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#5 – La nuova legge sulla lettura: il commento di Stefano Friani, Racconti edizioni

di Emanuela D’Alessio

Le nuove norme sulla promozione e diffusione della lettura sono state definitivamente approvate il 5 febbraio scorso dal Senato, dopo un lungo iter parlamentare.

Molte le novità che possiamo riassumere così (qui il testo integrale): un piano nazionale d’azione per la promozione della lettura, patti locali per la lettura con Regioni, Comuni, istituzioni scolastiche e culturali e privati, 1 milione di euro per ciascuno degli anni 2020 e 2021 per il finanziamento di poli di biblioteche scolastiche, 500mila euro alla Capitale italiana del libro, una carta della cultura del valore di 100 euro l’anno per le famiglie economicamente disagiate, un albo delle librerie di qualità, l’aumento del credito fiscale per le librerie fino a 3,25 milioni di spesa, la possibilità di donare libri a soggetti pubblici e privati a scopi solidaristici e, infine, una nuova politica degli sconti e delle promozioni con un tetto massimo del 5% sugli sconti (15% per i libri scolastici).
Il Centro Per il Libro e la Lettura (CEPELL) mantiene e rafforza i propri ambiti di gestione e indirizzo con una dotazione finanziaria annua di 4,3 milioni di euro.
La legge “vale” complessivamente  10,25 milioni di euro per ciascuno degli anni 2020 e 2021 e 9,25 dal 2022.

La principale reazione negativa alla nuova legge viene dal presidente dell’AIE (Associazione Italiana Editori) Riccardo Franco Levi, nonché promotore della “legge Levi” che fino ad oggi aveva regolato la controversa politica degli sconti. «Imponendo la riduzione degli sconti sui prezzi di vendita – ha sottolineato il presidente dell’AIE -, questa legge peserà sulle tasche delle famiglie e dei consumatori per 75 milioni di euro, mettendo a rischio 2mila posti di lavoro».

Via dei Serpenti ha raccolto i commenti di alcuni editori e librai indipendenti: Sandro Ferri (editore di e/o), Marco Guerra (libraio di Pagina 348), Alberto Ibba (editore di NN), Barbara Facchini e Alessandro Fratini (librai di Risvolti), Stefano Friani (editore di Racconti edizioni), Giorgia Sallusti (libraia di Bookish), Federico Cenci (editore di Cliquot). Isabella Ferretti (editrice di 66thand2nd).

STEFANO FRIANI, editore di Racconti edizioni

Mi pare di capire che la più parte delle critiche, mosse soprattutto dai colleghi editori, si appuntino sul too little too late che è un po’ tipico di chi prospetta e vaneggia di rivoluzioni da fare sempre l’indomani.

Nella legge, che comunque mi pare un primo passo lungamente atteso, non ci sono di fatto aiuti o sostegni finanziari, ma questa non è certo una novità in uno dei settori che ha sempre fatto da sé. Una «virtuosità» che pochi altri ambiti culturali possono vantare e che forse in un momento di particolare sofferenza si potrebbe pure cominciare a premiare in qualche modo.

In molti lamentano la possibile contrazione dei consumi nell’immediato e soprattutto il non aver toccato il ganglio della distribuzione. Ma questa è una legge nata sull’onda lunga di un’emotività per le librerie che bruciano e che chiudono e si è cercato comprensibilmente di parare il colpo e venire incontro a un grido d’aiuto. C’è solo da sperare che non sia una cura palliativa e che dagli sconti si parta per affrontare anche il resto.

Personalmente non credo che la partita contro Amazon, che certo non vedo come un nemico, si giochi sulla scontistica. Sono in molti a credere che a parità di condizioni le persone torneranno in libreria, ma il punto è che su Amazon oltre al libro compro un sacco di altre cose che il giorno dopo mi ritrovo sull’uscio di casa, anche se abito sui monti e la libreria più vicina magari è a qualche decina di chilometri. Non è certo sui numeri che Amazon può essere battuto e se l’obiettivo è quello di ridurne l’impatto dubito che la Capitale del libro o l’istituzione di un registro di librerie di qualità serva a qualcosa.

Il problema in Italia è convincere a comprare e leggere libri chi non lo fa né l’ha mai fatto, e non credo che questa legge si preoccupi della faccenda.

Consigli di lettura indipendenti #2

Ai protagonisti di Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti , la nostra novità editoriale del 2019abbiamo rivolto una nuova domanda:

Se ti trovassi nella necessità di regalare un libro, soltanto uno, quale sceglieresti e perché?

Ecco le risposte di Stefano Friani, editore di Racconti edizioni, e Isabella Ferretti, editrice di 66thand2nd.

