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L’ultima perla di Kent Haruf

di Elena Refraschini

NN editore ha invitato a Milano Cathy Haruf, la moglie dello scrittore americano scomparso nel 2014, per parlare del suo ultimo libro Le nostre anime di notte, e ricordare insieme il grande cantore delle pianure americane.

Cathy Haruf

Lo scorso weekend ho avuto l’opportunità di partecipare a un incontro con Cathy, moglie del recentemente scomparso Kent Haruf. Molti di voi sanno già di che evento si tratta: in occasione dell’uscita di Le nostre anime di notte, l’editore NN ha organizzato una serata presso il teatro Franco Parenti (a Milano) con la partecipazione di Marco Missiroli, Lella Costa e Gioele Dix.

A chi non l’avesse ancora letto, non posso che dire: fallo al più presto. Vi ritroverai la stessa tenerezza e la stessa empatia che abbracciavano tutta la Trilogia della Pianura, le stesse ombre lunghe del Colorado che ora calano su cuori spezzati e diner appiccicosi, sugli amici e sui ficcanaso, e su un uomo e una donna che decidono, al crepuscolo della loro vita, di tenersi la mano di notte.

Ho amato questo nuovo, breve romanzo ancora più dei precedenti: forse perché, come altri hanno notato, vi è un’urgenza narrativa più importante, ma anche perché si narra una storia meno corale e più intima.

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Ero molto curiosa di incontrare Cathy Haruf qualche ora prima dello spettacolo serale.
A essere sincera, non sapevo bene cosa aspettarmi: in fondo, incontrare la moglie di un grande autore è diverso dall’incontrare il grande autore stesso. Questo fatto, mi dicevo, toglie dal tavolo della discussione diverse questioni relative agli intenti del libro o al procedimento della scrittura. Quello che si perde, però, lo si può guadagnare aprendo finestre sulla vita di uno scrittore che difficilmente sarebbero esistite se avessimo parlato con l’autore in persona. E così è stato.

Per esempio, Cathy ci ha raccontato che il marito scriveva sempre di mattina, e prima di sedersi alla macchina da scrivere nella sua capanna in giardino leggeva qualche pagina di Faulkner o Cechov, magari sempre lo stesso passaggio, «per mettersi nella giusta disposizione».
Scopro che amava girare con un taccuino su cui raccoglieva le storie delle persone. «Era molto attento agli altri, e odiava l’attenzione su di sé», ci ha raccontato Cathy. «Per questo era bravissimo ad ascoltare, ed essendo molto sensibile a volte diventava estremamente triste». Scopriamo, per esempio, che Kent aveva il labbro leporino, e per quanto questo difetto abbia pesato sui suoi anni formativi, «credo sia stata alla fine una benedizione, perché ha aiutato Kent a vedere la debolezza nelle persone».
Un sorriso carico di nostalgia si apre sul viso di Cathy, che con estrema grazia e candore ha passato la giornata a ricordare il grande cantore delle pianure americane, supportata nel viaggio dai suoi due figli.

trilogiaRiuscivo quasi a vederlo davanti ai miei occhi: lo scrittore che ha fatto della pietà verso i personaggi la sua cifra narrativa, l’uomo che guarda il mondo con quelle stesse lenti.
Un mondo, il suo, amato in modo viscerale, raccontato in ogni dettaglio: «le nostre sono zone che la gente attraversa il più velocemente possibile quando va ad Aspen o verso altre famose località sciistiche, ma per Kent era casa», ci ha detto Cathy. «No, me ne sto a Holt», rispondeva quando gli si chiedeva se avrebbe mai scritto di altri luoghi negli Stati Uniti.

Anche per il lettore affezionato, leggere quest’ultima perla harufiana sarà un po’ come tornare a casa. Ed è con una nota di nostalgia che si volta l’ultima pagina, perché non ci saranno più Addie e Louis. La loro curiosità, però, il loro senso di avventura, il rifiuto di conformarsi alle regole imposte da una piccola comunità ferocemente aggrappata ai propri valori: tutto questo rimane attaccato addosso, e vi verrà voglia di far leggere Le nostre anime di notte a tutte le persone a cui volete bene.
Perché come ha magnificamente detto Marco Missiroli introducendo il reading, ci sono alcuni libri che ci riparano. Le nostre anime di notte è uno di questi.

Le nostre anime di notte
Kent Haruf
trad. di Fabio Cremonesi
NN editore, 2017
pp. 176, € 17

In arrivo Black Coffee edizioni

FUORI STRADA – Rubrica di approfondimento della piccola e media editoria “extra-capitolina”

di Elena Refraschini

logoBlack Coffee: una casa editrice, di Firenze, da tenere d’occhio, e non solo per il nome! Appassionati di letteratura americana, preparatevi: da inizio marzo debutteranno in libreria voci giovani dal panorama statunitense, portate in Italia in un’edizione dai toni decisamente pop.
Abbiamo intervistato i fondatori di Black Coffee, Sara Reggiani e Leonardo Taiuti, per farci raccontare la loro avventura fino a qui, e ci siamo fatte dare qualche anticipazione sulle uscite future.

Black Coffee nasce dall’esperienza dell’omonima collana per le edizioni Clichy, che aveva pubblicato diversi autori americani di grande interesse. Cosa vi portate di quest’esperienza, e cosa invece avete lasciato indietro?

