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Gonzalo e la sua amorevole voglia di combattere – Intervista a Ade Zeno

di Emanuela D’Alessio

Gonzalo prima lavorava come cerimoniere al tempio crematorio della sua città, ora lavora per la mostruosa Signorina Marisól, affetta da una misteriosa malattia che la costringe a nutrirsi di prede umane.
Gonzalo prima viveva, colmo di amore, con la piccola figlia Inès e la moglie Gloria. Ora vive da solo,  la figlia è stata colpita da una malattia – altrettanto misteriosa – che la costringe da molti anni in uno stato vegetativo, la moglie lo ha lasciato quando si è accorta del suo inquietante cambiamento.
Senza anticipare nulla su cosa succede “dopo” nel nuovo romanzo di Ade Zeno, posso dire che L’incanto del pesce luna è una storia paradossale, perché esaspera clamorosi contrasti, dà voce alle infinite e umane contraddizioni, provoca ininterrottamente raccapriccio e commozione, orrore e pietà, terrore e speranza. Una storia che non fa paura, nonostante l’esplorazione dell’abisso; una storia sull’amore e sulla vita, nonostante le cifre dominanti della morte e della malattia.
Ade Zeno, scrittore e cerimoniere al Tempio Crematorio di Torino, ha creato dopo una lunga e sofferta gestazione un romanzo doloroso, commovente, disperato, catartico, giocando con le tinte grottesche e poetiche della sua scrittura.
Per sconfiggere i mostruosi demoni che albergano in tutti noi, o solo per ridurli al silenzio, li si deve guardare negli occhi, aggredirli senza esitazione, e conservare sempre un guizzo di ironia da trasformare all’evenienza in ghigno beffardo.
Ho voluto soffermarmi ancora un po’ su L’incanto del pesce luna rivolgendo alcune domande all’autore.

Nella nota conclusiva di L’incanto del pesce luna hai scritto che la genesi del libro è legata a un periodo felice e a un periodo buio della tua vita, che il libro è per te fratello e nemico allo stesso tempo. Puoi spiegarci meglio il punto di partenza e la destinazione finale di questa nuova creazione letteraria, ma anche tutto quello che è accaduto durante?
Non amo parlare della mia vita privata, chi mi conosce sa che ho un rapporto con la riservatezza ai limiti dell’ossessivo. Il periodo di gestazione dell’Incanto è stato piuttosto lungo, direi intorno ai due o tre anni, e confermo che quando l’ho iniziato ero una persona molto diversa rispetto a quella che ha corretto le ultime bozze prima della pubblicazione. Diversa nel senso di meno infelice. Ciò che è successo durante la stesura ha a che vedere con la mia biografia, ma ha inevitabilmente condizionato anche il mio sguardo sul romanzo, verso il quale – inutile negarlo – oggi provo una forma di oscuro risentimento, perché molte delle pagine che lo compongono mi ricordano momenti che vorrei dimenticare. Naturalmente non li dimenticherò. E lui farà lo stesso.

Il protagonista Gonzalo fa il tuo stesso lavoro, cerimoniere al tempio crematorio di un cimitero. Per scrivere di lui, ma credo anche di molto altro, hai attinto a piene mani alla tua vita reale perché «l’immaginario è legittimato a divorarsi la verità come meglio crede». Anche lo pseudonimo Ade Zeno è stato divorato dalla verità, in queste settimane il tuo nome è stato svelato dai recensori. Insomma, L’incanto del pesce luna ha provocato un profondo smottamento che ha portato alla luce molti dei tuoi (o tutti?) “tesori nascosti”.  Una scelta consapevole o la conseguenza di un’urgenza sfuggita al controllo?
Anche se trasfigurato e posto al servizio della narrazione, tutto quello che scrivo è governato da pulsioni decisamente reali, profondamente mie, non vedo come potrebbe essere altrimenti. In ogni caso non credo che brulichino molti tesori fra ciò che nascondo. Quanto al discorso sull’identità, ho sempre preferito considerare Ade Zeno un eteronimo, vale a dire un nome che non sostituisce quello vero come si propongono di fare gli pseudonimi, ma lo integra diventando a sua volta personaggio di un immaginario preciso. Alcuni recensori hanno ritenuto doveroso rivelare la mia identità anagrafica – in un caso, fra l’altro, riuscendo perfino a sbagliarla – e non nego di avere patito gesti simili come il tradimento di un patto segreto. Ma a quanto pare in giro circola ancora troppa gente convinta che la realtà sia quella che si vede.

Gonzalo, prima di gettare in pasto (letteralmente) alla feroce Signorina Marisól prede umane ignare dell’atroce destino imminente, fa indossare a ciascuna una maschera di animale (rana, elefante, scimmia, leone, rinoceronte, pesce palla). Le vittime sono quasi sempre uomini, a volte bambini, mai donne. Il mostro-donna non può divorare una sua simile?  E perché l’uso delle maschere?
L’Incanto è abitato quasi esclusivamente da carnefici. Di vittime pure – cioè quelle in cui è riconoscibile un vago sapore di innocenza – ne compaiono pochissime. Era importante che ci fossero anche loro, ovvio, il sacrificio di un bambino rende più evidente la crudeltà degli aguzzini. Ma è chiaro che la tesi del libro è una riflessione su quanto sia illusoria la divisione fra bene e male. A pensarci bene la vecchia Marisól è molto meno condannabile dei suoi complici, in fondo le sue azioni sono governate dal puro istinto, dalla fame, mentre i faccendieri che le gravitano intorno – Gonzalo compreso – hanno scelto di stare dalla sua parte.
Le dinamiche di potere che governano il mondo in cui viviamo sono sempre state gestite esclusivamente da maschi, quindi, in una logica di contrasto, mi è sembrato naturale porre una donna al vertice della piramide. D’accordo, si tratta di un personaggio anomalo, mostruoso, ma il fatto che sia femmina lo rende più inquietante, credo, più destabilizzante. Non viene dichiarato esplicitamente, ma il fatto che tra le vittime della mattanza non figurino mai donne o bambine potrebbe rappresentare la profonda spaccatura tra sessi che da sempre domina il nostro mondo. La verità è che le donne, sia pure da una posizione di sudditanza sociale, superano di gran lunga gli uomini più o meno in tutto: sono molto più intelligenti, sensibili e perfide. Vale la pena vagheggiare una società manovrata da loro, risulterebbe decisamente più interessante.
Quanto all’uso delle maschere, direi che risponde a una doppia esigenza: la prima, più tecnica se vogliamo, riguarda la necessità di alimentare quel senso del grottesco che attraversa l’intera narrazione. La seconda, meno esplicita, si sposta invece sul piano simbolico, o meglio metaforico: quei volti posticci, trasfigurati, anziché nascondere la natura degli uomini che li indossano la rivelano, disarmandoli completamente ai nostri e ai loro stessi occhi.

