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RACCONTI ITALIANI #1 – La città dei bambini fantasma

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo
Racconti italiani è il titolo del libro di John Cheever, pubblicato da Fandango nel 2009 (traduzione di Leonardo G. Luccone), che raccoglie i racconti scritti in Italia dal celebre scrittore americano.  La nuova rubrica ospita racconti italiani e le interviste agli autori. Scegliamo testi già pubblicati e che ci sono piaciuti.

La città dei bambini fantasma di Ade Zeno, è comparso su Retabloid (luglio 2017), la rassegna stampa realizzata da Oblique studio.  Ringraziamo Leonardo G. Luccone per la gentile concessione.

di Ade Zeno *

Poi, a una certa ora, nella Città nera fa buio e cielo e terra tornano a fondersi in uno. All’alba, invece, il labirinto cambia aspetto, la luce si riprende tutto e bagna gli angoli, il viottolo, le mura di terra bianca. Allora anche il nome muta forma: poche sillabe sussurrate dagli autisti delle corriere dirette a nord o dalle guardie di frontiera mentre spulciano i passaporti scuotendo la testa. Al viandante testardo verrà esposto con garbo un dettagliato elenco di svantaggi: tragitto troppo lungo, vie tortuose, predoni appostati ovunque. Per non parlare della destinazione in sé: un garbuglio di rovine abitato da malaria e bestie affamate. Niente alberghi, non un ospedale, acqua potabile a singhiozzi, batteri ignoti pronti a farsi beffe di anticorpi impreparati.
Nessuno sarà disposto a indicarvi la strada per la Città nera. A meno che non abbiate con voi parecchio denaro. Oppure un amico pazzo.
Delle due, per quanto mi riguarda, la seconda.

Si chiamava Antoine, e la sua prima vita ebbe termine lì. Aveva soldi, follia, e una voce ostinata che gli ronzava nella testa. Parti, vai, ripeteva di continuo. Vola fino alla città in cui ogni cosa di perde. Non tornare più.
Era un pilota provetto, nessuno conosceva quei cieli meglio di lui.
Già dal giorno dopo, alcuni cronisti avrebbero parlato di incidente, altri di un abbattimento nemico che lo aveva fatto sparire nell’oceano. Il suo corpo, invece, stava affondando altrove, qui: nella città in cui per incanto si torna a essere ciò che siamo stati e ancora saremo. Girandole, spettri. Disorientati bambini fantasma.
Non eravamo amici, io e Antoine. A unirci, semmai, un legame più simile a una corrispondenza formale, uno scambio fra estranei talmente affini da riconoscersi al primo sguardo. Nobile lui, senza radici io, ci eravamo incrociati nel cuore di un’Europa martoriata dalla stessa guerra di cui non avrebbe visto la fine. Era brutto, pingue, elegante. Aveva una moglie e decine di amanti. Poi, di notte, mentre il resto del mondo sognava o moriva in trincea, riempiva i suoi quaderni di mappe e appunti. Fino al giorno in cui si decide a parlarne con qualcuno, prima che tutto svanisse nel nulla.
Non è esatto dire che me ne parlò: la confidenza – chiamiamola così – fu in realtà affidata a tre cartoline postali, scritte a distanza di alcune settimane l’una dall’altra. Mi raggiunsero per miracolo solo due anni dopo la fine della guerra.
Non sarò così irresponsabile da rivelarne il contenuto: altro, dopo di me, potrebbero commettere l’errore di spingersi fino alla Città nera, e questo non deve accadere. Basti riferire che i tre messaggi contenevano, nell’ordine: una confessione; una dichiarazione di intenti; una disperata richiesta d’aiuto. La prima mi disorientò. La seconda mi fece sorridere. La terza, invece, mi impose di preparare i bagagli e partire.

***

Nella Città fantasma l’aria ha il sapore della polvere e al calare del sole niente sembra avere suono e nulla pare vero, neanche il vento caldo che smalta gli occhi, nemmeno le gole dei gatti randagi che spostano le tegole lassù, fra le migliaia di tetti appoggiati su case senza padrone. Le notti sono un lungo intervallo in cui i respiri tremano e si fa largo il silenzio. Percorrere i marciapiedi che costeggiano le strade centrali – un budello di vie strette e fetide – è l’unico modo per non essere visti. Al vostro fianco, nascoste fra le ombre, si sposteranno anche le sagome esitanti dei superstiti, quell’esercito disarmato di bambini allo sbando.