Sara – Black Coffee è un progetto nato nelle nostre menti molto prima di approdare come collana in Clichy e la casa editrice appena aperta non è altro che la sua forma approfondita e ampliata. Il nostro intento resta lo stesso – offrire ai lettori un piccolo scorcio del panorama letterario nordamericano attuale – ma d’ora in poi ci apriremo anche alla cosiddetta literary non fiction, dando spazio a quelle opere che in Italia non trovano posto in una categoria ben precisa (diari, memoir, resoconti di viaggio, eccetera).
Non ci siamo lasciati nulla alle spalle, l’intera esperienza ci resta dentro, ed è il motivo per cui abbiamo trovato il coraggio di fare il salto, di scendere in prima linea. Da redattori siamo diventati traduttori e in seguito editor, e ora vogliamo dire la nostra come editori. In Edizioni Black Coffee portiamo tutto questo, tutta la nostra esperienza, umilmente e con entusiasmo.

Com’è composto il vostro staff, e qual è il suo percorso?

Sara – Io e Leo abbiamo la fortuna di essere affiancati da amici fidati oltre che grandi professionisti. Conosciamo da molti anni Emanuela Busà, la nostra redattrice, e Raffaele Anello, l’ideatore del bel progetto grafico di Black Coffee (precedente e attuale). Ci siamo incontrati durante gli anni in cui io e Leo lavoravamo in Giunti Editore e c’è stata subito grande sintonia. Fantasticavamo spesso di unire le forze per un progetto nostro e ora non ci sembra vero. Raffaele vive a Berlino e ci vediamo poco, ma almeno adesso abbiamo la scusa per sentirci quasi ogni giorno. Il nostro social media manager è Giorgio Collini, il romanaccio della squadra. Ci conosciamo da poco, ma lo spirito con cui affrontiamo questa avventura è lo stesso. Marta Ciccolari Micaldi, già nota a molti come blogger ed esperta di letteratura americana, nonché organizzatrice di bellissimi viaggi letterari negli Stati Uniti, si occuperà di portare nelle librerie il nostro progetto. L’ho conosciuta a un Salone di Torino e l’ho sentita subito affine a me. Da allora ho seguito tutte le sue attività con molto interesse e ho deciso di coinvolgerla nel nuovo progetto. Dopo di che ci sono Martina Giachi, mia grande amica e fotografa, alla quale mi rivolgo per ogni genere di consulenza, ma principalmente per l’immagine di Black Coffee, e infine Michele Nenna e Mariateresa Pazienza, giovani e talentuosi fotografi di cui ho avuto modo di apprezzare il lavoro durante gli ultimi anni e ai quali abbiamo chiesto di occuparsi delle immagini di accompagnamento ai contenuti delle riviste letterarie che proponiamo sul nostro sito. È uno staff giovane e dinamico di cui andiamo molto fieri!

ilcorpochevuoiLa vostra prima uscita sarà Il corpo che vuoi di Alexandra Kleeman, giovane e promettente scrittrice che si è fatta le ossa su diverse riviste letterarie, come tanti suoi colleghi oggi. Cosa rappresenta per voi questa scelta?

Sara – Il libro di Alexandra racchiude un po’ tutto ciò che Black Coffee vuole comunicare: freschezza, originalità, talento e arguzia. Alexandra è una delle scrittrici più in gamba che mi sia capitato di leggere e l’ho fortemente voluta con noi. L’avevo acquisita per Clichy e, quando abbiamo deciso di aprire una casa editrice nostra, l’ho riacquisita una seconda volta. Il suo libro mi è capitato casualmente fra le mani mentre ero a New York in occasione del Brooklyn Book Festival. L’ho acquistato nella celebre libreria Strand perché mi incuriosiva, l’ho letto tutto d’un fiato in aereo e me ne sono innamorata. Teniamo molto ad Alexandra e speriamo che anche il pubblico italiano la apprezzi.

Lions_grandeBonnie Nadzam, già vincitrice del Flaherty-Dunnan prize e seconda autrice che pubblicherete, tornerà con Lions negli altipiani del Colorado che avevano fatto da sfondo al suo precedente lavoro, Lamb. Questo territorio sembra esercitare ancora un fascino fortissimo presso i lettori – un misto di frontiera, di America perduta, di polvere e di resilienza. Secondo voi è così, e se sì, perché?

Leo – Il West non ha mai smesso di affascinare i lettori di tutto il mondo perché è simbolo della ricerca di un futuro migliore, del desiderio di autoaffermazione dell’uomo. È un territorio selvaggio, ricco di leggende, e immagino che il lettore vi proietti i suoi desideri, il bisogno di fuggire dal chiasso della modernità per ristabilire un contatto con se stesso. Gli uomini che lo abitano sono duri, caparbi, forti, coraggiosi, affrontano un mondo ostile con dignità. Chi non vorrebbe essere capace di fare lo stesso nel caos della realtà di tutti i giorni?

Nella sezione Amici del vostro sito ospiterete alcuni articoli tratti dalle riviste letterarie americane più interessanti del momento. Come scegliete gli articoli da proporre, e in che modo questi faranno da complemento al lavoro della casa editrice?

Sara – Abbiamo deciso di ampliare i contenuti offerti per dare ai nostri lettori uno sguardo che vada oltre i libri che pubblichiamo (che viste le piccole dimensioni della casa editrice saranno, per il momento, cinque l’anno) e allo stesso tempo fungano da loro approfondimento. Li scegliamo così, in base ai temi che emergono dai nostri titoli, e alla loro capacità di aiutare il lettore a mettere a fuoco il discorso in un contesto più ampio. Ci auguriamo che i lettori apprezzino lo sforzo e traggano giovamento da questo approccio singolare al panorama letterario americano.

