista letteraria dovrebbe essere quello di sondare gli umori della scena narrativa contemporanea garantendo contenuti inediti – racconti di autori emergenti affiancati da nomi noti, nel caso specifico di effe – a cui i lettori, e talvolta anche gli addetti ai lavori, non sono ancora giunti.
A rendere unico il ruolo delle riviste letterarie che danno spazio agli esordienti è proprio la loro funzione di primo filtro e di raccordo tra le diverse figure che ruotano intorno alle storie: l’autore inedito, che ha la possibilità di confrontarsi con una redazione, con tutto ciò che questo comporta (sofferenza compresa); il lettore, che si ritrova tra le mani materiale narrativo impossibile da reperire altrove, perché in gran parte costituito da firme ancora non pubblicate; l’addetto ai lavori, che può interessarsi a una rosa di voci nuove e sempre diverse con la garanzia di una prima e durissima selezione.
Attualmente le riviste letterarie in Italia sembrano andare alla grande, godendo anche di una certa crescente considerazione tra gli editori. Il prezzo di questa condizione è il fatto che le riviste letterarie che hanno reali legami con il mondo editoriale sono relativamente poche, e che in passato, tra gli altri, anche progetti molto validi hanno ceduto al peso della fatica e dei costi, non sempre sostenibili.

effe, costola della storica rivista online Flanerí, è rigorosamente su carta. Perché questa scelta apparentemente in controtendenza?
Ora come ora gli aspiranti autori – e non solo loro – hanno la possibilità di accedere facilmente a un pubblico di lettori senza dover passare per la mediazione di qualcuno. Ovviamente si tratta di una condizione vantaggiosa solo in apparenza: quando tutti hanno visibilità, nessuno ce l’ha veramente.
La percezione della mancanza di un filtro che stabilisca la qualità di ciò che viene pubblicato online fa sì che anche quelle realtà che si occupano di scouting e di narrativa con uno sguardo professionale fatichino a conquistare l’attenzione dei lettori, persino di quelli più attenti, che ogni giorno si trovano di fronte a infinite possibilità di lettura, ma con lo stesso identico tempo da dedicargli.
Per noi la scelta della carta va di pari passo con i suoi limiti: pubblicare su carta significa affrontare un investimento in termini economici, dover programmare tutto con molto anticipo e occuparsi della distribuzione in libreria, tutte cose che impegnano tempo e persone a vari livelli. Ed è per questo che pubblicare autori esordienti su carta equivale a legittimarli: scommettere a ogni uscita su un numero ridotto di voci che nessuno conosce ma che devono rispondere a un livello qualitativo alto, in grado di reggere il confronto con gli autori noti che pubblicano su effe i loro racconti inediti.

A cinque anni dalla prima uscita, con sette numeri all’attivo e un altro in preparazione, possiamo trarre un bilancio e fornire qualche numero. Ad esempio, quanti racconti sono stati pubblicati, quante copie della rivista sono state vendute, quanti librai hanno recepito la rivista mettendola in vendita nella loro libreria, quanto costa tutta l’operazione?
Su effe sono passati 62 racconti e altrettanti autori, molti di più – circa un centinaio – gli autori provenienti dallo scouting della redazione che poi hanno pubblicato i loro racconti nella sezione di narrativa inedita di Flanerí. Abbiamo quasi terminato le copie degli scorsi numeri, molte sono state vendute tramite lo shop online di 42Linee, lo studio editoriale che si occupa della redazione del volume e per il quale molti di noi lavorano, moltissime altre tramite le circa quaranta librerie indipendenti nelle quali siamo distribuiti. Fare un preventivo sarebbe impossibile: i costi variano a seconda della foliazione di ogni singolo numero. Dopo cinque anni
però, possiamo affermare che effe è un progetto auto-sussistente che riesce a finanziare ogni nuova uscita con le vendite del numero precedente.

