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Natale – Giuseppe Ungaretti

UNA STAGIONE DA LEGGERE Rubrica dedicata alle stagioni nei libri, perché ogni storia ha la sua stagione.

INVERNO – Natale di Giuseppe Ungaretti

Auguriamo il nostro Buon Natale con questa poesia di Giuseppe Ungaretti.
È il Natale del 1916 e Ungaretti è in licenza a Napoli dal fronte della Prima Guerra Mondiale.

Natale

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare.

VERSI – Alessandra Racca, Consigli di volo per bipedi pesanti (NEO edizioni)

VERSI – La rubrica dedicata alla poesia

È in uscita il nuovo volume di Alessandra Racca, che abbiamo intervistato per la rubrica Versi, Consigli d’amore per bipedi pesanti. Poesie tenere, graffianti, fuori dal comune, per una poetessa che sa dire osservando i dettagli, sa scrutare in profondità nel quotidiano, dove l’amore è una bestia ineluttabile e terribile, ma dolce.

Ci sono già diverse date di presentazione, la prima è domani sera 14 maggio in occasione degli eventi collaterali al Salone di Torino, alle 21 alla Luna’s Storta, libreria indie torinese; la seconda per il decennale di PoesiaPresente, in un evento tutto al femminile intitolato Amore con lo spacco a Monza, il 20 maggio alle 21 a Villacontemporanea. Ecco qui un assaggio.

STORIA DI UNA LUMACHINA
Prima c’è stata la casa madre
stanze grandi e grande amore
poi la casa del primo amore
piccole stanze corpi e parole
poi c’era la casa
ma s’era perso l’amore
e venne fuori che prima
ci eravamo persi noi
poi c’erano case e strade e scoperte
tetti, stanze strette e camini
e c’era il farsi grande
il farsi tetto, stanze e cammino
e anche l’amore avevo imparato
che ovunque andavo
lo portavo con me

Barattolo luminoso
Ci metto le lucciole
poi le faccio fuggire
oltre la dispensa, è banale,
sta il prato
ed è giusto così

Barattolo della contemporaneità
Ci metto la mia connessione internet
mi sento perduta
chiedo alla vicina la sua password
passo tutta la serata in bagno
perché in cucina
non si prende il wifi

Barattolo dei giochi da grandi
Ci metto la marmellata che non ho mai fatto
è buonissima
molti gusti speciali
sono una campionessa di marmellata
dovreste assaggiare quella all’infantilismo cronico
alle fantasie

NIDO, GERMOGLIO, CREATURA
Dove cede il passo
dove si sgrana il contorno
la luce si oscura
lì, il punto dove sostare
vicini molto vicini a sé
abbracciati alla propria natura
nido
germoglio
creatura

Poesia degli amanti che ballano balli diversi
Mi domando che forma avranno questi anni
quando li guarderemo – da quell’altra prospettiva
più vicina alla fine, questi anni di metà
Tutte queste mattine che d’improvviso mi metto acorrere
e dico stammi dietro, stammi accanto
e tu che ti metti a ballare sul posto
non sai i passi del tango eppure sostieni
che meravigliosa milonga io e te!
ma non vedi non vedi che quel che balli è foxtrot?
come pensi di invitarmi a un valzer
se metti su musica rock?
Poi vorrei che finalmente facessimo quel difficile
doppio salto mortale, ma tu non ti alleni
e d’improvviso mi parli, dalla cima di un albero dici:
che ci fai ancora laggiù, s’era detto di salire!
Non è pericoloso fare doppi salti mortali
dalla cima degli alberi? grido – e m’è difficile il salire
soprattutto se mi domandi: quale doppio salto mortale?
Ma son mesi, anni che ne parliamo:
allora vedi che mentre fai a cazzotti non mi ascolti?
Poi mi pare che segretamente ci intendiamo nel
sonnocercandoci i corpi gli incastri delle ossa, una forma aperta
protetta avvolta nel respiro doppio, intrecciato,
mio tuo mio tuo mio tuo finalmente cadenzato ritmico
a tempo e nel sogno mi dico allora è giusto, alloraforse sì
Ma a vedersi da laggiù
mi domando come ci apparirà tutto questo
se la bellissima bellissima doppia elica
la spirale generatrice o il buco nero il
vagare
insensato
particelle
microscopiche
troppo
piccole
isolate
intoccate
niente

