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Consigli di lettura indipendenti #2

Ai protagonisti di Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti , la nostra novità editoriale del 2019abbiamo rivolto una nuova domanda:

Se ti trovassi nella necessità di regalare un libro, soltanto uno, quale sceglieresti e perché?

Ecco le risposte di Stefano Friani, editore di Racconti edizioni, e Isabella Ferretti, editrice di 66thand2nd.

Stefano Friani
Scelgo una raccolta di racconti che non abbiamo pubblicato noi e che ho trovato abbastanza sensazionale: Florida di Lauren Groff (traduzione di Tommaso Pincio, Bompiani). Groff popola queste storie floridiane di alligatori e serpenti, acquartierati nel folto di un giardino in cui l’erba è cresciuta troppo oppure al limitare di una palude a due passi dall’università, e la sensazione è che questi rettili siano i racconti stessi, in attesa sorniona di mordere il lettore. Incombente è lo stesso senso di minaccia che si prova leggendo Atwood o King, e come la prima, Groff è abilissima nel discendere nelle pieghe del sentire umano senza mai perdere quella spinta compulsiva a fagocitare pagine, a voler leggere di più. È una lettura da cui si esce ammirati per la capacità di autocontrollo della scrittrice e arricchiti da un immaginario inquietato e scosso. Straconsigliato.

Isabella Ferretti
In questo momento regalerei La vita agra di Luciano Bianciardi, per il potere di visione dell’autore nel momento in cui ha scritto il libro, che ha acquistato una potenza evocativa oggi ancora maggiore. Di solito l’epoca del boom economico italiano viene ritratta in maniera agiografica, come un’età dell’oro che l’Italia e i suoi cittadini hanno irrimediabilmente perduto. Mi piace invece quel senso di perdita – di purezza e di innocenza –  che avvolge i personaggi, corrotti dal desiderio materiale. È quella forma di corruzione endemica nella società italiana, che ci impedisce – per sempre? – di alzare lo sguardo e coltivare una visione, almeno una, che faccia ben sperare nel futuro.

Otto anni di editoria indipendente – Stefano Friani, racconti edizioni

Sabato 30 novembre ci sarà anche Racconti edizioni all’ultimo incontro in programma con Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti. 

Di seguito uno stralcio della nuova intervista a Stefano Friani, fondatore con Emanuele Giammarco della casa editrice dedicata esclusivamente alla forma “racconto”. Qui invece quella comparsa sul blog nel dicembre 2016. Entrambe sono presenti nel volume.

Dopo tre anni di attività e oltre venti titoli all’attivo l’intuizione originaria, rendere disponibile qualcosa che non c’è, resta valida più che mai.
«Il segreto continua a essere la curiosità, il lasciarsi stupire, farsi prendere per mano da una voce e finire a fare un’offerta per l’opera omnia dimenticandoti di budget e bazzecole simili. Un orizzonte di ricerca che ci interessa sempre molto e dove ci saranno delle novità a breve è quello dei neri americani e della letteratura africana».

Con Elvis Malaj, il primo autore italiano pubblicato da Racconti edizioni nel 2017, il principio dell’essere stranieri in patria sembra garantito. Ma sembra difficile incontrare in Italia voci che si sentano “immigrati della propria lingua”.
«È già successo che delle nuove leve della letteratura italiana per cui il tema dell’identità non era così centrale siano state pubblicate da Racconti, e penso a Marco Marrucci e Michele Orti Manara, e molto probabilmente continuerà a succedere perché non vorremmo che quella nostra idea di ricerca – che beninteso seguitiamo a esplorare – diventasse un manifesto cui conformarsi in toto».

A maggio è uscito il primo numero della nuova collana gli Scarafaggi dedicata al racconto lungo.
«È una direzione nella quale ci muoveremo accanto a quella delle raccolte di short stories. Il primo titolo è La Casa della fame di Dambudzo Marechera, un autore maledetto morto a 35 anni di Aids, alcolizzato e senza un soldo, dopo un breve periodo sulla cresta dell’onda. Il libro, un potentissimo e lisergico flusso di coscienza, è un urlo di rabbia e dolore dalla Rhodesia segregazionista. Marechera è stato tra i più grandi autori africani di sempre e rappresenta se vogliamo un polo opposto alla tradizione di scrittori come Chinua Achebe. Per capirci, The Guardian lo definisce “il Joyce africano”».

Stefano Friani sarà protagonista, con Isabella Ferretti di 66thand2nd, dell’incontro Quando l’editore incontra l’autore, organizzato da Via dei Serpenti.

