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Vanni Santoni, indomito intercettatore di voci letterarie

di Emanuela D’Alesssio

Conosciamo Vanni Santoni, giornalista e scrittore pubblicato, tra gli altri, da Feltrinelli, Mondadori, Laterza e Voland, come promotore di Torino una sega, l’iniziativa letteraria organizzata a Firenze nel 2011, il cui nome è un ironico e toscanissimo sberleffo all’alquanto paludato e istituzionale Salone del Libro. Santoni è anche l’ideatore, insieme a Gregorio Magini, del progetto SIC (Scrittura Industriale Collettiva), romanzo collettivo pubblicato da minimum fax nel 2013.
Dal 2013 è direttore della collana di narrativa per Tunué, giunta al suo ottavo titolo con Mescolo tutto, di Yasmin Incretolli, «testo viscerale, scritto in presa diretta» che rappresenta «un’Italia giunta al capolinea valoriale, però senza l’ombra di un giudizio o di una morale, e tantomeno di ironia».

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Ecco l’intervista.

Ho chiuso il libro di Yasmin Incretolli, Mescolo tutto, con una sensazione di frustrazione per non essere riuscita a raccogliere la sfida di questa ventiduenne che ha scelto di sorvolare sui contenuti e puntare tutto su un linguaggio “altro” per rivolgersi al lettore. Mi è sorto anche il dubbio che non fosse nemmeno il lettore il punto di arrivo dello sforzo narrativo dell’autrice. È questa la nuova frontiera della narrativa e a chi vorrebbe rivolgersi?
Non credo che un autore debba scrivere i propri libri pensando ai lettori. Ci deve pensare magari subito prima, certamente subito dopo (e l’editore, com’è ovvio, ci pensa sempre), ma la letteratura è altro e deve venire da esigenze più profonde.
Mescolo tutto è, appunto, un testo viscerale, scritto ‘‘in presa diretta’’, che sorge dall’incontro tra un travaglio esistenziale e una storia di letture bulimica e tutta particolare, possibile solo in giovane età, in cui romanzi adolescenziali classici si sono mescolati a testi sperimentali, e la lingua di opere ‘‘alte’’ si è ibridata con quella del rap italiano più popolare ascoltato anche dalla protagonista dello stesso romanzo. Non credo che Incretolli abbia ‘‘sorvolato sui contenuti’’, a meno che tu intenda la trama, la quale comunque, nella sua deliberata esilità, non è banale nel ribaltare gli stilemi classici della letteratura adolescenziale per innescare poi una seconda parte in stile picaresco: a livello di contenuti mi pare ci sia molto, anzitutto una rappresentazione della condizione della donna nell’Italia di oggi che dice più di molta sociologia da quotidiano.

Che cosa hai trovato di convincente e vincente nel testo?
Ho scoperto Mescolo tutto grazie agli estratti dai finalisti del Premio Calvino, che ogni anno vengono pubblicati sull’Indice dei libri del mese. Il pur breve testo di Incretolli spiccava per l’inventività della lingua, per l’inedita costruzione della frase ma anche, più profondamente, per una certa consapevolezza – o meglio, vista l’inesperienza, un intuito – strutturale che non si vede di solito negli esordienti.
Leggendo poi il manoscritto, ho notato altri aspetti di valore anche a livello, appunto, tematico: su tutto il disegno di un’Italia giunta al capolinea valoriale, rappresentato però senza l’ombra di un giudizio o di una morale, e tantomeno di ironia. Semplicemente era il mondo che l’autrice aveva visto e vissuto: l’unico mondo possibile. C’era un candore totale, unito però a una già discretamente sviluppata capacità per l’organizzazione dei materiali narrativi.