AI BAMBINI DEI MIEI AMICI
Queste infanzie
che crescono mutando
gli anni
di uomini e donne che amo
queste infanzie
intorno a me
le osservo giocare, nei letti
sui seggiolini
dentro case che ho visto
cambiare
accogliere minuscoli passi
strilli e pupazzi
cosa ne verrà, di queste infanzie?
cosa ne farete, piccole mani
delle stanze dei giochi
della luce, dei pomeriggi
della noia, dell’estate
della paura del buio
delle cose che spalancano gli occhi
di ciò che è piccolo
di tutto questo amore
delle voci nelle cucine
dei padri e delle madri
fatene un luogo segreto
fatene una fonte
fatene una scatola grande
un fiocco rosso
fatene ancora un gioco
una ribellione
fatene un regalo magnifico
destinato al futuro

VERSI – Giacomo Sandron: Cossa vustu che te diga

VERSI – La rubrica dedicata alla poesia

di Anna Castellari

Sarebbe facile dire, di questo libro edito da Samuele Editore, che si tratta di un viaggio. Ma dire che è un viaggio è riduttivo. Mi viene più da chiamarlo “compendio”, una sorta di enciclopedia delle figure letterarie che costellano l’universo, fortemente connotato geograficamente, da cui proviene Giacomo Sandron. È una geografia umana quella che ci invita a conoscere attraverso le strofe di questo libro, un’umanità verissima e radicata nel proprio territorio.

Sandron l’ho conosciuto negli anni universitari a Trieste. Animatore culturale, poeta, artista (ultimamente realizza quadretti con ritagli di carte colorate, un po’ alla Alberto Burri), da oltre dieci anni è parte del comitato organizzativo di notturni diversi, “piccolo festival delle poesie e delle arti notturne” che si svolge ogni luglio a Portogruaro (Venezia), la sua cittadina natale.

11248_1264149246991_7451309_nIl dialetto, la vita dei campi, l’oro de me nona (“l’oro di mia nonna”), che dà il titolo a una sezione del libro, e anche la mia lunga amicizia con Giacomo mi fanno sorgere spontanea una domanda: ma quanto contano le radici nella tua poesia? «Qualche anno fa» risponde dopo averci pensato un poco «ti avrei detto che le radici sono tutto, che nella mia poesia si sente l’attaccamento alla terra. Ma oggi non la vedo più allo stesso modo. Noi non siamo piante, siamo persone, e risentiamo dell’ambiente che ci circonda, che sia quello in cui siamo nati o quello in cui viviamo». Pure, il riferimento alle radici è ben presente nella prefazione al volume di Fabio Franzin: «Se il borgo, il paese, sono ormai entità vuote in cui l’anima accesa non trova più simboli o risorse, la realtà della fabbrica, del capanon, lo sono ancor di più. Non resta che tornare alle radici, o meglio alle radicee, le foglie del tarassaco».

Un cambio di prospettiva, quello che mi ha dichiarato Sandron, che mi stupisce un po’, che mi fa crollare qualche certezza: ho sempre visto lui, e il gruppo che lo circondava a Portogruaro (il Porto dei Benandanti, come si fanno chiamare), accomunati tutti da un senso di appartenenza molto forte.