 

 Sabato 30 novembre, libreria Tomo di Roma, 19:00
Ingresso gratuito!

 

 

Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
A cura di Emanuela D’Alessio, Rossella Gaudenzi, Sabina Terziani
Editore: Via dei Serpenti, settembre 2019
Introduzione di Leonardo G. Luccone

Il volume è disponibile, a offerta libera, sul nostro sito e nelle librerie romane Tomo Libreria CaffèRisvoltiPagina 348, L’Altra Città

Otto anni nei boschi narrativi #4 Racconti edizioni

Titolo?
Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
Editore?
Via dei Serpenti
Uscita?
Settembre 2019

L’assaggio di oggi è a base di racconti e “follia” ponderata, con l’editore di Racconti edizioni Stefano Friani.

La casa editrice, nata nel 2016 da un’idea di Stefano Friani ed Emanuele Giammarco, è dedicata esclusivamente ai racconti perché “un nuovo editore deve rendere disponibile qualcosa che prima non c’era”. Il ventesimo titolo della casa editrice, A casa quando è buio di James Purdy, è uscito nel febbraio 2019.
La prima intervista è di dicembre 2016. La nuova è di maggio 2019. Qui uno stralcio.

L’intuizione originaria
L’intuizione [rendere disponibile qualcosa che non c’è] è stata per certi versi fin troppo valida e spesso ha finito per oscurare molte cose buone che abbiamo fatto: dobbiamo constatare come si sia sempre riluttanti a parlare di bei libri di racconti e a immergersi nelle pagine di autori pazzeschi, perché fare il piagnisteo sul racconto è un riflesso automatico e tutto sommato confortante che ci esime dal vedere effettivamente come sono questi libri. Certo, in questi anni in molti hanno letto e apprezzato le nostre raccolte e quelle pubblicate da altri, ma permane una difficoltà, quasi stessimo in una riserva indiana, e varcarla costituisse chissà quale strano passo. Esiste anche una disabitudine al racconto che va piano piano eradicandosi ma che è dura a morire.

La ricerca di nuove voci letterarie
Il segreto continua a essere la curiosità, il lasciarsi stupire, farsi prendere per mano da una voce e finire a fare un’offerta per l’opera omnia dimenticandoti di budget e bazzecole simili. Un orizzonte di ricerca che ci interessa sempre molto e dove ci saranno delle novità a breve è quello dei neri americani e della letteratura africana. Ad aprile è  uscito un libro pazzesco, storie di donne divise a metà tra Nigeria e Stati Uniti: La felicità è come l’acqua di Chinelo Okparanta.

I libri più amati
Credo che sia io sia Emanuele siamo più affezionati ai libri che abbiamo tradotto personalmente curando davvero ogni minimo dettaglio della loro produzione; e quindi per me Appunti da un bordello turco e il nuovo La mia guerra segreta di Philip Ó Ceallaigh, mentre per Emanuele Bere caffè da un’altra parte di ZZ Packer. Dovessi dire i miei figliocci preferiti però, oltre ai due di Philip, citerei Viviamo in acqua di Jess Walter, coi suoi racconti al fulmicotone, Albero di carne di Stephen Graham Jones, una bomba weird, e Famiglie ombra di Mia Alvar, che è proprio quello che vorrei leggere quando entro in libreria.

Il futuro
È appena uscito il primo numero della nostra nuova collana, gli Scarafaggi, dedicata precipuamente alle novellas, il racconto lungo o se preferite le cento pagine calviniane. Il primo titolo è La Casa della fame di Dambudzo Marechera, un autore maledetto morto a 35 anni di Aids, alcolizzato e senza un soldo, dopo un breve periodo sulla cresta dell’onda. Il Guardian lo definisce «il Joyce africano».
A giugno, invece, faremo la nostra prima incursione nel territorio delle antologie. Questo sconfinamento sarà un vero e proprio viaggio spaziale perché si intitolerà Viaggi sulla Luna e uscirà in concomitanza o in prossimità con il cinquantennale del primo allunaggio.
Per l’autunno invece torneranno le novellas, con La parabola dei ciechi di Gert Hofmann, con una appassionata postfazione di Luciano Funetta, che ci ha consigliato il testo in prima battuta, e la prima di una trilogia di novellas di John O’Hara, lo scrittore del New Yorker per antonomasia assieme a John Cheever. Faremo anche il terzo libro di racconti di Eudora Welty, il suo capolavoro Le mele d’oro e in più ci sarà una bellissima riscoperta in cui c’è lo zampino di Vittorio Giacopini.