Stefano Friani
Scelgo una raccolta di racconti che non abbiamo pubblicato noi e che ho trovato abbastanza sensazionale: Florida di Lauren Groff (traduzione di Tommaso Pincio, Bompiani). Groff popola queste storie floridiane di alligatori e serpenti, acquartierati nel folto di un giardino in cui l’erba è cresciuta troppo oppure al limitare di una palude a due passi dall’università, e la sensazione è che questi rettili siano i racconti stessi, in attesa sorniona di mordere il lettore. Incombente è lo stesso senso di minaccia che si prova leggendo Atwood o King, e come la prima, Groff è abilissima nel discendere nelle pieghe del sentire umano senza mai perdere quella spinta compulsiva a fagocitare pagine, a voler leggere di più. È una lettura da cui si esce ammirati per la capacità di autocontrollo della scrittrice e arricchiti da un immaginario inquietato e scosso. Straconsigliato.

Isabella Ferretti
In questo momento regalerei La vita agra di Luciano Bianciardi, per il potere di visione dell’autore nel momento in cui ha scritto il libro, che ha acquistato una potenza evocativa oggi ancora maggiore. Di solito l’epoca del boom economico italiano viene ritratta in maniera agiografica, come un’età dell’oro che l’Italia e i suoi cittadini hanno irrimediabilmente perduto. Mi piace invece quel senso di perdita – di purezza e di innocenza –  che avvolge i personaggi, corrotti dal desiderio materiale. È quella forma di corruzione endemica nella società italiana, che ci impedisce – per sempre? – di alzare lo sguardo e coltivare una visione, almeno una, che faccia ben sperare nel futuro.

Otto anni di editoria indipendente – Stefano Friani, racconti edizioni

Sabato 30 novembre ci sarà anche Racconti edizioni all’ultimo incontro in programma con Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti. 

Di seguito uno stralcio della nuova intervista a Stefano Friani, fondatore con Emanuele Giammarco della casa editrice dedicata esclusivamente alla forma “racconto”. Qui invece quella comparsa sul blog nel dicembre 2016. Entrambe sono presenti nel volume.

Dopo tre anni di attività e oltre venti titoli all’attivo l’intuizione originaria, rendere disponibile qualcosa che non c’è, resta valida più che mai.
«Il segreto continua a essere la curiosità, il lasciarsi stupire, farsi prendere per mano da una voce e finire a fare un’offerta per l’opera omnia dimenticandoti di budget e bazzecole simili. Un orizzonte di ricerca che ci interessa sempre molto e dove ci saranno delle novità a breve è quello dei neri americani e della letteratura africana».

Con Elvis Malaj, il primo autore italiano pubblicato da Racconti edizioni nel 2017, il principio dell’essere stranieri in patria sembra garantito. Ma sembra difficile incontrare in Italia voci che si sentano “immigrati della propria lingua”.
«È già successo che delle nuove leve della letteratura italiana per cui il tema dell’identità non era così centrale siano state pubblicate da Racconti, e penso a Marco Marrucci e Michele Orti Manara, e molto probabilmente continuerà a succedere perché non vorremmo che quella nostra idea di ricerca – che beninteso seguitiamo a esplorare – diventasse un manifesto cui conformarsi in toto».

A maggio è uscito il primo numero della nuova collana gli Scarafaggi dedicata al racconto lungo.
«È una direzione nella quale ci muoveremo accanto a quella delle raccolte di short stories. Il primo titolo è La Casa della fame di Dambudzo Marechera, un autore maledetto morto a 35 anni di Aids, alcolizzato e senza un soldo, dopo un breve periodo sulla cresta dell’onda. Il libro, un potentissimo e lisergico flusso di coscienza, è un urlo di rabbia e dolore dalla Rhodesia segregazionista. Marechera è stato tra i più grandi autori africani di sempre e rappresenta se vogliamo un polo opposto alla tradizione di scrittori come Chinua Achebe. Per capirci, The Guardian lo definisce “il Joyce africano”».

Stefano Friani sarà protagonista, con Isabella Ferretti di 66thand2nd, dell’incontro Quando l’editore incontra l’autore, organizzato da Via dei Serpenti.

 

 Sabato 30 novembre, libreria Tomo di Roma, 19:00
Ingresso gratuito!

 

 

Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
A cura di Emanuela D’Alessio, Rossella Gaudenzi, Sabina Terziani
Editore: Via dei Serpenti, settembre 2019
Introduzione di Leonardo G. Luccone

Il volume è disponibile, a offerta libera, sul nostro sito e nelle librerie romane Tomo Libreria CaffèRisvoltiPagina 348, L’Altra Città

Otto anni nei boschi narrativi #4 Racconti edizioni

Titolo?
Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
Editore?
Via dei Serpenti
Uscita?
Settembre 2019

L’assaggio di oggi è a base di racconti e “follia” ponderata, con l’editore di Racconti edizioni Stefano Friani.

La casa editrice, nata nel 2016 da un’idea di Stefano Friani ed Emanuele Giammarco, è dedicata esclusivamente ai racconti perché “un nuovo editore deve rendere disponibile qualcosa che prima non c’era”. Il ventesimo titolo della casa editrice, A casa quando è buio di James Purdy, è uscito nel febbraio 2019.
La prima intervista è di dicembre 2016. La nuova è di maggio 2019. Qui uno stralcio.