Come è stato il lavoro di editing? A parte il titolo, che da Ultrantropo(rno)morfismo è diventato Mescolo tutto, quali altre trasformazioni sono state necessarie, se ce ne sono state?
Il testo grezzo richiedeva un paio di interventi di peso, che hanno impegnato l’autrice per qualche mese. Innanzi tutto, la seconda metà del romanzo era scarna rispetto alla prima, quindi ho chiesto a Incretolli di ampliarla con nuove scene, che dessero più respiro al viaggio di Maria e alla decisiva parte della festa in villa. L’altra questione da risolvere era l’organizzazione dei ‘‘corsivi’’: il romanzo è strutturato, oltre che in due parti più un intermezzo, su una doppia linea temporale, quella principale e una seconda, costituita da piccole scene in flashback e in corsivo riguardanti la storia tra Maria e il compagno di scuola Chus. Queste parti non avevano ancora trovato l’ordine più efficace. Così Yasmin le ha riorganizzate fino a trovare la linea giusta (il che ha incluso una brillante intuizione sulla collocazione di quello che è ora l’ultimo di essi) e in alcuni casi, per far funzionare il ‘‘flusso’’, ha dovuto farne fuori alcuni e scriverne di nuovi.
Svolto questo compito, siamo passati all’editing più minuto, dove ci siamo concentrati sullo ‘‘scaricare’’ alcuni passaggi in cui la lingua iperbarocca della protagonista non era necessaria, passaggi che anzi rischiavano di fare ombra a quelli in cui le circonvoluzioni e i barocchismi erano cruciali.

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Di Yasmin Incretolli si sa che ha ventidue anni, vive a Roma e poco altro. Molti autori si sottraggono, anche un po’ sdegnati, alla richiesta di parlare di sé. Invece per me è importante ricomporre il profilo di uno scrittore, oltre che dalle sue opere anche dalla vita reale. Lo chiedo a te, pertanto: chi è Yasmin Incretolli?
Personalmente tendo a concordare con gli scrittori che si sottraggono a tali richieste quando scollegate dal lavoro letterario (diverso sarebbe il caso di uno scrittore che, avendo vissuto eventi di particolare rilievo in senso assoluto, ne ha poi scritto), poiché credo che sia opportuno valutare esclusivamente i libri. Va da sé poi che, vista la giovane età, la biografia di Incretolli è quella di una qualunque ragazza di vent’anni. È cresciuta a Roma, ha fatto il liceo artistico, ora è iscritta a Lettere.

Mescolo tutto è l’ottavo titolo della fortunata collana Romanzi di Tunué che stai curando con grande passione e notevole successo. Penso soltanto a Iacopo Barison e Luciano Funetta, entrambi esordienti se non sbaglio, selezionati come finalisti alle ultime due edizioni dello Strega. Ma anche di tutti gli altri si è parlato moltissimo. Che cosa ti aspetti dal libro della Incretolli?
Finora, al di là degli exploit davvero mirabili dei due autori che citi, coi loro Stalin+Bianca e Dalle rovine, tutti i nostri titoli hanno funzionato molto bene, nessuno ha ottenuto meno di cinquanta recensioni e quasi tutti sono andati in ristampa, per non parlare dell’entusiasmo dei lettori espresso sui social e alle presentazioni. Da Mescolo tutto mi aspettavo, e mi aspetto, quello che sta già accadendo, ovvero che venga letto e che se ne scriva molto.