RACCONTI ITALIANI #4#5 – Intervista a Luca Romiti, una voce alla ricerca di sé

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

di Emanuela D’Alessio

Luca Romiti, romano di ventinove anni, quando ne aveva quattordici ha subìto un trauma leggendo  Samuel Beckett, dal quale non si è ancora ripreso. Ha iniziato a scrivere per necessità, poi per passione. Con la sua “voce”  fuori dal coro ha vinto le ultime due edizioni di 8×8, il concorso letterario dove si sente la voce (appunto). La sua scrittura arriva da poche ma insistenti letture, come Beckett o Berto.  Ora sta provando a adattare la forma racconto a un romanzo. Aspettiamo di leggere come è andata.

I suoi racconti Bologna è un enorme posacenere e Quasi si potesse

Sei nato a Roma e vivi a Roma, hai fatto il liceo scientifico e ti sei laureato in Lettere moderne  Puoi aggiungere qualche altro dettaglio a questa stringata presentazione?
Ho fatto la triennale e La Sapienza e subito dopo la laurea ho frequentato il corso principe per redattori editoriali di Oblique studio; poi mi sono trasferito qualche mese a Milano per uno stage nella casa editrice Indiana editore. Da Milano sono andato a Bologna per la magistrale e da Bologna a Torino per il biennio della Scuola Holden. Da un anno sono tornato a Roma.

Sei forse l’unico (a mia memoria) che ha vinto per due volte di seguito (quest’anno e nel 2018) il concorso letterario 8×8 ideato da Oblique. Complimenti, mi viene da dire, ma anche, perché tornare sul “luogo del delitto”?
Quest’anno ho scritto un racconto con uno stile particolare, molto diverso da quello scorso, e volevo metterlo alla prova. Avevo appena finito di leggere La cosa buffa di Giuseppe Berto e la sua voce mi aveva colpito molto. Allora ho scritto quel racconto, che per lo stile e in effetti anche per quel poco di storia che c’è è molto ispirato da quella lettura. Qualche giorno dopo è uscito il bando del concorso e l’ho inviato senza pensarci troppo. 8×8 è un bel concorso: ti permette di essere letto dagli addetti ai lavori e di entrarci in contatto, anche tramite l’editing; ricevi critiche e apprezzamenti che possono essere utili a dare una direzione a quello che scrivi. Insomma, è un modo per crescere, per farsi leggere e conoscere. E poi, ovviamente, per essere l’unico a vincerlo due volte.

La tua scrittura è una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
Ho cominciato a scrivere quando ho iniziato il liceo, ero abbastanza sfigato e quindi ho aperto un blog. Se me l’avessi chiesto allora avrei detto necessità: quella cosa per cui scrivere è l’unico modo per esprimere qualcosa che non riesci a tirare fuori in un altro modo. Scrivevo molto male. Questa fase è durata forse un po’ troppo, più o meno fino a ventitré anni. Poi, per fortuna, ho cambiato approccio. Direi che è conseguenza di una passione; per che cosa, di preciso, non lo so. Per la lingua, forse. Per un modo specifico di vedere le cose.

Samuel Beckett

Beckett diceva che «forse solo l’artista può finire per vedere (e, se si vuole, far vedere ad alcuni per i quali egli esiste) la monotona centralità di ciò che ciascuno vuole, pensa, fa e soffre; di ciò che ciascuno è». E questo focolaio lo chiama bisogno. Subito dopo dice che è il bisogno di avere questo bisogno a fare l’arte. Beckett era fissato con ciò che ciascuno è; ma penso che scrivere possa darti delle buone coordinate per capirlo (e, se si vuole, farlo capire ad alcuni). È quello che diceva Rezzori, che scriveva «per conoscere i segreti dell’io che non può mai andare perduto nonostante tutti i cambiamenti che attraversa nel corso della vita». Quello che scrivevo al liceo è davvero brutto e mi vergognerei a leggerlo al mio gatto; ma posso riconoscerci dei tratti di quella persona che diceva “io” a quattordici, quindici, ventitré anni.