L’intuizione originaria
L’intuizione [rendere disponibile qualcosa che non c’è] è stata per certi versi fin troppo valida e spesso ha finito per oscurare molte cose buone che abbiamo fatto: dobbiamo constatare come si sia sempre riluttanti a parlare di bei libri di racconti e a immergersi nelle pagine di autori pazzeschi, perché fare il piagnisteo sul racconto è un riflesso automatico e tutto sommato confortante che ci esime dal vedere effettivamente come sono questi libri. Certo, in questi anni in molti hanno letto e apprezzato le nostre raccolte e quelle pubblicate da altri, ma permane una difficoltà, quasi stessimo in una riserva indiana, e varcarla costituisse chissà quale strano passo. Esiste anche una disabitudine al racconto che va piano piano eradicandosi ma che è dura a morire.

La ricerca di nuove voci letterarie
Il segreto continua a essere la curiosità, il lasciarsi stupire, farsi prendere per mano da una voce e finire a fare un’offerta per l’opera omnia dimenticandoti di budget e bazzecole simili. Un orizzonte di ricerca che ci interessa sempre molto e dove ci saranno delle novità a breve è quello dei neri americani e della letteratura africana. Ad aprile è  uscito un libro pazzesco, storie di donne divise a metà tra Nigeria e Stati Uniti: La felicità è come l’acqua di Chinelo Okparanta.

I libri più amati
Credo che sia io sia Emanuele siamo più affezionati ai libri che abbiamo tradotto personalmente curando davvero ogni minimo dettaglio della loro produzione; e quindi per me Appunti da un bordello turco e il nuovo La mia guerra segreta di Philip Ó Ceallaigh, mentre per Emanuele Bere caffè da un’altra parte di ZZ Packer. Dovessi dire i miei figliocci preferiti però, oltre ai due di Philip, citerei Viviamo in acqua di Jess Walter, coi suoi racconti al fulmicotone, Albero di carne di Stephen Graham Jones, una bomba weird, e Famiglie ombra di Mia Alvar, che è proprio quello che vorrei leggere quando entro in libreria.

Il futuro
È appena uscito il primo numero della nostra nuova collana, gli Scarafaggi, dedicata precipuamente alle novellas, il racconto lungo o se preferite le cento pagine calviniane. Il primo titolo è La Casa della fame di Dambudzo Marechera, un autore maledetto morto a 35 anni di Aids, alcolizzato e senza un soldo, dopo un breve periodo sulla cresta dell’onda. Il Guardian lo definisce «il Joyce africano».
A giugno, invece, faremo la nostra prima incursione nel territorio delle antologie. Questo sconfinamento sarà un vero e proprio viaggio spaziale perché si intitolerà Viaggi sulla Luna e uscirà in concomitanza o in prossimità con il cinquantennale del primo allunaggio.
Per l’autunno invece torneranno le novellas, con La parabola dei ciechi di Gert Hofmann, con una appassionata postfazione di Luciano Funetta, che ci ha consigliato il testo in prima battuta, e la prima di una trilogia di novellas di John O’Hara, lo scrittore del New Yorker per antonomasia assieme a John Cheever. Faremo anche il terzo libro di racconti di Eudora Welty, il suo capolavoro Le mele d’oro e in più ci sarà una bellissima riscoperta in cui c’è lo zampino di Vittorio Giacopini.

RACCONTI ITALIANI #2 Intervista a Elvis Malaj, un cantastorie che diventa scrittore

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

*L’immagine di copertina è un’illustrazione di Alessandro Ripane

di Emanuela D’Alessio

Elvis Malaj, albanese di nascita, vive in Italia (attualmente a Padova) da quando aveva quindici anni. La sua “voce” è come l’acciottolìo di pietre che scivolano giù da un pendio, è una voce che non prende mai fiato, che rimbalza da una parola all’altra. E nonostante l’intercalare da “carrettiere” (chissà se lo fa apposta per scandalizzare o gli viene naturale), noi non smettiamo di ascoltare.
Elvis Malaj ha ventisette anni, ha imparato l’italiano guardando la tv, è diventato lettore leggendo in italiano, ma il suo è un italiano «sporco, spurio, meticcio», perché pur avendo tradito la lingua di origine «un immigrato in fin dei conti è uno che pensa a sé stesso», non è riuscito ad assorbire fino in fondo quella nuova.
A Bajze, dove è nato, non esiste nemmeno una libreria, non ha mai letto un libro o parlato di libri con gli amici, perché era «roba da froci».
Non sente di avere qualcosa di importante da dire, ma semplicemente di avere delle storie. «Sono un cantastorie, scrittore mi hanno fatto diventare quelli di Oblique». Quelli di Oblique sono Leonardo Luccone ed Elvira Grassi che a loro volta hanno convinto gli editori di Racconti Edizioni a pubblicare la raccolta di racconti Dal tuo terrazzo si vede casa mia.
«Penso che i ragazzi di Racconti siano dei pazzi. Poi, tenendo conto che neanche io sono uno tanto a posto, c’è il rischio che venga fuori qualcosa di buono».
Qualcosa di buono è già venuto fuori, visto che Elvis Malaj è il primo autore italiano della casa editrice romana specializzata in short stories, fino a oggi rigorosamente internazionali. Ha ultimato il suo primo romanzo Il mare è rotondo, in cerca di editore.