Ogni titolo della collana è un prodotto a sé stante, con temi e scritture differenti, una raccolta di generi, sperimentazioni stilistiche e semantiche, prove d’autore ostiche, talvolta irriverenti e sprezzanti, senz’altro non rivolte al lettore medio italiano (ammesso che ne esista uno). Allora perché destano interesse conquistando schiere sempre più nutrite e fedeli di lettori?
La sfida dei Romanzi Tunué, che oggi possiamo dire vinta (ma ciò non toglie che continuare così e riuscire a rilanciare sarà comunque difficile), era scagliata anzitutto a questa idea di ‘‘lettore medio”, e di inseguimento del medesimo, che ho sempre ritenuto fallace. Può avere senso per una major, che ogni anno deve raggiungere numeri che sarebbero molto difficili da ottenere facendo solo fiction letteraria ricercata, ma fin dalla progettazione della collana avevo chiaro che, in un contesto che per cercare di sedurre il fantomatico ‘‘lettore da un libro l’anno’’ stava trascurando da molto tempo il lettore che invece di libri l’anno ne legge trenta o cinquanta, era necessario tornare a rivolgersi proprio a costui. Il primo passo per farlo era rendere valore all’idea di collana, e questo, al di là di altre questioni comunque importantissime come l’identità grafica e la scelta dei primi titoli, lo si fa stabilendo un patto col lettore. Il lettore deve arrivare a fidarsi, a sapere che quando compra un titolo di quella collana, anche senza saperne niente, non gli verrà mai data la ‘‘sòla’’. Di conseguenza quello che ho cercato fin dall’inizio di dire con questa collana, e che continuo a dire, è che pubblicheremo sempre e solo i testi che ci sono sembrati migliori da un punto di vista letterario. Niente di più semplice. Il paradosso è magari il fatto che oggi sembra quasi un’affermazione radicale. Corollario a questo patto è la fiducia da dare al lettore. Ricordo che al lancio dei primi due titoli un editor di una grande casa editrice disse che le nostre bandelle erano troppo laconiche, che dovevo dire di più sulla trama, ‘‘spiegare’’ maggiormente il romanzo. Ovviamente non gli diedi retta: credo anzi che sottovalutare il lettore sia tra i principali errori commessi da molte case editrici italiane in questi anni. I lettori forti sono svegli, hanno gusti precisi e strutturati, non si spaventano facilmente, e soprattutto non amano blandizie, didascalicità e specchietti per le allodole.

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Mi vengono in mente libri come Settanta acrilico, trenta lana di Viola Di Grado, Zoo col semaforo di Paolo Piccirillo, Un giorno per disfare di Raffaele Riba, Dalle rovine di Luciano Funetta, Il grande animale di Gabriele Di Fronzo, e non dimentichiamoci dell’esordio di Alcide Pierantozzi, Uno indiviso, che proprio Tunué ha trasformato in graphic novel nel 2014. Ad accomunarli sono la giovanissima età degli autori, l’indipendenza degli editori, scritture scomode e difficili. Mi ricollego alla prima domanda: è in atto una trasformazione della letteratura contemporanea di cui questi giovani scrittori sono le avanguardie?
Sicuramente si può isolare un filone della ‘‘giovane’’ narrativa italiana contemporanea che, nell’ambito di un momento molto positivo in termini generali, va in questa direzione. Ne ha scritto, in un eccellente pezzo per Rivista Studio, proprio lo stesso Alcide Pierantozzi. L’indipendenza degli editori delle opere che citi, però, indica solo che le major, oggi, osano molto meno, e prima di pubblicare un esordio atipico ci pensano molto di più – a volte troppo. O forse, più semplicemente, che dopo l’esplosione della ‘‘bolla degli esordienti’’, la parte ‘‘ricerca e sviluppo’’ dell’editoria è tornata, come del resto accadeva prima, a essere appannaggio delle piccole e indipendenti.

Prima di essere editor di Tunué sei scrittore e giornalista. Alcide Pierantozzi afferma che quello che hai scritto «la dice lunga sul perché hai trovato spazio e autonomia dentro una factory di fumetti e graphic novel» come la piccola casa editrice di Latina.  Hai esordito con Personaggi precari (RGB, ora Voland), hai ideato il collettivo di 115 autori SIC e coordinato la stesura di un romanzo storico, In territorio nemico, uscito nel 2013 da minimum fax. Quali sono i collegamenti tra Tunué e la “tua vita precedente”?
Non parlerei di ‘‘vita precedente’’, tutte le mie attività editoriali sono ben collegate al mio mestiere di scrittore. È vero che, al di là dei miei romanzi individuali, che rimangono la linea principale del mio lavoro, ho sempre inteso la letteratura come un fatto sociale: mi sono formato su una rivista autoprodotta che faceva mille riunioni e andava in giro a promuoversi, quando la rivista ha terminato le pubblicazioni ci siamo inventati il progetto Scrittura Industriale Collettiva, e che oltre ai quotidiani ho sempre collaborato con blog letterari come Nazione Indiana, minima&moralia, Carmilla, Le parole e le cose proprio per continuare a stare in rete con altri autori, critici e lettori. Credo dunque che l’attività di direzione della collana di narrativa di Tunué sia un passaggio naturale di un percorso di continua interazione con gruppi di persone che leggono e scrivono.

