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RACCONTI ITALIANI #5 – Quasi si potesse

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

Quasi si potesse di Luca Romiti ha vinto la decima edizione di 8×8 (maggio 2018) ed è uscito sulla rassegna Retabloid (maggio 2018) di Oblique. Qui l’intervista.

di Luca Romiti*

When you love a woman
you tell her that she’s the one
’cause she needs somebody to tell her
that it’s gonna last forever.
Sigla di Il segreto

 

Luca Romiti

Nonna dice Ho incontrato la signora dell’interno 8. Le finestre sono appannate e le padelle fumano più del normale. Dico Nonna, fa un freddo della Madonna qua dentro. Eppure, nonna ha acceso i termosifoni stamattina. Dice Ho acceso stamattina, chettedevodi’?, e non si volta. La raggiungo piano, la abbraccio da dietro e lei fa un piccolo sobbalzo. Fino a qualche tempo fa, dopo averla abbracciata la pizzicavo sui fianchi e poi le facevo il solletico: appena la toccavo faceva un piccolo sobbalzo, poi diceva Fermo, fermo: me vola i capelli nel mangia’. Dice Fermo, fermo: me vola i capelli nel mangia’. Nonna è grassa, eppure è dimagrita. Con le mani stringo la pancia sotto al grembiule. Dice So’ dimagrita, eh.
Dietro i fornelli c’è nonna, dietro nonna ci sono io, dietro di me c’è il tavolo apparecchiato per due senza l’acqua il vino la gassosa, e dietro il tavolo c’è la televisione che manda in onda la sigla della puntata (Oddio me inizia la puntata; Ieri me so’ persa la puntata; Zitto, zitto: c’è la puntata). La telenovela è Il segreto; la stagione è la quinta: El chico de los tres lunares; la puntata è la numero millediciotto. Dietro la televisione c’è una portafinestra in vetro smerigliato, dietro la portafinestra c’è il terrazzo; se dopo qualche passo si gira a destra, costeggiando il muro della camera da letto e poi del salone, si arriva a una porta di metallo che si apre male, si chiude male e è dipinta di marrone scuro, male; dietro quella porta c’è uno stanzino.
Nonna apre il forno e libera una nuvola di vapore che le attraversa tutto il corpo tranne le lenti degli occhiali. Dice Damme le presine, svelto su che non ce vedo niente. Ci arriva prima di me e dice Finisci d’apparecchia’, prendi l’acqua il vino la gassosa.
Metto le tre bottiglie sul tavolo e nonna mette la lasagna al ragù nei piatti: Ancora se lo ricorda, di quando t’ha trovato sul pianerottolo. Anche la lasagna al ragù fuma più del normale e il vapore mi scalda il viso. Porto le mani sul piatto per scaldarle, ma appena le tolgo l’umidità le raffredda ancora di più. Le strofino sui pantaloni per asciugarle e dico Ecco qua, un bel piatto di magma. Nonna infila la mano destra nella manica sinistra del golfino e ne estrae un tovagliolo ciancicato: si soffia il naso piccolo e rosso e poi ce lo rinfila. Sai che facevi?, quando venivi da me venivi col cuscino, e te riposavi a ogni piano. Io mica lo so chi è la signora dell’interno 8, che ancora se lo ricorda e ancora lo racconta a mia nonna, e ancora ride. Ancora ride, di quando t’ha trovato che ti riposavi davanti alla porta sua. Nonna, immagina che tu sei il tempo, in generale, tu sei il tempo, mentre prepari le lasagne, stiri, fai l’uncinetto, mentre guardi la televisione, tu sei il tempo, te ne stai qua, eterna, e poi arriva qualcuno e ti spiega cosa sono le lancette. Delinguente, dice nonna, mangia invece de di’ stupidaggini, ché se fredda. «Berta, perché fai tutto questo per me?», «oh, Bosco, beh, lo faccio perché mi fa piacere. Sono contenta che tu sia tornato sano e salvo». Dico Nonna, come fai a guarda’ ’sta roba? Me fa passa’ il tempo, dice nonna, E poi me piace gli abiti, i vestiti, questi so’ quelli di una volta. «Grazie, Berta, andrò a dividere il formaggio con gli altri», «no! No, Bosco! Questo formaggio è solo per te!». Dice Ecco, vedi?, vedi com’era un tempo?, erano tempi difficili.