Elvis Malaj

Sei nato in Albania e vivi a Padova, dopo essere passato da Alessandria e Belluno. Nel racconto Il lupo della steppa (nel tuo libro Dal tuo terrazzo si vede casa mia) alla domanda «come ti trovi in Italia?» il protagonista Çoban risponde: «Trovarsi bene o meno in un posto non dipende dal posto, dipende da te. Ovunque vai ti porti sempre dietro qualcosa che alla fine rende ogni posto uguale a un altro. Potrei anche rispondere alla sua domanda, ma non significherebbe niente. Tradirei semplicemente la mia capacità di trovarmi bene o male in Italia». Che cosa ti sei portato dietro fin qui, in Italia?
Ce l’hai presente quell’idea romantica del ricominciare? Andare alla stazione, salire su treno e partire, andare lontano, non importa dove, in una nuova città, una nuova vita, lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare. Magari addirittura in un altro paese, imparare una lingua nuova, costruirti una vita tutta da capo, come piace a te, senza ripetere gli errori fatti. Abbandonare una vita logora e stantia in direzione di qualcosa di nuovo, ributtarsi nella mischia e cercare di cogliere l’occasione, avere il coraggio di salire su quel cazzo di treno perché la vita è solo tua e puoi farne quello che vuoi (la senti, la senti l’eccitazione?). Ecco, per me questa cosa non ha mai funzionato. Non solo quando ho cambiato città, ma anche quando ho cambiato paese. Tutte le volte che ho ricominciato non ho mai veramente ricominciato. La mia vita è un copione che continua a ripetersi, magari i luoghi e le persone sono diversi ma il copione rimane sempre lo stesso. Cambiando paese non ho cambiato un bel niente. Secondo me la risposta di Çoban significa questo. E allora come si fa a ricominciare? Ricominciando da sé stessi. Ma come? Non lo so, non me l’hanno ancora insegnato. Che cosa mi sono portato dietro fin qui? Non so rispondere.

Ti sei convinto e hai convinto di essere uno scrittore e nel frattempo hai accumulato le occupazioni più disparate. Dici che stai cercando di smettere, di lavorare?
Quello che sto cercando di smettere non è di lavorare, ma di continuare a fare lavori di merda. Tutti i lavori che ho fatto finora, a parte scrivere, sono tali. Quindi, cercare di farla finita con lavori che non mi soddisfano non è mica un’idea malvagia. Solo che sappiamo bene che per arrivare al punto in cui uno scrittore possa vivere di sola scrittura ce ne vuole. Porca puttana, ho sbagliato mestiere.

«Scrivere è il modo più accessibile di raccontare storie» hai spiegato in occasione della presentazione a Roma del tuo libro. Quindi raccontare storie, per te, è una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
È la soddisfazione di un bisogno naturale, fisiologico, come scopare o mangiare. Non sento di avere qualcosa di importante da dire. Ho semplicemente delle storie, sono appassionato di storie. Le vedo, sono tutt’intorno a me. Magari io e te ascoltiamo e vediamo la stessa cosa, però io sono capace di vederci una storia, per quanto inutile e banale possa essere l’oggetto della nostra osservazione. E mi piace raccontarla. Sono un cantastorie. Adesso sarò un po’ melenso, ma il sorriso che riesco a strappare alle persone quando leggo un mio racconto mi fa veramente godere.

Come sei riuscito a convincere «quelli di Oblique» che sei uno scrittore?
Con il racconto Mrika, che è stato scelto in una delle serate di 8×8 di qualche anno fa. La verità è che non li ho convinti. Sono stati loro che sono riusciti a scorgere in me uno scrittore. Ma ancora non lo ero, loro mi hanno fatto diventare scrittore.

Hai pubblicato Dal tuo terrazzo si vede casa mia con Racconti edizioni, la giovanissima e agguerrita casa editrice romana che ha iniziato con te a pubblicare anche autori italiani, rigorosamente di racconti. Un esordio importante, sia per te, sia per loro. Che cosa ne pensi?
Esordire con un esordiente, in un mercato come il nostro, con una raccolta di racconti, prendendo un albanese e spacciandolo per italiano. Penso che i ragazzi di Racconti siano dei pazzi, e mi fa veramente piacere che lo siano. Poi, tenendo conto che neanche io sono uno tanto a posto, c’è il rischio che venga fuori qualcosa di buono.

