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L’ultima perla di Kent Haruf

di Elena Refraschini

NN editore ha invitato a Milano Cathy Haruf, la moglie dello scrittore americano scomparso nel 2014, per parlare del suo ultimo libro Le nostre anime di notte, e ricordare insieme il grande cantore delle pianure americane.

Cathy Haruf

Lo scorso weekend ho avuto l’opportunità di partecipare a un incontro con Cathy, moglie del recentemente scomparso Kent Haruf. Molti di voi sanno già di che evento si tratta: in occasione dell’uscita di Le nostre anime di notte, l’editore NN ha organizzato una serata presso il teatro Franco Parenti (a Milano) con la partecipazione di Marco Missiroli, Lella Costa e Gioele Dix.

A chi non l’avesse ancora letto, non posso che dire: fallo al più presto. Vi ritroverai la stessa tenerezza e la stessa empatia che abbracciavano tutta la Trilogia della Pianura, le stesse ombre lunghe del Colorado che ora calano su cuori spezzati e diner appiccicosi, sugli amici e sui ficcanaso, e su un uomo e una donna che decidono, al crepuscolo della loro vita, di tenersi la mano di notte.

Ho amato questo nuovo, breve romanzo ancora più dei precedenti: forse perché, come altri hanno notato, vi è un’urgenza narrativa più importante, ma anche perché si narra una storia meno corale e più intima.

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Ero molto curiosa di incontrare Cathy Haruf qualche ora prima dello spettacolo serale.
A essere sincera, non sapevo bene cosa aspettarmi: in fondo, incontrare la moglie di un grande autore è diverso dall’incontrare il grande autore stesso. Questo fatto, mi dicevo, toglie dal tavolo della discussione diverse questioni relative agli intenti del libro o al procedimento della scrittura. Quello che si perde, però, lo si può guadagnare aprendo finestre sulla vita di uno scrittore che difficilmente sarebbero esistite se avessimo parlato con l’autore in persona. E così è stato.

Per esempio, Cathy ci ha raccontato che il marito scriveva sempre di mattina, e prima di sedersi alla macchina da scrivere nella sua capanna in giardino leggeva qualche pagina di Faulkner o Cechov, magari sempre lo stesso passaggio, «per mettersi nella giusta disposizione».
Scopro che amava girare con un taccuino su cui raccoglieva le storie delle persone. «Era molto attento agli altri, e odiava l’attenzione su di sé», ci ha raccontato Cathy. «Per questo era bravissimo ad ascoltare, ed essendo molto sensibile a volte diventava estremamente triste». Scopriamo, per esempio, che Kent aveva il labbro leporino, e per quanto questo difetto abbia pesato sui suoi anni formativi, «credo sia stata alla fine una benedizione, perché ha aiutato Kent a vedere la debolezza nelle persone».
Un sorriso carico di nostalgia si apre sul viso di Cathy, che con estrema grazia e candore ha passato la giornata a ricordare il grande cantore delle pianure americane, supportata nel viaggio dai suoi due figli.

trilogiaRiuscivo quasi a vederlo davanti ai miei occhi: lo scrittore che ha fatto della pietà verso i personaggi la sua cifra narrativa, l’uomo che guarda il mondo con quelle stesse lenti.
Un mondo, il suo, amato in modo viscerale, raccontato in ogni dettaglio: «le nostre sono zone che la gente attraversa il più velocemente possibile quando va ad Aspen o verso altre famose località sciistiche, ma per Kent era casa», ci ha detto Cathy. «No, me ne sto a Holt», rispondeva quando gli si chiedeva se avrebbe mai scritto di altri luoghi negli Stati Uniti.