Mentre leggevo Bologna è un grande posacenere mi è venuto in mente Thomas Bernhard. Senza alcuna velleità di trovare i tuoi modelli letterari, vorrei solo evidenziare come la tua “voce” sia risultata immediatamente fuori dal coro, distante dai canoni stilistici più tradizionali. Puoi provare a spiegare come si è formata?
Nel caso di questo racconto la voce è derivata, come ti dicevo, dalla lettura di Berto – da La cosa buffa più che da Il male oscuro. Lo stile dei due romanzi è molto simile ma forse nel Male oscuro è ancora più estremo; ne La cosa buffa, anche per l’uso della terza persona, è più controllato e dà un po’ più di respiro al lettore.  È un tipo di voce che mi interessa, ansiosa di parlare ma allo stesso tempo molto preoccupata di essere compresa. Scrivere con quella voce è anche un ottimo esercizio: mette in evidenza tutti i tic linguistici, le scelte “facili”; la quasi totale assenza di punteggiatura impone un controllo su tutta la struttura della frase. In generale direi che si è formata con le letture, poche ma piuttosto insistenti.

Eudora Welty diceva che nel racconto non importa la fine ma come ci si arriva. I tuoi racconti, essenziali ma ricchi di dettagli, soddisfano in pieno questa caratteristica. In 8000 battute sei riuscito a raccontare un mondo intero, lasciando comunque libero il lettore di interpretare e concludere. È un risultato straordinario di cui sei consapevole?
Non la conosco, ma sono d’accordo con Eudora. Il finale, e la storia in generale, non mi interessa molto, né in quello che leggo né in quello che scrivo (e questo, soprattutto nell’ottica di un romanzo, è un problema abbastanza grosso). Qualcun’altro diceva che il racconto è un pezzo di storia a cui manca il prima e il dopo. In genere ho in mente un’immagine, piccola, precisa e banale (un pranzo dalla nonna; due fratelli che cercano insetti; un ragazzo che lascia una ragazza dicendole “ti amo”) e comincio a scriverci intorno. Poi, se è un buon racconto, non parlerà solo di quello. Non sono consapevole di come ci arrivo e spesso mi capita di arrivarci senza rendermene conto. Però credo di essere bravo a capire se, alla fine, ci sono riuscito oppure no.

La forma racconto è in genere quella prescelta per mettersi alla prova e farsi conoscere. C’è chi, a torto, considera il racconto una forma di scrittura meno impegnativa del romanzo, più semplice da gestire. Nel tuo caso il racconto sembra essere la naturale conseguenza di una vocazione. Pensi di poterla “adattare” a un futuro romanzo?
Ci sto provando. Il progetto a cui sto lavorando adesso potrebbe essere una specie di adattamento di quella forma al romanzo, come già ce ne sono state tante (penso a Felici i felici o a Tutto quello che non ricordo). Il mio problema però rimane la storia: quel prima e dopo che nei racconti non compare ma che in un romanzo è necessario.

Prima di scrivere si deve (o dovrebbe) leggere. Hai citato tre libri che hanno aggiunto qualcosa di importante nella tua vita. Puoi spiegarci che cosa? Quali sono stati e sono i tuoi percorsi di lettore?
Nella mia famiglia leggeva solo mio padre, e leggeva solo classici. Io ho cominciato alle medie, prendendo libri a caso dalla libreria. Quasi sempre mi imbattevo in libri non proprio adatti. A dodici anni, per esempio, ho pescato Frammenti di un discorso amoroso. Trauma. Pensavo che i libri fossero una cosa esclusivamente da grandi e quindi volevo leggerli; ma non li capivo. Poi, finalmente, sono incappato nella saga dei Malaussène. Ma è stato un caso. Ho ricominciato a pescare a caso e all’inizio del liceo ho letto Watt di Beckett. Altro trauma, ancora non superato. Penso sia da lui che derivi l’ossessione per la lingua. Leggo poco, comunque. Ritorno spesso ai libri che conosco, mi piace rileggere piuttosto che leggere. Ho conservato un approccio infantile: prendo un libro, lo comincio, mi stanca subito, lo abbandono, ne comincio un altro e così via. Poi torno a quello che conosco.
Riguardo ai libri che ho citato: Casa d’altri è un racconto lungo, la  cui storia sta dentro una parentesi (un prete viene mandato in un paesino sperduto sull’Appennino e forse si innamora di una vecchia); ma la lingua è ipnotica, sembra una cantilena. Ci puoi leggere frasi come «Me ne venivo giù dalle torbe di monte. Né contento né triste: così.», oppure «Era vero, e così respirai». Il Tristram è forse il libro più divertente che ho letto; uno dei primi che ha giocato con la struttura del romanzo. Le storie mi interessano poco: mi piacciono i libri che si distinguono per la voce, che continuano a parlarti e a suggerirti un modo di vedere le cose.