Nelle pagine incontriamo moltissimi altri richiami al mondo animale. Gonzalo ama chiamare la figlia “pesciolina”, il pesce luna è il protagonista della sua fiaba preferita, il dinosauro pterodattilo è il mostro che popola gli incubi notturni della bambina ma anche dell’adulto. Che cosa ci raccontano i “tuoi” animali?
Gli animali mi affascinano, sono esseri alieni e meravigliosi di cui in fondo si sa pochissimo. Parlo in particolare degli animali selvatici, perché l’asservimento a cui abbiamo piegato le cosiddette bestie di compagnia suscita ai miei occhi più pietà che malìa. Mi è capitato di leggere molto a proposito degli insetti (tempo fa ho studiato a lungo le libellule), e dei pesci abissali, mostri fantasmagorici le cui forme e abilità non avremmo potuto immaginare nemmeno in sogno. Di recente ho divorato un bellissimo studio sull’intelligenza dei cefalopodi, si intitola Altre menti, lo ha tradotto Adelphi circa un anno fa. Il mio preferito, comunque, è sempre stato l’elefante africano, che per inciso è l’unico ad aver sviluppato un culto dei morti simile a quello umano.

«Miseri, sbalorditi mortali. Meritate di finire così. In fondo lo meritiamo tutti». Sono queste le parole che Gonzalo pronuncia prima di gettarci tutti (personaggi e lettori) nella mattanza delle prime pagine, una descrizione potente e spiazzante di quello che accade periodicamente a casa della Signorina Marisól. Parole che risuonano come una condanna a morte, inevitabile perché conseguenza di una colpa grave, quella di essere un uomo, per lo meno di un certo tipo. Gonzalo sembra perseguire, tra le altre cose che scopriremo solo andando avanti con la lettura, un personalissimo intento purificatore del genere umano. Che cosa puoi dirmi al riguardo?
Non ripongo nessuna fiducia nel genere umano. Siamo esseri egoisti, tendenzialmente stupidi, e votati a una mostruosa vocazione parassitaria. Da pochi istanti ci siamo appropriati di questo mondo con la tracotanza degli sciocchi, senza renderci conto che a breve si libererà di noi con mezzo starnuto. No, non coltivo segrete speranze di salvezza, e non credo assolutamente nell’idea di purificazione. La triste verità è che Gonzalo, con tutta quell’amorevole voglia di combattere, è molto più ottimista di me.

L’incanto del pesce luna è, tra le molte possibili interpretazioni, una storia paradossale perché esaspera clamorosi contrasti, perché dà voce a tutte le contraddizioni dell’animo umano, perché provoca ininterrottamente raccapriccio e commozione, orrore e pietà, terrore e speranza. Ma il paradosso più eclatante è quello chiamato amore. «Il solo sospetto che i destini di un essere diverso da me possano dipendere da un paradosso chiamato amore mi paralizza» fai dire al personaggio Malaguti, emissario della famelica signorina. Perché l’amore produce imbarazzanti effetti collaterali, come ci avevi spiegato in un’altra intervista: «L’idea di amare una persona e la consapevolezza di farlo con trasporto totale e incondizionato non mi destabilizza quanto la sensazione che un amore altrettanto cieco sia misteriosamente rivolto alla mia persona. Ti chiedi cosa ne farai, di tutto questo amore, se ne sei degno, se sarai capace di preservarlo senza trasformarlo in altro, per esempio in dolore. Ma il vero problema è che chi ci ama vede cose di noi che non sempre siamo disposti a mostrare. Ci rende nudi, disarmati, in mutande». Eppure Gonzalo non si sottrae all’amore né ai suoi effetti collaterali. Ama profondamente la piccola figlia Inès e la moglie Gloria ma non sfugge al grande paradosso: è “per amore” che scenderà negli inferi della sua coscienza ed è “grazie all’amore” che riuscirà a riemergere. Quindi, per arrivare alla domanda, sei riuscito con questo libro a tenere a bada – o a eliminare del tutto – gli effetti collaterali dell’amore e dell’intera esistenza?
Scrivere libri non serve a tenere a bada nulla, per quanto mi riguarda. Certe operazioni di contenimento andrebbero gestite con altri mezzi, ad esempio la forza d’animo, l’ottimismo, le benzodiazepine. Non sono certo che Gonzalo riesca a riemergere, e se lo fa non è tanto grazie al suo amore, quanto a quello che altri – malgrado tutto – hanno scelto di riservargli. E poi l’amore è un sentimento troppo fluido e instabile per farsi carico di eccessive aspettative, meglio non fidarsi.

Morte e malattia sono le due cifre dominanti da cui la tua narrazione attinge linfa vitale. È dalla misteriosa malattia che riduce la piccola Inès a un coma perenne che Gonzalo trae la motivazione a oltrepassare ogni limite. È sempre una misteriosa malattia a rendere insaziabile la macabra fame della Signorina Marisól. Una malattia, peraltro, che vive dentro tutti noi ma «non è uguale per tutti, la sua natura è mutevole, cambia a seconda di chi ne è schiavo». Puoi approfondire questa metafora?
La malattia, semplicemente, è qualcosa che non possiamo controllare fino in fondo. Riesce a risultare minacciosa anche quando ci colpisce in modo blando e agevolmente gestibile. Non sai mai cosa può riservare al tuo corpo e alla tua mente, perfino un raffreddore o un mal di denti è un’incognita, un salto nel buio: potrebbe sempre trattarsi di un sintomo che prelude a scenari nefasti. Non sono un ipocondriaco e non temo la morte (non la mia, almeno; quella delle persone che amo, invece, mi tormenta di continuo), però trovo esecrabile l’idea che qualche mostro invalidante possa prendere possesso del mio corpo o dei miei pochi neuroni compromettendone l’autonomia. In altre parole, il nemico che temo è quello che deciderà al mio posto. Insomma, spero di cuore che la morte sappia correre più veloce: a lei potrò ridere in faccia, a lui no. E io intendo chiudere i battenti con un bel ghigno stampato sulle labbra.