Anche per il lettore affezionato, leggere quest’ultima perla harufiana sarà un po’ come tornare a casa. Ed è con una nota di nostalgia che si volta l’ultima pagina, perché non ci saranno più Addie e Louis. La loro curiosità, però, il loro senso di avventura, il rifiuto di conformarsi alle regole imposte da una piccola comunità ferocemente aggrappata ai propri valori: tutto questo rimane attaccato addosso, e vi verrà voglia di far leggere Le nostre anime di notte a tutte le persone a cui volete bene.
Perché come ha magnificamente detto Marco Missiroli introducendo il reading, ci sono alcuni libri che ci riparano. Le nostre anime di notte è uno di questi.

Le nostre anime di notte
Kent Haruf
trad. di Fabio Cremonesi
NN editore, 2017
pp. 176, € 17

Un viaggio nelle Grandi Pianure di Haruf

di Elena Refraschini

Sentii parlare di Kent Haruf per la prima volta quando fece parte di una bellissima iniziativa creata dalla libreria losangelina Vroman’s chiamata “Read your way across the USA!”. La libreria aveva creato un display con i consigli di lettura legati a ogni stato degli Stati Uniti, dal Texas al Wisconsin, da Washington alla Florida. “Ne avrò fino al 2020”, mi ero detta. Nei titoli imperdibili da leggere ambientati in Colorado c’erano The Shining, certo, poi Angle of Repose di Stegner (vincitore del Pulitzer nel ’72), e Plainsong di un certo Kent Haruf. Inseriti tutti i titoli nella mia infinita reading list, iniziai dall’Alabama, perché è il primo in ordine alfabetico e perché il mio cuore è nel Sud.
Passiamo a qualche mese più tardi, quando il nuovo (allora) editore milanese NN fa il suo debutto con due autori americani molto promettenti, Jenny Offill e, appunto, il “mio” Haruf.
Arriviamo a oggi, e Kent Haruf è praticamente un autore di culto in Italia: a ogni uscita (i tre titoli della Trilogia della Pianura, per ora, ma aspettatevi Le nostre anime di notte alla fine di quest’anno, non avete idea di che gioiello sia) colleziona recensioni brillanti sui maggiori quotidiani nazionali, i blogger lo adorano, i lettori anche, e mica per nulla Benedizione è arrivato nei giorni scorsi alla sua settima ristampa.

Se un autore riesce a essere apprezzato in modo così universale, è perché parla a ciascuno in un linguaggio privato che solo quel lettore comprende; si crea una conversazione intima con l’autore, con i suoi personaggi, le sue storie. Di Haruf si è detto tanto: si è parlato della delicatezza del suo linguaggio, della grazia che contraddistingue le sue scene, della compassione con la quale tratta i suoi personaggi, dell’umiltà dell’uomo-scrittore.
Quello che ha colpito me, dalle prime pagine di Benedizione (il primo a uscire in Italia, ma il terzo nella trilogia) fino alle ultime di Crepuscolo, è il sense of place che vi ho trovato. La sensazione che bastasse aprire quei libri per ritrovarmi nelle Grandi Pianure che ho sempre amato.

Max Liu

Max Liu fotografa i paesaggi di Kent Haruf. Questa potrebbe benissimo essere la fattoria dei fratelli McPheron, che ne dite?

Qui siamo lontani dall’America da cartolina, quella delle due coste. Le Grandi Pianure sono una fascia verticale che occupa i territori al di là della valle del Mississippi e al di qua delle Montagne Rocciose, che scende dal Canada fino al Texas e include parecchi stati tra cui Montana, Nebraska, Kansas, Oklahoma, e il Colorado a est di Denver, dove ha appunto abitato Haruf per buona parte della sua vita. Un’area di più di un milione di chilometri quadrati che siamo abituati a definire come il “grande nulla”, ma che in realtà è ben lontana dall’essere tale.
Solo chi viene dalle coste, soprattutto da Est, può pensare che queste terre siano piene solo di assenze. Chi ci è nato, chi ci ha viaggiato con gli occhi aperti, sa che queste terre sono piene di storia, di storie, di natura, di cielo (che per Haruf è “pure blue”, “terso” nell’attenta traduzione di Fabio Cremonesi, un cielo che è solo delle Grandi Pianure). Sono le Great Plains narrate da grandi viaggiatori come William Heat-Moon e Dayton Duncan. Queste erano le terre dei bisonti, dei Cheyenne, dei Sioux.
Sono state poi le terre dei coloni più tenaci, quelli che giorno per giorno spostavano la frontiera un po’ più a ovest. I personaggi della Trilogia della Pianura sono i pronipoti di questi uomini e donne che vivevano ai limiti della società: Dad Lewis, in Benedizione, racconta di come la sua casa fu costruita nel 1904, quando quella zona era solo aperta campagna (la linea di frontiera era stata dichiarata ufficialmente sparita solo nel 1890).