Nonna si volta, mi guarda: dice Allora? Che vogliamo fa’? Le metto le mani sulle guance, la guardo negli occhi piccoli umidi e azzurri e dico Nonna, ti prego, il caffè: fallo tu. Dice Sì vabbe’ vabbe’ vai a prende la droga, vàivài, nello stanzino. Lo stanzino di nonna è la sezione dedicata alle scorte alimentari nel bunker di un americano ossessionato dalla fine del mondo. Però c’è l’Anice Secco Speciale Varnelli che nonna compra al Vaticano. Torno in cucina con la droga e dico Nonna, fa più freddo dentro che— attenta che sbatti! Nonna si gira verso di  me: sta finendo di stringere la caffettiera con uno strofinaccio, sotto l’anta dello scolapiatti aperta sulla testa. Dice Nònnò, non ce sbatto più sa’, guarda. L’anta le sfiora i capelli. Me so’ accorciata, vedi? Mo’ ce passo, fino a qualche giorno fa ce sbattevo, adesso mica ce sbatto: me so’ proprio accorciata.
Il tavolo è attaccato a una parete la cui metà superiore è sostituita da tre grandi finestre: si vede il muretto del terrazzo e più in là l’urbanistica sconclusionata di via della Pisana. Nell’angolo destro, in fondo, c’è un palazzo grigio che è un grosso cilindro; ha tre finestre, lunghe, nere e sottili. Nonna guarda attraverso i vetri, con il mento appoggiato sulla mano. Chissà che è quello, dice a bassa voce, so’ proprio curiosa. Fino a quando non ha smesso di dirmelo, nonna mi ha detto che lì ci abita l’orco, e che sarebbe venuto se non avessi finito di mangiare. Dico Lì ci abita l’orco, a meno che nel frattempo non si sia trasferito. Nonna non si muove, continua a guardare fuori, e quello che c’è fuori sembra una cosa lontana, una cosa che forse neanche esiste: Eh, dice, una volta ci dobbiamo andare, così, per vedere.
Mi alzo e metto le tazzine nel lavandino, dico Vuoi che t’accompagno a letto? Sì, lascia tutto così, dice, lo faccio dopo, adesso so’ proprio stanca. Chissà come mai so’ così stanca.
Nonna si sdraia sul letto, si toglie gli occhiali e li appoggia sul materasso, accanto al telefono di casa: Me deve chiama’ il dottore, dice, sta’ attento agli occhiali, eh, ché c’ho solo quelli. Nonna sbadiglia e si porta il dorso della mano davanti alla bocca. Allora senti, dice, stamattina so’ andata al fioraio, e ho fatto le scale, no?: beh prima me stancavo al terzo piano, dove sta la signora dell’interno 8, adesso no, già al secondo me devo riposa’.
Eh sì, dice mentre s’addormenta: ormai so’ stanca prima.

Editing di Giulia Caminito 

Luca Romiti è nato a Roma nel 1990. Si è laureato in Lettere moderne a Roma e dopo una breve incursione nella piccola editoria a Milano ha concluso gli studi a Bologna. I suoi racconti  Quasi si potesse e Bologna è un enorme posacenere hanno vinto le ultime due edizioni di 8×8 e sono stati pubblicati sulla rassegna Retabloid di Oblique. Il racconto Insettile è uscito sul numero #12 di L′Inquieto.
I tre libri che hanno aggiunto qualcosa di importante alla sua vita: Casa d’altri di Silvio D’Arzo; Il male oscurodi Giuseppe Berto; Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne.

RACCONTI ITALIANI #1 – Intervista a Ade Zeno

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo
Racconti italiani è il titolo del libro di John Cheever, pubblicato da Fandango nel 2009 (traduzione di Leonardo G. Luccone), che raccoglie i racconti scritti in Italia dal celebre scrittore americano.  La nuova rubrica ospita racconti italiani e le interviste agli autori. Scegliamo testi già pubblicati e che ci sono piaciuti.

di Emanuela D’Alessio

L’autore del racconto La città dei bambini fantasma si chiama Ade Zeno. Torino è la sua città, «ci sono nato, ci vivo, quasi certamente sarà qui che morirò». Scrive forse per egoismo, noia, «al limite per disperazione», ma il suo lavoro è cerimoniere al Tempio Crematorio di Torino, «un lavoro molto delicato» che ti costringe ad assorbire il dolore altrui.
Ha fondato la rivista letteraria Atti Impuri e con il collettivo Sparajurij ha fatto «cose pazzesche per quindici anni».
Ha sempre amato Il piccolo principe di Antoine Saint-Exupéry (da cui trae ispirazione La città dei bambini fantasma). Tra i fondamentali ci sono Kafka e Borges, di quest’ultimo deve leggere almeno una frase ogni giorno. Però il suo prediletto è Roberto Bolaño e il libro più grande, assicura, lo ha scritto Miguel de Cervantes.

Ade Zeno

Sei nato a Torino, hai pubblicato due romanzi e numerosi racconti, hai fondato la rivista letteraria Atti impuri, lavori come cerimoniere al Tempio Crematorio di Torino. Cominciamo da qui, da questo lavoro inusuale, ma anche un lavoro come un altro. Come si diventa cerimoniere di un cimitero? Per concorso, per chiamata diretta, per caso o per rincorrere un desiderio?
È andata più o meno così: dopo anni di lavoro all’Università come borsista e assegnista di ricerca, un bel giorno sono finiti i fondi e tanti saluti a una carriera accademica peraltro mai desiderata. A due passi dal baratro salta fuori questo caro amico, da tempo impiegato alla Società per la Cremazione di Torino, che deve trasferirsi all’estero per motivi personali e ha bisogno di trovare un sostituto. Il mio curriculum è piuttosto in linea con il profilo richiesto perché durante l’iter universitario, fra le mille altre cose, mi sono occupato di tanatologia. Il colloquio con il direttore del tempio va bene (fra l’altro scopro che è un lettore accanito, quindi passiamo il tempo a parlare di libri), inizio il percorso di formazione e vengo assunto. Insomma, così su due piedi risponderei che si diventa cerimonieri per chiamata diretta.

Quali sono le mansioni di un “cerimoniere” e qual è il rapporto, nel caso ci fosse, con la tua scrittura?
Per rispondere in modo esaustivo dovrei impiegare almeno un paio d’ore. Molto schematicamente: un cerimoniere deve occuparsi di organizzare e presiedere quotidianamente una certa quantità di funerali laici. Al Tempio Crematorio di Torino succede in media fra le dieci e le venti volte al giorno. I luttuanti arrivano lì, nella Sala del Commiato, per accompagnare il defunto prima della cremazione, e chiedono di poter tributare l’ultimo saluto. Ci si raccoglie intorno al feretro e si ha la libertà di scegliere come commemorarlo. Alcuni scelgono il silenzio, altri la musica, altri ancora letture (poesie, salmi, lettere e così via). Il mio compito è quello di fare in modo che questo momento assuma un senso e soprattutto una forma, nella maggior parte dei casi scegliendo io stesso i testi più adeguati alla situazione. È un lavoro molto delicato che ti costringe a un confronto costante con l’altrui dolore. Un dolore che assorbi e amministri anche se non è il tuo. Un paio di giorni dopo il funerale presiedo la funzione di consegna dell’urna cineraria, altro momento delicatissimo in cui i parenti del morto devono confrontarsi con la trasformazione del corpo: un trauma terribile. Raccontato così sembra complesso. In realtà lo è molto di più. Per rispondere alla seconda domanda, non so dire quale rapporto ci sia tra il mio mestiere e la scrittura. Sicuramente l’ambiente in cui lavoro somiglia molto a uno scrigno pieno di storie. Basta fare una passeggiata fra loculi e cellari per rendersi conto dell’enorme quantità di narrazioni che si nascondono dietro quelle migliaia di lapidi. Ogni foto, ogni iscrizione racconta qualcosa. Nell’ultimo anno ho lavorato su un romanzo ambientato proprio lì. Non so cosa ne farò, qualcuno lo sta leggendo, magari uscirà, magari no.

La tua scrittura è una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
Si scrive per egoismo, per noia. Al limite per disperazione. Ma soprattutto perché a fare i bombaroli si dà molto più nell’occhio.

Soffermiamoci sul tuo racconto La città dei bambini fantasma, una storia colma di metafore, una fiaba dalle tinte fosche, un’ambientazione dai confini remoti e indistinti. Ci vogliono tredici settimane per raggiungere la Città nera seguendo le istruzioni di un mercante di Tunisi, di contrabbandieri algerini, di una tenutaria di Aleppo, di un predone berbero. Un luogo dove si perde l’anima e si assumono «le sembianze di fanciulli gracili e biondi», dove si rabbrividisce. Il risultato è stupefacente, per un racconto da diecimila battute. Ci aiuti a decrittare un testo così essenziale e denso al tempo stesso?
L’idea di fondo è partita dalla storia di Saint-Exupéry, o meglio dalla fine della sua storia, quell’ultimo volo da cui non è mai più tornato.  Ho sempre amato Il piccolo principe: un libro lunare, terribile, profondamente inquieto, che parla di solitudine e termina con un suicidio. Quel bambino biondo apparso dal nulla continua a turbarmi, certe pagine mi commuovono ancora oggi, a distanza di oltre trent’anni dalla prima lettura. Diciamo che con la storia dei bambini fantasma ho provato a giocare con quest’atmosfera sospesa infilandoci dentro alcune fra le mie tante ossessioni. La perdita della memoria, per esempio, o il desiderio di oblio, giusto per spolverare le più evidenti. Non ho impiegato molto a tirar giù la prima stesura. Con Leonardo Luccone ho poi lavorato di fino eliminando i fronzoli linguistici, i miei tanti, insopportabili, tic letterarieggianti. Lui mi dice taglia qui, taglia lì, togli tutta questa inutile merda. È un editor severissimo, non gli sfugge mezza virgola. Se la versione definitiva del racconto mi piace abbastanza, è solo merito suo.

Hai all’attivo due romanzi e numerosi racconti. Hai pubblicato con due piccoli editori e dopo svariati rifiuti. Che cosa dovrebbe cambiare, se c’è qualcosa da cambiare, nel viaggio di un manoscritto verso la libreria passando per un editore? E mi riferisco volutamente soltanto alla categoria “libro cartaceo”.
Devo essere onesto, non so proprio rispondere a questa domanda. Io scrivo, leggo, ogni tanto mi imbatto nelle infinite discussioni sui destini del libro e sulle difficoltà dell’editoria, ma lo faccio da turista, vale a dire in modo vergognosamente superficiale. In rete spopolano analisti molto più bravi di me a individuare criticità e possibili soluzioni. È vero, i miei manoscritti hanno collezionato – e quasi certamente continueranno a collezionare – quantità esorbitanti di rifiuti. All’inizio ci restavo male, ora mi limito a sorridere con malinconia. Però gli editori fanno il loro mestiere, io mi occupo di altro. Certo, a libro uscito ti piacerebbe che lo leggessero in tanti, e non è assolutamente il mio caso. Ho il sospetto di aver venduto pochissimo. Ma No Reply e Il Maestrale non avevano uffici di stampa potenti, e poi si sa che nel giro di pochi mesi un libro sparisce dagli scaffali, ammesso che riesca ad arrivarci. La quantità di novità è enorme, emergere dal ginepraio un terno all’otto. Senza contare il fatto che magari hai scritto un libro poco interessante, e allora è soltanto colpa tua.

Hai fondato insieme al collettivo Sparajurij la rivista letteraria Atti impuri, dal 2010 anche in versione cartacea. Qual è il suo stato di salute attualmente e delle riviste letterarie in generale?
Quella di Atti impuri è stata un’esperienza bella, addirittura esaltante. Ai tempi la situazione delle riviste cartacee era un po’ in stallo, c’erano molti blog, molti siti, ma mi sembrava importante tornare a proporre qualcosa di più libresco. Quando ero ragazzetto ne esistevano a bizzeffe, ricordo con particolare affetto Addictions, faceva cose bellissime. La dirigeva Leonardo Pelo, un pazzo entusiasta, che fra l’altro è stato il mio primo editore, praticamente l’unico a credere in quello che scrivevo. Tornando a noi, alla base c’era l’idea di creare un luogo fisico in cui convergessero le voci più impure della narrativa e della poesia contemporanea, esordienti e non. Una sorta di mappatura dello stato di salute della forma racconto e della ricerca linguistica in generale. Abbiamo pubblicato inediti di autori diversissimi fra loro, anche da un punto di vista generazionale, ma tutti di massimo livello. Fra gli stranieri William Cliff, Herberto Helder, Durs Grünbein, John Giorno. Il mio grande orgoglio è stato quello di pubblicare la prima traduzione assoluta di alcune poesie dell’Estridentismo messicano. Mi sembra che negli ultimi anni siano spuntate fuori molte altre riviste degne di nota, anche se tra mille difficoltà. Per quanto riguarda la nostra, però, credo che il suo ciclo sia ormai concluso. Non abbiamo più tempo né energie da dedicare a un progetto tanto ambizioso. Ma è fisiologico, niente di male. Nel nostro piccolo abbiamo fatto un buon lavoro, ne sono convinto.

Qual è o dovrebbe essere il ruolo delle riviste letterarie: palestre di scrittura, trampolini di lancio per esordienti, luoghi culturali alternativi, rifugio per disillusi?
Direi le prime tre. I disillusi possono rifugiarsi un po’ ovunque, non mi preoccuperei troppo per loro.

La forma racconto in Italia non sembra godere di particolare successo.  Eppure nemmeno un anno fa è nata a Roma una casa editrice (Racconti edizioni) che ha puntato tutto sui racconti e sta andando molto bene. I due giovani editori sono un’eccezione inspiegabile o hanno semplicemente smascherato un pregiudizio infondato?
Sono felicissimo del fatto che un progetto del genere sia in circolazione e stia avendo fortuna. Credo si tratti comunque di un successo circoscritto, non molto competitivo rispetto ai cosiddetti grandi numeri. Quindi no, non penso che abbiano smascherato un pregiudizio infondato, almeno non ancora; però stanno lavorando nella giusta direzione, spero con tutto il cuore che riescano ad andare avanti. Da lettore sono particolarmente grato alla forma breve o brevissima. Comprimere mondi nel minor spazio possibile, giocarsi il tutto per tutto in un solo gesto potenzialmente perfetto: è un azzardo che mi affascina anche come scrittore. Pensa a Charms, al Manganelli di Centuria, a Örkény, a Wilcock, oppure a quel libriccino di Thomas Bernhard, perfido e delizioso, EreignisseLa lotteria di Shirley Jackson è un vero gioiello, bisognerebbe impararlo a memoria. Potrei continuare a lungo. Lʼanno scorso ho letto una raccolta incredibile, Il paradiso degli animali, opera prima di David James Poissant. Lo hanno pubblicato i ragazzi di NN, bravissimi anche loro a scovare diamanti.

Torino appare sempre di più fucina letteraria, con l’indiscusso Salone del Libro che ha retto alla sfida milanese, con il Premio Calvino e la scuola Holden da dove escono di tanto in tanto voci interessanti, con scrittori (torinesi di nascita o adozione) che arrivano all’esordio in libreria senza sfigurare. Qua è la tua visione, particolare e globale, della città?
Torino è la mia città, ci sono nato, ci vivo, quasi certamente sarà qui che morirò. Mi piace parlarne male, ma non riesco a immaginare un luogo geografico in cui preferirei risiedere. Forse quando sarò abbastanza vecchio e arreso mi trasferirò in una località di mare molto appartata, possibilmente abitata da indigeni che non parlino la mia lingua. Ma ci penserò più avanti. La mia formazione umana e letteraria si è consolidata qui, i legami più sinceri sono tutti torinesi. Non sono un tipo mondano, né frequento salotti, che in genere mi mettono molto a disagio. Insomma tendo a starmene per i fatti miei. Il Salone del Libro è un evento importante, sono felice che esista, ma ci passo sempre solo di sfuggita, giusto per ritrovare qualche vecchio amico. Nel complesso tutta quella confusione mi agita terribilmente. Stesso discorso per quanto riguarda il Premio Calvino e la Holden: è un bene che esistano, ma a me non cambiano nulla. Però è vero che negli ultimi anni questa città si è configurata sempre più come luogo in fermento: incontri, serate, laboratori, slam, ce n’è per tutti i gusti. Se fossi meno orso me ne starei sempre in giro. Però posso dirti che, per quanto riguarda il mio percorso da scribacchino, l’esperienza più importante è stata collettiva. Parlo dell’incontro con il gruppo Sparajurij: un manipolo di ragazzetti boriosi e disincantati con cui ho condiviso oltre quindici anni di cose pazzesche germinate negli angusti corridoi dell’Università per poi dilagare ovunque. Auguro a chiunque la fortuna di poter sguazzare in un contesto del genere.

Scrittori e libri non possono fare a meno delle librerie, l’anello più debole della filiera editoriale. La Torino libraria è altrettanto vitale come quella letteraria? E qual è la tua libreria ideale?
Direi di sì. Torino è popolata di piccole, spesso meravigliose, librerie indipendenti. Luoghi abitati da esseri eroici e paradossali con cui puoi passare ore a parlare di libri senza annoiarti mai. La mia libreria ideale è esattamente così: un posto tranquillo, illuminato bene, portato avanti da pazzi furiosi e appassionati. Arrivi lì con un titolo da ordinare e ne esci con tre di cui ignoravi l’esistenza.

Prima di scrivere si deve (o dovrebbe) leggere. Quali sono stati e sono i tuoi percorsi di lettore?
Non sono un grafomane, sono piuttosto pigro, quindi scrivere è per me motivo di grande frustrazione. Insomma, preferisco aver scritto. In compenso credo di essere un buon lettore. Credo che un elenco ragionato del mio percorso personale risulterebbe noioso, ma posso mettere sul piatto alcune presenze per me fondamentali.  Kafka, senza dubbio, ogni sua parola è un piccolo miracolo. E poi Borges, di cui devo leggere almeno una frase al giorno. Non importa quale, basta aprire un volume a caso, trovo sempre qualcosa che mi fa stare bene. L’altra sera mi sono imbattuto in quella prosa fantasmagorica, Una oración, che termina così: “Voglio morire del tutto; voglio morire con questo compagno, il mio corpo”. Da sette o otto anni sono molto amico anche di Roberto Bolaño. Il libro più grande, però, lo ha scritto Cervantes. Invidio chiunque si trovi nella felice condizione di non averlo ancora letto e di avere la possibilità di farlo.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Qualche settimana fa mi sono imbattuto in un autore neozelandese che non avevo mai sentito nominare, Maurice Shadbolt. Il libro si intitola Le acque della luna, edito da Feltrinelli nel 1962 e fuori catalogo da tempo. Con una rispolverata alla traduzione andrebbe assolutamente ristampato, sono quasi tutti racconti notevoli. Adesso invece sto leggendo Antoine Volodine, Terminus Radioso, dopo aver amato moltissimo Angeli minori e Scrittori. Anche a lui voglio abbastanza bene. Ma meno che a Bolaño. Ragionando in termini affettivi, Roberto è in assoluto il mio prediletto.

Leggi il racconto La città dei bambini fantasma

RACCONTI ITALIANI #1 – La città dei bambini fantasma

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo
Racconti italiani è il titolo del libro di John Cheever, pubblicato da Fandango nel 2009 (traduzione di Leonardo G. Luccone), che raccoglie i racconti scritti in Italia dal celebre scrittore americano.  La nuova rubrica ospita racconti italiani e le interviste agli autori. Scegliamo testi già pubblicati e che ci sono piaciuti.

La città dei bambini fantasma di Ade Zeno, è comparso su Retabloid (luglio 2017), la rassegna stampa realizzata da Oblique studio.  Ringraziamo Leonardo G. Luccone per la gentile concessione.

di Ade Zeno *

Poi, a una certa ora, nella Città nera fa buio e cielo e terra tornano a fondersi in uno. All’alba, invece, il labirinto cambia aspetto, la luce si riprende tutto e bagna gli angoli, il viottolo, le mura di terra bianca. Allora anche il nome muta forma: poche sillabe sussurrate dagli autisti delle corriere dirette a nord o dalle guardie di frontiera mentre spulciano i passaporti scuotendo la testa. Al viandante testardo verrà esposto con garbo un dettagliato elenco di svantaggi: tragitto troppo lungo, vie tortuose, predoni appostati ovunque. Per non parlare della destinazione in sé: un garbuglio di rovine abitato da malaria e bestie affamate. Niente alberghi, non un ospedale, acqua potabile a singhiozzi, batteri ignoti pronti a farsi beffe di anticorpi impreparati.
Nessuno sarà disposto a indicarvi la strada per la Città nera. A meno che non abbiate con voi parecchio denaro. Oppure un amico pazzo.
Delle due, per quanto mi riguarda, la seconda.

Si chiamava Antoine, e la sua prima vita ebbe termine lì. Aveva soldi, follia, e una voce ostinata che gli ronzava nella testa. Parti, vai, ripeteva di continuo. Vola fino alla città in cui ogni cosa di perde. Non tornare più.
Era un pilota provetto, nessuno conosceva quei cieli meglio di lui.
Già dal giorno dopo, alcuni cronisti avrebbero parlato di incidente, altri di un abbattimento nemico che lo aveva fatto sparire nell’oceano. Il suo corpo, invece, stava affondando altrove, qui: nella città in cui per incanto si torna a essere ciò che siamo stati e ancora saremo. Girandole, spettri. Disorientati bambini fantasma.
Non eravamo amici, io e Antoine. A unirci, semmai, un legame più simile a una corrispondenza formale, uno scambio fra estranei talmente affini da riconoscersi al primo sguardo. Nobile lui, senza radici io, ci eravamo incrociati nel cuore di un’Europa martoriata dalla stessa guerra di cui non avrebbe visto la fine. Era brutto, pingue, elegante. Aveva una moglie e decine di amanti. Poi, di notte, mentre il resto del mondo sognava o moriva in trincea, riempiva i suoi quaderni di mappe e appunti. Fino al giorno in cui si decide a parlarne con qualcuno, prima che tutto svanisse nel nulla.
Non è esatto dire che me ne parlò: la confidenza – chiamiamola così – fu in realtà affidata a tre cartoline postali, scritte a distanza di alcune settimane l’una dall’altra. Mi raggiunsero per miracolo solo due anni dopo la fine della guerra.
Non sarò così irresponsabile da rivelarne il contenuto: altro, dopo di me, potrebbero commettere l’errore di spingersi fino alla Città nera, e questo non deve accadere. Basti riferire che i tre messaggi contenevano, nell’ordine: una confessione; una dichiarazione di intenti; una disperata richiesta d’aiuto. La prima mi disorientò. La seconda mi fece sorridere. La terza, invece, mi impose di preparare i bagagli e partire.

***

Nella Città fantasma l’aria ha il sapore della polvere e al calare del sole niente sembra avere suono e nulla pare vero, neanche il vento caldo che smalta gli occhi, nemmeno le gole dei gatti randagi che spostano le tegole lassù, fra le migliaia di tetti appoggiati su case senza padrone. Le notti sono un lungo intervallo in cui i respiri tremano e si fa largo il silenzio. Percorrere i marciapiedi che costeggiano le strade centrali – un budello di vie strette e fetide – è l’unico modo per non essere visti. Al vostro fianco, nascoste fra le ombre, si sposteranno anche le sagome esitanti dei superstiti, quell’esercito disarmato di bambini allo sbando.

La confessione di Antoine riguardava un delitto (tanto grave quanto non verificabile) di cui si riteneva responsabile a tal punto da meritare una condanna esemplare. Nella seconda cartolina, più articolata della precedente ma meno lucida, riportava notizie di un luogo in cui sarebbe stato possibile espiare peccati ignominiosi, una città governata da poteri segreti in grado di purificare gli uomini. Il terzo messaggio, infine, proveniva da lì, e lo sa solo il diavolo come sia riuscito a spedirlo. A quanto scriveva, era arrivato pochi giorni prima, ma già si trovava a due passi dal baratro. Insieme alla cartolina, nella busta senza affrancatura che mi tremava fra le mai, trovai la mappa con le indicazioni, oltre alla supplica di correre a prenderlo. Avrebbe potuto rivolgersi a un padre, a un fratello, alla più invaghita fra le amanti. Invece aveva scelto me, un intimo sconosciuto con il cuore spento.
Tornato dal fronte avevo trovato il vuoto: padre e madre sepolti sotto i bombardamenti, due fratelli dispersi nelle Ardenne, e una promessa sposa scappata con un ricco mercante russo. Questo Antoine non poteva saperlo, eppure qualcosa doveva averlo convinto che tristezza e oblio fossero scritti da sempre nel mio destino. Solo a te posso chiederlo, intimava un corsivo sbavato. Soltanto tu puoi riuscirci.

Il viaggio durò tredici settimane. Da un mercante di Tunisi venni a sapere che la Città si trovava duecento chilometri più a ovest rispetto alle mie carte. Alcuni contrabbandieri algerini giurarono sui propri figli che la direzione giusta era quella opposta. La tenutaria del più raffinato bordello di Aleppo pretese una cifra pari a nove notti d’amore per convincermi che avevo sbagliato strada un’altra volta. Eppure anche setacciando fra tante invenzioni qualche verità trova sempre il modo di affiorare. Seppi abbastanza presto che nella Città nera sarei morto subito se non mi fossi tatuato una stella a sette punte sul lato destro del collo. E che quello stesso marchio mi avrebbe fatto uccidere se mai lo avessi mostrato una volta uscito. La voce lenta e melodiosa di un predone berbero mi assicurò che in tutto il mondo non esistono guardie più feroci di quelle assoldate per vegliare sui bambini fantasma. Quando domandai a quell’uomo meno reticente di altri chi mai fossero i generali che comandavano le sentinelle della Città, la sua bocca si storpiò in un ghigno felino.
I maghi, confessò poi dopo lunghe trattative. Esseri immondi che si nutrono di disperazione succhiando da poveri folli disposti a barattare l’anima in cambio di illusioni. Solo se sei disperato verrai accolto nella Città, aveva continuato il berbero. Solitario e triste come un cane mangiato dalla sete.
Si chiamava Quabli, aveva ottant’anni. Mi fece giurare che se mai fossi tornato vivo dal viaggio non lo avrei cercato, né avrei detto a nessuno del nostro incontro. È a lui che devo le ultime, più importanti, indicazioni.
Prima di arrivare – mi disse – avrei fatto meglio a procurarmi un niquab di lino grezzo, l’unico modo per tentare di confondermi agli altri. Nessuno nella Città indossa abiti diversi da questo, se si escludono le guardie, coperte da tonache rosso rubino che si gonfiano sottovento come enormi gonne. Un taglio nel tessuto all’altezza del collo avrebbe esibito la stella a sette punte, il mio unico lasciapassare. Fu sempre il vecchio a indicarmi il nome di un tatuatore esperto: il risultato della visita in quella bottega di blatte e aghi roventi brilla ancora oggi sulla mia pelle scottata. Il consiglio più prezioso fu quello di varcare le mura al tramonto, quando le guardie si rilassano e i bambini fantasma cominciano a riversarsi nelle strade. Non tollerano la luce, il minimo abbaglio li porta a fuggire, a rintanarsi nei loro giacigli. Soltanto la magia delle ombre sembra ammorbidirli in una parvenza di conforto. Mentre gli aguzzini sorvegliano dall’alto coi fucili pronti a tirare, i bambini fantasma si aggirano ovunque senza meta. I più giovani – quelli arrivati da poco, anime in pena in cui ancora sopravvivono gli ultimi istinti – si nutrono di falene e scolopendre, cacciando lesti come pipistrelli. Un tempo erano stati uomini forti, forse belli, sicuramente ricchi. Esseri abituati a scrutare il mondo da prospettive superiori e a esercitare le più ambigue forme di potere. Fino al giorno in cui, chi per una ragione chi per l’altra, avevano scelto di liberarsi per sempre dai fardelli dello spirito. Ai maghi consegnavano tutto: oro, titoli, denaro. Quelli prosciugavano l’ultima stilla della loro miserevole anima. Nessuno – concluse il berbero – sapeva di preciso cosa venisse proposto in cambio. Indifferenti e spietati, padroneggiavano sortilegi in grado di cancellare nella mente ogni traccia di passato.
Per trovare Antoine impiegai ventisette giorni.

Marocco. Foto di Giuseppe Zanoni

***

La verità è che ero partito senza la speranza di rivederlo. Dopo due anni, i suoi messaggi appartenevano a un uomo che non esisteva più. Sapevo che Antoine era lì da qualche parte, ma riconoscerlo in quel formicaio di spettri sarebbe stato quasi impossibile. Ci misi poco a capirlo: una volta privati dell’anima, gli abitanti della Città nera mutavano lentamente forma assumendo, nel giro di pochi giorni, le sembianze di fanciulli gracili e biondi. Quando me ne resi conto, il sospetto di aver fallito divenne certezza, e fu quello il momento in cui compresi che non ero arrivato fin lì per salvare un amico, ma perché volevo perdermi anch’io, lasciarmi dimenticare. Diventare a mia volta un bambino fantasma.

Lo trovai rannicchiato in una pozza di escrementi e fango, respirava a malapena. Era solo un bambino, un cucciolo magro e ossuto, come tutti gli altri. Riconobbi il naso sottile, appena sporgente, delicatamente proteso all’insù. Inconfondibile, malgrado la mutazione: un’appendice di cartilagine e ossicini che fin dai tempi dell’asilo gli era costata quel soprannome buffo, Pique la lune.
Provai a chiamarlo, non ottenni risposta. Sussurrai il mio nome. I suoi occhi congelati non tradivano né paura né ansia, solo uno sbalordimento lontano. Avevo fame, sete, e temevo che una volta piegato su di lui non sarei più riuscito a rialzarmi. Vidi il rosso di una sentinella appostata tra i due comignoli del palazzo di fronte, il fucile in spalla, il volto invisibile puntato verso di noi. Avrebbe potuto spararci, non lo fece. Ancora adesso mi chiedo quale paura trattenne la sua mano.

Superammo le rovine della Città nera, nessuno si oppose alla nostra uscita. Non uno sparo, una parola gridata dall’alto. I bambini fantasma, spaventati, si spostavano al nostro passaggio. Abbandonato sulle mie spalle, il corpo di Antoine sussultava, mentre io sprofondavo nella sabbia aspettando a ogni passo il morso di un serpente. Di front a noi la notte accarezzava il mare di dune scure tenendo segreta la giusta direzione.
Quando spuntò l’alba mi fermai per salutare le ultime stelle. Il bambino dormiva, sentivo la sua bocca soffiare i lenti respiri del sonno. Piangendo, gli baciai un ginocchio, sapeva di sale.
Mi voltai ancora una volta. Il sole aveva già cominciato a colorare di arancione le nuvole e le rovine ormai lontane, e l’oceano di sabbia che ammutoliva custodendo i nostri ricordi, le nostre anime, tutto ciò che eravamo o che non saremmo mai stati.

* Ade Zeno è nato a Torino nel 1979. Ha pubblicato due libri Argomenti per l’inferno (NoReply, 2009) e L’angelo esposto (Il Maestrale, 2015), oltre a numerosi racconti sparsi su antologie e riviste. Fondatore, insieme al collettivo sparajurij, della rivista letteraria Atti impuri, ha lavorato anche per cinema e teatro. Da alcuni anni lavora come cerimoniere presso il Tempio Crematorio di Torino.

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