Il libro ha una colonna sonora che ci riporta ai musical americani degli anni Cinquanta, all’intramontabile Singing in the rain di Gene Kelly, ai gorgheggi di Charles Trenet. Nulla di strano se non fosse che i macabri banchetti si svolgono solo al suono di questa musica. Puoi provare a spiegare?
Amo Gene Kelly, la sulfurea leggerezza di quell’uomo bellissimo e volatile mi ha sempre incantato. Credo che questo invaghimento derivi soprattutto dalla grande invidia che provo verso chi, al contrario di me, riesce a librarsi nello spazio e nella mente con tocchi lievi ed eleganti. In questo senso la sua presenza nel libro non è nient’altro che una dichiarazione d’amore. Da un punto di vista estetico, invece, accostare musiche retrò a scene sanguinose significa ancora una volta giocare di contrasto inseguendo le solite tinte grottesche che credo meglio esemplifichino la cifra della mia scrittura.

Recentemente hai “confessato” che in realtà odi scrivere, che hai ancora un altro paio di cose da concludere e poi probabilmente smetterai. Metti in bocca al giornalista Lentini, un altro importante personaggio del romanzo, quello che ci hai detto in un’altra intervista: «Uno come me scrive per egoismo, per noia, al limite per disperazione. Ma soprattutto perché a fare i bombaroli si dà molto più nell’occhio». È ancora questa la migliore rappresentazione possibile del tuo rapporto con la scrittura?
Penso proprio di sì. Se non avessi la scrittura come valvola di sfogo passerei il tempo ad appiccare incendi.

Il cimitero monumentale di Torino è, senza essere citato, uno dei grandi protagonisti del romanzo, insieme alla tua significativa esperienza di cerimoniere. Quali sono state le reazioni di colleghi e “clienti”, c’è qualcuno che arriva con il libro sotto braccio e magari va in cerca della lapide del Dott. Astolfo Forsenghi per rileggere l’epigrafe: «Che tentò varie vie e non riuscì in nessuna. Non domandare alla vita più di quanto essa può dare»?
Credo che dopo tanti anni di frequentazione i miei colleghi abbiano imparato a comprendere la riservatezza di cui parlavo prima, e si guardano bene dal non rispettarla. Sanno che ho scritto questo libro, alcuni di loro lo hanno letto, ma nel complesso ho scoraggiato qualsiasi discussione in merito. Preferisco tenere separati i due mondi, farli incontrare mi imbarazza. Quanto agli utenti del Tempio, no, per fortuna non è capitato che qualcuno si presentasse con il libro sotto braccio. In genere chi passa da quelle parti ha cose più importanti a cui pensare. Comunque, se mai dovesse succedere, farei il possibile per negare l’evidenza.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Roberto Bolaño, Sepolcri di cowboy. Wolfang Hilbig, Le femmine e Vecchio scorticatoio. Régis Jauffret, Microfictions. Valentina Maini, La mischia.

Ade Zeno è nato a Torino nel 1979. Ha pubblicato Argomenti per l’inferno (NoReply, 2009) e L’angelo esposto (Il Maestrale, 2015), oltre a numerosi racconti sparsi su antologie e riviste. Fondatore, insieme al collettivo sparajurij, della rivista letteraria Atti impuri, ha lavorato anche per cinema e teatro. È uno dei protagonisti di Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti (2019)Da alcuni anni lavora come cerimoniere presso il Tempio Crematorio di Torino. L’incanto del pesce luna (Bollati Boringhieri, 2020) è il suo terzo romanzo.

Otto anni nei boschi narrativi #1 Ade Zeno

In attesa di sfogliare il “quaderno” che stiamo realizzando per raccogliere le nostre interviste più belle, in otto anni di letture e passeggiate con editori e autori indipendenti, ecco qualche assaggio.

Titolo?
Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
Editore?
Via dei Serpenti
Uscita?
Settembre 2019

Ade Zeno

Ade Zeno, scrittore torinese, ha esordito nel 2009 con il romanzo Argomenti per l’inferno per No Reply. Nel gennaio 2020 uscirà per Bollati Boringhieri il suo nuovo romanzo, L’incanto del pesce luna.
La sua prima intervista a Via dei Serpenti è dell’ottobre 2017.
Qui uno stralcio della nuova, aprile 2019.

Perché scrivere sotto pseudonimo
Diciamo che ho sempre avuto il sospetto di non esistere, o più esattamente di non esistere ancora. Dal dubitare di esistere all’inventare mondi possibili usando uno pseudonimo il passo è breve, se non altro per coerenza.

Il ruolo tra editor e scrittore
Il primo a seguire i miei lavori, quando ero ancora un pischello alla ricerca della propria voce, è stato Raul Montanari. Raul è stato il primo a degnarmi di attenzione dedicandomi tempo e pazienza, una ventata di ossigeno. Conservo ancora alcuni vecchi dattiloscritti pieni di sue annotazioni, punti esclamativi, parolacce. Trovare un maestro del suo calibro che ti segue all’inizio del percorso è un privilegio concesso a pochi, gli devo eterna riconoscenza, anche perché si occupò di me sapendo bene che, gratitudine a parte, non avrebbe ottenuto nulla in cambio.
La collaborazione con Leonardo Luccone è un discorso più complesso perché da un paio d’anni, oltre a essere il mio primo lettore, è anche il mio agente. Mi fido totalmente del suo sguardo e della sua professionalità.

