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#5 – La nuova legge sulla lettura: il commento di Stefano Friani, Racconti edizioni

di Emanuela D’Alessio

Le nuove norme sulla promozione e diffusione della lettura sono state definitivamente approvate il 5 febbraio scorso dal Senato, dopo un lungo iter parlamentare.

Molte le novità che possiamo riassumere così (qui il testo integrale): un piano nazionale d’azione per la promozione della lettura, patti locali per la lettura con Regioni, Comuni, istituzioni scolastiche e culturali e privati, 1 milione di euro per ciascuno degli anni 2020 e 2021 per il finanziamento di poli di biblioteche scolastiche, 500mila euro alla Capitale italiana del libro, una carta della cultura del valore di 100 euro l’anno per le famiglie economicamente disagiate, un albo delle librerie di qualità, l’aumento del credito fiscale per le librerie fino a 3,25 milioni di spesa, la possibilità di donare libri a soggetti pubblici e privati a scopi solidaristici e, infine, una nuova politica degli sconti e delle promozioni con un tetto massimo del 5% sugli sconti (15% per i libri scolastici).
Il Centro Per il Libro e la Lettura (CEPELL) mantiene e rafforza i propri ambiti di gestione e indirizzo con una dotazione finanziaria annua di 4,3 milioni di euro.
La legge “vale” complessivamente  10,25 milioni di euro per ciascuno degli anni 2020 e 2021 e 9,25 dal 2022.

La principale reazione negativa alla nuova legge viene dal presidente dell’AIE (Associazione Italiana Editori) Riccardo Franco Levi, nonché promotore della “legge Levi” che fino ad oggi aveva regolato la controversa politica degli sconti. «Imponendo la riduzione degli sconti sui prezzi di vendita – ha sottolineato il presidente dell’AIE -, questa legge peserà sulle tasche delle famiglie e dei consumatori per 75 milioni di euro, mettendo a rischio 2mila posti di lavoro».

Via dei Serpenti ha raccolto i commenti di alcuni editori e librai indipendenti: Sandro Ferri (editore di e/o), Marco Guerra (libraio di Pagina 348), Alberto Ibba (editore di NN), Barbara Facchini e Alessandro Fratini (librai di Risvolti), Stefano Friani (editore di Racconti edizioni), Giorgia Sallusti (libraia di Bookish), Federico Cenci (editore di Cliquot). Isabella Ferretti (editrice di 66thand2nd).

STEFANO FRIANI, editore di Racconti edizioni

Mi pare di capire che la più parte delle critiche, mosse soprattutto dai colleghi editori, si appuntino sul too little too late che è un po’ tipico di chi prospetta e vaneggia di rivoluzioni da fare sempre l’indomani.

Nella legge, che comunque mi pare un primo passo lungamente atteso, non ci sono di fatto aiuti o sostegni finanziari, ma questa non è certo una novità in uno dei settori che ha sempre fatto da sé. Una «virtuosità» che pochi altri ambiti culturali possono vantare e che forse in un momento di particolare sofferenza si potrebbe pure cominciare a premiare in qualche modo.

In molti lamentano la possibile contrazione dei consumi nell’immediato e soprattutto il non aver toccato il ganglio della distribuzione. Ma questa è una legge nata sull’onda lunga di un’emotività per le librerie che bruciano e che chiudono e si è cercato comprensibilmente di parare il colpo e venire incontro a un grido d’aiuto. C’è solo da sperare che non sia una cura palliativa e che dagli sconti si parta per affrontare anche il resto.

Personalmente non credo che la partita contro Amazon, che certo non vedo come un nemico, si giochi sulla scontistica. Sono in molti a credere che a parità di condizioni le persone torneranno in libreria, ma il punto è che su Amazon oltre al libro compro un sacco di altre cose che il giorno dopo mi ritrovo sull’uscio di casa, anche se abito sui monti e la libreria più vicina magari è a qualche decina di chilometri. Non è certo sui numeri che Amazon può essere battuto e se l’obiettivo è quello di ridurne l’impatto dubito che la Capitale del libro o l’istituzione di un registro di librerie di qualità serva a qualcosa.

Il problema in Italia è convincere a comprare e leggere libri chi non lo fa né l’ha mai fatto, e non credo che questa legge si preoccupi della faccenda.

Consigli di lettura indipendenti #2

Ai protagonisti di Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti , la nostra novità editoriale del 2019abbiamo rivolto una nuova domanda:

Se ti trovassi nella necessità di regalare un libro, soltanto uno, quale sceglieresti e perché?

Ecco le risposte di Stefano Friani, editore di Racconti edizioni, e Isabella Ferretti, editrice di 66thand2nd.