Qual è la tua libreria ideale e ti è capitato di entrarci almeno una volta?
Non saprei dirti com’è fatta. A dire il vero, in libreria, non ci vado quasi mai. Continuo a rubare i libri da quella di mio padre, quando mi capita di andare a casa sua. Oppure li compro usati (in via Silla, a Roma, c’è una libraia sommersa dai libri: è incredibile, ma sa dove trovare ogni libro che le chiedi). C’è una libreria in cui passo sempre quando capito a Bologna, ma solo perché è a fianco al bar.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
I libri sul comodino sono la conseguenza di quell’approccio infantile (e del mio disordine). Alcuni sono lì da chissà quanto e non li ho neanche aperti; alcuni li tengo come amuleti, altri non so come ci siano arrivati. Ora sono questi: Nemico, amico, amante… di Alice Munro; Gli scrittori inutili di Ermanno Cavazzoni; Vizio di forma di Thomas Pynchon; Renuntio vobis di Sergio Claudio Perroni; La cosa buffa di Giuseppe Berto; Sillabari di Goffredo Parise; Watt di Samuel Beckett; Il pataffio di Luigi Malerba.

*Luca Romiti è nato a Roma nel 1990. Si è laureato in Lettere moderne a Roma e dopo una breve incursione nella piccola editoria a Milano ha concluso gli studi a Bologna. I suoi racconti  Quasi si potesse e Bologna è un enorme posacenere hanno vinto le ultime due edizioni di 8×8 e sono stati pubblicati sulla rassegna Retabloid di Oblique. Il racconto Insettile è uscito sul numero #12 di L′Inquieto.
I tre libri che hanno aggiunto qualcosa di importante alla sua vita: Casa d’altri di Silvio D’Arzo; Il male oscuro di Giuseppe Berto; Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne.

RACCONTI ITALIANI #5 – Quasi si potesse

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

Quasi si potesse di Luca Romiti ha vinto la decima edizione di 8×8 (maggio 2018) ed è uscito sulla rassegna Retabloid (maggio 2018) di Oblique. Qui l’intervista.

di Luca Romiti*

When you love a woman
you tell her that she’s the one
’cause she needs somebody to tell her
that it’s gonna last forever.
Sigla di Il segreto

 

Luca Romiti

Nonna dice Ho incontrato la signora dell’interno 8. Le finestre sono appannate e le padelle fumano più del normale. Dico Nonna, fa un freddo della Madonna qua dentro. Eppure, nonna ha acceso i termosifoni stamattina. Dice Ho acceso stamattina, chettedevodi’?, e non si volta. La raggiungo piano, la abbraccio da dietro e lei fa un piccolo sobbalzo. Fino a qualche tempo fa, dopo averla abbracciata la pizzicavo sui fianchi e poi le facevo il solletico: appena la toccavo faceva un piccolo sobbalzo, poi diceva Fermo, fermo: me vola i capelli nel mangia’. Dice Fermo, fermo: me vola i capelli nel mangia’. Nonna è grassa, eppure è dimagrita. Con le mani stringo la pancia sotto al grembiule. Dice So’ dimagrita, eh.
Dietro i fornelli c’è nonna, dietro nonna ci sono io, dietro di me c’è il tavolo apparecchiato per due senza l’acqua il vino la gassosa, e dietro il tavolo c’è la televisione che manda in onda la sigla della puntata (Oddio me inizia la puntata; Ieri me so’ persa la puntata; Zitto, zitto: c’è la puntata). La telenovela è Il segreto; la stagione è la quinta: El chico de los tres lunares; la puntata è la numero millediciotto. Dietro la televisione c’è una portafinestra in vetro smerigliato, dietro la portafinestra c’è il terrazzo; se dopo qualche passo si gira a destra, costeggiando il muro della camera da letto e poi del salone, si arriva a una porta di metallo che si apre male, si chiude male e è dipinta di marrone scuro, male; dietro quella porta c’è uno stanzino.
Nonna apre il forno e libera una nuvola di vapore che le attraversa tutto il corpo tranne le lenti degli occhiali. Dice Damme le presine, svelto su che non ce vedo niente. Ci arriva prima di me e dice Finisci d’apparecchia’, prendi l’acqua il vino la gassosa.
Metto le tre bottiglie sul tavolo e nonna mette la lasagna al ragù nei piatti: Ancora se lo ricorda, di quando t’ha trovato sul pianerottolo. Anche la lasagna al ragù fuma più del normale e il vapore mi scalda il viso. Porto le mani sul piatto per scaldarle, ma appena le tolgo l’umidità le raffredda ancora di più. Le strofino sui pantaloni per asciugarle e dico Ecco qua, un bel piatto di magma. Nonna infila la mano destra nella manica sinistra del golfino e ne estrae un tovagliolo ciancicato: si soffia il naso piccolo e rosso e poi ce lo rinfila. Sai che facevi?, quando venivi da me venivi col cuscino, e te riposavi a ogni piano. Io mica lo so chi è la signora dell’interno 8, che ancora se lo ricorda e ancora lo racconta a mia nonna, e ancora ride. Ancora ride, di quando t’ha trovato che ti riposavi davanti alla porta sua. Nonna, immagina che tu sei il tempo, in generale, tu sei il tempo, mentre prepari le lasagne, stiri, fai l’uncinetto, mentre guardi la televisione, tu sei il tempo, te ne stai qua, eterna, e poi arriva qualcuno e ti spiega cosa sono le lancette. Delinguente, dice nonna, mangia invece de di’ stupidaggini, ché se fredda. «Berta, perché fai tutto questo per me?», «oh, Bosco, beh, lo faccio perché mi fa piacere. Sono contenta che tu sia tornato sano e salvo». Dico Nonna, come fai a guarda’ ’sta roba? Me fa passa’ il tempo, dice nonna, E poi me piace gli abiti, i vestiti, questi so’ quelli di una volta. «Grazie, Berta, andrò a dividere il formaggio con gli altri», «no! No, Bosco! Questo formaggio è solo per te!». Dice Ecco, vedi?, vedi com’era un tempo?, erano tempi difficili.