I temi salienti del discorso narrativo
Ho alcune passioni e molte ossessioni. Inutile dire che ad animare il mio immaginario narrativo sono soprattutto le ultime. In genere i temi su cui mi arrovello morbosamente sono sempre gli stessi: morte, menomazione fisica, oblio, attrazione verso tutto ciò che è mostruoso. Roba allegra, insomma.

Progetti futuri
Il passato appartiene ai morti, il futuro è dei posteri. Verso questi ultimi nutro una strana forma di ansiosa nostalgia. Sul presente non ho molte cose da dire, a parte il fatto che nel complesso mi ha sempre fatto orrore. Mi sto anche dedicando alla drammaturgia, un antico amore messo da parte per troppo tempo. Scrivere dialoghi e didascalie mi fa stare bene, vai a capire perché. Il testo è pronto, un regista bravissimo ci sta già lavorando, probabilmente andrà in scena il prossimo anno. Si intitola Le ultime ore dell’umanità.

L’incanto del pesce luna
Solo Andrea Bajani lo ha voluto fin da subito per la collana che sta curando, e penso che un editore come Bollati Boringhieri sia perfetto per un libro del genere.

Ade Zeno è nato a Torino nel 1979. Ha esordito nel 2009 con il romanzo Argomenti per l’inferno per No Reply, finalista al Premio Tondelli. Ha anche scritto e diretto alcuni cortometraggi premiati in molti festival e un radiodramma, L’attimo più breve, andato in onda su Rai Radio3 nel 2012 in diretta dal Teatro Filodrammatici di Milano. Nel 2010 ha fondato, insieme al collettivo Sparajurij, la rivista letteraria internazionale Atti impuri. Il suo ultimo libro, L’angelo esposto, è uscito per Il Maestrale nel 2015. Da anni lavora come cerimoniere presso il Tempio Crematorio di Torino. Pronto per la pubblicazione il suo nuovo romanzo, L’incanto del pesce luna. È rappresentato da Oblique di Leonardo Luccone.

RACCONTI ITALIANI #1 – Intervista a Ade Zeno

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo
Racconti italiani è il titolo del libro di John Cheever, pubblicato da Fandango nel 2009 (traduzione di Leonardo G. Luccone), che raccoglie i racconti scritti in Italia dal celebre scrittore americano.  La nuova rubrica ospita racconti italiani e le interviste agli autori. Scegliamo testi già pubblicati e che ci sono piaciuti.

di Emanuela D’Alessio

L’autore del racconto La città dei bambini fantasma si chiama Ade Zeno. Torino è la sua città, «ci sono nato, ci vivo, quasi certamente sarà qui che morirò». Scrive forse per egoismo, noia, «al limite per disperazione», ma il suo lavoro è cerimoniere al Tempio Crematorio di Torino, «un lavoro molto delicato» che ti costringe ad assorbire il dolore altrui.
Ha fondato la rivista letteraria Atti Impuri e con il collettivo Sparajurij ha fatto «cose pazzesche per quindici anni».
Ha sempre amato Il piccolo principe di Antoine Saint-Exupéry (da cui trae ispirazione La città dei bambini fantasma). Tra i fondamentali ci sono Kafka e Borges, di quest’ultimo deve leggere almeno una frase ogni giorno. Però il suo prediletto è Roberto Bolaño e il libro più grande, assicura, lo ha scritto Miguel de Cervantes.

Ade Zeno

Sei nato a Torino, hai pubblicato due romanzi e numerosi racconti, hai fondato la rivista letteraria Atti impuri, lavori come cerimoniere al Tempio Crematorio di Torino. Cominciamo da qui, da questo lavoro inusuale, ma anche un lavoro come un altro. Come si diventa cerimoniere di un cimitero? Per concorso, per chiamata diretta, per caso o per rincorrere un desiderio?
È andata più o meno così: dopo anni di lavoro all’Università come borsista e assegnista di ricerca, un bel giorno sono finiti i fondi e tanti saluti a una carriera accademica peraltro mai desiderata. A due passi dal baratro salta fuori questo caro amico, da tempo impiegato alla Società per la Cremazione di Torino, che deve trasferirsi all’estero per motivi personali e ha bisogno di trovare un sostituto. Il mio curriculum è piuttosto in linea con il profilo richiesto perché durante l’iter universitario, fra le mille altre cose, mi sono occupato di tanatologia. Il colloquio con il direttore del tempio va bene (fra l’altro scopro che è un lettore accanito, quindi passiamo il tempo a parlare di libri), inizio il percorso di formazione e vengo assunto. Insomma, così su due piedi risponderei che si diventa cerimonieri per chiamata diretta.

Quali sono le mansioni di un “cerimoniere” e qual è il rapporto, nel caso ci fosse, con la tua scrittura?
Per rispondere in modo esaustivo dovrei impiegare almeno un paio d’ore. Molto schematicamente: un cerimoniere deve occuparsi di organizzare e presiedere quotidianamente una certa quantità di funerali laici. Al Tempio Crematorio di Torino succede in media fra le dieci e le venti volte al giorno. I luttuanti arrivano lì, nella Sala del Commiato, per accompagnare il defunto prima della cremazione, e chiedono di poter tributare l’ultimo saluto. Ci si raccoglie intorno al feretro e si ha la libertà di scegliere come commemorarlo. Alcuni scelgono il silenzio, altri la musica, altri ancora letture (poesie, salmi, lettere e così via). Il mio compito è quello di fare in modo che questo momento assuma un senso e soprattutto una forma, nella maggior parte dei casi scegliendo io stesso i testi più adeguati alla situazione. È un lavoro molto delicato che ti costringe a un confronto costante con l’altrui dolore. Un dolore che assorbi e amministri anche se non è il tuo. Un paio di giorni dopo il funerale presiedo la funzione di consegna dell’urna cineraria, altro momento delicatissimo in cui i parenti del morto devono confrontarsi con la trasformazione del corpo: un trauma terribile. Raccontato così sembra complesso. In realtà lo è molto di più. Per rispondere alla seconda domanda, non so dire quale rapporto ci sia tra il mio mestiere e la scrittura. Sicuramente l’ambiente in cui lavoro somiglia molto a uno scrigno pieno di storie. Basta fare una passeggiata fra loculi e cellari per rendersi conto dell’enorme quantità di narrazioni che si nascondono dietro quelle migliaia di lapidi. Ogni foto, ogni iscrizione racconta qualcosa. Nell’ultimo anno ho lavorato su un romanzo ambientato proprio lì. Non so cosa ne farò, qualcuno lo sta leggendo, magari uscirà, magari no.