La confessione di Antoine riguardava un delitto (tanto grave quanto non verificabile) di cui si riteneva responsabile a tal punto da meritare una condanna esemplare. Nella seconda cartolina, più articolata della precedente ma meno lucida, riportava notizie di un luogo in cui sarebbe stato possibile espiare peccati ignominiosi, una città governata da poteri segreti in grado di purificare gli uomini. Il terzo messaggio, infine, proveniva da lì, e lo sa solo il diavolo come sia riuscito a spedirlo. A quanto scriveva, era arrivato pochi giorni prima, ma già si trovava a due passi dal baratro. Insieme alla cartolina, nella busta senza affrancatura che mi tremava fra le mai, trovai la mappa con le indicazioni, oltre alla supplica di correre a prenderlo. Avrebbe potuto rivolgersi a un padre, a un fratello, alla più invaghita fra le amanti. Invece aveva scelto me, un intimo sconosciuto con il cuore spento.
Tornato dal fronte avevo trovato il vuoto: padre e madre sepolti sotto i bombardamenti, due fratelli dispersi nelle Ardenne, e una promessa sposa scappata con un ricco mercante russo. Questo Antoine non poteva saperlo, eppure qualcosa doveva averlo convinto che tristezza e oblio fossero scritti da sempre nel mio destino. Solo a te posso chiederlo, intimava un corsivo sbavato. Soltanto tu puoi riuscirci.

Il viaggio durò tredici settimane. Da un mercante di Tunisi venni a sapere che la Città si trovava duecento chilometri più a ovest rispetto alle mie carte. Alcuni contrabbandieri algerini giurarono sui propri figli che la direzione giusta era quella opposta. La tenutaria del più raffinato bordello di Aleppo pretese una cifra pari a nove notti d’amore per convincermi che avevo sbagliato strada un’altra volta. Eppure anche setacciando fra tante invenzioni qualche verità trova sempre il modo di affiorare. Seppi abbastanza presto che nella Città nera sarei morto subito se non mi fossi tatuato una stella a sette punte sul lato destro del collo. E che quello stesso marchio mi avrebbe fatto uccidere se mai lo avessi mostrato una volta uscito. La voce lenta e melodiosa di un predone berbero mi assicurò che in tutto il mondo non esistono guardie più feroci di quelle assoldate per vegliare sui bambini fantasma. Quando domandai a quell’uomo meno reticente di altri chi mai fossero i generali che comandavano le sentinelle della Città, la sua bocca si storpiò in un ghigno felino.
I maghi, confessò poi dopo lunghe trattative. Esseri immondi che si nutrono di disperazione succhiando da poveri folli disposti a barattare l’anima in cambio di illusioni. Solo se sei disperato verrai accolto nella Città, aveva continuato il berbero. Solitario e triste come un cane mangiato dalla sete.
Si chiamava Quabli, aveva ottant’anni. Mi fece giurare che se mai fossi tornato vivo dal viaggio non lo avrei cercato, né avrei detto a nessuno del nostro incontro. È a lui che devo le ultime, più importanti, indicazioni.
Prima di arrivare – mi disse – avrei fatto meglio a procurarmi un niquab di lino grezzo, l’unico modo per tentare di confondermi agli altri. Nessuno nella Città indossa abiti diversi da questo, se si escludono le guardie, coperte da tonache rosso rubino che si gonfiano sottovento come enormi gonne. Un taglio nel tessuto all’altezza del collo avrebbe esibito la stella a sette punte, il mio unico lasciapassare. Fu sempre il vecchio a indicarmi il nome di un tatuatore esperto: il risultato della visita in quella bottega di blatte e aghi roventi brilla ancora oggi sulla mia pelle scottata. Il consiglio più prezioso fu quello di varcare le mura al tramonto, quando le guardie si rilassano e i bambini fantasma cominciano a riversarsi nelle strade. Non tollerano la luce, il minimo abbaglio li porta a fuggire, a rintanarsi nei loro giacigli. Soltanto la magia delle ombre sembra ammorbidirli in una parvenza di conforto. Mentre gli aguzzini sorvegliano dall’alto coi fucili pronti a tirare, i bambini fantasma si aggirano ovunque senza meta. I più giovani – quelli arrivati da poco, anime in pena in cui ancora sopravvivono gli ultimi istinti – si nutrono di falene e scolopendre, cacciando lesti come pipistrelli. Un tempo erano stati uomini forti, forse belli, sicuramente ricchi. Esseri abituati a scrutare il mondo da prospettive superiori e a esercitare le più ambigue forme di potere. Fino al giorno in cui, chi per una ragione chi per l’altra, avevano scelto di liberarsi per sempre dai fardelli dello spirito. Ai maghi consegnavano tutto: oro, titoli, denaro. Quelli prosciugavano l’ultima stilla della loro miserevole anima. Nessuno – concluse il berbero – sapeva di preciso cosa venisse proposto in cambio. Indifferenti e spietati, padroneggiavano sortilegi in grado di cancellare nella mente ogni traccia di passato.
Per trovare Antoine impiegai ventisette giorni.