Quando sei arrivato in Italia avevi quindici anni e già conoscevi l’italiano abbastanza bene. La tua scrittura nasce direttamente in italiano? E, se è così, che cosa vuol dire esprimersi in una lingua diversa dalla propria?
La mia scrittura nasce in italiano perché sono diventato un lettore leggendo in italiano. Cosa vuol dire? Niente, fai diventare la nuova lingua la tua lingua. Sa di tradimento? Sì, un po’ lo è. Un immigrato, in fin dei conti, è uno che pensa a sé stesso. Ma a parte questo, non assorbi mai la nuova lingua fino in fondo, e non riesci a separarla del tutto dalla lingua madre. Quindi il tuo non è italiano, è il tuo italiano. Un italiano sporco, spurio, meticcio.

Sei tornato in Albania solo tre volte in circa dieci anni dalla tua partenza, eppure le tue storie raccontano quasi sempre del tuo paese, attraverso i personaggi, i luoghi della tua infanzia. Di che cosa si tratta? Nostalgia, elaborazione di un distacco, riconciliazione con le proprie origini?
Non si tratta di nessuna di queste cose. Come scrittore, penso di avere un buon rapporto con l’Albania, c’è un ottimo equilibrio tra dare e avere. E forse sono lo scrittore albanese più albanese che ci sia in circolazione. Come persona, invece, come figlio di quella terra, è un altro paio di maniche, in questo caso la storia è un po’ più complicata. Il rapporto padre-figlio non è mai stato semplice. Comunque sia, che ti piacciano o meno, i tuoi genitori rimangono sempre i tuoi genitori.

La mia conoscenza della letteratura albanese si limita a Ismail Kadare, ormai 81enne, uno dei pochi tradotti in Italia. Puoi citarne altri, provando a spiegarci il perché della scarsa diffusione oltreconfine delle loro opere?
Ti dico la verità, pure la mia conoscenza della letteratura albanese è limitata. Ma un paio di nomi te li faccio: Gazmend Kapllani, che ha scritto un romanzo sull’immigrazione, Breve diario di frontiera (i romanzi sull’immigrazione di solito non mi piacciono ma il suo mi è piaciuto), e Ornela Vorpsi, perché sa scrivere. Sul motivo della scarsa diffusione non ti so dire, bisognerebbe fare un’analisi come si deve. Ti posso dire però che gli scrittori albanesi in Francia vanno di più.

Scrittori e libri non possono fare a meno delle librerie, l’anello più debole della filiera editoriale. Lo è in Italia senza dubbio, ma qual è la situazione delle librerie in Albania?
In Albania non ne parliamo. Manca proprio la cultura e la coltura del libro e delle librerie tra i giovani. Non leggono. Quando ero in Albania neanche io leggevo, non ho mai parlato con un amico di libri, e a Bajze non c’era nemmeno una libreria. I libri venivano visti come roba da froci. Con i miei amici parlavo di cose importanti, parlavamo di fica, anche se poi nessuno di noi scopava. Mi auguro che in questi anni qualcosa sia cambiato.

Qual è la tua libreria ideale?
La mia libreria ideale è una libreria piena di persone.

Prima di scrivere si deve (o dovrebbe) leggere. Qual è stato ed è il tuo percorso di lettore?
Il mio periodo più intenso di lettore è stato quello iniziale, quando è scattata la fiamma, e ho letto autori di fine Ottocento-inizio Novecento, tipo Kafka, Svevo, Čechov, Schnitzler, Pirandello, Tozzi, Hesse eccetera. Invece quello attuale è un po’ a caso, leggo di tutto senza un nesso logico.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Paolo Nori, Bassotuba non c’è.

Leggi L’autobiografia del personaggio che poi sarei io

RACCONTI ITALIANI #1 – Intervista a Ade Zeno

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo
Racconti italiani è il titolo del libro di John Cheever, pubblicato da Fandango nel 2009 (traduzione di Leonardo G. Luccone), che raccoglie i racconti scritti in Italia dal celebre scrittore americano.  La nuova rubrica ospita racconti italiani e le interviste agli autori. Scegliamo testi già pubblicati e che ci sono piaciuti.

di Emanuela D’Alessio

L’autore del racconto La città dei bambini fantasma si chiama Ade Zeno. Torino è la sua città, «ci sono nato, ci vivo, quasi certamente sarà qui che morirò». Scrive forse per egoismo, noia, «al limite per disperazione», ma il suo lavoro è cerimoniere al Tempio Crematorio di Torino, «un lavoro molto delicato» che ti costringe ad assorbire il dolore altrui.
Ha fondato la rivista letteraria Atti Impuri e con il collettivo Sparajurij ha fatto «cose pazzesche per quindici anni».
Ha sempre amato Il piccolo principe di Antoine Saint-Exupéry (da cui trae ispirazione La città dei bambini fantasma). Tra i fondamentali ci sono Kafka e Borges, di quest’ultimo deve leggere almeno una frase ogni giorno. Però il suo prediletto è Roberto Bolaño e il libro più grande, assicura, lo ha scritto Miguel de Cervantes.