Illustrazione di Daniela Tieni, effe #3

Le caratteristiche più evidenti di questo originale progetto editoriale sono l’abbinamento racconto-illustrazione (che fa venire in mente la rivista WATT, ideata da Leonardo Luccone e Maurizio Ceccato), l’individuazione di un tema per ogni numero, l’accostamento tra esordienti sconosciuti e scrittori già affermati. Se ce ne sono altre ti prego di aggiungerle, provando anche a spiegarne il perché.
Un altro aspetto al quale teniamo moltissimo è il rapporto con i librai, ogni uscita è a tiratura limitata, non sono previste ristampe e le copie, dal quarto numero in poi, sono tutte numerate. Inutile dire che il nostro lavoro non servirebbe a nulla se non avessimo librerie di qualità alle quali appoggiarci. Ci avvaliamo di una distribuzione diretta, il che significa che siamo noi stessi a gestire i rapporti con i librai e le libraie. Non è solo una questione di praticità: parlare con chi ha un contatto diretto con i lettori, ascoltare quello che hanno da dire, scegliersi a vicenda, muoversi con gli autori in giro per l’Italia, sono iniziative fondamentali per l’identità del progetto, la cui indipendenza passa anche da queste scelte.

Soffermiamoci sugli aspetti organizzativi e operativi. Quante persone sono coinvolte nel progetto e quali sono i ruoli identificati.
Oltre a me, la redazione è composta da Dario De Cristofaro, direttore editoriale e editor, Francesco Scarcella, editor, Alessandra De Cristofaro, art editor, Giulia Zavagna, redattrice e traduttrice per effe #7 e la nostra new entry Silvia Bellucci, ufficio stampa.

Quali sono i criteri di selezione dei racconti che decidete di pubblicare?
Di un autore ci interessa prima di tutto la cifra, non deve rispondere a caratteristiche prestabilite ma deve possedere un tono deciso e personale. Ovviamente in una rivista che si occupa di short stories anche la costruzione del racconto è fondamentale ma tutti gli autori sono seguiti da un editor prima della pubblicazione e tutti i racconti vengono editati. In generale posso dire che discutiamo molto prima di arrivare alla formazione definitiva di ogni singolo numero.

Illustrazione di Irene Rinaldi del racconto di Gianni Agostinelli, effe #2

La rivista pubblica racconti italiani ma anche di scrittori esteri. Come funziona lo scouting a livello internazionale?
effe si occupa narrativa italiana e così continuerà a fare in futuro. In occasione dello scorso numero, effe #7, abbiamo deciso di sperimentare guardando all’estero, per farlo ci siamo rivolti a otto traduttori, grazie all’aiuto di Giulia Zavagna – editor e traduttrice per Edizioni Sur e membro della redazione – li abbiamo interrogati riguardo alla loro personale visione di ciò che manca, eppure meriterebbe di essere letto anche qui. Il risultato sono otto racconti di autori assolutamente inediti in Italia da Brasile, Francia, Islanda, Repubblica Ceca, Stati Uniti, Sudafrica, Turchia e Uruguay. Tutti illustrati da artisti dei rispettivi paesi.

La considerazione che la forma racconto in Italia goda di pessima salute sembra esser sempre più contraddetta dai fatti. Registriamo un vivace fermento di progetti editoriali incentrati esclusivamente sul racconto. Penso al caso più eclatante della casa editrice Racconti edizioni che, tra l’altro, ha appena pubblicato il suo primo autore italiano Elvis Malaj (un suo racconto è uscito proprio su effe). Che cosa ne pensi e che cosa puoi dirci di Elvis Malaj?
I ragazzi di Racconti edizioni hanno capito che la forma racconto può incontrare il favore del pubblico, soprattutto se svincolata dall’eterna competizione con il romanzo, e noi non possiamo che essere d’accordo con loro. Siamo orgogliosi ogni volta che un autore arriva alla pubblicazione dopo essere stato letto per la prima volta su effe, è capitato in passato e speriamo che continui a capitare in futuro.

Che cosa c’è da leggere sui comodini di effe in questo momento, cominciando dal tuo e da quelli degli altri redattori che vorranno rispondere?
Sul mio comodino c’è Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura (minimumfax), su quello di Dario De Cristofaro c’è Walter Siti con Bruciare Tutto (Rizzoli). Giulia Zavagna sta leggendo Lincoln nel Bardo di George Saunders (Feltrinelli), Francesco Scarcella L’ombra dell’ombra di Paco Ignacio Taibo II (la Nuova frontiera) e Silvia Bellucci Mio padre la rivoluzione di Davide Orecchio (minimum fax). Sul comodino di Alessandra De Cristofaro c’è Il mestiere di scrivere di Raymond Carver (Einaudi).

Carlotta Colarieti è nata a Roma, dove vive e lavora. È redattrice editoriale e editor dello studio editoriale 42Linee e curatrice dell’antologia periodica effe – Periodico di Altre Narratività.

 

L’estate del cane bambino – Mario Pistacchio e Laura Toffanello

UNA STAGIONE DA LEGGERE  Rubrica dedicata alle stagioni nei libri, perché ogni storia ha la sua stagione.

di Emanuela D’Alessio

ESTATE – L’estate del cane bambino di Mario Pistacchio e Laura Toffanello

Menego aveva quattordici anni, io, Michele e Ercole dodici, Stalino quasi, e il cane nero chissà. Era l’estate del 1961. Il nostro mondo di allora era fatto di morti che resuscitavano per uccidere pescatori ingrati, di velieri portatori di peste, topi e vampiri, di nuvole combattenti e cavalieri inesistenti. Era un tempo in cui le leggende erano vere, e se qualcuno ci avesse detto che non era possibile che un bambino si trasformasse in cane, ci saremmo stretti nelle spalle, infischiandocene.

Ogni occasione era buona per uscire di casa, stare insieme e divertirci. Le partite di pallone, gli appostamenti per sbirciare le ragazze della lavanderia Veronese, le battaglie sui monti di sabbia, le sigarette rubate da dividerci alla Base, i tuffi nella laguna, le battute di pesca aspettando qualche pesce gatto, era tutto perfetto. Così perfetto che niente avrebbe potuto rovinarlo, neanche i pallosi lavoretti che i genitori ci affibbiavano ogni estate, obbligandoci ad aiutarli negli orti come toccava a me, Michele e Menego, oppure nell’officina come doveva fare Stalino. Ce l’eravamo ripromesso: quell’anno nemmeno Narciso, a cui Ercole doveva badare mentre i suoi erano al lavoro, sarebbe stato un problema. E, perlopiù, ci stavamo riuscendo alla grande.

Grandioso, dissi tra me prima di prendere dal comodino Il conte di Montecristo, il libro che la professoressa di italiano mi aveva dato da leggere durante le vacanze. Senza nemmeno spogliarmi mi sdraiai sul letto e lo aprii dove avevo messo il segno. Dall’inizio dell’estate non ero andato molto avanti, perché nonostante ci fosse qualche bella pagina di avventura era una palla colossale.

copertinaDi L’estate del cane bambino, l’esordio letterario di Mario Pistacchio e Laura Toffanello, uscito nel 2014 per 66thand2nd, abbiamo già parlato in questa recensione e nell’intervista agli autori.

L’estate del cane bambino è una storia di dolore e vendetta, di colpe taciute e mai rimosse, di speranze interrotte e sogni infranti, una storia sull’ineluttabilità della perdita.

In questi due anni il libro ha fatto molta strada, dalla candidatura al Premio Strega 2015 alla Danimarca, dove il libro sarà tradotto.

È anche tra i finalisti del Premio letterario della città di Rieti, la cui cerimonia di premiazione si svolgerà questa sera alle 21.

L’estate del cane bambino
Mario Pistacchio e Laura Toffanello
66thand2nd, 2014
pp. 218, € 16

Vanni Santoni, indomito intercettatore di voci letterarie

di Emanuela D’Alesssio

Conosciamo Vanni Santoni, giornalista e scrittore pubblicato, tra gli altri, da Feltrinelli, Mondadori, Laterza e Voland, come promotore di Torino una sega, l’iniziativa letteraria organizzata a Firenze nel 2011, il cui nome è un ironico e toscanissimo sberleffo all’alquanto paludato e istituzionale Salone del Libro. Santoni è anche l’ideatore, insieme a Gregorio Magini, del progetto SIC (Scrittura Industriale Collettiva), romanzo collettivo pubblicato da minimum fax nel 2013.
Dal 2013 è direttore della collana di narrativa per Tunué, giunta al suo ottavo titolo con Mescolo tutto, di Yasmin Incretolli, «testo viscerale, scritto in presa diretta» che rappresenta «un’Italia giunta al capolinea valoriale, però senza l’ombra di un giudizio o di una morale, e tantomeno di ironia».

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Ecco l’intervista.

Ho chiuso il libro di Yasmin Incretolli, Mescolo tutto, con una sensazione di frustrazione per non essere riuscita a raccogliere la sfida di questa ventiduenne che ha scelto di sorvolare sui contenuti e puntare tutto su un linguaggio “altro” per rivolgersi al lettore. Mi è sorto anche il dubbio che non fosse nemmeno il lettore il punto di arrivo dello sforzo narrativo dell’autrice. È questa la nuova frontiera della narrativa e a chi vorrebbe rivolgersi?
Non credo che un autore debba scrivere i propri libri pensando ai lettori. Ci deve pensare magari subito prima, certamente subito dopo (e l’editore, com’è ovvio, ci pensa sempre), ma la letteratura è altro e deve venire da esigenze più profonde.
Mescolo tutto è, appunto, un testo viscerale, scritto ‘‘in presa diretta’’, che sorge dall’incontro tra un travaglio esistenziale e una storia di letture bulimica e tutta particolare, possibile solo in giovane età, in cui romanzi adolescenziali classici si sono mescolati a testi sperimentali, e la lingua di opere ‘‘alte’’ si è ibridata con quella del rap italiano più popolare ascoltato anche dalla protagonista dello stesso romanzo. Non credo che Incretolli abbia ‘‘sorvolato sui contenuti’’, a meno che tu intenda la trama, la quale comunque, nella sua deliberata esilità, non è banale nel ribaltare gli stilemi classici della letteratura adolescenziale per innescare poi una seconda parte in stile picaresco: a livello di contenuti mi pare ci sia molto, anzitutto una rappresentazione della condizione della donna nell’Italia di oggi che dice più di molta sociologia da quotidiano.

Che cosa hai trovato di convincente e vincente nel testo?
Ho scoperto Mescolo tutto grazie agli estratti dai finalisti del Premio Calvino, che ogni anno vengono pubblicati sull’Indice dei libri del mese. Il pur breve testo di Incretolli spiccava per l’inventività della lingua, per l’inedita costruzione della frase ma anche, più profondamente, per una certa consapevolezza – o meglio, vista l’inesperienza, un intuito – strutturale che non si vede di solito negli esordienti.
Leggendo poi il manoscritto, ho notato altri aspetti di valore anche a livello, appunto, tematico: su tutto il disegno di un’Italia giunta al capolinea valoriale, rappresentato però senza l’ombra di un giudizio o di una morale, e tantomeno di ironia. Semplicemente era il mondo che l’autrice aveva visto e vissuto: l’unico mondo possibile. C’era un candore totale, unito però a una già discretamente sviluppata capacità per l’organizzazione dei materiali narrativi.

Come è stato il lavoro di editing? A parte il titolo, che da Ultrantropo(rno)morfismo è diventato Mescolo tutto, quali altre trasformazioni sono state necessarie, se ce ne sono state?
Il testo grezzo richiedeva un paio di interventi di peso, che hanno impegnato l’autrice per qualche mese. Innanzi tutto, la seconda metà del romanzo era scarna rispetto alla prima, quindi ho chiesto a Incretolli di ampliarla con nuove scene, che dessero più respiro al viaggio di Maria e alla decisiva parte della festa in villa. L’altra questione da risolvere era l’organizzazione dei ‘‘corsivi’’: il romanzo è strutturato, oltre che in due parti più un intermezzo, su una doppia linea temporale, quella principale e una seconda, costituita da piccole scene in flashback e in corsivo riguardanti la storia tra Maria e il compagno di scuola Chus. Queste parti non avevano ancora trovato l’ordine più efficace. Così Yasmin le ha riorganizzate fino a trovare la linea giusta (il che ha incluso una brillante intuizione sulla collocazione di quello che è ora l’ultimo di essi) e in alcuni casi, per far funzionare il ‘‘flusso’’, ha dovuto farne fuori alcuni e scriverne di nuovi.
Svolto questo compito, siamo passati all’editing più minuto, dove ci siamo concentrati sullo ‘‘scaricare’’ alcuni passaggi in cui la lingua iperbarocca della protagonista non era necessaria, passaggi che anzi rischiavano di fare ombra a quelli in cui le circonvoluzioni e i barocchismi erano cruciali.

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Di Yasmin Incretolli si sa che ha ventidue anni, vive a Roma e poco altro. Molti autori si sottraggono, anche un po’ sdegnati, alla richiesta di parlare di sé. Invece per me è importante ricomporre il profilo di uno scrittore, oltre che dalle sue opere anche dalla vita reale. Lo chiedo a te, pertanto: chi è Yasmin Incretolli?
Personalmente tendo a concordare con gli scrittori che si sottraggono a tali richieste quando scollegate dal lavoro letterario (diverso sarebbe il caso di uno scrittore che, avendo vissuto eventi di particolare rilievo in senso assoluto, ne ha poi scritto), poiché credo che sia opportuno valutare esclusivamente i libri. Va da sé poi che, vista la giovane età, la biografia di Incretolli è quella di una qualunque ragazza di vent’anni. È cresciuta a Roma, ha fatto il liceo artistico, ora è iscritta a Lettere.

Mescolo tutto è l’ottavo titolo della fortunata collana Romanzi di Tunué che stai curando con grande passione e notevole successo. Penso soltanto a Iacopo Barison e Luciano Funetta, entrambi esordienti se non sbaglio, selezionati come finalisti alle ultime due edizioni dello Strega. Ma anche di tutti gli altri si è parlato moltissimo. Che cosa ti aspetti dal libro della Incretolli?
Finora, al di là degli exploit davvero mirabili dei due autori che citi, coi loro Stalin+Bianca e Dalle rovine, tutti i nostri titoli hanno funzionato molto bene, nessuno ha ottenuto meno di cinquanta recensioni e quasi tutti sono andati in ristampa, per non parlare dell’entusiasmo dei lettori espresso sui social e alle presentazioni. Da Mescolo tutto mi aspettavo, e mi aspetto, quello che sta già accadendo, ovvero che venga letto e che se ne scriva molto.

Ogni titolo della collana è un prodotto a sé stante, con temi e scritture differenti, una raccolta di generi, sperimentazioni stilistiche e semantiche, prove d’autore ostiche, talvolta irriverenti e sprezzanti, senz’altro non rivolte al lettore medio italiano (ammesso che ne esista uno). Allora perché destano interesse conquistando schiere sempre più nutrite e fedeli di lettori?
La sfida dei Romanzi Tunué, che oggi possiamo dire vinta (ma ciò non toglie che continuare così e riuscire a rilanciare sarà comunque difficile), era scagliata anzitutto a questa idea di ‘‘lettore medio”, e di inseguimento del medesimo, che ho sempre ritenuto fallace. Può avere senso per una major, che ogni anno deve raggiungere numeri che sarebbero molto difficili da ottenere facendo solo fiction letteraria ricercata, ma fin dalla progettazione della collana avevo chiaro che, in un contesto che per cercare di sedurre il fantomatico ‘‘lettore da un libro l’anno’’ stava trascurando da molto tempo il lettore che invece di libri l’anno ne legge trenta o cinquanta, era necessario tornare a rivolgersi proprio a costui. Il primo passo per farlo era rendere valore all’idea di collana, e questo, al di là di altre questioni comunque importantissime come l’identità grafica e la scelta dei primi titoli, lo si fa stabilendo un patto col lettore. Il lettore deve arrivare a fidarsi, a sapere che quando compra un titolo di quella collana, anche senza saperne niente, non gli verrà mai data la ‘‘sòla’’. Di conseguenza quello che ho cercato fin dall’inizio di dire con questa collana, e che continuo a dire, è che pubblicheremo sempre e solo i testi che ci sono sembrati migliori da un punto di vista letterario. Niente di più semplice. Il paradosso è magari il fatto che oggi sembra quasi un’affermazione radicale. Corollario a questo patto è la fiducia da dare al lettore. Ricordo che al lancio dei primi due titoli un editor di una grande casa editrice disse che le nostre bandelle erano troppo laconiche, che dovevo dire di più sulla trama, ‘‘spiegare’’ maggiormente il romanzo. Ovviamente non gli diedi retta: credo anzi che sottovalutare il lettore sia tra i principali errori commessi da molte case editrici italiane in questi anni. I lettori forti sono svegli, hanno gusti precisi e strutturati, non si spaventano facilmente, e soprattutto non amano blandizie, didascalicità e specchietti per le allodole.

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Mi vengono in mente libri come Settanta acrilico, trenta lana di Viola Di Grado, Zoo col semaforo di Paolo Piccirillo, Un giorno per disfare di Raffaele Riba, Dalle rovine di Luciano Funetta, Il grande animale di Gabriele Di Fronzo, e non dimentichiamoci dell’esordio di Alcide Pierantozzi, Uno indiviso, che proprio Tunué ha trasformato in graphic novel nel 2014. Ad accomunarli sono la giovanissima età degli autori, l’indipendenza degli editori, scritture scomode e difficili. Mi ricollego alla prima domanda: è in atto una trasformazione della letteratura contemporanea di cui questi giovani scrittori sono le avanguardie?
Sicuramente si può isolare un filone della ‘‘giovane’’ narrativa italiana contemporanea che, nell’ambito di un momento molto positivo in termini generali, va in questa direzione. Ne ha scritto, in un eccellente pezzo per Rivista Studio, proprio lo stesso Alcide Pierantozzi. L’indipendenza degli editori delle opere che citi, però, indica solo che le major, oggi, osano molto meno, e prima di pubblicare un esordio atipico ci pensano molto di più – a volte troppo. O forse, più semplicemente, che dopo l’esplosione della ‘‘bolla degli esordienti’’, la parte ‘‘ricerca e sviluppo’’ dell’editoria è tornata, come del resto accadeva prima, a essere appannaggio delle piccole e indipendenti.

Prima di essere editor di Tunué sei scrittore e giornalista. Alcide Pierantozzi afferma che quello che hai scritto «la dice lunga sul perché hai trovato spazio e autonomia dentro una factory di fumetti e graphic novel» come la piccola casa editrice di Latina.  Hai esordito con Personaggi precari (RGB, ora Voland), hai ideato il collettivo di 115 autori SIC e coordinato la stesura di un romanzo storico, In territorio nemico, uscito nel 2013 da minimum fax. Quali sono i collegamenti tra Tunué e la “tua vita precedente”?
Non parlerei di ‘‘vita precedente’’, tutte le mie attività editoriali sono ben collegate al mio mestiere di scrittore. È vero che, al di là dei miei romanzi individuali, che rimangono la linea principale del mio lavoro, ho sempre inteso la letteratura come un fatto sociale: mi sono formato su una rivista autoprodotta che faceva mille riunioni e andava in giro a promuoversi, quando la rivista ha terminato le pubblicazioni ci siamo inventati il progetto Scrittura Industriale Collettiva, e che oltre ai quotidiani ho sempre collaborato con blog letterari come Nazione Indiana, minima&moralia, Carmilla, Le parole e le cose proprio per continuare a stare in rete con altri autori, critici e lettori. Credo dunque che l’attività di direzione della collana di narrativa di Tunué sia un passaggio naturale di un percorso di continua interazione con gruppi di persone che leggono e scrivono.

logo-tunucCon una collana chiamata Romanzi credo sia improbabile imbatterci nel genere racconti tra i prossimi titoli di Tunué. Perché questa scelta così netta ed esclusiva?
La scelta di fare solo romanzi, e di dirlo chiaramente fin dal titolo della collana, deriva dalla succitata necessità di darsi un’identità forte e immediatamente riconoscibile.
È chiaro poi che alcune scelte, anche quelle poi rivelatesi vincenti, si coagulano in realtà in base ad esigenze anche strettamente pratiche: facciamo romanzi e non racconti anche perché essendo io romanziere, sono più competente nell’editing di testi in forma lunga, e mi interessa/riesce di più aiutare scrittori di romanzi a trovare la propria voce; facciamo romanzi brevi perché, per garantire una forte ‘‘accessibilità’’ anche economica ai nostri libri, oltre a distribuirli in Creative Commons, volevamo tenere un prezzo di copertina molto sotto la media, e la paginazione è la cosa che influenza di più il costo finale; ci siamo specializzati negli esordi perché il caso ha voluto che i due migliori titoli trovati al momento della preparazione della collana, e quindi le nostre prime due uscite, che molto pesano nel caratterizzare poi il progetto, erano esordi; anche la nostra veste grafica, che tanti consensi ha raccolto, derivava anzitutto da una necessità pratica: quella di differenziare in modo netto la narrativa Tunué dal prodotto principale della casa editrice, i fumetti.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Sto leggendo il terzo volume della trilogia-capolavoro Abbacinante, di Mircea Cărtărescu, L’ala destra; Sillabari di Goffredo Parise; I fondamenti del disegno di John Ruskin. Sto rileggendo Proust (in questo momento: La prigionera) dato che sto rientrando in una fase di scrittura intensa ed è sempre il miglior modo per accordare la prosa.

 

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