Marocco. Foto di Giuseppe Zanoni

***

La verità è che ero partito senza la speranza di rivederlo. Dopo due anni, i suoi messaggi appartenevano a un uomo che non esisteva più. Sapevo che Antoine era lì da qualche parte, ma riconoscerlo in quel formicaio di spettri sarebbe stato quasi impossibile. Ci misi poco a capirlo: una volta privati dell’anima, gli abitanti della Città nera mutavano lentamente forma assumendo, nel giro di pochi giorni, le sembianze di fanciulli gracili e biondi. Quando me ne resi conto, il sospetto di aver fallito divenne certezza, e fu quello il momento in cui compresi che non ero arrivato fin lì per salvare un amico, ma perché volevo perdermi anch’io, lasciarmi dimenticare. Diventare a mia volta un bambino fantasma.

Lo trovai rannicchiato in una pozza di escrementi e fango, respirava a malapena. Era solo un bambino, un cucciolo magro e ossuto, come tutti gli altri. Riconobbi il naso sottile, appena sporgente, delicatamente proteso all’insù. Inconfondibile, malgrado la mutazione: un’appendice di cartilagine e ossicini che fin dai tempi dell’asilo gli era costata quel soprannome buffo, Pique la lune.
Provai a chiamarlo, non ottenni risposta. Sussurrai il mio nome. I suoi occhi congelati non tradivano né paura né ansia, solo uno sbalordimento lontano. Avevo fame, sete, e temevo che una volta piegato su di lui non sarei più riuscito a rialzarmi. Vidi il rosso di una sentinella appostata tra i due comignoli del palazzo di fronte, il fucile in spalla, il volto invisibile puntato verso di noi. Avrebbe potuto spararci, non lo fece. Ancora adesso mi chiedo quale paura trattenne la sua mano.

Superammo le rovine della Città nera, nessuno si oppose alla nostra uscita. Non uno sparo, una parola gridata dall’alto. I bambini fantasma, spaventati, si spostavano al nostro passaggio. Abbandonato sulle mie spalle, il corpo di Antoine sussultava, mentre io sprofondavo nella sabbia aspettando a ogni passo il morso di un serpente. Di front a noi la notte accarezzava il mare di dune scure tenendo segreta la giusta direzione.
Quando spuntò l’alba mi fermai per salutare le ultime stelle. Il bambino dormiva, sentivo la sua bocca soffiare i lenti respiri del sonno. Piangendo, gli baciai un ginocchio, sapeva di sale.
Mi voltai ancora una volta. Il sole aveva già cominciato a colorare di arancione le nuvole e le rovine ormai lontane, e l’oceano di sabbia che ammutoliva custodendo i nostri ricordi, le nostre anime, tutto ciò che eravamo o che non saremmo mai stati.

* Ade Zeno è nato a Torino nel 1979. Ha pubblicato due libri Argomenti per l’inferno (NoReply, 2009) e L’angelo esposto (Il Maestrale, 2015), oltre a numerosi racconti sparsi su antologie e riviste. Fondatore, insieme al collettivo sparajurij, della rivista letteraria Atti impuri, ha lavorato anche per cinema e teatro. Da alcuni anni lavora come cerimoniere presso il Tempio Crematorio di Torino.

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