Nonna si volta, mi guarda: dice Allora? Che vogliamo fa’? Le metto le mani sulle guance, la guardo negli occhi piccoli umidi e azzurri e dico Nonna, ti prego, il caffè: fallo tu. Dice Sì vabbe’ vabbe’ vai a prende la droga, vàivài, nello stanzino. Lo stanzino di nonna è la sezione dedicata alle scorte alimentari nel bunker di un americano ossessionato dalla fine del mondo. Però c’è l’Anice Secco Speciale Varnelli che nonna compra al Vaticano. Torno in cucina con la droga e dico Nonna, fa più freddo dentro che— attenta che sbatti! Nonna si gira verso di  me: sta finendo di stringere la caffettiera con uno strofinaccio, sotto l’anta dello scolapiatti aperta sulla testa. Dice Nònnò, non ce sbatto più sa’, guarda. L’anta le sfiora i capelli. Me so’ accorciata, vedi? Mo’ ce passo, fino a qualche giorno fa ce sbattevo, adesso mica ce sbatto: me so’ proprio accorciata.
Il tavolo è attaccato a una parete la cui metà superiore è sostituita da tre grandi finestre: si vede il muretto del terrazzo e più in là l’urbanistica sconclusionata di via della Pisana. Nell’angolo destro, in fondo, c’è un palazzo grigio che è un grosso cilindro; ha tre finestre, lunghe, nere e sottili. Nonna guarda attraverso i vetri, con il mento appoggiato sulla mano. Chissà che è quello, dice a bassa voce, so’ proprio curiosa. Fino a quando non ha smesso di dirmelo, nonna mi ha detto che lì ci abita l’orco, e che sarebbe venuto se non avessi finito di mangiare. Dico Lì ci abita l’orco, a meno che nel frattempo non si sia trasferito. Nonna non si muove, continua a guardare fuori, e quello che c’è fuori sembra una cosa lontana, una cosa che forse neanche esiste: Eh, dice, una volta ci dobbiamo andare, così, per vedere.
Mi alzo e metto le tazzine nel lavandino, dico Vuoi che t’accompagno a letto? Sì, lascia tutto così, dice, lo faccio dopo, adesso so’ proprio stanca. Chissà come mai so’ così stanca.
Nonna si sdraia sul letto, si toglie gli occhiali e li appoggia sul materasso, accanto al telefono di casa: Me deve chiama’ il dottore, dice, sta’ attento agli occhiali, eh, ché c’ho solo quelli. Nonna sbadiglia e si porta il dorso della mano davanti alla bocca. Allora senti, dice, stamattina so’ andata al fioraio, e ho fatto le scale, no?: beh prima me stancavo al terzo piano, dove sta la signora dell’interno 8, adesso no, già al secondo me devo riposa’.
Eh sì, dice mentre s’addormenta: ormai so’ stanca prima.