Per ora sappiamo che viaggeremo in una sorta di distopia statunitense, e nelle pianure del Colorado. Immaginiamo che vogliate mantenere il riserbo sulle prossime uscite, ma potete darci, chiamiamolo così, un assaggio geografico di dove voleremo in futuro, naturalmente con in mano una tazza di caffè amaro americano?

Leo – Possiamo solo dirvi che presto ci inoltreremo nel profondo Sud degli Stati Uniti, per poi risalire verso New York e virare verso il South West. Ci piace spaziare!

Sara Reggiani e Leonardo Taiuti

Sara Reggiani e Leonardo Taiuti

E per ultima, una domanda che facciamo a tutti i nostri interlocutori: cosa c’è in lettura sul vostro comodino in questo momento?

Sara – Tutto il giorno traduco e valuto romanzi per il nostro catalogo, e la sera praticamente svengo a letto. Sul mio comodino ci sono tanti libri, tutti iniziati e non finiti, ma ultimamente quando riesco a concentrarmi un po’ leggo qualche pagina di Winesburg, Ohio del grande Sherwood Anderson.
Leo – Io invece leggo molto la sera prima di dormire. Ora sul mio comodino c’è Il cartello di Don Winslow, un autore che amo e di cui ho letto praticamente tutto.

Un viaggio nelle Grandi Pianure di Haruf

di Elena Refraschini

Sentii parlare di Kent Haruf per la prima volta quando fece parte di una bellissima iniziativa creata dalla libreria losangelina Vroman’s chiamata “Read your way across the USA!”. La libreria aveva creato un display con i consigli di lettura legati a ogni stato degli Stati Uniti, dal Texas al Wisconsin, da Washington alla Florida. “Ne avrò fino al 2020”, mi ero detta. Nei titoli imperdibili da leggere ambientati in Colorado c’erano The Shining, certo, poi Angle of Repose di Stegner (vincitore del Pulitzer nel ’72), e Plainsong di un certo Kent Haruf. Inseriti tutti i titoli nella mia infinita reading list, iniziai dall’Alabama, perché è il primo in ordine alfabetico e perché il mio cuore è nel Sud.
Passiamo a qualche mese più tardi, quando il nuovo (allora) editore milanese NN fa il suo debutto con due autori americani molto promettenti, Jenny Offill e, appunto, il “mio” Haruf.
Arriviamo a oggi, e Kent Haruf è praticamente un autore di culto in Italia: a ogni uscita (i tre titoli della Trilogia della Pianura, per ora, ma aspettatevi Le nostre anime di notte alla fine di quest’anno, non avete idea di che gioiello sia) colleziona recensioni brillanti sui maggiori quotidiani nazionali, i blogger lo adorano, i lettori anche, e mica per nulla Benedizione è arrivato nei giorni scorsi alla sua settima ristampa.

Se un autore riesce a essere apprezzato in modo così universale, è perché parla a ciascuno in un linguaggio privato che solo quel lettore comprende; si crea una conversazione intima con l’autore, con i suoi personaggi, le sue storie. Di Haruf si è detto tanto: si è parlato della delicatezza del suo linguaggio, della grazia che contraddistingue le sue scene, della compassione con la quale tratta i suoi personaggi, dell’umiltà dell’uomo-scrittore.
Quello che ha colpito me, dalle prime pagine di Benedizione (il primo a uscire in Italia, ma il terzo nella trilogia) fino alle ultime di Crepuscolo, è il sense of place che vi ho trovato. La sensazione che bastasse aprire quei libri per ritrovarmi nelle Grandi Pianure che ho sempre amato.

Max Liu

Max Liu fotografa i paesaggi di Kent Haruf. Questa potrebbe benissimo essere la fattoria dei fratelli McPheron, che ne dite?

Qui siamo lontani dall’America da cartolina, quella delle due coste. Le Grandi Pianure sono una fascia verticale che occupa i territori al di là della valle del Mississippi e al di qua delle Montagne Rocciose, che scende dal Canada fino al Texas e include parecchi stati tra cui Montana, Nebraska, Kansas, Oklahoma, e il Colorado a est di Denver, dove ha appunto abitato Haruf per buona parte della sua vita. Un’area di più di un milione di chilometri quadrati che siamo abituati a definire come il “grande nulla”, ma che in realtà è ben lontana dall’essere tale.
Solo chi viene dalle coste, soprattutto da Est, può pensare che queste terre siano piene solo di assenze. Chi ci è nato, chi ci ha viaggiato con gli occhi aperti, sa che queste terre sono piene di storia, di storie, di natura, di cielo (che per Haruf è “pure blue”, “terso” nell’attenta traduzione di Fabio Cremonesi, un cielo che è solo delle Grandi Pianure). Sono le Great Plains narrate da grandi viaggiatori come William Heat-Moon e Dayton Duncan. Queste erano le terre dei bisonti, dei Cheyenne, dei Sioux.
Sono state poi le terre dei coloni più tenaci, quelli che giorno per giorno spostavano la frontiera un po’ più a ovest. I personaggi della Trilogia della Pianura sono i pronipoti di questi uomini e donne che vivevano ai limiti della società: Dad Lewis, in Benedizione, racconta di come la sua casa fu costruita nel 1904, quando quella zona era solo aperta campagna (la linea di frontiera era stata dichiarata ufficialmente sparita solo nel 1890).

Lo stesso Haruf ha detto qualche tempo fa in un’intervista che ha «qualcosa come un legame sacro con quella parte del mondo», ed è d’altra parte evidente l’affetto con cui dipinge i suoi luoghi. Lo si vede in come preferisce il termine soapweed al posto del più comune yucca, evocando la funzione curativa di quella pianta presso i Nativi Americani, i quali dalle radici ridotte in polvere ricavavano una specie di sapone; da come sceglie il più dolce sundown e non sunset; lo si vede da come il paesaggio e il tempo atmosferico siano sempre parte integrante delle sue scene, così come i luoghi chiusi (case, taverne, supermercati, roulotte) sembrino tanto spesso luoghi di auto-isolamento per questi uomini e donne laconici e resilienti.
Fuori, a dominare sono i piani orizzontali: ed è anche per questo che nella Trilogia della Pianura si fa tanto riferimento alla luce. Quasi ogni capitolo di Benedizione ci offre un indizio che illumina la scena: «lui stava osservando il cortile laterale e l’albero e l’ombra sull’erba che si stava ritirando, il sole era più alto nel cielo» (p. 40), o «Il  cielo era ormai buio e si erano accesi i lampioni, lei pedalava avanti e indietro, da un cono di luce all’altro», (p. 130), ma ci sarebbero decine di altri esempi. E non è un caso che sia Dad Lewis sia Raymond McPheron vedano nell’aperta e piana campagna il loro luogo della pace, mentre Denver, la capitale dello Stato, non soltanto è una realtà completamente estranea e spesso incomprensibile per gli abitanti di Holt, ma è sempre foriera di una rottura degli equilibri nelle loro vite. Questi sono uomini la cui vita è plasmata dal luogo in cui vivono, al contrario di ciò che succede in altri spazi americani, che vengono continuamente ridefiniti dalle vite dei loro abitanti.
Quest’attenzione agli spazi e alle cose è stata spesso paragonata dalla critica ad altri autori che hanno riempito di significati e stratificazioni i loro luoghi: mi riferisco ovviamente a Faulkner e la sua Yoknapatawpha County in Mississippi, o la comunità di Winesburg nell’Ohio di Sherwood Anderson. Mi stupisco però che non vengano altrettanto spesso citati altri autori entrati nel canone della letteratura regionale o nazionale americana e che si sono dedicati, come Haruf, alla rappresentazione delle vite ordinarie e rurali dei loro personaggi, che sono figure incredibilmente umane e reali, poco eroicizzate. Penso a Willa Cather, o al Wright Morris del quasi-omonimo Plains Song (1981), per non tornare indietro al Hamlin Garland di Prairie Folks (1892).

Le Grandi Pianure del Nebraska dal treno California Zephyr, che corre da Chicago a San Francisco in 51 ore (foto di Elena Refraschini)

Le Grandi Pianure del Nebraska dal treno California Zephyr, che corre da Chicago a San Francisco in 51 ore (foto di Elena Refraschini)

Come forse si è capito, ho un debole per questi luoghi. Qualche anno fa, spronata da tante letture e da un’insana passione per i viaggi in treno, decisi di percorrere così gli Stati Uniti, zigzagando tra est e ovest, nord e sud attraverso quegli anacronistici bisonti che sono i treni Amtrak, l’azienda statale del trasporto ferroviario: il Coast Starlight, l’Empire Builder, il California Zephyr, il Sunset Limited, il City of New Orleans. Non vi viene voglia di saltarci su anche solo per la poesia che si srotola dai nomi delle loro linee?
A me è successo così. E quando si viaggia attraverso gli Stati Uniti in treno succedono cose molto belle. Tra le più belle c’è incontrare luoghi che chi viaggia in auto (ovvero: tutti gli altri) non vedrà mai. Cittadine nate grazie alla ferrovia e poi semi-abbandonate a causa di un’emorragia economica, campi che superano la linea dell’orizzonte, passi di montagna altrimenti inaccessibili.
E se le Grandi Pianure definiscono il paesaggio a stelle e strisce, così la vita nelle small town è la quintessenza dell’esperienza americana. Quei paeselli che non hanno come riferimento il classico grid, le “avenue”, le “street”: dove, per orientarti, ti basta trovare la Main Street, i binari della ferrovia, e la statale. Posti in cui impari a chiedere non “a quante miglia è” ma “a quante ore”. Dove le occasioni di socializzazione cittadina sono l’asta degli animali, la festa per i veterani, i fuochi d’artificio il quattro luglio. Insomma, posti come Holt.

tipica small town americana con taverna, negozio di ferramenta, piccolo bar e supermercato. Questa è Whitefish, in Montana. (foto di Elena Refraschini)

tipica small town americana con taverna, negozio di ferramenta, piccolo bar e supermercato. Questa è Whitefish, in Montana. (foto di Elena Refraschini)

Holt è in Colorado, ma potrebbe essere in qualsiasi altro stato delle Grandi Pianure: servono solo tre isolati commerciali sulla Main Street che ospitano una taverna, un piccolo alimentari, un negozio di ferramenta; la ferrovia, che separa i quartieri bene da quelli più poveri; un ristorante sulla statale, pronto a saziare con una cucina dalle poche pretese e ipercalorica le bocche affamate dei truck driver e i clienti abituali; l’ospedale, le chiese; fuori, solo aperta campagna, e qualche fattoria, i silos, il serbatoio idrico a punteggiare l’orizzonte.
Non mi stupisce aver letto, in una vecchia intervista, che l’autore aveva creato una mappa mentale di Holt in cui posizionava attentamente ogni luogo menzionato nelle sue opere. «Holt è come casa per me», aveva detto. «C’è certamente tanto da raccontare qui, sai a chi appartiene il camioncino parcheggiato là dove non dovrebbe stare, sai di chi è il cane che si è liberato dal guinzaglio, sai di chi è la bicicletta appoggiata al lampione di fronte alla panetteria. Tutte queste cose, per uno scrittore, sono importanti».
Holt è casa anche per noi, che abbiamo camminato lungo le novecento pagine della trilogia, percorrendo chilometri e decadi, e non sentiamo ancora la stanchezza nelle gambe.
È questo secondo me il regalo più bello che ci ha fatto Kent Haruf: poter voltare l’ultima pagina, ben sapendo che non ci scrolleremo più di dosso la polvere di quella terra immensa.

I  romanzi della Trilogia della Pianura di Kent Haruf sono:
Benedizione, NN editore, 2015, pp. 275, € 17
Canto della pianura, NN editore, 2015, pp. 301, € 18
Crepuscolo, NN editore, 2016, pp. 312 , € 18

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Un libro di storie sospese

di Elena Refraschini

Esce oggi per Rizzoli  La libreria delle storie sospese, il primo romanzo di Cristina Di Canio, la vulcanica libraia di Il Mio Libro, in Via Sannio 18, a Milano.  

Alle 10:30 tutti alla “scatola lilla” di Cristina per festeggiare.

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Conobbi Cristina Di Canio una mattina soleggiata di qualche anno fa, spinta dalla curiosità verso quella piccola libreria vicino Porta Romana che aveva lanciato l’iniziativa di cui tutti parlavano, il “libro sospeso”.
Mi trovai davanti un piccolo vulcano, una giovane donna piena di entusiasmo e di amore genuino per i libri, con lo sguardo luminoso proprio di chi sta gestendo venti attività e ne sta già pensando altre quaranta.
Innumerevoli eventi (tra i quali anche il primo ciclo milanese di Cosa si fa con un libro?) e oltre seicento libri sospesi dopo, eccoci qui: l’entusiasmo di Cristina sembra triplicato, ora che è uscito per Rizzoli il suo primo libro, La libreria delle storie sospese.
A essere sincera, prima di iniziare la lettura non sapevo bene cosa aspettarmi. Le librerie sono invase da prodotti di bassa qualità, scritti da autori improvvisati che non sono nemmeno stati aiutati da un editing decente. Certo, fare la libraia non è come fare la cuoca o l’attore o – rullo di tamburi – lo youtuber, su questo non ci piove: ad ogni modo, lo scrittore ha un mestiere diverso.
Già con due pagine alle spalle, posso tirare un sospiro di sollievo: il libro è ben scritto, e viene naturale lasciarsi trasportare in quel magico Paese delle Meraviglie – come l’ha definita Marco Missiroli in quarta di copertina – che è la “scatola lilla” di Cristina.
La storia, per la maggior parte, è proprio quella della libraia: Nina, così si chiama, è proprietaria della libreria di quartiere, è vegana, ha una nipotina di nome Asia, non ama i numeri. Vi troviamo anche il libro sospeso: due clienti della scatola lilla iniziano a scambiarsi libri in regalo come messaggi segreti, violando per una volta la regola che prevede la totale anonimità di mittente e destinatario. Gli episodi più assurdi (la madre che abbandona il figlio di cinque anni in libreria, il pazzo che parla con Dio…) sono troppo assurdi per essere inventati, e infatti non lo sono.
libreria_coverLa libreria delle storie sospese, però, non è affatto un diario. Non solo perché la voce narrante non è quella della stessa Nina ma di Adele, un’anziana signora che ha preso la libreria come il suo “ospedale dell’anima”. Ma soprattutto perché sarebbe riduttivo parlare di questo libro come della storia di una libraia: certo, è la storia di una giovane che ha realizzato il proprio sogno, ma è anche la storia di chi c’era prima di lei, la storia dei giovani immigrati dal sud Italia, delle canzoni del fermento operaio, delle case di ringhiera; la storia di un quartiere che cambia, che poi è quella di tanti quartieri a Milano così come in tutta Italia. Chi conosce Cristina non faticherà a trovare le somiglianze tra il racconto e la vita reale, ma questa è una storia che nella sua semplicità aspira a essere universale.

Partiamo dall’inizio: com’è nata l’idea di scrivere La libreria delle storie sospese?
Non avevo assolutamente, come si dice, un libro nel cassetto. Galeotta fu una cena a cui partecipai un anno fa: in quell’occasione si chiacchierava del libro sospeso e iniziai a raccontare di questi due clienti che, per un periodo, si sono scambiati libri. La storia è piaciuta, e da quella siamo partiti. L’idea originale, poi, è cambiata: lavorando con Stefano Izzo e Benedetta Bolis, sono arrivata dove non sarei riuscita da sola. Per esempio, all’inizio era Nina a raccontare la storia, ma ci siamo resi conto che avremmo avuto l’opportunità di raccontare una storia più grande se fosse stata l’ottantenne Adele a parlare. La storia di Adele, che era davvero un’amica della libreria, è quella dei miei genitori e dei miei nonni.

Infatti, questa non è solo la storia di Nina e della sua libreria, ma è anche quella di un intero quartiere.
Io sono nata e cresciuta qui, in una casa di ringhiera. Erano i miei genitori, venuti dal Sud, a leggere i cartelli “non si fitta ai meridionali” di cui racconta Adele nel libro, e sempre loro si sono conosciuti praticamente litigando quando erano vicini. Quella della casa di ringhiera è una vita fatta di storie: ho sempre amato le storie, sin da quando mi addormentavo sulle ginocchia di mia madre mentre chiacchierava con le amiche nell’androne. Soprattutto sono affascinata da come erano le cose una volta, com’è cambiata nel tempo qualcosa che vivi nella tua quotidianità pensando che sia sempre stata così. Penso allo scalo di Porta Romana, per esempio, ma è così per così tanti luoghi in Italia.

Nel tuo lavoro di libraia avrai conosciuto centinaia di scrittori. Ti sei ispirata a qualcuno nel tuo stile?
Non ho preso modelli particolari durante la stesura del libro, però ho cercato di giudicarlo come i libri che vendo: quelli che mi piacciono di più sono i libri che raccontano una bella storia, e che sono autentici. Ho cercato quindi di scrivere nel modo che sentivo più vicino a me, e ho fatto molta attenzione ai dialoghi, perché non risultassero finti.

Ora che sei anche un’autrice, vedi il tuo lavoro come libraia e i libri in modo diverso?
Assolutamente sì. Ho sempre amato e rispettato i libri perché sono il mio lavoro e perché dietro c’è il lavoro di tante altre persone. E sono sempre stata affascinata dal fatto che uno stesso libro, quando entra in contatto con persone diverse, diventa una storia diversa, più personale. Come Adele, che ha davvero letto Il giovane Holden mentre allattava in ospedale. Ma oggi, un libro esce ed è praticamente già un malato terminale. Deve fare il botto entro due mesi. Ma perché non posso permettere a qualcuno di scoprirlo sei mesi dopo l’uscita? Capita a volte che qualcuno entra in libreria chiedendomi dove siano le novità. Ma se tu non hai mai letto un libro, per te sarà sempre una novità! Almeno per quanto riguarda la narrativa. Questa esperienza mi ha fatto toccare con mano la fatica che sta dietro la produzione del libro, dall’autore, all’editor, alla revisione delle bozze, alla grafica di copertina. I librai hanno risposto molto positivamente, e sono felicissima e spaventata al tempo stesso.

Girerai per le librerie dei tuoi colleghi per promuovere La libreria delle storie sospese?
Sì, dal 20 maggio più o meno girerò l’Italia, e sono felice di conoscere nella vita reale tanti colleghi che conosco solo virtualmente. Sarà emozionante poter parlare di questa storia nelle loro librerie, a loro volta piene di altre storie.

Il giovane Holden – J. D. Salinger

UNA STAGIONE DA LEGGERE Rubrica dedicata alle stagioni nei libri, perché ogni storia ha la sua stagione.

di Elena Refraschini

INVERNO – Il giovane Holden di J. D. Salinger

Ad ogni modo, era dicembre e tutto quanto, e l’aria era fredda come i capezzoli di una strega, specie sulla cima di quel cretino d’un colle.

Era uno di quei pomeriggi pazzeschi, freddo da morire, senza sole né niente, e ti sentivi come se stessi svanendo ogni volta che attraversavi una strada.

La cosa buffa, però, è che mentre continuavo a raccontar balle pensavo a tutt’altro. Io abito a New York, e pensavo al laghetto di Central Park, vicino a Central Park South. Chi sa se quando arrivavo a casa l’avrei trovato gelato, mi domandavo, e se era gelato, dove andavano le anitre? Chi sa dove andavano le anitre quando il laghetto era tutto gelato e col ghiaccio sopra. Chi sa se qualcuno andava a prenderle con un camion per portarle allo zoo o vattelappesca dove. O se volavano via.

Il giovane Holden nella traduzione di Adriana Motti (da cui è tratto il breve stralcio) è stato letto da intere generazioni. Nel 2014 è uscita, sempre per Einaudi, la nuova traduzione di Matteo Colombo.

E comunque era dicembre e via dicendo, un freddo cane, specie in cima a quella stupida collina.

Era uno di quei pomeriggi assurdi, un freddo terrificante, senza sole né niente, e la sensazione di scomparire ce l’avevi ogni volta che attraversavi la strada.

Chissà dov’erano andate le anatre. Chissà dove andavano le anatre quando il lago gelava e si copriva di ghiaccio. Chissà se arrivava qualcuno in furgone che le caricava tutte quante per portarle in uno zoo o chissà dove. O se volavano via e basta.

anatra-holden

Matteo Colombo, piemontese di nascita ora di stanza a Berlino, è traduttore di scrittori come DeLillo, Eggers, Chabon, Sedaris, Palahniuk, il romanzo da Pulitzer Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan. In un’intervista commenta così la sua impresa: «Un libro che nel suo percorso editoriale italiano ha avuto un successo senza precedenti, grazie a una traduzione molto particolare: una traduzione che ha fatto innamorare diverse generazioni e che era molto creativa… a tratti anche parecchio libera. Quando lessi «Holden», ricordo questa sensazione: era come se ci fosse un libro, lì sotto, qualcosa che si muoveva, qualcosa di interessante, ma era come se la lingua mi impedisse di accedervi. Non mi parlava, non mi ci riconoscevo… mi sembrava bizzarra, ma senza un vero motivo. Quando l’ho letto in inglese, anni dopo, nel momento in cui dovevo tradurlo, sono rimasto a bocca aperta, perché sembra scritto non dico ieri, ma poco prima».

«Il giovane Holden ha sì una lingua gergale, ma non così tanto. Ha anche altre caratteristiche linguistiche, che sono un po’ più sottili… sono soprattutto ripetizioni. Quando si legge la traduzione di Adriana Motti, si ricava l’impressione che Holden abbia una lingua estremamente colorita, inventiva – e questo è vero, ma solo in parte. Però, se prendi l’originale, ti rendi conto che c’è dell’altro. Bisogna ricordare che Holden, quando racconta la sua storia, si trova in una clinica psichiatrica, anche se la cosa è solo accennata. E il fatto che non stia bene, nel corso di tutto il suo racconto, emerge con una certa chiarezza. A tratti ha dei veri e propri attacchi di panico. La nostra interpretazione – dico nostra perché mi sono consultato con molte persone – è che il suo linguaggio, il modo in cui parla, fosse strettamente collegato al suo disagio psicologico. Per cui: un sacco di parole ripetute, frasi spezzate… o quelle volte in cui Holden afferma una cosa per smentirla nella stessa frase».

(da mimimaetmoralia il 13 giugno 2014)

Un libro si pubblica. La parola a NN editore

COSA SI FA CON UN LIBRO? #Scatolalilla edition – Milano

di Elena Refraschini

Alberto Ibba ed Eugenia Dubini

Alberto Ibba ed Eugenia Dubini

Si è svolto il 14 gennaio il terzo incontro di Cosa si fa con un libro? #scatolalilla edition, ospitato come sempre nella libreria Il mio libro di Cristina di Canio. Questa volta abbiamo avuto il piacere di chiacchierare con l’editore milanese NN Editore, che quest’anno ha pubblicato autori importanti come Kent Haruf e ha fatto conoscere al pubblico italiano scrittori come Jenny Offill (qui la nostra recensione) e David James Poissant (qui la nostra recensione). Lasciamo quindi la parola a Eugenia Dubini e Alberto Ibba, tra i fondatori di NN.

VdS – Cominciamo dall’inizio della vostra storia: com’è iniziata NN editore?

Eugenia Dubini – Io e Alberto ci conosciamo da tantissimi anni, e diverse volte abbiamo pensato di creare una casa editrice insieme. Ci siamo conosciuti negli anni Novanta, quando lavoravamo alla Rivisteria di Bea Marin, mensile dedicato all’editoria e ai libri. C’era anche Edoardo Caizzi, che si occupa con noi oggi della produzione. Nella nostra squadra c’è anche Gaia Mazzolini, che aveva lavorato con me al Sole24Ore e con Alberto nell’agenzia letteraria che aveva creato dopo l’esperienza di Verdenero.

Alberto Ibba – Io venivo dall’esperienza di Verdenero, che per un periodo pensammo di trasformare in casa editrice. Poi ho creato un’agenzia letteraria (non mi sono fatto mancare nulla, insomma). Nel settembre 2013 però ci è sembrato ci fossero le condizioni giuste per creare la nostra casa editrice: i momenti di crisi offrono sempre nuove possibilità a chi ha delle idee, perché gli scenari cambiano. Siamo partiti ufficialmente nel 2014, e i primi libri sono usciti nel 2015. Non abbiamo fatto le cose di fretta, anzi, per un anno abbiamo letto e ci siamo confrontati tanto.

VdS – Siete una delle case editrici più attive online e offline, tra le più attente a una corretta e proficua gestione del rapporto con i vostri lettori. Potete dirci qualcosa in più a riguardo?

Alberto Ibba – Quello a cui abbiamo sempre tenuto è il rapporto con il lettore: un rapporto di trasparenza e accoglienza che mi ricorda quello delle cucine nei ristoranti: una volta erano un luogo da tenere nascosto, oggi invece si apprezza una cucina “a vista”, dove il cliente può ammirare il processo della creazione delle pietanze. Sia il nostro sito sia la nostra comunicazione online sono costruiti con quest’ottica. Vogliamo far sentire il lettore partecipe, senza mai prenderlo in giro. Per esempio, alla fiera di Torino abbiamo promosso il libro di Claire North incoraggiando i lettori a lasciare dei bigliettini per i sé stessi del futuro, premiando poi il più originale. Questo ovviamente ha portato più visite sia al sito sia ai canali social, oggi curati da Luca Pantarotto. Stesso discorso per il diario di Auro Ponchielli scritto da Alessandro Pozzetti, o la storia di Gemma, portata avanti dalla sua autrice Stefania Divertito.

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Eugenia Dubini – Ci succedono cose, lavorando coi libri, che contribuiscono alla vitalità degli stessi: per questo abbiamo scelto di pubblicare, per ogni titolo, anche il carteggio avvenuto tra me e il traduttore, o tra noi e l’autore, o il revisore. Anche l’idea del songbook fornisce un accesso in più al contenuto del libro, in un’ottica di assonanza tra consumi culturali. Nella stessa direzione vanno i nostri “bugiardini”, come li ha soprannominati una nota agente letteraria, una sorta di indicazione di lettore-tipo che pubblichiamo in quarta di copertina: “questo libro è per chi…”.

Anna Castellari

Anna Castellari

VdS – I vostri primi due titoli sono stati Benedizione di Kent Haruf e Sembrava una felicità di Jenny Offill. Come avete deciso che erano proprio questi i libri perfetti con cui iniziare quest’avventura editoriale?

Eugenia Dubini – Ho sempre letto i libri selezionati nei premi, e Benedizione era stato selezionato nella cinquina al Folio prize, che premia di solito libri molto belli. Ho subito contattato l’agente prima di partire per la fiera di Londra. Cercavamo testi sulla ricerca di identità nel contemporaneo, con una prima declinazione sui ruoli della vita quotidiana, su come le persone vestono con un po’ di fatica questi ruoli; testi che parlassero di identità, di senso di comunità: insomma, tutto questo e molto altro c’è in Haruf. A Londra, e chiunque ci sia stato sa di cosa parlo, siamo stati inondati di parole, un livello sonoro incredibile: ma leggevo Haruf prima di addormentarmi e attorno a me scompariva tutto il resto, e tornava il silenzio. Ci ha convinti subito. Abbiamo poi discusso anche con l’autore, recentemente scomparso, su come farlo uscire, perché in Italia era già uscito il primo di questa trilogia “slegata”, Benedizione era il terzo volume, che però abbiamo pubblicato per primo [il secondo, Canto della pianura, è uscito a novembre, mentre Crepuscolo uscirà a metà 2016].
Con la Offill è stato più semplice perché era recensita benissimo, Sembrava una felicità era stato eletto libro dell’anno in tanti Paesi e si inseriva perfettamente nel discorso che stavamo mettendo in piedi, trattando in modo originali temi quali l’identità femminile, le relazioni, la maternità. È costruito come un mosaico, come un puzzle che ti si compone davanti agli occhi. Abbiamo ricevuto una lettura bellissima di Gioia Guerzoni, traduttrice che lavorava con Teju Cole e che ci ha scritto una scheda di lettura meravigliosa con immagini, musiche e un voto che lasciava pochi dubbi: 10, un romanzo straordinario.

VdS – Il progetto della serie ViceVersa si è rivelato vincente presso critica e pubblico, visto il successo di libri come La resistenza del maschio di Elisabetta Bucciarelli e Panorama di Tommaso Pincio, che ha portato a casa il premio Sinbad. Potete raccontarci qualcosa in più?

Alberto Ibba – Già all’epoca di Verdenero c’era il progetto di chiamare a raccolta degli autori perché ragionassero su tematiche legate all’ecomafia in chiave narrativa. Quando abbiamo messo in piedi NN il concetto è stato simile, ma l’idea si è evoluta: si è deciso di mettere al centro il ruolo dello scrittore. Avendo favorito l’orizzontalità di relazioni e commistione di ruoli, non volevamo dare loro un compitino da svolgere, ma volevamo coinvolgere attivamente gli autori in una nostra riflessione. La serie è nata chiacchierando su cosa potesse interessarci in un dibattito legato alla contemporaneità e all’identità. La scelta è caduta sul tema dei vizi e delle virtù, perché quando c’è confusione i classici punti di riferimento bene/male cambiano. Tutto questo però non viene sviluppato in chiave didascalica, infatti leggendo i romanzi della serie ViceVersa non ci si accorge necessariamente che si parla di vizi e virtù. Abbiamo individuato Gian Luca Favetto come interlocutore ideale, e insieme abbiamo pensato agli scrittori da coinvolgere.

Elena Refraschini

Elena Refraschini

VdS – Questa volontà di trasparenza e di rapporto diretto con i lettori si traduce anche in un proficuo rapporto con le librerie. In questo anno di attività avete portato avanti diverse iniziative in questo senso, penso per esempio al tuo viaggio che ha toccato diverse librerie indipendenti lungo la penisola.

Alberto Ibba – Secondo me la crisi ha creato un soggetto libraio diverso, e ho voluto toccare questa cosa con mano andando di persona a conoscere i librai indipendenti dopo la nascita di NN. I librai che stanno aprendo queste librerie sono proprio il lettore a cui pensavamo: sono persone di cultura che non solo leggono, ma sono aggiornati sui serial, sanno cosa c’è a teatro, o danno consigli musicali. Questo è un ruolo che sta facendo crescere la cultura in Italia.

Eugenia Dubini – Tante volte andiamo nei gruppi di lettura. Elisabetta Bucciarelli è presentissima sui social ed è sempre felice di portare in giro, come lo chiama lei, “il suo maschio” (La resistenza del maschio). Durante una bellissima presentazione organizzata di recente alla libreria Verso, le persone erano fisicamente lì ma poi le domande e il dibattito si sono allargati in luoghi virtuali come facebook, twitter e periscope. È sempre presenza, che sia reale o virtuale importa poco.

VdS – Un’ultima domanda: potete darci qualche anticipazione sulle prossime uscite?

Eugenia Dubini – Il 18 febbraio uscirà I gatti non hanno nome di Rita Indiana, tradotto dalla storica traduttrice di letteratura ispanoamericana Vittoria Martinetto. Lo stesso giorno troverete in libreria anche Maestro Utrecht di Davide Longo, penultimo libro della serie ViceVersa. In futuro, uscirà Giacomo Sartori con Sagittarius A, e pubblicheremo i racconti inediti di Antonio Franchini. Verso la fine dell’anno verrà pubblicato anche l’ultimo di Kent Haruf, Le nostre anime di notte, una storia d’amore tra un uomo e una donna di settant’anni. Ne verrà tratto un film prodotto da Netflix e Robert Redford, che reciterà accanto a Jane Fonda.

Si conclude così la nostra serata dedicata a NN. Ringraziamo Eugenia e Alberto, il pubblico che ha partecipato con domande interessanti e, come sempre, Cristina Di Canio per l’ospitalità e per le belle foto. Alla prossima!

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