Lo stesso Haruf ha detto qualche tempo fa in un’intervista che ha «qualcosa come un legame sacro con quella parte del mondo», ed è d’altra parte evidente l’affetto con cui dipinge i suoi luoghi. Lo si vede in come preferisce il termine soapweed al posto del più comune yucca, evocando la funzione curativa di quella pianta presso i Nativi Americani, i quali dalle radici ridotte in polvere ricavavano una specie di sapone; da come sceglie il più dolce sundown e non sunset; lo si vede da come il paesaggio e il tempo atmosferico siano sempre parte integrante delle sue scene, così come i luoghi chiusi (case, taverne, supermercati, roulotte) sembrino tanto spesso luoghi di auto-isolamento per questi uomini e donne laconici e resilienti.
Fuori, a dominare sono i piani orizzontali: ed è anche per questo che nella Trilogia della Pianura si fa tanto riferimento alla luce. Quasi ogni capitolo di Benedizione ci offre un indizio che illumina la scena: «lui stava osservando il cortile laterale e l’albero e l’ombra sull’erba che si stava ritirando, il sole era più alto nel cielo» (p. 40), o «Il  cielo era ormai buio e si erano accesi i lampioni, lei pedalava avanti e indietro, da un cono di luce all’altro», (p. 130), ma ci sarebbero decine di altri esempi. E non è un caso che sia Dad Lewis sia Raymond McPheron vedano nell’aperta e piana campagna il loro luogo della pace, mentre Denver, la capitale dello Stato, non soltanto è una realtà completamente estranea e spesso incomprensibile per gli abitanti di Holt, ma è sempre foriera di una rottura degli equilibri nelle loro vite. Questi sono uomini la cui vita è plasmata dal luogo in cui vivono, al contrario di ciò che succede in altri spazi americani, che vengono continuamente ridefiniti dalle vite dei loro abitanti.
Quest’attenzione agli spazi e alle cose è stata spesso paragonata dalla critica ad altri autori che hanno riempito di significati e stratificazioni i loro luoghi: mi riferisco ovviamente a Faulkner e la sua Yoknapatawpha County in Mississippi, o la comunità di Winesburg nell’Ohio di Sherwood Anderson. Mi stupisco però che non vengano altrettanto spesso citati altri autori entrati nel canone della letteratura regionale o nazionale americana e che si sono dedicati, come Haruf, alla rappresentazione delle vite ordinarie e rurali dei loro personaggi, che sono figure incredibilmente umane e reali, poco eroicizzate. Penso a Willa Cather, o al Wright Morris del quasi-omonimo Plains Song (1981), per non tornare indietro al Hamlin Garland di Prairie Folks (1892).