Stefano Friani
Scelgo una raccolta di racconti che non abbiamo pubblicato noi e che ho trovato abbastanza sensazionale: Florida di Lauren Groff (traduzione di Tommaso Pincio, Bompiani). Groff popola queste storie floridiane di alligatori e serpenti, acquartierati nel folto di un giardino in cui l’erba è cresciuta troppo oppure al limitare di una palude a due passi dall’università, e la sensazione è che questi rettili siano i racconti stessi, in attesa sorniona di mordere il lettore. Incombente è lo stesso senso di minaccia che si prova leggendo Atwood o King, e come la prima, Groff è abilissima nel discendere nelle pieghe del sentire umano senza mai perdere quella spinta compulsiva a fagocitare pagine, a voler leggere di più. È una lettura da cui si esce ammirati per la capacità di autocontrollo della scrittrice e arricchiti da un immaginario inquietato e scosso. Straconsigliato.

Isabella Ferretti
In questo momento regalerei La vita agra di Luciano Bianciardi, per il potere di visione dell’autore nel momento in cui ha scritto il libro, che ha acquistato una potenza evocativa oggi ancora maggiore. Di solito l’epoca del boom economico italiano viene ritratta in maniera agiografica, come un’età dell’oro che l’Italia e i suoi cittadini hanno irrimediabilmente perduto. Mi piace invece quel senso di perdita – di purezza e di innocenza –  che avvolge i personaggi, corrotti dal desiderio materiale. È quella forma di corruzione endemica nella società italiana, che ci impedisce – per sempre? – di alzare lo sguardo e coltivare una visione, almeno una, che faccia ben sperare nel futuro.

Otto anni di editoria indipendente – Stefano Friani, racconti edizioni

Sabato 30 novembre ci sarà anche Racconti edizioni all’ultimo incontro in programma con Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti. 

Di seguito uno stralcio della nuova intervista a Stefano Friani, fondatore con Emanuele Giammarco della casa editrice dedicata esclusivamente alla forma “racconto”. Qui invece quella comparsa sul blog nel dicembre 2016. Entrambe sono presenti nel volume.

Dopo tre anni di attività e oltre venti titoli all’attivo l’intuizione originaria, rendere disponibile qualcosa che non c’è, resta valida più che mai.
«Il segreto continua a essere la curiosità, il lasciarsi stupire, farsi prendere per mano da una voce e finire a fare un’offerta per l’opera omnia dimenticandoti di budget e bazzecole simili. Un orizzonte di ricerca che ci interessa sempre molto e dove ci saranno delle novità a breve è quello dei neri americani e della letteratura africana».

Con Elvis Malaj, il primo autore italiano pubblicato da Racconti edizioni nel 2017, il principio dell’essere stranieri in patria sembra garantito. Ma sembra difficile incontrare in Italia voci che si sentano “immigrati della propria lingua”.
«È già successo che delle nuove leve della letteratura italiana per cui il tema dell’identità non era così centrale siano state pubblicate da Racconti, e penso a Marco Marrucci e Michele Orti Manara, e molto probabilmente continuerà a succedere perché non vorremmo che quella nostra idea di ricerca – che beninteso seguitiamo a esplorare – diventasse un manifesto cui conformarsi in toto».

A maggio è uscito il primo numero della nuova collana gli Scarafaggi dedicata al racconto lungo.
«È una direzione nella quale ci muoveremo accanto a quella delle raccolte di short stories. Il primo titolo è La Casa della fame di Dambudzo Marechera, un autore maledetto morto a 35 anni di Aids, alcolizzato e senza un soldo, dopo un breve periodo sulla cresta dell’onda. Il libro, un potentissimo e lisergico flusso di coscienza, è un urlo di rabbia e dolore dalla Rhodesia segregazionista. Marechera è stato tra i più grandi autori africani di sempre e rappresenta se vogliamo un polo opposto alla tradizione di scrittori come Chinua Achebe. Per capirci, The Guardian lo definisce “il Joyce africano”».

Stefano Friani sarà protagonista, con Isabella Ferretti di 66thand2nd, dell’incontro Quando l’editore incontra l’autore, organizzato da Via dei Serpenti.

 

 Sabato 30 novembre, libreria Tomo di Roma, 19:00
Ingresso gratuito!

 

 

Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
A cura di Emanuela D’Alessio, Rossella Gaudenzi, Sabina Terziani
Editore: Via dei Serpenti, settembre 2019
Introduzione di Leonardo G. Luccone

Il volume è disponibile, a offerta libera, sul nostro sito e nelle librerie romane Tomo Libreria CaffèRisvoltiPagina 348, L’Altra Città

Otto anni nei boschi narrativi #4 Racconti edizioni

Titolo?
Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
Editore?
Via dei Serpenti
Uscita?
Settembre 2019

L’assaggio di oggi è a base di racconti e “follia” ponderata, con l’editore di Racconti edizioni Stefano Friani.