Editing di Giulia Caminito 

Luca Romiti è nato a Roma nel 1990. Si è laureato in Lettere moderne a Roma e dopo una breve incursione nella piccola editoria a Milano ha concluso gli studi a Bologna. I suoi racconti  Quasi si potesse e Bologna è un enorme posacenere hanno vinto le ultime due edizioni di 8×8 e sono stati pubblicati sulla rassegna Retabloid di Oblique. Il racconto Insettile è uscito sul numero #12 di L′Inquieto.
I tre libri che hanno aggiunto qualcosa di importante alla sua vita: Casa d’altri di Silvio D’Arzo; Il male oscurodi Giuseppe Berto; Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne.

RACCONTI ITALIANI#4 – Bologna è un enorme posacenere

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

Bologna è un enorme posacenere di Luca Romiti ha vinto l’edizione 8×8, 2019, just one night, è uscito sulla rassegna Retabloid di Oblique (maggio 2019). Qui l’intervista.

di Luca Romiti*

Luca Romiti

Non riesce a prendere sonno perché vorrebbe essere nel letto d’Elisa e magari farci l’amore, per il godimento che ne deriverebbe ma anche e forse più come dimostrazione del fatto che in fondo l’amore c’è ma no, si corregge, non dimostrerebbe un bel niente, è questo uno dei tanti insegnamenti che Elisa in un anno ha avuto modo di dispensargli e che lui si sforza di condividere, e cioè che scopare non dimostra un bel niente, è un’attività come un’altra che dunque capita raramente di fare con chi si vorrebbe anzi sarebbe strano il contrario ma nella vita bisogna pure accontentarsi, e mentre comincia a verificare i progressi che ha fatto in ognuno di questi ostici insegnamenti i vicini di casa iniziano a scopare, e pensa che loro si curino ben poco delle consuetudini teoriche e perfino se ce ne sono di quelle pratiche relative all’accoppiamento, a giudicare dalle curiose urla che gli arrivano in camera tra le quali riconosce quelle d’eccitazione di godimento e d’orgasmo imprevedibilmente combinate con quelle di sorpresa di paura e di divertimento, in un’orgia acustica che lo spinge a infilarsi una mano nelle mutande, e nell’istante in cui cerca di sopperire alla curiosità con l’immaginazione l’inquilino del piano di sotto urla di smetterla, ché non siamo mica in un film porno, e lui allora sfila la mano dalle mutande e ricomincia a pensare che questa storia d’Elisa che non lo ama è davvero un peccato ma non ci si può svegliare ogni giorno nella speranza d’essere amati, e dunque s’addormenta con la convinzione che stanotte sarà l’ultima passata in attesa dell’amore d’Elisa perché domani porrà a malincuore ma per il benessere mentale fine a questa storia d’amore che non era per nulla infinita come s’era convinto che fosse.

C’è da mettere al corrente di questa risoluzione il suo coinquilino, con il quale ha già condiviso l’inizio e lo svolgimento per quanto in effetti di svolgimento non ce ne sia stato molto visto che di svolte nella loro storia ce ne sono state ben poche, e dunque appena si alza imbocca il corridoio, arriva fino alla porta della camera del coinquilino e la apre con un gesto piuttosto deciso nella speranza che sia sufficiente a svegliarlo, ma quello continua a dormire come è solito fare e cioè a pancia in su abbracciato al cuscino prospettando la necessità di un gesto ancor più deciso che è quello di aprire la finestra che non dà come la sua sulla camera dei vicini che scopano ma su quella delle dirimpettaie transessuali buddhiste che stamattina sono riunite in preghiera con una mezza dozzina di correligionarie, e assieme alla luce e all’aria fresca naturalmente attendibili s’infila nella camera un mantra gutturale che finalmente sveglia il coinquilino.
Affacciato alla finestra gira due sigarette e poi comincia a esporre la sua decisiva presa di posizione al coinquilino che dopo un continuo adeguamento delle espressioni del viso ai diversi momenti della storia lo distende su una rassegnata consapevolezza, alla quale segue la considerazione che questa storia si potrebbe definire un asintotico avvicinarsi al momento della svolta e che è stato proprio questo continuo avvicinarsi a una svolta che per conto suo continuava ad allontanarsi a risultare alla lunga estenuante, e infine si dichiara d’accordo con questa risoluzione nei cui innegabili seppur graduali benefici confida, e deducono che allora è questo il momento della svolta, il punto in cui finalmente l’asintoto tocca la curva, il punto in cui l’infinito è arrivato alla fine e si dimostra in tutta la sua finitezza perché la loro storia d’amore non tende a un bel niente e anzi tende alla fine perché è solo uno dei tanti segmenti della vita che a un tratto non esiste più, e ora che non c’è più niente da dire lui e il coinquilino rimangono in silenzio ad ascoltare il mantra buddhista e transessuale e poi buttano i mozziconi di sotto e guardandoli cadere s’accorgono che Bologna è un enorme posacenere.