Le Grandi Pianure del Nebraska dal treno California Zephyr, che corre da Chicago a San Francisco in 51 ore (foto di Elena Refraschini)

Le Grandi Pianure del Nebraska dal treno California Zephyr, che corre da Chicago a San Francisco in 51 ore (foto di Elena Refraschini)

Come forse si è capito, ho un debole per questi luoghi. Qualche anno fa, spronata da tante letture e da un’insana passione per i viaggi in treno, decisi di percorrere così gli Stati Uniti, zigzagando tra est e ovest, nord e sud attraverso quegli anacronistici bisonti che sono i treni Amtrak, l’azienda statale del trasporto ferroviario: il Coast Starlight, l’Empire Builder, il California Zephyr, il Sunset Limited, il City of New Orleans. Non vi viene voglia di saltarci su anche solo per la poesia che si srotola dai nomi delle loro linee?
A me è successo così. E quando si viaggia attraverso gli Stati Uniti in treno succedono cose molto belle. Tra le più belle c’è incontrare luoghi che chi viaggia in auto (ovvero: tutti gli altri) non vedrà mai. Cittadine nate grazie alla ferrovia e poi semi-abbandonate a causa di un’emorragia economica, campi che superano la linea dell’orizzonte, passi di montagna altrimenti inaccessibili.
E se le Grandi Pianure definiscono il paesaggio a stelle e strisce, così la vita nelle small town è la quintessenza dell’esperienza americana. Quei paeselli che non hanno come riferimento il classico grid, le “avenue”, le “street”: dove, per orientarti, ti basta trovare la Main Street, i binari della ferrovia, e la statale. Posti in cui impari a chiedere non “a quante miglia è” ma “a quante ore”. Dove le occasioni di socializzazione cittadina sono l’asta degli animali, la festa per i veterani, i fuochi d’artificio il quattro luglio. Insomma, posti come Holt.

tipica small town americana con taverna, negozio di ferramenta, piccolo bar e supermercato. Questa è Whitefish, in Montana. (foto di Elena Refraschini)

tipica small town americana con taverna, negozio di ferramenta, piccolo bar e supermercato. Questa è Whitefish, in Montana. (foto di Elena Refraschini)

Holt è in Colorado, ma potrebbe essere in qualsiasi altro stato delle Grandi Pianure: servono solo tre isolati commerciali sulla Main Street che ospitano una taverna, un piccolo alimentari, un negozio di ferramenta; la ferrovia, che separa i quartieri bene da quelli più poveri; un ristorante sulla statale, pronto a saziare con una cucina dalle poche pretese e ipercalorica le bocche affamate dei truck driver e i clienti abituali; l’ospedale, le chiese; fuori, solo aperta campagna, e qualche fattoria, i silos, il serbatoio idrico a punteggiare l’orizzonte.
Non mi stupisce aver letto, in una vecchia intervista, che l’autore aveva creato una mappa mentale di Holt in cui posizionava attentamente ogni luogo menzionato nelle sue opere. «Holt è come casa per me», aveva detto. «C’è certamente tanto da raccontare qui, sai a chi appartiene il camioncino parcheggiato là dove non dovrebbe stare, sai di chi è il cane che si è liberato dal guinzaglio, sai di chi è la bicicletta appoggiata al lampione di fronte alla panetteria. Tutte queste cose, per uno scrittore, sono importanti».
Holt è casa anche per noi, che abbiamo camminato lungo le novecento pagine della trilogia, percorrendo chilometri e decadi, e non sentiamo ancora la stanchezza nelle gambe.
È questo secondo me il regalo più bello che ci ha fatto Kent Haruf: poter voltare l’ultima pagina, ben sapendo che non ci scrolleremo più di dosso la polvere di quella terra immensa.

I  romanzi della Trilogia della Pianura di Kent Haruf sono:
Benedizione, NN editore, 2015, pp. 275, € 17
Canto della pianura, NN editore, 2015, pp. 301, € 18
Crepuscolo, NN editore, 2016, pp. 312 , € 18

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Benedizione – Kent Haruf

UNA STAGIONE DA LEGGERE Rubrica dedicata alle stagioni nei libri, perché ogni storia ha la sua stagione.

di Emanuela D’Alessio

ESTATE – Benedizione di Kent Haruf

Se ne stava seduto nella veranda davanti a casa, sorseggiando la birra e stringendo la mano alla moglie. Il fatto era che stava morendo. È di questo che parlavano.