Ade Zeno

Sei nato a Torino, hai pubblicato due romanzi e numerosi racconti, hai fondato la rivista letteraria Atti impuri, lavori come cerimoniere al Tempio Crematorio di Torino. Cominciamo da qui, da questo lavoro inusuale, ma anche un lavoro come un altro. Come si diventa cerimoniere di un cimitero? Per concorso, per chiamata diretta, per caso o per rincorrere un desiderio?
È andata più o meno così: dopo anni di lavoro all’Università come borsista e assegnista di ricerca, un bel giorno sono finiti i fondi e tanti saluti a una carriera accademica peraltro mai desiderata. A due passi dal baratro salta fuori questo caro amico, da tempo impiegato alla Società per la Cremazione di Torino, che deve trasferirsi all’estero per motivi personali e ha bisogno di trovare un sostituto. Il mio curriculum è piuttosto in linea con il profilo richiesto perché durante l’iter universitario, fra le mille altre cose, mi sono occupato di tanatologia. Il colloquio con il direttore del tempio va bene (fra l’altro scopro che è un lettore accanito, quindi passiamo il tempo a parlare di libri), inizio il percorso di formazione e vengo assunto. Insomma, così su due piedi risponderei che si diventa cerimonieri per chiamata diretta.

Quali sono le mansioni di un “cerimoniere” e qual è il rapporto, nel caso ci fosse, con la tua scrittura?
Per rispondere in modo esaustivo dovrei impiegare almeno un paio d’ore. Molto schematicamente: un cerimoniere deve occuparsi di organizzare e presiedere quotidianamente una certa quantità di funerali laici. Al Tempio Crematorio di Torino succede in media fra le dieci e le venti volte al giorno. I luttuanti arrivano lì, nella Sala del Commiato, per accompagnare il defunto prima della cremazione, e chiedono di poter tributare l’ultimo saluto. Ci si raccoglie intorno al feretro e si ha la libertà di scegliere come commemorarlo. Alcuni scelgono il silenzio, altri la musica, altri ancora letture (poesie, salmi, lettere e così via). Il mio compito è quello di fare in modo che questo momento assuma un senso e soprattutto una forma, nella maggior parte dei casi scegliendo io stesso i testi più adeguati alla situazione. È un lavoro molto delicato che ti costringe a un confronto costante con l’altrui dolore. Un dolore che assorbi e amministri anche se non è il tuo. Un paio di giorni dopo il funerale presiedo la funzione di consegna dell’urna cineraria, altro momento delicatissimo in cui i parenti del morto devono confrontarsi con la trasformazione del corpo: un trauma terribile. Raccontato così sembra complesso. In realtà lo è molto di più. Per rispondere alla seconda domanda, non so dire quale rapporto ci sia tra il mio mestiere e la scrittura. Sicuramente l’ambiente in cui lavoro somiglia molto a uno scrigno pieno di storie. Basta fare una passeggiata fra loculi e cellari per rendersi conto dell’enorme quantità di narrazioni che si nascondono dietro quelle migliaia di lapidi. Ogni foto, ogni iscrizione racconta qualcosa. Nell’ultimo anno ho lavorato su un romanzo ambientato proprio lì. Non so cosa ne farò, qualcuno lo sta leggendo, magari uscirà, magari no.

La tua scrittura è una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
Si scrive per egoismo, per noia. Al limite per disperazione. Ma soprattutto perché a fare i bombaroli si dà molto più nell’occhio.

Soffermiamoci sul tuo racconto La città dei bambini fantasma, una storia colma di metafore, una fiaba dalle tinte fosche, un’ambientazione dai confini remoti e indistinti. Ci vogliono tredici settimane per raggiungere la Città nera seguendo le istruzioni di un mercante di Tunisi, di contrabbandieri algerini, di una tenutaria di Aleppo, di un predone berbero. Un luogo dove si perde l’anima e si assumono «le sembianze di fanciulli gracili e biondi», dove si rabbrividisce. Il risultato è stupefacente, per un racconto da diecimila battute. Ci aiuti a decrittare un testo così essenziale e denso al tempo stesso?
L’idea di fondo è partita dalla storia di Saint-Exupéry, o meglio dalla fine della sua storia, quell’ultimo volo da cui non è mai più tornato.  Ho sempre amato Il piccolo principe: un libro lunare, terribile, profondamente inquieto, che parla di solitudine e termina con un suicidio. Quel bambino biondo apparso dal nulla continua a turbarmi, certe pagine mi commuovono ancora oggi, a distanza di oltre trent’anni dalla prima lettura. Diciamo che con la storia dei bambini fantasma ho provato a giocare con quest’atmosfera sospesa infilandoci dentro alcune fra le mie tante ossessioni. La perdita della memoria, per esempio, o il desiderio di oblio, giusto per spolverare le più evidenti. Non ho impiegato molto a tirar giù la prima stesura. Con Leonardo Luccone ho poi lavorato di fino eliminando i fronzoli linguistici, i miei tanti, insopportabili, tic letterarieggianti. Lui mi dice taglia qui, taglia lì, togli tutta questa inutile merda. È un editor severissimo, non gli sfugge mezza virgola. Se la versione definitiva del racconto mi piace abbastanza, è solo merito suo.

Hai all’attivo due romanzi e numerosi racconti. Hai pubblicato con due piccoli editori e dopo svariati rifiuti. Che cosa dovrebbe cambiare, se c’è qualcosa da cambiare, nel viaggio di un manoscritto verso la libreria passando per un editore? E mi riferisco volutamente soltanto alla categoria “libro cartaceo”.
Devo essere onesto, non so proprio rispondere a questa domanda. Io scrivo, leggo, ogni tanto mi imbatto nelle infinite discussioni sui destini del libro e sulle difficoltà dell’editoria, ma lo faccio da turista, vale a dire in modo vergognosamente superficiale. In rete spopolano analisti molto più bravi di me a individuare criticità e possibili soluzioni. È vero, i miei manoscritti hanno collezionato – e quasi certamente continueranno a collezionare – quantità esorbitanti di rifiuti. All’inizio ci restavo male, ora mi limito a sorridere con malinconia. Però gli editori fanno il loro mestiere, io mi occupo di altro. Certo, a libro uscito ti piacerebbe che lo leggessero in tanti, e non è assolutamente il mio caso. Ho il sospetto di aver venduto pochissimo. Ma No Reply e Il Maestrale non avevano uffici di stampa potenti, e poi si sa che nel giro di pochi mesi un libro sparisce dagli scaffali, ammesso che riesca ad arrivarci. La quantità di novità è enorme, emergere dal ginepraio un terno all’otto. Senza contare il fatto che magari hai scritto un libro poco interessante, e allora è soltanto colpa tua.

Hai fondato insieme al collettivo Sparajurij la rivista letteraria Atti impuri, dal 2010 anche in versione cartacea. Qual è il suo stato di salute attualmente e delle riviste letterarie in generale?
Quella di Atti impuri è stata un’esperienza bella, addirittura esaltante. Ai tempi la situazione delle riviste cartacee era un po’ in stallo, c’erano molti blog, molti siti, ma mi sembrava importante tornare a proporre qualcosa di più libresco. Quando ero ragazzetto ne esistevano a bizzeffe, ricordo con particolare affetto Addictions, faceva cose bellissime. La dirigeva Leonardo Pelo, un pazzo entusiasta, che fra l’altro è stato il mio primo editore, praticamente l’unico a credere in quello che scrivevo. Tornando a noi, alla base c’era l’idea di creare un luogo fisico in cui convergessero le voci più impure della narrativa e della poesia contemporanea, esordienti e non. Una sorta di mappatura dello stato di salute della forma racconto e della ricerca linguistica in generale. Abbiamo pubblicato inediti di autori diversissimi fra loro, anche da un punto di vista generazionale, ma tutti di massimo livello. Fra gli stranieri William Cliff, Herberto Helder, Durs Grünbein, John Giorno. Il mio grande orgoglio è stato quello di pubblicare la prima traduzione assoluta di alcune poesie dell’Estridentismo messicano. Mi sembra che negli ultimi anni siano spuntate fuori molte altre riviste degne di nota, anche se tra mille difficoltà. Per quanto riguarda la nostra, però, credo che il suo ciclo sia ormai concluso. Non abbiamo più tempo né energie da dedicare a un progetto tanto ambizioso. Ma è fisiologico, niente di male. Nel nostro piccolo abbiamo fatto un buon lavoro, ne sono convinto.

Qual è o dovrebbe essere il ruolo delle riviste letterarie: palestre di scrittura, trampolini di lancio per esordienti, luoghi culturali alternativi, rifugio per disillusi?
Direi le prime tre. I disillusi possono rifugiarsi un po’ ovunque, non mi preoccuperei troppo per loro.

La forma racconto in Italia non sembra godere di particolare successo.  Eppure nemmeno un anno fa è nata a Roma una casa editrice (Racconti edizioni) che ha puntato tutto sui racconti e sta andando molto bene. I due giovani editori sono un’eccezione inspiegabile o hanno semplicemente smascherato un pregiudizio infondato?
Sono felicissimo del fatto che un progetto del genere sia in circolazione e stia avendo fortuna. Credo si tratti comunque di un successo circoscritto, non molto competitivo rispetto ai cosiddetti grandi numeri. Quindi no, non penso che abbiano smascherato un pregiudizio infondato, almeno non ancora; però stanno lavorando nella giusta direzione, spero con tutto il cuore che riescano ad andare avanti. Da lettore sono particolarmente grato alla forma breve o brevissima. Comprimere mondi nel minor spazio possibile, giocarsi il tutto per tutto in un solo gesto potenzialmente perfetto: è un azzardo che mi affascina anche come scrittore. Pensa a Charms, al Manganelli di Centuria, a Örkény, a Wilcock, oppure a quel libriccino di Thomas Bernhard, perfido e delizioso, EreignisseLa lotteria di Shirley Jackson è un vero gioiello, bisognerebbe impararlo a memoria. Potrei continuare a lungo. Lʼanno scorso ho letto una raccolta incredibile, Il paradiso degli animali, opera prima di David James Poissant. Lo hanno pubblicato i ragazzi di NN, bravissimi anche loro a scovare diamanti.

Torino appare sempre di più fucina letteraria, con l’indiscusso Salone del Libro che ha retto alla sfida milanese, con il Premio Calvino e la scuola Holden da dove escono di tanto in tanto voci interessanti, con scrittori (torinesi di nascita o adozione) che arrivano all’esordio in libreria senza sfigurare. Qua è la tua visione, particolare e globale, della città?
Torino è la mia città, ci sono nato, ci vivo, quasi certamente sarà qui che morirò. Mi piace parlarne male, ma non riesco a immaginare un luogo geografico in cui preferirei risiedere. Forse quando sarò abbastanza vecchio e arreso mi trasferirò in una località di mare molto appartata, possibilmente abitata da indigeni che non parlino la mia lingua. Ma ci penserò più avanti. La mia formazione umana e letteraria si è consolidata qui, i legami più sinceri sono tutti torinesi. Non sono un tipo mondano, né frequento salotti, che in genere mi mettono molto a disagio. Insomma tendo a starmene per i fatti miei. Il Salone del Libro è un evento importante, sono felice che esista, ma ci passo sempre solo di sfuggita, giusto per ritrovare qualche vecchio amico. Nel complesso tutta quella confusione mi agita terribilmente. Stesso discorso per quanto riguarda il Premio Calvino e la Holden: è un bene che esistano, ma a me non cambiano nulla. Però è vero che negli ultimi anni questa città si è configurata sempre più come luogo in fermento: incontri, serate, laboratori, slam, ce n’è per tutti i gusti. Se fossi meno orso me ne starei sempre in giro. Però posso dirti che, per quanto riguarda il mio percorso da scribacchino, l’esperienza più importante è stata collettiva. Parlo dell’incontro con il gruppo Sparajurij: un manipolo di ragazzetti boriosi e disincantati con cui ho condiviso oltre quindici anni di cose pazzesche germinate negli angusti corridoi dell’Università per poi dilagare ovunque. Auguro a chiunque la fortuna di poter sguazzare in un contesto del genere.

Scrittori e libri non possono fare a meno delle librerie, l’anello più debole della filiera editoriale. La Torino libraria è altrettanto vitale come quella letteraria? E qual è la tua libreria ideale?
Direi di sì. Torino è popolata di piccole, spesso meravigliose, librerie indipendenti. Luoghi abitati da esseri eroici e paradossali con cui puoi passare ore a parlare di libri senza annoiarti mai. La mia libreria ideale è esattamente così: un posto tranquillo, illuminato bene, portato avanti da pazzi furiosi e appassionati. Arrivi lì con un titolo da ordinare e ne esci con tre di cui ignoravi l’esistenza.

Prima di scrivere si deve (o dovrebbe) leggere. Quali sono stati e sono i tuoi percorsi di lettore?
Non sono un grafomane, sono piuttosto pigro, quindi scrivere è per me motivo di grande frustrazione. Insomma, preferisco aver scritto. In compenso credo di essere un buon lettore. Credo che un elenco ragionato del mio percorso personale risulterebbe noioso, ma posso mettere sul piatto alcune presenze per me fondamentali.  Kafka, senza dubbio, ogni sua parola è un piccolo miracolo. E poi Borges, di cui devo leggere almeno una frase al giorno. Non importa quale, basta aprire un volume a caso, trovo sempre qualcosa che mi fa stare bene. L’altra sera mi sono imbattuto in quella prosa fantasmagorica, Una oración, che termina così: “Voglio morire del tutto; voglio morire con questo compagno, il mio corpo”. Da sette o otto anni sono molto amico anche di Roberto Bolaño. Il libro più grande, però, lo ha scritto Cervantes. Invidio chiunque si trovi nella felice condizione di non averlo ancora letto e di avere la possibilità di farlo.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Qualche settimana fa mi sono imbattuto in un autore neozelandese che non avevo mai sentito nominare, Maurice Shadbolt. Il libro si intitola Le acque della luna, edito da Feltrinelli nel 1962 e fuori catalogo da tempo. Con una rispolverata alla traduzione andrebbe assolutamente ristampato, sono quasi tutti racconti notevoli. Adesso invece sto leggendo Antoine Volodine, Terminus Radioso, dopo aver amato moltissimo Angeli minori e Scrittori. Anche a lui voglio abbastanza bene. Ma meno che a Bolaño. Ragionando in termini affettivi, Roberto è in assoluto il mio prediletto.

Leggi il racconto La città dei bambini fantasma