La casa editrice, nata nel 2016 da un’idea di Stefano Friani ed Emanuele Giammarco, è dedicata esclusivamente ai racconti perché “un nuovo editore deve rendere disponibile qualcosa che prima non c’era”. Il ventesimo titolo della casa editrice, A casa quando è buio di James Purdy, è uscito nel febbraio 2019.
La prima intervista è di dicembre 2016. La nuova è di maggio 2019. Qui uno stralcio.

L’intuizione originaria
L’intuizione [rendere disponibile qualcosa che non c’è] è stata per certi versi fin troppo valida e spesso ha finito per oscurare molte cose buone che abbiamo fatto: dobbiamo constatare come si sia sempre riluttanti a parlare di bei libri di racconti e a immergersi nelle pagine di autori pazzeschi, perché fare il piagnisteo sul racconto è un riflesso automatico e tutto sommato confortante che ci esime dal vedere effettivamente come sono questi libri. Certo, in questi anni in molti hanno letto e apprezzato le nostre raccolte e quelle pubblicate da altri, ma permane una difficoltà, quasi stessimo in una riserva indiana, e varcarla costituisse chissà quale strano passo. Esiste anche una disabitudine al racconto che va piano piano eradicandosi ma che è dura a morire.

La ricerca di nuove voci letterarie
Il segreto continua a essere la curiosità, il lasciarsi stupire, farsi prendere per mano da una voce e finire a fare un’offerta per l’opera omnia dimenticandoti di budget e bazzecole simili. Un orizzonte di ricerca che ci interessa sempre molto e dove ci saranno delle novità a breve è quello dei neri americani e della letteratura africana. Ad aprile è  uscito un libro pazzesco, storie di donne divise a metà tra Nigeria e Stati Uniti: La felicità è come l’acqua di Chinelo Okparanta.

I libri più amati
Credo che sia io sia Emanuele siamo più affezionati ai libri che abbiamo tradotto personalmente curando davvero ogni minimo dettaglio della loro produzione; e quindi per me Appunti da un bordello turco e il nuovo La mia guerra segreta di Philip Ó Ceallaigh, mentre per Emanuele Bere caffè da un’altra parte di ZZ Packer. Dovessi dire i miei figliocci preferiti però, oltre ai due di Philip, citerei Viviamo in acqua di Jess Walter, coi suoi racconti al fulmicotone, Albero di carne di Stephen Graham Jones, una bomba weird, e Famiglie ombra di Mia Alvar, che è proprio quello che vorrei leggere quando entro in libreria.

Il futuro
È appena uscito il primo numero della nostra nuova collana, gli Scarafaggi, dedicata precipuamente alle novellas, il racconto lungo o se preferite le cento pagine calviniane. Il primo titolo è La Casa della fame di Dambudzo Marechera, un autore maledetto morto a 35 anni di Aids, alcolizzato e senza un soldo, dopo un breve periodo sulla cresta dell’onda. Il Guardian lo definisce «il Joyce africano».
A giugno, invece, faremo la nostra prima incursione nel territorio delle antologie. Questo sconfinamento sarà un vero e proprio viaggio spaziale perché si intitolerà Viaggi sulla Luna e uscirà in concomitanza o in prossimità con il cinquantennale del primo allunaggio.
Per l’autunno invece torneranno le novellas, con La parabola dei ciechi di Gert Hofmann, con una appassionata postfazione di Luciano Funetta, che ci ha consigliato il testo in prima battuta, e la prima di una trilogia di novellas di John O’Hara, lo scrittore del New Yorker per antonomasia assieme a John Cheever. Faremo anche il terzo libro di racconti di Eudora Welty, il suo capolavoro Le mele d’oro e in più ci sarà una bellissima riscoperta in cui c’è lo zampino di Vittorio Giacopini.

Racconti edizioni, una casa editrice da tenere d’occhio

di Emanuela D’Alessio

Uno scrittore che presenta due editori è già una notizia, ma se lo scrittore è Luciano Funetta, candidato allo Strega con il suo romanzo di esordio Dalle rovine (Tunué, 2015), la notizia è anche interessante. Se gli editori, infine, sono quelli che hanno fondato la prima casa editrice italiana dedicata esclusivamente ai racconti, la notizia diventa irresistibile.
Stiamo parlando di Stefano Friani ed Emanuele Giammarco che il 24 novembre alla libreria Assaggi di Roma (a San Lorenzo) hanno conversato con Luciano Funetta della loro casa editrice Racconti Edizioni e di molto altro.

Stefano Friani

Stefano Friani

Oggi riprendiamo il discorso con Stefano Friani.