logo-tunucCon una collana chiamata Romanzi credo sia improbabile imbatterci nel genere racconti tra i prossimi titoli di Tunué. Perché questa scelta così netta ed esclusiva?
La scelta di fare solo romanzi, e di dirlo chiaramente fin dal titolo della collana, deriva dalla succitata necessità di darsi un’identità forte e immediatamente riconoscibile.
È chiaro poi che alcune scelte, anche quelle poi rivelatesi vincenti, si coagulano in realtà in base ad esigenze anche strettamente pratiche: facciamo romanzi e non racconti anche perché essendo io romanziere, sono più competente nell’editing di testi in forma lunga, e mi interessa/riesce di più aiutare scrittori di romanzi a trovare la propria voce; facciamo romanzi brevi perché, per garantire una forte ‘‘accessibilità’’ anche economica ai nostri libri, oltre a distribuirli in Creative Commons, volevamo tenere un prezzo di copertina molto sotto la media, e la paginazione è la cosa che influenza di più il costo finale; ci siamo specializzati negli esordi perché il caso ha voluto che i due migliori titoli trovati al momento della preparazione della collana, e quindi le nostre prime due uscite, che molto pesano nel caratterizzare poi il progetto, erano esordi; anche la nostra veste grafica, che tanti consensi ha raccolto, derivava anzitutto da una necessità pratica: quella di differenziare in modo netto la narrativa Tunué dal prodotto principale della casa editrice, i fumetti.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Sto leggendo il terzo volume della trilogia-capolavoro Abbacinante, di Mircea Cărtărescu, L’ala destra; Sillabari di Goffredo Parise; I fondamenti del disegno di John Ruskin. Sto rileggendo Proust (in questo momento: La prigionera) dato che sto rientrando in una fase di scrittura intensa ed è sempre il miglior modo per accordare la prosa.

 

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La scrittura carnale di Mescolo tutto – Yasmin Incretolli

di Emanuela D’Alessio

Di Mescolo tutto, libro di esordio di Yasmin Incretolli, il nuovo “gioiello della corona” di Tunué (per la collana Romanzi curata da Vanni Santoni), ne hanno parlato così al Premio Calvino, conferendogli nel 2015 una menzione speciale: «Romanzo fieramente “ultrasperimentale”, che, in una sorta di esibita estetica del disagio e della sgradevolezza, persegue l’estremo. Gli esiti sovente inediti ed efficaci dell’ardua scelta stilistica e l’intensità della passione adolescenziale narrata rendono il testo della giovanissima autrice un’interessante scommessa».

Mescolo_tutto_CoverChiudendo il libro, dopo una lettura defatigante e impervia, mi sono chiesta se la scommessa sia stata vinta e da chi.
Non ho alcun dubbio sulla vittoria dell’autrice, non foss’altro perché Yasmine Incretolli è riuscita a concretizzare, a soli ventidue anni, un progetto di scrittura ardito e sprezzante, stuzzicando l’attenzione dell’editor Vanni Santoni, abile e indomito intercettatore di nuove “voci”.
Sono meno convinta, invece, che la scommessa con il lettore sia stata vinta pienamente. Io, ad esempio, ho trovato inutilmente spericolata la ricerca estrema di un’altra lingua per raccontare una storia, di per sé poco originale, sull’adolescenza e sul suo disperdersi tra dolore, automutilazioni, sesso hard e anfetamine.
La protagonista Maria ha diciannove anni, si procura ferite su tutto il corpo, non ha un padre e sua madre alterna collassi etilici a relazioni sessuali promiscue. Dopo la morte della nonna, unico riferimento d’amore per la ragazza, l’autolesionismo fisico e morale si intensifica. Maria è alla disperata ricerca di accettazione, accoglienza, protezione, amore e crede di trovarli in Chus, compagno di classe, violento e dai gusti sessuali sconcertanti.
Tra ferite autoinflitte, rapporti estremi, fughe, sballi da anfetamine ed alcool, delusione per l’amore negato, Maria attraversa il tunnel degli orrori che può essere l’adolescenza e ne esce (forse) chiedendosi se il desiderio di morire sancisca il passaggio all’età adulta.