La tua scrittura è una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
Si scrive per egoismo, per noia. Al limite per disperazione. Ma soprattutto perché a fare i bombaroli si dà molto più nell’occhio.

Soffermiamoci sul tuo racconto La città dei bambini fantasma, una storia colma di metafore, una fiaba dalle tinte fosche, un’ambientazione dai confini remoti e indistinti. Ci vogliono tredici settimane per raggiungere la Città nera seguendo le istruzioni di un mercante di Tunisi, di contrabbandieri algerini, di una tenutaria di Aleppo, di un predone berbero. Un luogo dove si perde l’anima e si assumono «le sembianze di fanciulli gracili e biondi», dove si rabbrividisce. Il risultato è stupefacente, per un racconto da diecimila battute. Ci aiuti a decrittare un testo così essenziale e denso al tempo stesso?
L’idea di fondo è partita dalla storia di Saint-Exupéry, o meglio dalla fine della sua storia, quell’ultimo volo da cui non è mai più tornato.  Ho sempre amato Il piccolo principe: un libro lunare, terribile, profondamente inquieto, che parla di solitudine e termina con un suicidio. Quel bambino biondo apparso dal nulla continua a turbarmi, certe pagine mi commuovono ancora oggi, a distanza di oltre trent’anni dalla prima lettura. Diciamo che con la storia dei bambini fantasma ho provato a giocare con quest’atmosfera sospesa infilandoci dentro alcune fra le mie tante ossessioni. La perdita della memoria, per esempio, o il desiderio di oblio, giusto per spolverare le più evidenti. Non ho impiegato molto a tirar giù la prima stesura. Con Leonardo Luccone ho poi lavorato di fino eliminando i fronzoli linguistici, i miei tanti, insopportabili, tic letterarieggianti. Lui mi dice taglia qui, taglia lì, togli tutta questa inutile merda. È un editor severissimo, non gli sfugge mezza virgola. Se la versione definitiva del racconto mi piace abbastanza, è solo merito suo.

Hai all’attivo due romanzi e numerosi racconti. Hai pubblicato con due piccoli editori e dopo svariati rifiuti. Che cosa dovrebbe cambiare, se c’è qualcosa da cambiare, nel viaggio di un manoscritto verso la libreria passando per un editore? E mi riferisco volutamente soltanto alla categoria “libro cartaceo”.
Devo essere onesto, non so proprio rispondere a questa domanda. Io scrivo, leggo, ogni tanto mi imbatto nelle infinite discussioni sui destini del libro e sulle difficoltà dell’editoria, ma lo faccio da turista, vale a dire in modo vergognosamente superficiale. In rete spopolano analisti molto più bravi di me a individuare criticità e possibili soluzioni. È vero, i miei manoscritti hanno collezionato – e quasi certamente continueranno a collezionare – quantità esorbitanti di rifiuti. All’inizio ci restavo male, ora mi limito a sorridere con malinconia. Però gli editori fanno il loro mestiere, io mi occupo di altro. Certo, a libro uscito ti piacerebbe che lo leggessero in tanti, e non è assolutamente il mio caso. Ho il sospetto di aver venduto pochissimo. Ma No Reply e Il Maestrale non avevano uffici di stampa potenti, e poi si sa che nel giro di pochi mesi un libro sparisce dagli scaffali, ammesso che riesca ad arrivarci. La quantità di novità è enorme, emergere dal ginepraio un terno all’otto. Senza contare il fatto che magari hai scritto un libro poco interessante, e allora è soltanto colpa tua.

Hai fondato insieme al collettivo Sparajurij la rivista letteraria Atti impuri, dal 2010 anche in versione cartacea. Qual è il suo stato di salute attualmente e delle riviste letterarie in generale?
Quella di Atti impuri è stata un’esperienza bella, addirittura esaltante. Ai tempi la situazione delle riviste cartacee era un po’ in stallo, c’erano molti blog, molti siti, ma mi sembrava importante tornare a proporre qualcosa di più libresco. Quando ero ragazzetto ne esistevano a bizzeffe, ricordo con particolare affetto Addictions, faceva cose bellissime. La dirigeva Leonardo Pelo, un pazzo entusiasta, che fra l’altro è stato il mio primo editore, praticamente l’unico a credere in quello che scrivevo. Tornando a noi, alla base c’era l’idea di creare un luogo fisico in cui convergessero le voci più impure della narrativa e della poesia contemporanea, esordienti e non. Una sorta di mappatura dello stato di salute della forma racconto e della ricerca linguistica in generale. Abbiamo pubblicato inediti di autori diversissimi fra loro, anche da un punto di vista generazionale, ma tutti di massimo livello. Fra gli stranieri William Cliff, Herberto Helder, Durs Grünbein, John Giorno. Il mio grande orgoglio è stato quello di pubblicare la prima traduzione assoluta di alcune poesie dell’Estridentismo messicano. Mi sembra che negli ultimi anni siano spuntate fuori molte altre riviste degne di nota, anche se tra mille difficoltà. Per quanto riguarda la nostra, però, credo che il suo ciclo sia ormai concluso. Non abbiamo più tempo né energie da dedicare a un progetto tanto ambizioso. Ma è fisiologico, niente di male. Nel nostro piccolo abbiamo fatto un buon lavoro, ne sono convinto.

Qual è o dovrebbe essere il ruolo delle riviste letterarie: palestre di scrittura, trampolini di lancio per esordienti, luoghi culturali alternativi, rifugio per disillusi?
Direi le prime tre. I disillusi possono rifugiarsi un po’ ovunque, non mi preoccuperei troppo per loro.

La forma racconto in Italia non sembra godere di particolare successo.  Eppure nemmeno un anno fa è nata a Roma una casa editrice (Racconti edizioni) che ha puntato tutto sui racconti e sta andando molto bene. I due giovani editori sono un’eccezione inspiegabile o hanno semplicemente smascherato un pregiudizio infondato?
Sono felicissimo del fatto che un progetto del genere sia in circolazione e stia avendo fortuna. Credo si tratti comunque di un successo circoscritto, non molto competitivo rispetto ai cosiddetti grandi numeri. Quindi no, non penso che abbiano smascherato un pregiudizio infondato, almeno non ancora; però stanno lavorando nella giusta direzione, spero con tutto il cuore che riescano ad andare avanti. Da lettore sono particolarmente grato alla forma breve o brevissima. Comprimere mondi nel minor spazio possibile, giocarsi il tutto per tutto in un solo gesto potenzialmente perfetto: è un azzardo che mi affascina anche come scrittore. Pensa a Charms, al Manganelli di Centuria, a Örkény, a Wilcock, oppure a quel libriccino di Thomas Bernhard, perfido e delizioso, EreignisseLa lotteria di Shirley Jackson è un vero gioiello, bisognerebbe impararlo a memoria. Potrei continuare a lungo. Lʼanno scorso ho letto una raccolta incredibile, Il paradiso degli animali, opera prima di David James Poissant. Lo hanno pubblicato i ragazzi di NN, bravissimi anche loro a scovare diamanti.

Torino appare sempre di più fucina letteraria, con l’indiscusso Salone del Libro che ha retto alla sfida milanese, con il Premio Calvino e la scuola Holden da dove escono di tanto in tanto voci interessanti, con scrittori (torinesi di nascita o adozione) che arrivano all’esordio in libreria senza sfigurare. Qua è la tua visione, particolare e globale, della città?
Torino è la mia città, ci sono nato, ci vivo, quasi certamente sarà qui che morirò. Mi piace parlarne male, ma non riesco a immaginare un luogo geografico in cui preferirei risiedere. Forse quando sarò abbastanza vecchio e arreso mi trasferirò in una località di mare molto appartata, possibilmente abitata da indigeni che non parlino la mia lingua. Ma ci penserò più avanti. La mia formazione umana e letteraria si è consolidata qui, i legami più sinceri sono tutti torinesi. Non sono un tipo mondano, né frequento salotti, che in genere mi mettono molto a disagio. Insomma tendo a starmene per i fatti miei. Il Salone del Libro è un evento importante, sono felice che esista, ma ci passo sempre solo di sfuggita, giusto per ritrovare qualche vecchio amico. Nel complesso tutta quella confusione mi agita terribilmente. Stesso discorso per quanto riguarda il Premio Calvino e la Holden: è un bene che esistano, ma a me non cambiano nulla. Però è vero che negli ultimi anni questa città si è configurata sempre più come luogo in fermento: incontri, serate, laboratori, slam, ce n’è per tutti i gusti. Se fossi meno orso me ne starei sempre in giro. Però posso dirti che, per quanto riguarda il mio percorso da scribacchino, l’esperienza più importante è stata collettiva. Parlo dell’incontro con il gruppo Sparajurij: un manipolo di ragazzetti boriosi e disincantati con cui ho condiviso oltre quindici anni di cose pazzesche germinate negli angusti corridoi dell’Università per poi dilagare ovunque. Auguro a chiunque la fortuna di poter sguazzare in un contesto del genere.

Scrittori e libri non possono fare a meno delle librerie, l’anello più debole della filiera editoriale. La Torino libraria è altrettanto vitale come quella letteraria? E qual è la tua libreria ideale?
Direi di sì. Torino è popolata di piccole, spesso meravigliose, librerie indipendenti. Luoghi abitati da esseri eroici e paradossali con cui puoi passare ore a parlare di libri senza annoiarti mai. La mia libreria ideale è esattamente così: un posto tranquillo, illuminato bene, portato avanti da pazzi furiosi e appassionati. Arrivi lì con un titolo da ordinare e ne esci con tre di cui ignoravi l’esistenza.

Prima di scrivere si deve (o dovrebbe) leggere. Quali sono stati e sono i tuoi percorsi di lettore?
Non sono un grafomane, sono piuttosto pigro, quindi scrivere è per me motivo di grande frustrazione. Insomma, preferisco aver scritto. In compenso credo di essere un buon lettore. Credo che un elenco ragionato del mio percorso personale risulterebbe noioso, ma posso mettere sul piatto alcune presenze per me fondamentali.  Kafka, senza dubbio, ogni sua parola è un piccolo miracolo. E poi Borges, di cui devo leggere almeno una frase al giorno. Non importa quale, basta aprire un volume a caso, trovo sempre qualcosa che mi fa stare bene. L’altra sera mi sono imbattuto in quella prosa fantasmagorica, Una oración, che termina così: “Voglio morire del tutto; voglio morire con questo compagno, il mio corpo”. Da sette o otto anni sono molto amico anche di Roberto Bolaño. Il libro più grande, però, lo ha scritto Cervantes. Invidio chiunque si trovi nella felice condizione di non averlo ancora letto e di avere la possibilità di farlo.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Qualche settimana fa mi sono imbattuto in un autore neozelandese che non avevo mai sentito nominare, Maurice Shadbolt. Il libro si intitola Le acque della luna, edito da Feltrinelli nel 1962 e fuori catalogo da tempo. Con una rispolverata alla traduzione andrebbe assolutamente ristampato, sono quasi tutti racconti notevoli. Adesso invece sto leggendo Antoine Volodine, Terminus Radioso, dopo aver amato moltissimo Angeli minori e Scrittori. Anche a lui voglio abbastanza bene. Ma meno che a Bolaño. Ragionando in termini affettivi, Roberto è in assoluto il mio prediletto.

Leggi il racconto La città dei bambini fantasma

RACCONTI ITALIANI #1 – La città dei bambini fantasma

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo
Racconti italiani è il titolo del libro di John Cheever, pubblicato da Fandango nel 2009 (traduzione di Leonardo G. Luccone), che raccoglie i racconti scritti in Italia dal celebre scrittore americano.  La nuova rubrica ospita racconti italiani e le interviste agli autori. Scegliamo testi già pubblicati e che ci sono piaciuti.

La città dei bambini fantasma di Ade Zeno, è comparso su Retabloid (luglio 2017), la rassegna stampa realizzata da Oblique studio.  Ringraziamo Leonardo G. Luccone per la gentile concessione.

di Ade Zeno *

Poi, a una certa ora, nella Città nera fa buio e cielo e terra tornano a fondersi in uno. All’alba, invece, il labirinto cambia aspetto, la luce si riprende tutto e bagna gli angoli, il viottolo, le mura di terra bianca. Allora anche il nome muta forma: poche sillabe sussurrate dagli autisti delle corriere dirette a nord o dalle guardie di frontiera mentre spulciano i passaporti scuotendo la testa. Al viandante testardo verrà esposto con garbo un dettagliato elenco di svantaggi: tragitto troppo lungo, vie tortuose, predoni appostati ovunque. Per non parlare della destinazione in sé: un garbuglio di rovine abitato da malaria e bestie affamate. Niente alberghi, non un ospedale, acqua potabile a singhiozzi, batteri ignoti pronti a farsi beffe di anticorpi impreparati.
Nessuno sarà disposto a indicarvi la strada per la Città nera. A meno che non abbiate con voi parecchio denaro. Oppure un amico pazzo.
Delle due, per quanto mi riguarda, la seconda.

Si chiamava Antoine, e la sua prima vita ebbe termine lì. Aveva soldi, follia, e una voce ostinata che gli ronzava nella testa. Parti, vai, ripeteva di continuo. Vola fino alla città in cui ogni cosa di perde. Non tornare più.
Era un pilota provetto, nessuno conosceva quei cieli meglio di lui.
Già dal giorno dopo, alcuni cronisti avrebbero parlato di incidente, altri di un abbattimento nemico che lo aveva fatto sparire nell’oceano. Il suo corpo, invece, stava affondando altrove, qui: nella città in cui per incanto si torna a essere ciò che siamo stati e ancora saremo. Girandole, spettri. Disorientati bambini fantasma.
Non eravamo amici, io e Antoine. A unirci, semmai, un legame più simile a una corrispondenza formale, uno scambio fra estranei talmente affini da riconoscersi al primo sguardo. Nobile lui, senza radici io, ci eravamo incrociati nel cuore di un’Europa martoriata dalla stessa guerra di cui non avrebbe visto la fine. Era brutto, pingue, elegante. Aveva una moglie e decine di amanti. Poi, di notte, mentre il resto del mondo sognava o moriva in trincea, riempiva i suoi quaderni di mappe e appunti. Fino al giorno in cui si decide a parlarne con qualcuno, prima che tutto svanisse nel nulla.
Non è esatto dire che me ne parlò: la confidenza – chiamiamola così – fu in realtà affidata a tre cartoline postali, scritte a distanza di alcune settimane l’una dall’altra. Mi raggiunsero per miracolo solo due anni dopo la fine della guerra.
Non sarò così irresponsabile da rivelarne il contenuto: altro, dopo di me, potrebbero commettere l’errore di spingersi fino alla Città nera, e questo non deve accadere. Basti riferire che i tre messaggi contenevano, nell’ordine: una confessione; una dichiarazione di intenti; una disperata richiesta d’aiuto. La prima mi disorientò. La seconda mi fece sorridere. La terza, invece, mi impose di preparare i bagagli e partire.

***

Nella Città fantasma l’aria ha il sapore della polvere e al calare del sole niente sembra avere suono e nulla pare vero, neanche il vento caldo che smalta gli occhi, nemmeno le gole dei gatti randagi che spostano le tegole lassù, fra le migliaia di tetti appoggiati su case senza padrone. Le notti sono un lungo intervallo in cui i respiri tremano e si fa largo il silenzio. Percorrere i marciapiedi che costeggiano le strade centrali – un budello di vie strette e fetide – è l’unico modo per non essere visti. Al vostro fianco, nascoste fra le ombre, si sposteranno anche le sagome esitanti dei superstiti, quell’esercito disarmato di bambini allo sbando.

La confessione di Antoine riguardava un delitto (tanto grave quanto non verificabile) di cui si riteneva responsabile a tal punto da meritare una condanna esemplare. Nella seconda cartolina, più articolata della precedente ma meno lucida, riportava notizie di un luogo in cui sarebbe stato possibile espiare peccati ignominiosi, una città governata da poteri segreti in grado di purificare gli uomini. Il terzo messaggio, infine, proveniva da lì, e lo sa solo il diavolo come sia riuscito a spedirlo. A quanto scriveva, era arrivato pochi giorni prima, ma già si trovava a due passi dal baratro. Insieme alla cartolina, nella busta senza affrancatura che mi tremava fra le mai, trovai la mappa con le indicazioni, oltre alla supplica di correre a prenderlo. Avrebbe potuto rivolgersi a un padre, a un fratello, alla più invaghita fra le amanti. Invece aveva scelto me, un intimo sconosciuto con il cuore spento.
Tornato dal fronte avevo trovato il vuoto: padre e madre sepolti sotto i bombardamenti, due fratelli dispersi nelle Ardenne, e una promessa sposa scappata con un ricco mercante russo. Questo Antoine non poteva saperlo, eppure qualcosa doveva averlo convinto che tristezza e oblio fossero scritti da sempre nel mio destino. Solo a te posso chiederlo, intimava un corsivo sbavato. Soltanto tu puoi riuscirci.