Ma in questa risposta c’è qualcosa di più profondo, che dimostra l’evoluzione di un pensiero: apparteniamo sì alla terra, ma anche all’ambiente che respiriamo. Siamo Benandanti non solo nel senso della tradizione friulana (“nati con la camicia” che si radunavano a ogni passaggio di stagione, armati di mazze di finocchio per combattere i Malandanti, stregoni che combattevano con canne di sorgo, ndr), ma anche nel senso che possiamo “andar bene” nel mondo, respirare ovunque la cultura del luogo e diventare ogni volta una persona diversa, che si esprime in nuovi modi.

I mille modi in cui si può esprimere Sandron formano le sezioni di questo libro. Si parte subito con il titolo che dà nome alla raccolta, un canto privo di retorica, dichiarazione di odio e di amore verso il paese natio, luogo svuotato di un’identità contadina in favore di quella industriale, per poi approdare al mondo quotidiano del paese. Sandron scrive prevalentemente nel dialetto di Portogruaro, un dialetto che già di suo suona di frontiera, un veneto misto a parole friulane (proprio per la posizione al confine con la regione Friuli). Ma non mancano scritti in italiano, che ugualmente ricercano un ritmo e una musicalità raffinati, un crescendo di versi che a volte sconfinano nel dialetto, quasi ad affermare con la propria “marilenghe”, mi si passi il termine, un significato più profondo nelle parole. Un dialetto che, casualmente, è di questa area geografica, ma potrebbe essere il romagnolo, se l’autore fosse nato in Romagna, tanto che cita il compianto poeta Raffaello Baldini e l’ironia dei suoi versi: «E pu basta, a m so stòff,/ l’è tòtt i dè cumpàgn, u n s nu n pò piò./ A m vì fè crèss i bafi!» che fa il paio con i versi di Sandron che seguono: «E insoma basta, me son stufà, no ghe a vanto/ xe ora de darghe un taio far un cambiamento/ me fasso cresser i cavei i pei de la barba i pei/ che me vegna fora dal naso dai busi del naso/ (…)».

sandron1Non manca una sezione dedicata al lavoro, Tochi e ochi strachi (“Pezzi e occhi stanchi”). La malattia professionale, che aveva dato il titolo in passato a una plaquette realizzata a mano dalla “capanna editrice” Sartoria Utopia, è riportata qui. Lo struggimento della catena di montaggio, l’umanità tra gli operai, la difficoltà del lavoro quotidiano, le tecniche da adottare durante il lavoro, descritte meticolosamente. Leggendo i versi di Sandron, questi temi sembrano appartenere oramai a un tempo lontano, eppure sono di una decina di anni fa: la fabbrica, come la vita dei campi ancora prima, ha lasciato il posto a capannoni dismessi, e quei capannoni costellano le distese di pianura del Veneto come topi morti. Una visione del mondo che influenza la vita dell’io narrante, che lo proietta in un desolato labirinto di disperazione e di depressione. Qui l’autore è l’uomo contemporaneo immerso nella crisi, che fatica a trovare un posto nel mondo e si sente alieno a tutto.

Il già citato L’oro de me nona sembra quasi una “sbobinatura” dei discorsi della nonna del poeta, una vera e propria registrazione delle storie che animano la vita di un tempo. La nonna, donna oggi quasi centenaria che ho avuto la fortuna di conoscere, racconta dei problemi quotidiani in maniera leggera, è una figura d’altri tempi per la quale contano poche cose, concrete e reali: il che si può riassumere con la frase De quel che xe no manca niente, un modo saggio e ironico, tipico di quelle terre, per dire che di quello che c’è non manca niente, che l’indispensabile lo abbiamo e il resto è fuffa. “L’oro de me nona/ xe fiori che no buta/ vasi veci/ de do vite fa/ xe tera nera e basta” (“L’oro di mia nonna/ sono fiori che non sbocciano/ vasi vecchi/ di due vite fa/ è terra nera e basta”). Bastano anche solo questi versi per capire tutta la poetica che sta dietro alla raccolta, la figura d’altri tempi che li ispira, i discorsi infiniti che riguardano i bisogni primari, il cibo, le persone, le gite parrocchiali, gli affetti.