Il racconto non va considerato come genere letterario” ma come forma”. Esattamente che cosa significa?
Il racconto, come il romanzo, la poesia o il saggio, è una forma letteraria. Esistono racconti di genere horror, fantascientifico, erotico e così via. Sono due cose diverse, forma e genere. La forma è la cornice strutturale, l’impalcatura del testo, il genere una sua particolare declinazione. Ma se vogliamo possiamo estendere questo ragionamento, chessò, anche ai film o altrove: il lungometraggio è la forma; Re-Animator 2 è un lungometraggio di genere splatter.

Racconti edizioni nasce circa sette mesi fa. Avete pubblicato fino a oggi sette libri e ce ne sono altrettanti in lavorazione per il 2017. Si può fare un primo bilancio?
Si può fare, ma non so quanto sia la persona più adatta a farlo. Utilizzando un anglismo da pronunciare con smaccato accento meneghino, siamo stati letteralmente overwhelmed dalla risposta dei lettori, dei librai, degli operatori del settore, dai semplici amici che magari leggono un paio di libri l’anno e improvvisamente si sono trovati coinvolti, loro malgrado, nell’assistere alla nascita di una casa editrice. Travolti come siamo da questo fiume di passione, siamo difficilmente in grado di essere obiettivi.
Sicuramente c’è un movimento positivo attorno alla casa editrice e mi piacerebbe dire anche attorno al racconto in sé, con tante realtà (scusate la parola, la aborro anche io per solito) che hanno scelto questa forma come loro centro gravitazionale: penso a Cattedrale, Effe, 8×8, Colla, The Flr e tante che mi sto dimenticando.
Siamo convinti che leggere più racconti, siano quelli di Poissant o di Antrim o quelli di Faye e Tyrewala, giovi alla causa del racconto e indirettamente anche a noi, e faccia bene, in assoluto, proprio ai lettori e alle loro esperienze di lettura.

Fondare una casa editrice è considerata di per sé una scelta azzardata, se poi quella casa editrice è dedicata esclusivamente ai racconti, dall’azzardo si passa facilmente alla follia nell’opinione generale. Voi invece come la vedete?
Siamo abbastanza d’accordo con questa visione, ciò che aggiungerei è che si tratta di una follia ben ponderata e molto, molto studiata. Quando abbiamo deciso di fondare la casa editrice non ci era ancora chiaro che sarebbe stata Racconti, cercavamo un progetto e fino a quel momento ne avevamo uno piuttosto vagheggiato. Quando ci si è palesata l’intuizione di farla essere una casa editrice di soli racconti, allora ci siamo buttati a capofitto in un tentativo di onniscienza sulla forma racconto impossibile e dannoso per la salute. Poi sono venuti gli studi economici, il business plan visto e rivisto, per mesi.
Un nuovo editore deve idealmente fare una cosa sola: rendere disponibile qualcosa che prima non c’era. Creare un pubblico di lettori e fornirgli qualcosa a cui prima non avevano accesso. I racconti facevano esattamente al caso nostro. E come ci è stato confermato dai nostri primi mesi di attività, una casa editrice del genere semplicemente mancava. Non oserei dire che serviva, ma sicuramente non c’era. 

logo-racconti-edizioni

Tutti parlano di crisi del racconto, di forma letteraria minore, di editori che si rifiutano di pubblicare racconti perché tanto nessuno li legge. Sono solo luoghi comuni o esiste effettivamente un problema racconto”? Riprendendo il titolo dell’articolo di Vanni Santoni su VICE Magazine: perché in Italia abbiamo paura dei racconti?
Ho provato a dirlo altrove, non so con quanto successo: in Italia abbiamo una augusta tradizione di racconti, senza andare a scomodare Boccaccio, ma la forma breve privilegiata da sempre a scuola e all’università è la poesia. Nelle antologie scolastiche si leggono sempre stralci di romanzo e quasi mai racconti. Quando andava di moda la pubblicazione delle short stories sui giornali in Gran Bretagna e Stati Uniti, noi seguivamo i francesi con i romanzi d’appendice. Inoltre, ci si è messo il malcostume editoriale di snobbare le raccolte di short stories e tramutarle, quando possibile, in pseudoromanzi abborracciati, facendo il male dell’autore e dell’opera in questione. Eppure se pensiamo a Tondelli, Landolfi, Manganelli, Malerba, D’Arzo, Parise, Calvino, Benni, Ammaniti, Ortese, Banti c’è una tradizione fortissima, che andrebbe valorizzata. Sì, d’accordo, nel mondo angloamericano i racconti funzionano meglio che da noi, anche per via del successo negli anni ’80 di Carver e dei suoi epigoni, ma la nostra letteratura non è certo da meno.
Esiste un problema di «immersione» che i lettori meno avvezzi alla forma hanno nei confronti del racconto. Ma appunto si tratta di lettori che non hanno una frequentazione assidua con i racconti e non ne vedono i molti lati positivi rispetto all’impegno di tempo e risorse che pone invece un romanzo. È un tipo di lettura evidentemente più concentrata rispetto a quella più dilatata del romanzo, ma specie di questi tempi frenetici, in cui tutti si litigano il nostro tempo, se si vuole leggere buona letteratura senza sobbarcarsi imprese epiche forse il racconto fa al caso nostro.
Poi, come mi è capitato di dire recentemente a una blogger tra il serio e il faceto, in questo io sono leninista: il popolo non sa quello che vuole. C’è bisogno – un bisogno disperato di questi tempi – di intermediazione. Se non si sa che esistono i racconti, se non si pubblicano i racconti, di certo non li leggerà nessuno. Se invece i racconti si pubblicano e si spezza questo tabù – e mi è parso che questo sia stato un anno estremamente fecondo quanto alle pubblicazioni di racconti – allora ci sono più possibilità che qualcuno li legga questi benedetti racconti.

La vostra è la prima casa editrice italiana dedicata ai racconti. Tempo fa abbiamo conosciuto Rossella Milone, autrice di racconti e ideatrice dell’osservatorio Cattedrale che intende monitorare, promuovere e sostenere il racconto. Sembrerebbe un punto di riferimento prezioso per il vostro lavoro. Che cosa ne pensate?
Di Cattedrale? Tutto il bene possibile. Avere il loro riconoscimento per noi è stata una delle soddisfazioni più grandi. Mentre sondavamo i vari amici nell’ambiente editoriale e leggevamo racconti di ogni sorta, il fatto che ci fosse quel faro acceso sull’universo dei racconti per noi era un’indicazione di un pubblico di lettori che andavano solo snidati. Non che avessimo dubbi, ma Cattedrale come pure altre community online dimostravano plasticamente l’interesse dei lettori – e il bolso disinteresse delle case editrici – per i racconti. Poi dentro ci si trovano delle cose davvero meravigliose e fanno un lavoro pazzesco.

Scorrendo le copertine dei vostri libri pubblicati, ci si imbatte in autori dai nomi spesso impronunciabili e sconosciuti, differenti per nazionalità, genere, formazione. Come è avvenuta e avviene la scelta. In altre parole, qual è il progetto editoriale di Racconti edizioni?
Mah chissà, magari l’oggettiva difficoltà a pronunciare Ó Ceallaigh (che poi in realtà si dice comodamente come la parola italiana occhiali) e il fatto che scriva solo racconti o quasi gli hanno precluso la pubblicazione con un editore più grande qui in Italia. È tradotto in molte lingue, ha vinto il Rooney Prize che è il premio principale per la narrativa irlandese e in Uk pubblica con Granta e Penguin.
Sul fatto che i nostri autori siano perlopiù sconosciuti non sono del tutto d’accordo. Mistry ha sfiorato per tre volte il Man Booker Prize e da noi era pubblicato da Mondadori e Fazi. Faye ha pubblicato una novella e un romanzo con Barbès e Clichy prima della raccolta Sono il guardiano del faro con Racconti e in Francia è pluripremiato. Il romanzo precedente di Tyrewala l’ha pubblicato Feltrinelli ed è osannato da Salman Rushdie e Manil Suri. Baldwin è un gigante della letteratura americana, da noi lo pubblicava Rizzoli, se uno si facesse un giro online lo vedrebbe fotografato assieme a Bob Dylan, citato da Obama e Ta-Nehisi Coates a spron battuto. Per capirci, a febbraio esce anche I Am Not Your Negro, un film su di lui. Difficile dire sia uno sconosciuto (per quanto gli americanisti nostrani raramente se ne ricordano, tutti presi come sono a osannare il prototipo classico dello scrittore vista Manhattan borghese, di buone letture, maschio, bianco ed eterosessuale). Stephen Graham Jones negli Stati Uniti finisce regolarmente nelle liste dei migliori libri di genere horror. Virginia Woolf non c’è nemmeno bisogno di menzionarla. Poi per carità se riusciamo a portare o a riportare in auge nomi un po’ meno bazzicati dai lettori nostrani non possiamo che esserne felici. Se non li si è letti i libri sono sempre nuovi, anche a distanza di decenni.

libri
Al di là dei nomi e della relativa notorietà dei nostri autori, il nostro progetto letterario-culturale ci si è chiarito con le letture e se vogliamo indagando a posteriori ciò che finiva per attirare la nostra attenzione e piacerci. In questo, l’abbiamo detto più volte, è stato fondamentale un libro, ossia Kafka. Per una letteratura minore di Deleuze e Guattari. Ci sembra che le cose migliori che leggiamo vengano da chi ha una prospettiva alternativa e obliqua rispetto alla lingua e alla cultura in cui si muove, da chi, per dirla altrimenti non è a suo agio con gli altri e con sé, chi ha un’identità scissa e vive da straniero, in patria o altrove. Ci piacerebbe, come ha detto Emanuele, che anche i nostri autori di lingua italiana, in questo senso, fossero stranieri in patria e abitassero una lingua che non dànno per scontata e che devono giocoforza reinventare.
Questa cosa si è tradotta e ha avuto una ripercussione ovvia sui nostri libri. Philip Ó Ceallaigh è il prototipo dello sradicato, uno che ha abbandonato la terra natia a diciannove anni per viaggiare ovunque nel mondo, fare i mestieri più disparati e peggio pagati, per poi finire senza un soldo, come un migrante economico all’incontrario, a Bucarest in Romania. E questa cosa, come pure il suo retaggio working class, si sente nelle sue pagine; penso anche solo ai suoi liberatori ritratti del lavoro di fatica, della routine annichilente, di giorni uno uguale appresso all’altro in attesa dello sfogo del fine settimana.
Ma anche in un libro più filosofico-metafisico come Sono il guardiano del faro, il viaggio, l’elogio di una fuga da fermo, immaginifica o reale, e la scoperta del limite, dei confini e dell’altro diventano i punti nodali di racconti surreali e profondamente kafkiani. Faye ha viaggiato in estremo Oriente, in Siberia e in Kamčatka (no, non esiste solo a Risiko, sono rimasto basito anche io), ha vissuto dieci anni in Giappone e questi suoi viaggi e aneliti, la sua irrequietezza, traspaiono nei suoi racconti.
Poi Racconti ha l’ambizione di essere la casa delle short stories ed essendoci avocati un nome simile è giusto che questa nostra visione letteraria non diventi onnicomprensiva e che fatalmente si pubblichi anche il famoso scrittore vista Manhattan borghese, di buone letture, maschio, bianco ed eterosessuale di cui sopra. A patto che sia bravo.

Quali sono le principali fonti di ricerca per le vostre pubblicazioni: riviste letterarie, blog, cataloghi, il web in generale, il passaparola?
Gran parte del catalogo di quest’anno e del prossimo erano in nuce nel progetto editoriale che avevamo stilato, sono davvero pochi i titoli che sono arrivati in un secondo momento su suggestioni altrui. Come abbiamo trovato i libri? Banalmente leggendoli. Scovandoli su internet o in qualche recensione del Guardian, alcuni su Goodreads, altri su liste strampalate dei migliori racconti a tema stregonesco o con un cane parlante per protagonista. Fatico a ricordare come sono avvenuti certi incontri, ma lo scouting è forse la cosa più divertente di questo mestiere. Poi, certo, bisogna anche ragionare sulla costruzione di un catalogo fatto di libri che si rimandino tra di loro e che messi assieme siano come una casa con moltissimi ingressi e tante finestre.
Di sicuro avevo letto Albero di carne in inglese prima che la casa editrice fosse anche solo reconditamente un’eventualità, l’avevo finito e mi ero meravigliato di come nessuno in Italia lo avesse pubblicato. Stephen Graham Jones vende carrettate di copie negli Stati Uniti ed è uno dei nuovi maestri della narrativa horror e weird. Voglio dire, io ero venuto a sapere della sua esistenza tramite un’intervista credo sul Venerdì a Lansdale che lo citava tra i suoi autori preferiti… Pazzesco che non se ne sia accorto nessuno, prima. Una volta deciso il progetto lui è stato uno dei primi nomi a spuntare fuori e l’abbiamo contattato al suo indirizzo mail che è una cosa esilarante tipo banditboy@qualcosa ed è praticamente subito stato della partita.
Tra gli altri entusiasti dell’intera operazione possiamo annoverare anche Philip Ó Ceallaigh, che ho stalkerato direttamente su facebook e ormai è un habitué del Bel Paese. L’abbiamo portato a Torino, a Treviso e a Roma e siamo entusiasti del successo che sta riscuotendo tra i lettori. Non appena abbiamo letto Appunti da un bordello turco è stato amore a prima vista e abbiamo saputo immediatamente che doveva essere il nostro numero 1.
Di loro due, siamo davvero orgogliosi di averli pubblicati e portati per la prima volta in Italia.

Philip Ó Ceallaigh

Philip Ó Ceallaigh

Avete più volte annunciato che nel 2017 pubblicherete il primo libro di racconti di uno scrittore esordiente italiano.  I lettori sono pronti a leggere racconti italiani?
Sì. Se ne pubblicano diversi peraltro e i lettori forti, siano essi lettori abituali o meno di racconti, fanno poco caso alla forma. Ci sono moltissimi scrittori di racconti italiani che amiamo e leggiamo e non siamo mosche bianche in questo, come noi li leggono in tanti. Scrivono racconti belli Paolo Cognetti, Michele Mari, Valeria Parrella, Rossella Milone, Luca Ricci, Elena Varvello, Vitaliano Trevisan dico i primi nomi che mi càpitano in testa un po’ alla rinfusa, ma non li leggiamo mica solo noi.
A partire da gennaio, su Altri animali (www.altrianimali.it) chiederemo proprio agli autori che ci piacciono di parlarci dei loro libri di racconti preferiti, sarà una rubrica fissa o quasi e si chiamerà «Racconti dalla cripta», con una citazione che gli aficionados dello Zio Tibia apprezzeranno.

A parte Stefano Friani ed Emanuele Giammarco, da chi è composta la casa editrice e come è suddiviso il lavoro?
Il lavoro è diviso male, anzitutto. Nel senso che tutti fanno tutto. Siamo ancora in una fase di rodaggio e ci stiamo via via specializzando ognuno nei nostri compiti, ma non è male mettere le mani in pasta un po’ in tutti gli ambiti editoriali e non, crescendo assieme e acquisendo man mano competenze che mai avremmo ottenuto nel nostro ruolo da stagisti eterni che la società ci aveva assegnato.
Oltre a me ed Emanuele, c’è Leonardo Neri, che cura il blog Altri animali e la nostra comunicazione web e social. Ma in realtà fa molto di più di questo: dalle bozze ai pacchi, fino alle scelte editoriali e strategiche, è compartecipe al cento per cento con noi di questa avventura. Siamo per il diy e, per ora, in tre, ci destreggiamo artigianalmente in tutti i compiti che in una casa editrice medio-piccola fanno in dieci persone. La casa editrice è diventata giocoforza la nostra vita.

scarafaggioUno sguardo al progetto grafico e al logo. Lo scarafaggio richiama inevitabilmente Kafka e il suo racconto La metamorfosi. Perché questa citazione (ammesso che sia una citazione)?
Tutto nasce da un veto, lo ricordo bene perché l’avevo messo io. Basta animali nei loghi: niente elefantini, pavoni, struzzi, tonni ecc. Poi un bel giorno, io ed Emanuele, che all’epoca era di stanza a Londra, stiamo chattando su facebook riguardo al progetto grafico e lui se ne esce con l’idea di adottare uno scarafaggio come logo. Ritratto immediatamente il veto e aderisco con entusiasmo alla mozione scarafaggio.
Da allora, anche grazie alla consulenza della mai troppo ringraziata e lodata Monica Aldi, veniamo a sapere che Franco Matticchio aveva disegnato uno scarafaggio kafkiano che proiettava un uomo come sua ombra o viceversa, ora non ricordo. Entusiasti gli chiediamo di lavorare a un logo, lui si innamora del progetto e pur non avendone mai fatto uno, tira fuori quella bellezza che ora campeggia sulle nostre copertine.
Il nostro sfigatissimo scarafaggio sembra quasi rivolgersi al lettore, si agita non riuscendo a rimettersi in piedi, lo fissa negli occhi e gli chiede aiuto. Del resto, non potevamo avere un altro simbolo considerato come vengono visti i racconti da noi e, diciamolo, c’era anche un’identificazione di noi come persone che stavano faticosamente avviando una casa editrice. Ci piaceva scegliere un underdog simile e poi il richiamo a La metamorfosi, il miglior racconto mai scritto, e a Kafka, che con la sua letteratura di minoranza è il nostro nume tutelare, erano troppo invitanti per non essere raccolti.

Stephen Graham Jones

Stephen Graham Jones

Sul progetto grafico: l’esigenza e la volontà erano di avere l’oggetto assieme al progetto, fare libri belli dentro e fuori. La lettura è un’esperienza anche estetica che coinvolge molti sensi, olfatto tatto vista, e quindi era importante che la carta fosse di qualità, così come la rilegatura e così via. Sulle illustrazioni siamo stati subito d’accordo, volevamo che fossero il più essenziali possibile e che restituissero al contempo la compiutezza e la scarnezza del racconto, per questo abbiamo anche deciso di accludere un bozzetto dell’autore o dell’autrice in bandella. Pochi tratti che servono a tratteggiare un intero universo, questo era il principio.
Io ed Emanuele, da buoni illuministi, poi, amiamo i libri bianchi: quelli di Quodlibet e Nottetempo come quelli delle case editrici per cui abbiamo avuto la fortuna di lavorare, Einaudi e Il Saggiatore. Non solo in libreria o alle fiere saltano subito all’occhio – sebbene siano facili a sporcarsi, e croce e delizia di ogni libraio – ma sono libri che ci rappresentano e che non inseguono mode di passaggio, non sono sgargianti e fotogenici come altri che poi finiscono a svernare sulle bancarelle dei remainders. Qualcuno ha detto che erano libri tutto sommato già visti, e può ben darsi. Basta entrare in una libreria in Francia per rendersi conto di come quasi tutti i libri si assomiglino e abbiano una smaccata tendenza al bianco, anche lì. Racconti ambiva a diventare la casa delle short stories e un progetto grafico «classico», che si richiama alla tradizione nobile della nostra editoria, poteva essere accogliente sia per i racconti più tradizionali di Eudora Welty sia per quelli granguignoleschi di Stephen Graham Jones. E poi del resto, come diceva Antoni Gaudí, l’originalità sta nel tornare alle origini.

Chi ti viene in mente se dovessi fare un nome di un autore celebre per i suoi romanzi ma che ha scritto racconti meravigliosi?
Be’ qualcuno l’abbiamo anche pubblicato, penso a Rohinton Mistry o a Virginia Woolf, universalmente noti per i loro romanzi (nel caso di Mistry romanz-oni) eppure autori di racconti a dir poco sensazionali. Ma evitando l’autopromozione, una volta tanto, potrei sparare un nome nel mucchio di uno scrittore che ahinoi si legge sempre meno: Paul Bowles.
Okay, state andando in Marocco (o più improbabilmente in Algeria) e vi siete procurati Il tè nel deserto, avete perfino visto il film di Bertolucci. Ora non avete che da setacciare il web (difficile che li troviate in libreria, a meno che non li ordiniate) e rimediare anche La delicata preda e Messa di mezzanotte, e se riuscite anche le sue antologie tradotte e curate da lui di autori marocchini (tra le sua scoperte lo Choukri di Il pane nudo), non ve ne pentirete.

Con quale libro hai iniziato il viaggio nella lettura e quali sono i tre libri più importanti della tua vita?
Dei libri letti da bambino ho ricordi assai sfocati, l’unico che mi ha lasciato una memoria imperitura è La guerra dei bottoni di Louis Pergaud, con queste bande di ragazzini che si facevano imboscate e non perdevano occasione di far partire una bella sassaiola, me lo ricordo come fosse ieri. C’è da stupirsi che non sia diventato un black bloc, in effetti, anche se c’è mancato poco.
Sui tre libri più importanti della mia vita la vedo durissima rispondere. Posso dire quelli che mi hanno influenzato o segnato di più da ragazzo e che non hanno mai smesso di esercitare un certo richiamo: La notte del drive-in di Lansdale, Altri libertini di Tondelli, Pulp di Bukowski. (Dopo questa lista l’intervista perderà metà dei lettori lo so, ma poteva andarvi peggio: avrei potuto dire Il giorno dello sciacallo di Forsyth, I sei giorni del Condor di James Grady assieme a un accostamento implausibile e inconsequenziale tipo L’importanza di chiamarsi Ernest di Wilde.)

Quando eri piccolo che cosa desideravi diventare da grande?
Oddio, come tutti i bambini credo fossi vagamente mitomane e aspirassi a essere il sovrano di una monarchia universale illuminata parzialmente temperata da istituti democratici tipo il tabaccaio che vendeva le Goleador e il pizzettaro vicino la scuola. Insomma, non auspicavo la servitù della gleba, ma non ero neppure visceralmente contrario. A mia parziale discolpa posso dire di essere cambiato molto, non so se in meglio.
Mi piaceva leggere questo sì: un sacco di «Piccoli Brividi» e libri game, quelli di Lupo solitario su tutti, e poi i fumetti Bonelli, soprattutto Tex.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Il mio comodino è un disastro; se un investigatore volesse tirarne fuori un profilo psicologico sarei nei guai sul serio. Al momento ci sono Auto da fé di Canetti, Viaggio in Russia di Joseph Roth, I racconti di Kolyma di Šalamov, Anatomia di un soldato di Harry Parker, il terzo volume Fanucci di Tutti i racconti di Ballard. Esco da una full immersion totale e devastante nei libri sulla guerra in Iraq, per cui perlomeno per un po’ vorrei evitare di leggere di frutteti massacrati e torture a prigionieri di guerra bendati e ammanettati.
Ora per Natale mi vorrei concentrare su qualche lettura arretrata di italiani: La gemella H di Giorgio Falco, Tutti i bambini di Giuseppe Zucco, Overlove di Alessandra Minervini, Fuori si gela di Debora Omassi, Medusa di Luca Bernardi e A pietre rovesciate di Mauro Tetti. Ho i libri di Malerba sparsi un po’ ovunque, ma quelli me li centellino per quando sono davvero giù di corda dopo l’ennesimo libro deludente.
Poi ci sono anche cose che mi sono più consone: I veri credenti di Joseph O’ Connor, un libro di racconti uscito una miriade di anni fa per Stile Libero, e la trilogia di libri irlandesi di Milieu edizioni (On the Brinks di Sam Millar, Bomber Renegade di Michael Dixie Dickson e The General di Paul Williams), che è precisamente il genere di cose che adoro leggere. Temo di avere un leggerissimo feticismo per banditi, hooligan, storia e cultura britannica e, nemmeno a dirlo, per l’epoca dei Troubles.
Comunque sì, è un comodino molto affollato.