Adesso che sono seduti sulla panca del bar di fronte alla casa di Elisa dove sempre si danno appuntamento dire a Elisa che non è più il caso di vedersi non è affare semplice, e per convincersi a farlo confessa di avere una cosa da dire in modo da costringersi poi bene o male a dichiararle la svolta cui certamente a insaputa di lei sono arrivati, ma come s’aspettava le parole per farlo non gli vengono in mente e allora la guarda per farsi coraggio ma ottiene invece l’effetto contrario perché la trova bella come la trova ogni giorno e il suo proponimento vacilla e gli sembra anzi un proponimento affatto sciocco e forse anche arrogante quello di mettersi contro l’infinità di una storia d’amore, e allora prima di tutto decide di non guardarla più e poi trascorre qualche secondo che raggiunge forse il minuto in attesa che gli vengano le parole, finché Elisa con un tono scocciato gli chiede quale sia dunque questa cosa che ha da sentire e che tanto si fa attendere e lui in mancanza d’altro gli ripropone la collaudata metafora dell’asintoto in risposta alla quale Elisa dice tuttavia che non sa cosa dire, un paradosso che andrebbe pure d’accordo con la metafora e potrebbero allora continuare in eterno a dirsi che non sanno cosa dirsi, nell’attesa che una benedetta frase prima o poi esca dalle loro bocche, ma lui ha deciso che d’aspettare non ha più voglia e che anzi quest’attesa è inutile perché ormai ha capito, ha capito cioè che per lei potrebbe davvero continuare così e che deve perfino essere lui a prendersi la briga di essere lasciato, e in conclusione una frase gli viene e gli viene talmente spontanea che quasi non s’accorge di dirla, e cioè dice a Elisa che è proprio questo che gli fotte l’anima; e Elisa ride.
Non sa se a far ridere Elisa sia stato il fatto che lui avesse un’anima o che l’avesse dichiarato senza troppi giri di parole o che la sua anima potesse essere fottuta o che fosse proprio lei a fottergliela, ma gli è sembrata in ogni caso una dichiarazione nient’affatto risibile e dunque si alza convinto ad andarsene, ma Elisa si alza a sua volta, attraversa la strada, va verso il portone di casa e poi rimane lì ferma, e lo guarda.
Lui si gira una sigaretta mentre aspetta di capire con quale intenzione Elisa abbia compiuto questo gesto, se cioè abbia deciso di raggiungere il portone per entrarci da sola e constatare così la fine di questa storia d’amore infinita o se invece sia una specie di invito a entrare a casa con lei, ma come c’era da aspettarsi il gesto d’Elisa si dimostra carente d’intenzioni tanto che una volta che s’è fatta raggiungere non dice niente e prende le chiavi nell’attesa che sia lui a dirle cosa fare, e lui invece le dice che questa è l’unica situazione che a Elisa pare sopportabile, quella di starsene sull’uscio senza decidere se la storia continua con loro che entrano a casa insieme o continua che finisce, ma Elisa continua a non decidere un bel niente e stavolta tiene fede al fatto di non aver niente da dire ratificando in silenzio la fine di questa storia d’amore.

Ora che l’infinità s’è consumata del tutto lui comincia a temere per ciò che è rimasto, e prima che l’operoso silenzio d’Elisa s’accanisca pure sull’amore e chissà mai infine pure sulla storia facendo come si dice terra bruciata di tutto quello che c’è stato decide di mettere definitivamente le cose in chiaro e allora butta il mozzicone a terra e prima d’andarsene per sempre dice una cosa che non le ha mai detto e che non avrà più la possibilità di dirle e cioè le mette le mani sulle guance, la guarda negli occhi e le dice: ti amo.

Editing di Claudio Panzavolta

Luca Romiti è nato a Roma nel 1990. Si è laureato in Lettere moderne a Roma e dopo una breve incursione nella piccola editoria a Milano ha concluso gli studi a Bologna. I suoi racconti  Quasi si potesse e Bologna è un enorme posacenere hanno vinto le ultime due edizioni di 8×8 e sono stati pubblicati sulla rassegna Retabloid di Oblique. Il racconto Insettile è uscito sul numero #12 di L′Inquieto.
I tre libri che hanno aggiunto qualcosa di importante alla sua vita: Casa d’altri di Silvio D’Arzo; Il male oscuro di Giuseppe Berto; Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne.