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Lettere dal bosco – Toon Tellegen

UNA STAGIONE DA LEGGERE  Rubrica dedicata alle stagioni nei libri, perché ogni storia ha la sua stagione.

di Rossella Gaudenzi

ESTATELettere dal bosco, trecento storie di animali di Toon Tellegen

I Serpenti son tornati dopo una lunga pausa estiva.

Ed è proprio attraverso un delicato racconto tratto da uno dei nostri libri delle vacanze,  Lettere dal bosco, trecento storie di animali, dello scrittore olandese Toon Tellegen, che riprendiamo a dar voce alla buona letteratura.

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Una calda notte di fine estate la lucciola si stufò dei compleanni, delle torte e dei discorsi che una sera dopo l’altra la toccava illuminare, e partì per un viaggio. Volò fuori dal bosco, attraversò la prateria e ben presto giunse al deserto. In alto, sopra di lei, brillavano milioni di stelle, ma lì in basso sulla terra sconfinata, era sola. Tutti i granelli si somigliavano e a metà della notte la lucciola si smarrì. Cominciò a singhiozzare e si spense.

“Ah”, diceva. “Come sono sola adesso”. Ma all’improvviso comparve un’ombra accanto a lei. La lucciola si riaccese in fretta e vide che si trattava del pipistrello.

“Mi sono smarrita”, disse la lucciola.

“Anch’io”, disse il pipistrello.

“Ma è terribile”, disse la lucciola.

“Io mi smarrisco sempre”, disse il pipistrello.

La lucciola tacque e guardò il pipistrello con un’espressione seria.

“Ma allora dov’è che vivi?”, chiese dopo un po’.

Con la punta di un’ala il pipistrello si grattò l’altra.

“Non lo so”, rispose.

“Ma da qualche parte abiterai, no?”, chiese la lucciola.

“Penso di sì”, disse il pipistrello in modo quasi impercettibile.

“Oh”, disse la lucciola. Si spense per la sorpresa e si mise a riflettere intensamente.

“Tu abiti laggiù”, disse il pipistrello e indicò un punto lontano dove l’orizzonte cominciava già a schiarire.

“Oh, grazie”, disse la lucciola. Si riaccese e si mise in cammino.

“Spero che troverai presto la tua casa!”, gridò poi.

“Sì”, disse il pipistrello, poi sfrecciò in alto, guardò dietro una roccia, si introdusse in una grotta, passò al volo radente sulla sabbia, ma sapeva che non l’avrebbe mai trovata.

Note sugli autori:

Toon Tellegen nasce a Brielle (Paesi Bassi) nel 1941. Debutta come autore di poesie nel 1977. Nel 1981 comincia a scrivere racconti che hanno come protagonisti gli animali del bosco, inizio di una lunga carriera di narratore per ragazzi, che gli frutterà un’infinità di premi, tra cui diversi Griffel d’oro e d’argento, il Theo Thijssen Prijs, il Woutertje Pieterse Prijs e il Gouden Uil.

Mance Post, nata ad Amsterdam nel 1925, è la decana degli illustratori olandesi. È stata insignita del Max Velthuijs Prijs alla carriera. La collaborazione con Toon Tellegen si è dipanata nel corso degli anni attraverso numerosissime edizioni di racconti, di cui le pagine di questo volume sono un prezioso esempio.

Altre voci, altre stanze – Truman Capote

UNA STAGIONE DA LEGGERE  Rubrica dedicata alle stagioni nei libri, perché ogni storia ha la sua stagione.

di Rossella Gaudenzi

ESTATE – Altre voci, altre stanze di Truman Capote

In una torrida giornata dei primi di giugno il conducente della Turpentine Company, Sam Radcliff, un pezzo d’uomo alto sei piedi, dal rude viso maschio e dalla calvizie incipiente, stava bevendo una birra al Caffè Stella Mattutina di Paradise Chapel quando il proprietario si fece avanti cingendo con un braccio quel fanciullo straniero.

«Ehi, Sam,» disse il proprietario, che rispondeva al nome  di Sidney Katz, «questo ragazzo ti sarebbe molto grato se tu lo conducessi fino a Noon City. È da ieri sera che sta cercando il modo di arrivarci. Puoi fare qualcosa per lui?»

La bimba dai capelli rossi e il suo seguito chiassoso non si vedevano più, e il bianco pomeriggio maturava la tranquilla ora del giorno in cui il cielo estivo stende il suo tenero colore sulla terra riarsa.

Il viso pallido del pomeriggio prese forma nel cielo; il suo nemico, pensò Joel, era là, proprio dentro quelle nuvole vitree, caliginose; chiunque fosse, qualunque cosa fosse il suo nemico, suo era il volto là ritratto, vuoto e splendente.

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Nel 1948, edito dalla casa editrice statunitense Random House, esce Altre voci, altre stanze, il primo romanzo di Truman Capote. Per lo scrittore di New Orleans è la consacrazione al successo.

Celebre lo scatto di Harold Halma, che ritrae l’autore, scelto per la quarta di copertina.

«È insolito, ma qualche volta succede, a quasi tutti gli scrittori, che la stesura di una particolare storia risulti facile, esterna a noi, come se stessimo scrivendo le parole di una voce da una nube». Truman Capote

Sul ritmo sinuoso di una torrida estate il tredicenne Joel Harrison Konx, orfano di madre, si trasferisce dalla città di New Orleans nelle lande solitarie, deserte e acquitrinose di Noon City, presso la fatiscente dimora paterna. Un’età contraddittoria, tutt’altro che limpida e trasparente, che deve fare i conti con realtà, sentimenti e personaggi altrettanto torbidi e ambigui.
Un potente, a tratti allucinatorio, romanzo di formazione.

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Butcher’s Crossing – John Willians

UNA STAGIONE DA LEGGERE Rubrica dedicata alle stagioni nei libri, perché ogni storia ha la sua stagione.

di Emanuela D’Alessio

PRIMAVERA – Butcher’s Crossing di John Williams

Tra la fine di marzo e i primi di aprile il tempo si stabilizzò e, giorno dopo giorno, con estenuante lentezza, Andrews vide la neve sciogliersi nella valle. Iniziò dai punti in cui era più sottile, col risultato che la valle, da piatta che era, si trasformò in un miscuglio di erba imbiancata e cumuli di neve sporca. I giorni divennero settimane e, grazie all’umidità che colava nel terreno con lo sciogliersi della neve e col caldo della bella stagione, l’erba nuova cominciò a spuntare in mezzo a quella rinsecchita dall’inverno. Un leggero strato di verde coprì il giallo-grigiastro del vecchio manto.

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Mentre la neve si scioglieva filtrando nel terreno in via di risveglio, la selvaggina divenne più numerosa: i caprioli comparvero lungo la valle, brucando i fili d’erba tenera e fresca. Erano così temerari che spesso si spingevano a poche centinaia di iarde dal campo. Al primo rumore alzavano la testa e drizzavano le piccole orecchie coniche, tendendo il corpo pronti a scappare. Poi, se il rumore non si ripeteva, ricominciavano a brucare, chinando i colli fulvi sull’erba in tante curve delicate. Le quaglie di montagna cantavano sulle cime degli alberi, posandosi di tanto in tanto tra i caprioli in cerca di cibo, con le loro piume screziate di grigio, bianco e marrone che si confondevano con il terreno. Con tanta selvaggina a disposizione, Miller non vagava più nella foresta. Quasi con sufficienza, cullando il piccolo fucile automatico di Andrews nella curva del gomito, si allontanava di pochi passi dal campo e, posando distrattamente il calcio sulla spalla, rimediava tutta la cacciagione necessaria. Gli uomini erano ormai satolli di carne di cervo, quaglie e alci. Quello che non riuscivano a mangiare marciva nel caldo sempre più intenso. Ogni giorno, Schneider si trascinava fino al passo per ispezionare la neve che lentamente si scioglieva tra loro e il mondo esterno. Miller guarda il sole e misurava con torve occhiate i lembi di terra nuda che si allargava verso il fianco della montagna, senza parlare. Charley Hoge continuava a leggere la sua Bibbia consunta, ma di tanto in tanto, come stupito, alzava la testa per guardare com’era cambiato il paesaggio. Prestavano meno attenzione al fuoco, che avevano tenuto acceso tutto l’inverno. Più volte lo lasciarono spegnere e dovettero riaccenderlo con l’acciarino che Miller teneva nel taschino della camicia.

butcher's crossingAndrews è un ventenne di Boston approdato a Butcher’s Crossing, uno sperduto villaggio del Kansas, in un mattino di primavera del 1873, in cerca di terre selvagge e di sé stesso. Miller è il migliore cacciatore di bisonti della zona, con un solo desiderio, tornare in una valle sperduta sulle montagne del Colorado dove anni prima aveva visto scorrazzare mandrie sterminate. Partiranno da qui verso un viaggio di caccia che si rivelerà drammatico e dal quale faranno ritorno sconfitti e perduti per sempre.
Butcher’s Crossing è il bellissimo romanzo di John Williams, pubblicato nel 1960 cinque anni prima di Stoner e dodici prima dell’acclamato Augustus con cui vinse il National Book Award.

In Italia dobbiamo all’editore romano Fazi (e alle traduzioni di Stefano Tummolini) la riscoperta di questo straordinario scrittore americano, rimasto sconosciuto inspiegabilmente fino a quando, nel 2012, è uscito Stoner, divenuto in breve caso editoriale dell’anno.
E ora ci sentiamo tutti un po’ orfani di John Williams, così come di Kent Haruf, e di quella letteratura americana spesso trascurata e dimenticata.

Qui le nostre recensioni di Stoner

Butcher’s Crossing
John Williams
Traduzione di Stefano Tummolini
Fazi, 2013
pp. 359, € 17,50

Stagioni – Mario Rigoni Stern

UNA STAGIONE DA LEGGERE Rubrica dedicata alle stagioni nei libri, perché ogni storia ha la sua stagione.

di Rossella Gaudenzi

StagioniPRIMAVERA – Stagioni di Mario Rigoni Stern

Amante e profondo conoscitore delle montagne, autore di Il sergente nella neve, reduce della ritirata di Russia del 1943, narratore delle storie di natura, Mario Rigoni Stern è nato alle soglie dell’inverno in montagna, il 1 novembre 1921, ed è morto in un giorno di primavera, il 16 giugno 2008, come avrebbe voluto.
I ricordi di una vita e quindi di tutte le stagioni di una vita sono raccolti nel libro Stagioni, scanditi da un ritmo universale e, letteralmente, della vita naturale dell’uomo, scollegato dalla città e di contro in simbiosi con il microcosmo di piante e animali. Non mancano dure memorie di guerra, non mancano delicati ritratti di flora e fauna in movimento o nella loro immobilità.

Riproponiamo qualche stralcio di primavera.

Se la prima neve che senti scendere in una notte di novembre è un invito a raccogliersi nei ricordi o nella lettura, la prima pioggia d’aprile che ascolti battere sul tetto ti dà ristoro e distensione, ritrovi un amabile sonno e poi, al mattino, il desiderio di andare, di uscire fuori a camminare in libertà e senza una meta perché la primavera non ha confini. Magari vorresti rincorrerla verso il Nord con quella coppia di cicogne che avevano sostato qualche giorno sugli stagni dei pascoli e sono volate via salutando noi che restiamo.

La partenza avveniva nel mese di marzo, quando il disgelo aveva liberato i passi che nelle nostre montagne erano come porte verso i paesi dell’Europa centrale. Andavano a piedi, con gli arnesi del mestiere dentro un sacco appeso alle spalle con due pezzi di corda, o sulla carriola che spingevano con l’indispensabile. Così i nostri montanari si avviavano verso la Prussia, l’Austria, la Boemia a lavorare in cambio di marchi o corone che davano poi la possibilità di svernare in famiglia.

A fine marzo, nelle ore più calde del mattino, la maestra Elisa invitava Matteo ad aprire le finestre e la primavera arrivava gonfiando le tende come vele di nave. Dentro l’aula giungevano l’odore della terra e del letame sui prati, il canto delle allodole, i passi di un cavallo, il rumore del carro.

Il Bosco di Mezzo, Mittelwald, era vasto e bello: un libro da leggere sulla vita vegetale e animale che si rinnova nei millenni. L’albero, anche se può vivere più di un secolo, è breve cosa nella vita della foresta: abeti densi di verde e d’argento, pecci alti come colonne con i rami rastremati lungo il tronco dal peso della neve di tanti inverni, larici feriti dal fulmine hanno vite personali, ma l’insieme è millenario.

Un anno, dopo il tempo degli amori, passò la guerra. Era di maggio. Già le femmine degli urogalli avevano deposto le uova nel sottobosco tra i mirtilli e i rododendri. I larici erano già fioriti e il polline del bosco, come polvere dorata, si adagiava sugli arbusti. Allora tre fortissimi bagliori seguiti da tre violentissime esplosioni fecero tremare la terra e squassare gli alberi.

Urogallo o gallo cedrone, foto David Palmer

Urogallo o gallo cedrone, foto David Palmer

Le femmine si acquattarono ancora di più sui nidi, quasi volessero penetrare nelle radici. Giunsero molte altre bombe, poi spari di fucile e di mitragliatrici, grida e vampate violarono quel bosco e i nidi furono abbandonati. Erano volati via tutti gli uccelli, fuggirono gli ultimi cervi e i caprioli. Anche le ultime poste di rifugio erano diventate pericolose e gli animali selvatici vagarono qua e là per altri luoghi disgraziati finché non trovarono un po’ di quiete sui versanti a nord delle montagne, impervi e freddi, dove la guerra non arrivava. Non arrivava nemmeno il sole e il cibo era duro e amaro.

Eravamo tutti, vecchi e ragazzi, donne e ragazze, dentro la primavera e non lo sapevamo. Dopo cena si usciva sulle strade a giocare ed erano tantissimi i giochi; alcuni esclusivi per noi, altri con le ragazze. Era divertente cacciare con il fazzoletto le bianche farfalle che a centinaia scendevano come neve dai due pioppi canadesi che mio nonno aveva fatto piantare nell’orto davanti la casa, dopo che questa era stata ricostruita sulle miserie della guerra.

Venne anche il tempo che i miei dissero che dopo avere raccolto i sassi dal prato della villa potevo dare una mano a spargere il letame. Era un lavoro più faticoso della fienagione perché con il tridente, dopo aver fatto dei mucchietti a giusta distanza, bisognava battere il letame e romperlo e sparpagliarlo in piccoli grumi, affinché  venisse bene assimilato dal prato e la falce che rasava l’erba potesse correre libera senza intoppi.

Mario Rigoni Stern (1921-2008)
«Sono nato ad Asiago nel 1921, in una casa appena ricostruita sulle macerie della Grande Guerra, da una famiglia che da secoli esercitava i commerci tra montagna e pianura, ma che anche aveva dato medici e ingegneri forestali». Entrato a far parte nel 1938 della scuola militare di alpinismo, come alpino prende parte alla Grande Guerra in Francia, Grecia, Albania e Russia. Dalla Russia rientra nella primavera del 1943, salvandosi con pochi altri dalla tragedia della ritirata delle truppe italiane. Nel 1945 inizia a scrivere il primo romanzo, Il sergente nella neve, pubblicato nel 1953 per Einaudi da Elio Vittorini. Tra le altre opere, edite da Einaudi, Il bosco degli urogalli (1962), Ritorno sul Don (1973), Storia di Tönle (1978), Le stagioni di Giacomo (1995). Muore ad Asiago il 16 giugno 2008, in un giorno di primavera, come avrebbe voluto.

Stagioni
Mario Rigoni Stern
Einaudi, 2006
pp. 145, € 10,80

Canto della pianura – Kent Haruf


UNA STAGIONE DA LEGGERE
Rubrica dedicata alle stagioni nei libri, perché ogni storia ha la sua stagione.

di Emanuela D’Alessio

INVERNO – Canto della pianura di Kent Haruf

[I MCPHERON]

Maggie Jones guidò fino dai McPheron in un freddo pomeriggio di sabato. Diciassette miglia a sudest di Holt. Lungo la strada c’erano chiazze di neve nei campi incolti, cumuli e merletti induriti dal vento nei fossi. Mucche nere spelacchiate erano sparse fra le stoppie del granturco, a testa bassa e sottovento brucavano senza agitarsi. Quando svoltò nello sterrato, dal ciglio della strada si levarono in volo piccoli uccelli che il vento trascinò via. Lungo la recinzione, la neve brillava sotto il sole.

Fuori, il vento era aumentato rispetto al pomeriggio. Lo sentivano ululare attorno alla casa, gemere e rumoreggiare fra gli alberi spogli. La neve farinosa, sollevata dal vento, passava davanti alle finestre e sfrecciava in raffiche improvvise attraverso il cortile gelato, alla luce di un fanale appeso a un palo del telefono sul retro. Candidi, vorticosi mulinelli nella luce azzurrina. In casa regnava il silenzio.

L’aria invernale si stava facendo più fredda e il sole iniziava a calare verso ovest, mentre dall’altra parte della strada l’edificio in blocchi di granito del tribunale si stagliava grigio e solido sotto il tetto di tegole versi. Una volta raggiunto il veicolo, posarono le scatole sul pianale posteriore fissandole con uno spago giallo preso dalla cassetta degli attrezzi. Quindi si rimisero in strada e uscirono lentamente dalla città, risalendo lungo la valle del fiume South Platte verso il gelido inverno degli altopiani.

canto della pianura

I McPheron sono due anziani fratelli, induriti dal vento e dalla solitudine e dalla vita di campagna, abituati alle vacche piuttosto che agli uomini. Tutto sembra immutabile nelle loro giornate fino a quando Maggie Jones, l’insegnate della scuola, li pone di fronte a una scelta impensabile, prendersi cura di Victoria Roubideaux, un’estranea, una ragazzina di sedici anni rimasta incinta, abbandonata dal ragazzo e cacciata dalla madre.

Sono loro alcuni dei personaggi che si intrecciano a Holt, piccola cittadina immaginaria del Colorado non distante da Denver, dove uomini e donne conducono le loro giornate al ritmo delle luci e delle ombre di un inverno percorso dal vento del Nord e dalle tempeste sugli altopiani, consumando il tempo nella sfida universale dell’esistenza, giorno dopo giorno, senza clamori e furori, ma lasciando entrare nelle proprie vite quegli stravolgimenti necessari a sconfiggere il dolore e a conquistare il riscatto.

Un libro che accarezza la superficie dell’animo fino a oltrepassarla, lasciando tracce che resisteranno al tempo e all’oblio.

Canto_pianura_coverCanto della pianura, secondo romanzo della Trilogia della pianura, è stato tra i cinque finalisti del National Book Award nel 1999. NN Editore, la casa editrice milanese che sta riproponendo con sorprendente successo i libri di Kent Haruf, dopo gli esiti trascurabili di Rizzoli,  pubblicherà nel 2016 Crepuscolo, che insieme al primo Benedizione, completa la trilogia e Our Souls at Night, l’ultimo romanzo dell’autore americano, uscito negli Stati Uniti ad alcuni mesi dalla sua morte, avvenuta nel 2014.
In un’intervista rilasciata a Denvercenter.com poco prima di morire, Haruf ha dichiarato: «Voglio pensare di aver scritto quanto più vicino all’osso che potevo. Con questo intendo dire che ho cercato di scavare fino alla fondamentale, irriducibile struttura della vita, e delle nostre vite in relazione a quelle degli altri».

Canto della pianura
Kent Haruf
trad. di Fabio Cremonesi
NN editore, 2015
pp. 301, € 18

Il giovane Holden – J. D. Salinger

UNA STAGIONE DA LEGGERE Rubrica dedicata alle stagioni nei libri, perché ogni storia ha la sua stagione.

di Elena Refraschini

INVERNO – Il giovane Holden di J. D. Salinger

Ad ogni modo, era dicembre e tutto quanto, e l’aria era fredda come i capezzoli di una strega, specie sulla cima di quel cretino d’un colle.

Era uno di quei pomeriggi pazzeschi, freddo da morire, senza sole né niente, e ti sentivi come se stessi svanendo ogni volta che attraversavi una strada.

La cosa buffa, però, è che mentre continuavo a raccontar balle pensavo a tutt’altro. Io abito a New York, e pensavo al laghetto di Central Park, vicino a Central Park South. Chi sa se quando arrivavo a casa l’avrei trovato gelato, mi domandavo, e se era gelato, dove andavano le anitre? Chi sa dove andavano le anitre quando il laghetto era tutto gelato e col ghiaccio sopra. Chi sa se qualcuno andava a prenderle con un camion per portarle allo zoo o vattelappesca dove. O se volavano via.

Il giovane Holden nella traduzione di Adriana Motti (da cui è tratto il breve stralcio) è stato letto da intere generazioni. Nel 2014 è uscita, sempre per Einaudi, la nuova traduzione di Matteo Colombo.

E comunque era dicembre e via dicendo, un freddo cane, specie in cima a quella stupida collina.

Era uno di quei pomeriggi assurdi, un freddo terrificante, senza sole né niente, e la sensazione di scomparire ce l’avevi ogni volta che attraversavi la strada.

Chissà dov’erano andate le anatre. Chissà dove andavano le anatre quando il lago gelava e si copriva di ghiaccio. Chissà se arrivava qualcuno in furgone che le caricava tutte quante per portarle in uno zoo o chissà dove. O se volavano via e basta.

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Matteo Colombo, piemontese di nascita ora di stanza a Berlino, è traduttore di scrittori come DeLillo, Eggers, Chabon, Sedaris, Palahniuk, il romanzo da Pulitzer Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan. In un’intervista commenta così la sua impresa: «Un libro che nel suo percorso editoriale italiano ha avuto un successo senza precedenti, grazie a una traduzione molto particolare: una traduzione che ha fatto innamorare diverse generazioni e che era molto creativa… a tratti anche parecchio libera. Quando lessi «Holden», ricordo questa sensazione: era come se ci fosse un libro, lì sotto, qualcosa che si muoveva, qualcosa di interessante, ma era come se la lingua mi impedisse di accedervi. Non mi parlava, non mi ci riconoscevo… mi sembrava bizzarra, ma senza un vero motivo. Quando l’ho letto in inglese, anni dopo, nel momento in cui dovevo tradurlo, sono rimasto a bocca aperta, perché sembra scritto non dico ieri, ma poco prima».

«Il giovane Holden ha sì una lingua gergale, ma non così tanto. Ha anche altre caratteristiche linguistiche, che sono un po’ più sottili… sono soprattutto ripetizioni. Quando si legge la traduzione di Adriana Motti, si ricava l’impressione che Holden abbia una lingua estremamente colorita, inventiva – e questo è vero, ma solo in parte. Però, se prendi l’originale, ti rendi conto che c’è dell’altro. Bisogna ricordare che Holden, quando racconta la sua storia, si trova in una clinica psichiatrica, anche se la cosa è solo accennata. E il fatto che non stia bene, nel corso di tutto il suo racconto, emerge con una certa chiarezza. A tratti ha dei veri e propri attacchi di panico. La nostra interpretazione – dico nostra perché mi sono consultato con molte persone – è che il suo linguaggio, il modo in cui parla, fosse strettamente collegato al suo disagio psicologico. Per cui: un sacco di parole ripetute, frasi spezzate… o quelle volte in cui Holden afferma una cosa per smentirla nella stessa frase».

(da mimimaetmoralia il 13 giugno 2014)