Veduta dei campi di Summaga (Portogruaro) con le Alpi Carniche di sfondo. Foto: Marco Segato

Campi a Summaga (Portogruaro) e Piancavallo di sfondo. Foto: Marco Segato

«Non è una raccolta propriamente in ordine cronologico, bensì in ordine tematico» mi spiega Sandron. «Ho riunito testi scritti nel corso degli ultimi dieci anni, ma componendoli in modo da raccontare una storia».

Sia come sia, credo che questo libro serva a mettere il punto a un lungo percorso e discorso poetico, e a sdoganare nel panorama letterario italiano un autore che merita attenzione, attento osservatore e interlocutore di un mondo in continuo cambiamento. Con l’augurio che non si fermi e continui a “cercare”.

Giacomo Sandron
Cossa vustu che te diga
Samuele Editore, 2014
€ 12

Per acquisti: samueleeditore.it

VERSI – Alessandra Racca: L’amore non si cura con la citrosodina

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VERSI – La rubrica dedicata alla poesia

A cura di Anna Castellari e Chiara Rea

Alessandra Racca è nata a Torino nel 1979. Ha pubblicato Poesie antirughe e, sempre per Neo Edizioni, è uscito nel 2013 il volume L’amore non si cura con la citrosodina, raccolta di riflessioni in forma di versi sulla vita, l’amore, le contraddizioni, i legami familiari, le cose piccole che rivelano un mondo di verità mai sbandierate come incontrovertibili. Racca porta in giro le sue poesie con la sua voce in reading che vanno da nord a sud su tutta la penisola, fa spesso il tutto esaurito e, non contenta, organizza e partecipa a gare di poesia nella sua città natale e altrove.

I suoi versi mostrano il mondo crudo ma accogliente, se lo si sa guardare con il distacco di chi riesce a sintetizzarlo nella scrittura. Potremmo parlare di una poesia consolatoria? Non proprio, ma forse soltanto perché “consolatoria” è un aggettivo che tradisce una vena di negatività. Forse, il termine esatto è “dolceamara”.

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Buongiorno Alessandra. Per prima cosa vorrei chiederti quando e come hai iniziato a scrivere poesia.
Buongiorno a te (voi). Ho iniziato a scrivere poesia, come moltissimi, in adolescenza. Scrivevo versi brutti e pretenziosi che mi fanno molta tenerezza riletti ora. Poi, per fortuna, ho smesso di scrivere poesie e mi sono formata. Ho letto, ho fatto esperienze altre di scrittura, sono cresciuta. Ho ricominciato a scrivere poesie attorno ai venticinque anni, con la fine dell’università, in piena crisi esistenzial-occupazionale e sentimentale. Stavo cambiando pelle e, come a volte accade, questo tipo di cambiamenti in atto mi dava modo di osservare le cose con quella sorta di “meraviglia” e “sguardo laterale” che sorgono a volte dalla perdita di punti di riferimento e che per me è molto fecondo per la scrittura. C’era qualcosa di simile agli anni dell’adolescenza in quel periodo – lo smarrimento, l’osservare molto, essere alla ricerca di senso, l’essere molto in contatto con la propria “voce” – però nel frattempo ero maturata e la mia voce si era fatta diversa. Poi non ho più smesso.

La tua poesia è fatta di piccole cose che, procedendo per gradi, sviscerano grandi verità, senza avere la pretesa di essere verità universali fanno parte del vissuto di chi scrive. Come lavori normalmente per arrivare a questo?
Non credo di essermi mai detta “adesso parto da una cosa piccola della vita quotidiana per procedere verso una ricerca di significato più ampia”, ma ciò che desta la mia attenzione (poeticamente parlando) ha già in sé quella che potrei definire “una direzione”: ci sono oggetti, eventi della vita quotidiana, pensieri, idiosincrasie che mi colpiscono perché funzionano come varchi verso una dimensione altra, carica di senso. Spesso le poesie nascono da epifanie. Questo non si sceglie: non mi dico “ora parlo di questo”, accade. Il fatto che la mia attenzione vada sul piccolo avviene forse perché, senza questa dimensione “altra”, la vita di ogni giorno mi sarebbe insopportabile e muta. Però il “lavoro” vero e proprio lo faccio sul linguaggio, nel senso che la maggior parte delle volte una poesia nasce da un agglomerato di parole, da un ritmo, che cerco di seguire. Non so perché una parola a un certo punto ti pare perfetta per quel verso, mentre ne hai provate e scartate altre dieci, però è così, a un certo punto sai che quella parola è giusta. Allora il lavoro più grande che faccio è cercare la precisione del linguaggio, una precisione che porta in sé una sorta di accordatura, di armonia fra il suono e il senso delle parole. Non è semplicissimo da spiegare e in parte è un processo abbastanza misterioso anche per me, la sensazione è quella che le poesie “si scrivano” e di “seguire una voce che detta”, ma ovviamente non è così. Credo si tratti semplicemente di uno stato di grande concentrazione in cui si permette a parti inconsce di emergere e al contempo si prendono tantissime decisioni coscienti, si operano tantissime scelte nello scrivere una poesia.

Qual è l’importanza dell’oralità nella tua poesia e nella poesia in generale, oggi in Italia?
Non so se si possa parlare di oralità nella mia poesia: io le poesie le scrivo e le penso sulla pagina, questo mi porta molto lontana da tradizioni orali in senso stretto. È vero però che la poesia che scrivo è molto legata al suono e al ritmo, come spiegavo sopra, ed è ad alta voce che leggo quello che scrivo per capire se “mi va bene”. È poi altrettanto vero che già prima che venisse edito il mio primo libro, ho iniziato a fare delle letture pubbliche, perché amo moltissimo dare spazio alla dimensione sonora delle poesie che scrivo e mi piace farlo da me, perché è così che voglio vengano lette. In uno scatenato delirio di onnipotenza vorrei poter leggere ad alta voce le poesie che scrivo a chi le incontra, molto più di “essere letta” dai lettori. Quanto alla situazione italiana, conosco molte persone che condividono come me questo modo di scrivere, inglobando nel processo di scrittura la dimensione “ad alta voce” e considerando quello delle letture in pubblico un atto comunicativo al pari della pubblicazione.

Parlando sempre di oralità, ricordo che i tuoi lavori spesso sono ascoltabili attraverso i reading che compi in giro per l’Italia. Come è iniziato questo tuo lavoro sulla voce e la performance? Come si sta evolvendo?
È iniziato nel salotto di casa mia. Avevo queste poesie che non avevo mai fatto leggere a nessuno, ma desideravo farlo. Allora ho invitato un po’ di amici diversi per un tè e ho letto loro le poesie, avvisandoli di essere sinceri e spietati: “Se fanno schifo dovete dirmelo”. Volevo vedere le loro reazioni perché trovo non ci sia molto di più veritiero nella reazione di un pubblico, per quanto fosse piccolo quel mio primo: se quello che fai non piace, non arriva, lo percepisci, perché l’energia non circola, le persone si distraggono. Uno può mentirti, venti no. Mi son detta, se quello che scrivo può interessare venti persone oltre a me, forse può riguardare e essere interessante anche per altri. E così è stato. Di lì a poco ho organizzato un’altra lettura pubblica e così via, le situazioni hanno iniziato a moltiplicarsi. All’inizio avevo una paura e un imbarazzo tremendo, leggere ad altri mi piaceva e mi terrorizzava: ho imparato a leggere in pubblico leggendo in pubblico, avevo fatto delle esperienze di teatro in precedenza che sicuramente mi sono servite, tuttavia credo di essermi ritagliata un “modo” mio di relazionarmi con il pubblico e il testo a partire proprio dalle mie paure, esponendomi e rischiando sempre un po’ di più. Non ho seguito un metodo, ma l’istinto, avendo rispetto della mia timidezza e giocando con il mio narcisismo. Ho iniziato usando oggetti e “travestimenti” perché mi proteggevano, poi sono arrivata a fidarmi della lettura pura. I pregi e i limiti di questo modo di fare sono molto evidenti, credo, nel bene e nel male. Non ho cercato il virtuosismo, ho cercato il piacere per me perché ho visto che questo si trasmetteva agli altri. Non sono un’attrice, ma ho chiaro il fatto che se scegli di leggere poesie in pubblico devi porti delle questioni. Non si tratta solamente di leggere ad alta voce davanti ad altri. Si tratta del tuo corpo intero, di come vuoi muoverlo, si tratta di direzionare l’attenzione altrui, si tratta di decidere come usi il testo, il tempo, le pause. Ho collaborato con musicisti e musiciste e questo mi ha aiutato molto, oltre a farmi percepire chiaramente la differenza fra un testo letto a “voce nuda” e un testo letto interagendo con la musica. Ora, pian piano, sto superando la poca fiducia nella mia memoria e il mio tenermi saldamente ancorata “fisicamente” alla pagina, e sto sperimentando “il dire” a memoria. Questo cambia ancora di un po’ le cose.

Le piccole cose riguardano il presente ma anche il passato. Penso per esempio alle poesie dedicate a tuo nonno, nel quale rivive un dialetto piemontese in una scrittura mimetica molto interessante. Per te, suppongo che si tratti della lingua della famiglia, con la quale si ha un rapporto viscerale. Come è nato il tuo lavoro di scrittura in dialetto?
La poesia che citi è l’unica che io abbia scritto, a oggi, in dialetto, perché mio nonno e il suo mondo non potevano che essere raccontati così, attraverso questa lingua. Il mio lessico familiare è l’Italiano, infarcito di piemontesismi e di slang, è la lingua dei miei genitori, di me e mia sorella ragazzine. Il dialetto è una lingua che so e che saprei anche parlare, ma che non pratico. È la lingua dei miei nonni e di una grandissima parte della mia infanzia; ora, per me è anche la lingua del passato, perché i miei nonni non ci sono più e infatti l’ho usata per raccontare la morte del mio ultimo nonno e, con quel lutto, la fine del rapporto vivo e diretto che avevo con il suo mondo lento, radicato nella dimensione piccola del paese, obsoleto, pensionato. Un mondo che è legato a doppia mandata con il Piemontese. Dopo non ho più avuto altre esperienza di scrittura in dialetto, ma so che è una lingua molto feconda per me. Una cosa certa è che quella poesia è stata scritta in dialetto anche perché sapevo che l’avrei letta in pubblico, il dialetto, per me, esiste unicamente fuori dalla pagina.

Spesso vieni “incasellata” nel gruppo di poeti che lavorano facendo performance, poesia ad alta voce, contrapposto all’altro gruppo di coloro che invece lavorano sulla carta e non sull’oralità. A mio parere questa è una classificazione ormai superata, per cui l’importanza di un poeta non va situata nel suo fare o no performance, ma nella qualità dell’indagine linguistica, nell’espressione di contenuti inediti e nella capacità di fare breccia nel pubblico. Tu come ti poni in questo dibattito?
Non mi pongo in nessun modo perché lo trovo abbastanza inutile posto in termini di “chi è meglio di chi altro”. Quel che conta è la qualità e la consapevolezza del mezzo che si utilizza. Leggo grandi schifezze pensate solo e unicamente per essere lette e assisto a letture ad alta voce capaci di imbarazzare e annoiare come poche altre cose al mondo. Così come, invece, sono grata all’autore quando leggo e quando ascolto cose che mi piacciono. Detesto gli atteggiamenti di chiusura da ambo le parti. Il mondo della poesia può essere un gran pollaio, con tutto il rispetto per galline, pavoni, galli, tacchini e affini.

Negli ultimi tempi il fenomeno performativo si è tradotto anche nella “istituzionalizzazione” delle gare di poesia con vincitori scelti dal pubblico, il famoso poetry slam che in Italia ha mosso i primi passi nei primi anni duemila grazie al lavoro di Lello Voce. È nata così la LIPS, Lega Italiana Poetry Slam, che ha formato un vero e proprio campionato nazionale la cui prima edizione si è conclusa a maggio scorso a Monza. Vuoi parlarci di questa esperienza? In quale modo sei coinvolta in questa esperienza?
Partecipo e organizzo poetry slam da qualche anno e l’idea di creare una connessione fra le varie scene italiane che permettesse a poeti e organizzatori di circuitare e confrontarsi mi è parsa un’ottima cosa, perciò ho aderito e ora faccio parte del gruppo di coordinamento della Lips. Molto si è fatto e molto c’è da fare. Personalmente mi interessa lavorare sull’internazionalizzazione – in modo che lo slam italiano entri in contatto con le scene europee – sulla formazione e di conseguenza sulla qualità delle performance e dei testi che si offrono al pubblico. Poi, lavoro su Torino, che è la mia città, e rispetto alla quale sono molto orgogliosa del lavoro che si è fatto in questi anni, insieme ad altri, per avvicinare il pubblico a queste serate di poesia.

Che libri hai sul comodino?
Sto leggendo Il sopravvissuto di Antonio Scurati, però sul comodino ci sono anche i libri che sbocconcello: Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, La scrittrice abita qui di Sandra Petrignani e La natura sadica del racconto e altre storie di Domenico Matteucci, oltre a un’altra decina di libri già letti o interrotti. Sono un’inguaribile disordinata e le pile crescono sul mio comodino fino a che un crollo o l’eccesso di polvere fa sì che io faccia qualcosa per riordinare.

Mia mamma è un fiore abusivo

Ah mamma, come mi spunti!
Come faccio a nasconderti ora
che ti sei infilata perfino
nel modo in cui porto alla faccia
le mani, storte all’indice — come le tue
ossa costole che spuntano fuori
evidenze e d’improvviso
voglio sapere i nomi delle piante
con l’aria frivola che è tua
quando domandi al mercato
Quanto la devo annaffiare?e tramesto vasi e gelsomini e bulbi
arrampicata per aggappare
foglie e rami al nido
guarda come sto in bilico
sfidando scale e basse stature
per far germogliare
la parete di casa (e la vita)
ed io che ti dicevo Ma fai attenzione
non rischiare il collo per un addobbo!
Tu mi spunti mamma
come fiore di un seme portato dal vento
nel vaso che era di basilico e ora
è carico di petali abusivi e spavaldi
e a me che sempre hanno detto
come somiglio a papà
stupisco di questa fioritura
l’indipendenza, mamma, l’essere me
è scoprirti dentro i miei bicchieri rotti
e disordini e pasticci
tenerti finalmente qui
non avere più paura
d’essere tutta.

Backstage

Alle ragazze piacciono i ragazzi che fanno le cose sui palcoscenici.
I ragazzi sopra i palcoscenici sono diversi quando scendono dai palcoscenici.
A volte le ragazze ci rimangono male perché
vogliono i ragazzi che fanno la cose sui palcoscenici
come erano sopra i palcoscenici non come sono sotto i palcoscenici.
Ma l’amore è poco palcoscenico.
È più una roba da backstage.

Ora legale

— che ora è?
— quella che ieri era un’ora fa

la chiamano legale
ma sbagliano
le galere dovrebbero essere piene
di tutte queste ore senza te

Sebastiano (1912-2006)

Che se muoio
muoio serenamente
che se muoio
muoio serenamente
è la volontà di Dio.

“Varda ch’à jè la giassa
varda ‘nt la cort, à jè la giassa

Mio figlio dice “no”:
“No papà, à jè pa la giassa,pa ancora”

À jera la giassa
quando facevo all’amore contro il muro della chiesa
“le braghette giù
contra la muraja d’la cesa”.

“C’erano le negrette
quand’ero in Eritrea
à jera pa la giassa
quand’ero soldato in Eritrea”
non c’era il ghiaccio che c’è qui.

[…]

VERSI – Anna Lamberti-Bocconi: una “signorina” senza filtri

VERSI – La rubrica dedicata alla poesia

A cura di Anna Castellari e Chiara Rea

Dopo l’illustrazione, le librerie indipendenti e i libri per ragazzi, su Via dei Serpenti, da oggi, ci sarà anche la poesia. Inauguriamo la nuova rubrica VERSI con Anna Lamberti-Bocconi.

Chi è la signorina di Cro-Magnon? «Ma sono iooo!» direbbe, ammiccando al suo pubblico, una Anna Lamberti-Bocconi che non conosce filtri, nella vita, come sul palco, come su carta. In realtà, come scrive Gianni Montieri in Poetarum Silva, il vero filo conduttore di questo volume sono “la disperazione e la morte”.

«Anna Lamberti-Bocconi sta dalla parte di chi prova a tenersi in piedi, che resiste alle botte che la vita dà» prosegue Montieri. E noi non possiamo che provare che simpatia, nel senso di condivisione del pathos, delle cose belle della vita come di quelle nefaste. Lamberti-Bocconi interpreta la sofferenza di noi tutti, rendendoci il cammino meno penoso. E il volume, rilegato a mano dalle sarte Francesca Genti e Manuela Dago per Sartoria Utopia, ha una copertina che promette tutto ciò che Anna mantiene nelle pagine: inquietudine, senso di perdita, irrequietezza. E c’è una Milano fatta di bocciofile, fontane, dopolavoro, “sole d’estate che avvita i suoi raggi nell’anima”.

cro-magnon

Vi lasciamo qualche suo verso, il resto lo potete leggere nel libro La signorina di Cro-Magnon (Sartoria Utopia, Milano 2014), acquistabile scrivendo alle editrici: sartoriautopia@hotmail.it.

Guardare la disfatta evolutiva con tremendo distacco –
io, la signorina di Cro-Magnon, in piedi sugli acquedotti
romani, su dolmen e menhir – averlo dentro il futuro
tutto saputo già, scientifico, a calcoli astronomici
di sacerdoti – a fegato su marmo, caldo come gli agnelli
calata la lama – io signorina colma di nudità dritta al vento,
coi capelli scompigliati, i capitelli divelti,
colonne mozze, i capezzoli a freccia – conoscere l’attacco
e la fine, per nobiltà ancestrale, per il semplice fatto
che a mano libera la genetica mi disegnava nel tempo.

***

Amami dalle due lune del tuo profondo sentire
quella orientata male, che sbaglia a fare la vita,
e quella invisibile che veglia sotto la luce.

Vieni alla festa delle mie due morti
dove sono risorta poco alla volta
soltanto con un po’ di riso, un po’ d’olio,

capisci che voglio parlare con un serpente di corda
egli sale piano dal cesto all’aria
per dirmi che è mattina col flauto della ragione.

Vieni all’invito di Edipo e delle scimmie cugine
fra chi divenne uomo e chi rimase nella foresta,
l’oscuro succo dell’evoluzione.

Vieni.
Bevi.
Vieni.

***

Medico, prete, madre, letto, amante,

io sono il tuo ansiolitico, il tuo vino:
per tutta la stordita primavera
del lungo tempo dell’ubriacatura
ti porto a un sonno sempre più pesante
verso una sepoltura più leggera.