Prima della fine dell’estate sarebbe morto. Entro l’inizio di settembre quel che restava di lui sarebbe stato ricoperto di terra nel cimitero tre miglia a ovest della città. Qualcuno avrebbe scolpito il suo nome su una pietra tombale e sarebbe stato come se lui non fosse mai esistito.

Un sabato mattina uscirono sulla sua bella macchina; Lorraine al volante, Dad accanto a lei e Mary sul sedile posteriore. Lui indossava una vestaglia e aveva in testa il berretto.
Era una luminosa giornata di luglio, calda e senza vento, e potevano tenere i finestrini abbassati.

Era una notte d’agosto, Dad era morto quel mattino e Alice, la ragazzina della porta accanto, si era persa quella stessa sera. Poi guidata dalle luci della cittadina, aveva ritrovato la strada ed era tornata dalle persone che la amavano.

benedizioneInauguriamo l’estate con Benedizione, il primo romanzo della trilogia  di Kent Haruf, felicemente pubblicata da NN editore. Di questo autore americano, scomparso nel 2014, resta da leggere Our Souls at Night (Le nostre anime di notte), l’ultimo romanzo uscito negli Stati Uniti poco mesi dopo la morte dello scrittore.

Qui la lettera dell’editore milanese ai lettori di Benedizione.

Qui la recensione di Francesco Pacifico che offre una visione completa di Haruf e della sua opera.

Benedizione
Kent Haruf
traduzione di Fabio Cremonesi
NN editore, 2015
pp. 280, € 17

Canto della pianura – Kent Haruf


UNA STAGIONE DA LEGGERE
Rubrica dedicata alle stagioni nei libri, perché ogni storia ha la sua stagione.

di Emanuela D’Alessio

INVERNO – Canto della pianura di Kent Haruf

[I MCPHERON]

Maggie Jones guidò fino dai McPheron in un freddo pomeriggio di sabato. Diciassette miglia a sudest di Holt. Lungo la strada c’erano chiazze di neve nei campi incolti, cumuli e merletti induriti dal vento nei fossi. Mucche nere spelacchiate erano sparse fra le stoppie del granturco, a testa bassa e sottovento brucavano senza agitarsi. Quando svoltò nello sterrato, dal ciglio della strada si levarono in volo piccoli uccelli che il vento trascinò via. Lungo la recinzione, la neve brillava sotto il sole.

Fuori, il vento era aumentato rispetto al pomeriggio. Lo sentivano ululare attorno alla casa, gemere e rumoreggiare fra gli alberi spogli. La neve farinosa, sollevata dal vento, passava davanti alle finestre e sfrecciava in raffiche improvvise attraverso il cortile gelato, alla luce di un fanale appeso a un palo del telefono sul retro. Candidi, vorticosi mulinelli nella luce azzurrina. In casa regnava il silenzio.

L’aria invernale si stava facendo più fredda e il sole iniziava a calare verso ovest, mentre dall’altra parte della strada l’edificio in blocchi di granito del tribunale si stagliava grigio e solido sotto il tetto di tegole versi. Una volta raggiunto il veicolo, posarono le scatole sul pianale posteriore fissandole con uno spago giallo preso dalla cassetta degli attrezzi. Quindi si rimisero in strada e uscirono lentamente dalla città, risalendo lungo la valle del fiume South Platte verso il gelido inverno degli altopiani.

canto della pianura

I McPheron sono due anziani fratelli, induriti dal vento e dalla solitudine e dalla vita di campagna, abituati alle vacche piuttosto che agli uomini. Tutto sembra immutabile nelle loro giornate fino a quando Maggie Jones, l’insegnate della scuola, li pone di fronte a una scelta impensabile, prendersi cura di Victoria Roubideaux, un’estranea, una ragazzina di sedici anni rimasta incinta, abbandonata dal ragazzo e cacciata dalla madre.

Sono loro alcuni dei personaggi che si intrecciano a Holt, piccola cittadina immaginaria del Colorado non distante da Denver, dove uomini e donne conducono le loro giornate al ritmo delle luci e delle ombre di un inverno percorso dal vento del Nord e dalle tempeste sugli altopiani, consumando il tempo nella sfida universale dell’esistenza, giorno dopo giorno, senza clamori e furori, ma lasciando entrare nelle proprie vite quegli stravolgimenti necessari a sconfiggere il dolore e a conquistare il riscatto.

Un libro che accarezza la superficie dell’animo fino a oltrepassarla, lasciando tracce che resisteranno al tempo e all’oblio.

Canto_pianura_coverCanto della pianura, secondo romanzo della Trilogia della pianura, è stato tra i cinque finalisti del National Book Award nel 1999. NN Editore, la casa editrice milanese che sta riproponendo con sorprendente successo i libri di Kent Haruf, dopo gli esiti trascurabili di Rizzoli,  pubblicherà nel 2016 Crepuscolo, che insieme al primo Benedizione, completa la trilogia e Our Souls at Night, l’ultimo romanzo dell’autore americano, uscito negli Stati Uniti ad alcuni mesi dalla sua morte, avvenuta nel 2014.
In un’intervista rilasciata a Denvercenter.com poco prima di morire, Haruf ha dichiarato: «Voglio pensare di aver scritto quanto più vicino all’osso che potevo. Con questo intendo dire che ho cercato di scavare fino alla fondamentale, irriducibile struttura della vita, e delle nostre vite in relazione a quelle degli altri».

Canto della pianura
Kent Haruf
trad. di Fabio Cremonesi
NN editore, 2015
pp. 301, € 18

Recensione in progress – Emanuela D’Alessio sta leggendo Benedizione di Kent Haruf

di Emanuela D’Alessio

Trentasette anni prima, in un giorno d’inverno, Dad Lewis era rimasto a casa dal lavoro per una semplice ragione: una forma influenzale lo aveva preso all’intestino. E se nel pomeriggio vide Frank e il figlio dei Seeger nel recinto con il cavallo, fu per una semplice ragione: si dovette alzare dal letto e andare in bagno perché stava per venirgli un nuovo attacco, dopo quella della notte e i due  del mattino, e fu in quel momento, guardando fuori dalla finestra della camera da letto verso il granaio oltre il cortile, che vide i due ragazzi.

Indossavano giacche invernali e berretti di maglia, Frank superava il figlio dei Seeger di tutta la testa. C’era molto vento e sembrava che i ragazzi avessero freddo.

Dad era solo in casa. Mary era al mercatino di beneficenza nello scantinato della Community Church, dove vendeva marmellata di ciliegie, coperte fatte a mano e centrini all’uncinetto per raccogliere fondi per l’Africa. Lorraine non era ancora tornata da scuola.

Andò in bagno e rimase lì per un po’, poi tornò a letto e diede un’altra occhiata; non vide i ragazzi, ma non ci fece troppo caso, però quando si rialzò dal letto un’ora più tardi, guardò di nuovo fuori dalla finestra e non vedendoli ancora nel recinto del bestiame si chiese se ci fosse qualcosa che non andava. Pensò che potessero essersi fatti male.

Si mise il cappotto invernale, il cappello, la sciarpa e i guanti da lavoro, attraversò lo spoglio prato invernale sul retro della casa ed entrò nel recinto. Il vento sollevava dalla terra nuda piccole nuvole di polvere fine, urlava e fischiava tra gli alberi scheletrici. Superò l’angolo sud del granaio, mettendosi al riparo dal vento, aprì la porta e si mise a scrutare il centro buio e indistinto dell’edificio. Fasci di luce filtravano tra le tavole di legno delle alte pareti e attraversavano il pavimento in terra battuta. Granelli di polvere e paglia si muovevano nell’aria. Si sentiva il profumo intenso del fieno e il buon odore di cavallo. Si fermò un attimo per dare tempo ai suoi occhi di abituarsi all’oscurità. Poi riuscì a vedere Frank e il figlio dei Seeger.

Erano in groppa alla cavalla, andavano in cerchio sulla terra battuta dell’area recintata all’interno del granaio, Frank dietro l’altro ragazzo, le teste molto vicine, entrambi vestiti con degli abiti estivi pieni di gale di Lorraine, trottavano fuori e dentro i fasci di luce del sole. Frank reggeva le redini con una mano e con l’altra cingeva il corpo del figlio dei Seeger. Poi Frank vide Dad sulla soglia del granaio. Fermò bruscamente il cavallo. Dad entrò e si mosse verso di loro. Il figlio dei Seeger era un ragazzo di dodici anni, secco, con i capelli rossi e il collo esile sopra la scollatura quadrata del vestito rosa. Sembrava infreddolito e spaventato. Sia lui sia Frank avevano il rossetto sulle labbra.

Scendete da quel cavallo, ordinò Dad.

Papà, disse Frank. Va tutto bene.

Scendete da lì.

Frank scivolò a terra, seguito dall’altro ragazzo. Rimasero in attesa, guardando Dad.

Che cosa diavolo pensate di fare? disse lui.

Non stiamo facendo del male a nessuno, rispose Frank.

Non state facendo del male a nessuno.

No.

Dammi quella dannata bestia. E toglietevi subito quei dannati vestiti.

I ragazzi si erano tolti i vestiti e si stavano dando da fare per levarsi i reggiseni. Sembravano piccoli animali senza pelo, gelati e impauriti. Gli volsero la schiena e abbassarono le mutandine di seta di Lorraine, quindi si diressero tremando verso la greppia, dove c’erano i loro vestiti appesi a un chiodo, e si misero i pantaloni, le camicie e le giacche invernali.

Mi vuoi dire che cos’è questa storia? disse Dad.

Non c’è niente da dire, rispose Frank.

Quelli erano i vestiti di tua sorella.

Sì.
Sa che glieli hai presi?

No. Ma mica li stavamo rovinando.

Credi che la penserebbe così anche tua sorella?

Frank lo guardò e poi guardò fuori dalla porta aperta da cui era uscito l’altro ragazzo. Non le importerebbe, disse.

E perché non dovrebbe importarle?

Non le importerebbe e basta.

Come lo sai?

Non lo so con certezza.

Le hai parlato di quello che stavi facendo?

No.

Non ne sa nulla? Del fatto che voi due avete usato i suoi vestiti?

No.

Gesù Cristo. Guardò Frank, studiando il suo volto. Che cosa dovrei fare?

Devi lasciarmi in pace.

Devo lasciarti in pace.

Per favore.

Dad lo guardò. Cristo, disse. Ma tu che cosa sei?
Sono soltanto tuo figlio. È tutto quello che sono.

harufKent Haruf (1943-2014) è stato uno dei più apprezzati scrittori americani. NN Editore ha iniziato con Benedizione la pubblicazione della trilogia ambientata nella cittadina di Holt (Il canto della pianura, Crepuscolo).

«Vorrei essere ricordato come qualcuno che si è dimostrato amorevole e compassionevole verso le altre persone. Più sono diventato vecchio, più mi sono avvicinato alla morte, e più le persone mi sono diventate care. Adesso desidero essere completamente presente quando sto con qualcuno.
Come scrittore vorrei essere ricordato come qualcuno che ha ricevuto un talento molto piccolo ma che ha lavorato al suo meglio per utilizzare quel talento. Voglio pensare di aver scritto quanto più vicino all’osso che potevo. Con questo intendo dire che ho cercato di scavare fino alla fondamentale, irriducibile struttura della vita, e delle nostre vite in relazione a quelle degli altri»

Benedizione di Kent Haruf
Traduzione di Fabio Cremonesi
NN editore, 2015
pp. 273, 17€