Il viaggio durò tredici settimane. Da un mercante di Tunisi venni a sapere che la Città si trovava duecento chilometri più a ovest rispetto alle mie carte. Alcuni contrabbandieri algerini giurarono sui propri figli che la direzione giusta era quella opposta. La tenutaria del più raffinato bordello di Aleppo pretese una cifra pari a nove notti d’amore per convincermi che avevo sbagliato strada un’altra volta. Eppure anche setacciando fra tante invenzioni qualche verità trova sempre il modo di affiorare. Seppi abbastanza presto che nella Città nera sarei morto subito se non mi fossi tatuato una stella a sette punte sul lato destro del collo. E che quello stesso marchio mi avrebbe fatto uccidere se mai lo avessi mostrato una volta uscito. La voce lenta e melodiosa di un predone berbero mi assicurò che in tutto il mondo non esistono guardie più feroci di quelle assoldate per vegliare sui bambini fantasma. Quando domandai a quell’uomo meno reticente di altri chi mai fossero i generali che comandavano le sentinelle della Città, la sua bocca si storpiò in un ghigno felino.
I maghi, confessò poi dopo lunghe trattative. Esseri immondi che si nutrono di disperazione succhiando da poveri folli disposti a barattare l’anima in cambio di illusioni. Solo se sei disperato verrai accolto nella Città, aveva continuato il berbero. Solitario e triste come un cane mangiato dalla sete.
Si chiamava Quabli, aveva ottant’anni. Mi fece giurare che se mai fossi tornato vivo dal viaggio non lo avrei cercato, né avrei detto a nessuno del nostro incontro. È a lui che devo le ultime, più importanti, indicazioni.
Prima di arrivare – mi disse – avrei fatto meglio a procurarmi un niquab di lino grezzo, l’unico modo per tentare di confondermi agli altri. Nessuno nella Città indossa abiti diversi da questo, se si escludono le guardie, coperte da tonache rosso rubino che si gonfiano sottovento come enormi gonne. Un taglio nel tessuto all’altezza del collo avrebbe esibito la stella a sette punte, il mio unico lasciapassare. Fu sempre il vecchio a indicarmi il nome di un tatuatore esperto: il risultato della visita in quella bottega di blatte e aghi roventi brilla ancora oggi sulla mia pelle scottata. Il consiglio più prezioso fu quello di varcare le mura al tramonto, quando le guardie si rilassano e i bambini fantasma cominciano a riversarsi nelle strade. Non tollerano la luce, il minimo abbaglio li porta a fuggire, a rintanarsi nei loro giacigli. Soltanto la magia delle ombre sembra ammorbidirli in una parvenza di conforto. Mentre gli aguzzini sorvegliano dall’alto coi fucili pronti a tirare, i bambini fantasma si aggirano ovunque senza meta. I più giovani – quelli arrivati da poco, anime in pena in cui ancora sopravvivono gli ultimi istinti – si nutrono di falene e scolopendre, cacciando lesti come pipistrelli. Un tempo erano stati uomini forti, forse belli, sicuramente ricchi. Esseri abituati a scrutare il mondo da prospettive superiori e a esercitare le più ambigue forme di potere. Fino al giorno in cui, chi per una ragione chi per l’altra, avevano scelto di liberarsi per sempre dai fardelli dello spirito. Ai maghi consegnavano tutto: oro, titoli, denaro. Quelli prosciugavano l’ultima stilla della loro miserevole anima. Nessuno – concluse il berbero – sapeva di preciso cosa venisse proposto in cambio. Indifferenti e spietati, padroneggiavano sortilegi in grado di cancellare nella mente ogni traccia di passato.
Per trovare Antoine impiegai ventisette giorni.

Marocco. Foto di Giuseppe Zanoni

***

La verità è che ero partito senza la speranza di rivederlo. Dopo due anni, i suoi messaggi appartenevano a un uomo che non esisteva più. Sapevo che Antoine era lì da qualche parte, ma riconoscerlo in quel formicaio di spettri sarebbe stato quasi impossibile. Ci misi poco a capirlo: una volta privati dell’anima, gli abitanti della Città nera mutavano lentamente forma assumendo, nel giro di pochi giorni, le sembianze di fanciulli gracili e biondi. Quando me ne resi conto, il sospetto di aver fallito divenne certezza, e fu quello il momento in cui compresi che non ero arrivato fin lì per salvare un amico, ma perché volevo perdermi anch’io, lasciarmi dimenticare. Diventare a mia volta un bambino fantasma.

Lo trovai rannicchiato in una pozza di escrementi e fango, respirava a malapena. Era solo un bambino, un cucciolo magro e ossuto, come tutti gli altri. Riconobbi il naso sottile, appena sporgente, delicatamente proteso all’insù. Inconfondibile, malgrado la mutazione: un’appendice di cartilagine e ossicini che fin dai tempi dell’asilo gli era costata quel soprannome buffo, Pique la lune.
Provai a chiamarlo, non ottenni risposta. Sussurrai il mio nome. I suoi occhi congelati non tradivano né paura né ansia, solo uno sbalordimento lontano. Avevo fame, sete, e temevo che una volta piegato su di lui non sarei più riuscito a rialzarmi. Vidi il rosso di una sentinella appostata tra i due comignoli del palazzo di fronte, il fucile in spalla, il volto invisibile puntato verso di noi. Avrebbe potuto spararci, non lo fece. Ancora adesso mi chiedo quale paura trattenne la sua mano.

Superammo le rovine della Città nera, nessuno si oppose alla nostra uscita. Non uno sparo, una parola gridata dall’alto. I bambini fantasma, spaventati, si spostavano al nostro passaggio. Abbandonato sulle mie spalle, il corpo di Antoine sussultava, mentre io sprofondavo nella sabbia aspettando a ogni passo il morso di un serpente. Di front a noi la notte accarezzava il mare di dune scure tenendo segreta la giusta direzione.
Quando spuntò l’alba mi fermai per salutare le ultime stelle. Il bambino dormiva, sentivo la sua bocca soffiare i lenti respiri del sonno. Piangendo, gli baciai un ginocchio, sapeva di sale.
Mi voltai ancora una volta. Il sole aveva già cominciato a colorare di arancione le nuvole e le rovine ormai lontane, e l’oceano di sabbia che ammutoliva custodendo i nostri ricordi, le nostre anime, tutto ciò che eravamo o che non saremmo mai stati.

* Ade Zeno è nato a Torino nel 1979. Ha pubblicato due libri Argomenti per l’inferno (NoReply, 2009) e L’angelo esposto (Il Maestrale, 2015), oltre a numerosi racconti sparsi su antologie e riviste. Fondatore, insieme al collettivo sparajurij, della rivista letteraria Atti impuri, ha lavorato anche per cinema e teatro. Da alcuni anni lavora come cerimoniere presso il Tempio Crematorio di Torino.

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