Non è sulla storia, evidentemente, che Incretolli ha scommesso, bensì sulla cifra stilistica scelta per raccontarla, costruita con notevole impegno e risultati inediti, eliminando articoli e coniugazioni, mescolando gerghi generazionali e parole dotte, attingendo a una semantica bizzarra o inesistente, sorvolando sulla sintassi, costringendo il lettore a navigare a vista, a intuire piuttosto che a comprendere, ad affidarsi al ritmo e alla melodia di certe frasi o intere pagine, indipendentemente dalle parole e dal loro significato. Al punto da sospettare che ci si trovi di fronte a una provocazione irriverente ed eversiva dei canoni tradizionali di comunicazione e narrazione solo per dimostrare quanto la generazione dei millenials sia incomprensibile e incompresa dai suoi referenti adulti, o presunti tali.

Volendo però accantonare sgradevolezza e frustrazione, abbandonare una chiave di lettura sull’ennesima rappresentazione, per quanto audace, dell’usurato scontro tra generazioni, si riesce ad apprezzare la caratteristica “iper” o “ultra” di questo libro, sia della sua architettura semantica: barocca, contemporanea, astratta, popolare, sia della declinazione narrativa (al di là della trama) di temi quali la solitudine, il dolore e  il disagio/degrado contemporanei: autolesionismo, sesso estremo, violenza psicologica e fisica, eccessi alcolici e di sostanze stupefacenti. Un “iper” o “ultra” per celare o anche liberare quell’urgenza espressiva da cui la Incretolli sembra essere incalzata.

Ho diciannove anni e dieci mesi nel giorno in cui avvio la stesura di Mescolo tutto. Nei momenti di realtà più concentrata, la pulsione nel ferirmi oltrepassava il limite, diventava acme d’aprirsi lo stomaco, bruciare le vene, bere candeggina. Così ho valutato potesse essere distrazione dall’inclemente nevrosi la presente scrittura, stillata da polpastrelli provetti divaricatori d’interstizi muliebri e mascolini. Soffro di sindrome da autolesionismo ripetuto dall’età di quindici anni e ho cicatrici su cosce, avambracci, polsi, schiena, fianchi soprattutto: ovunque canali nervosi digrignanti. Cicatrici a sconnettermi. Cazzo, a sconnettermi! Mi dicevano bizzarra, eclettica; mi dicono: schizofrenica, puttana. M’associo io stessa ormai a creatura ibrida. Non umana: mescolata, appunto. Tra pornosituazioni sadomasochistiche, perverse autocostruzioni ad appagare psicologie empie di nullità mascoline e pulsioni incostringibili all’immolazione, affiora tenerezza in forma fetale, rigurgitata come feci in purea. Il ricordo dell’aborto di un amore tra adolescenti accidiosi, speziati nel debosciato rimesto e nell’incontrollata amplificazione d’un trastullo, in avviso trillante da vocabolario in squilibrio semantico. Mi chiamo Maria. Questa è l’ultima stagione della mia adolescenza.

Comincia così Mescolo tutto (che in origine era Ultrantropo(rno)morfismo) e immediatamente si viene trascinati in una dimensione ibrida della realtà.
Subito dopo entra in scena Chus, la cui voce è affidata al corsivo, soluzione stilistica che amplifica i dislivelli temporali e spaziali della narrazione.

Yasmin Incretolli

Yasmin Incretolli

Chus dice: «Una volta ho visto una, che troia proprio, si metteva dietro un paio di cazzi gonfiabili invasellinati a modo, ma il più grosso mica ha retto la pressione dello sfintere, è scoppiato e quella si è messa a gridare e piangere mentre le chiappe facevano tutto uno scuotimento molleggiante impressionante, porco. poi è crollata tette e faccia, col culo viola lasciato per aria, dal male non riusciva a ‘bassarlo di più’. Pareva uno avesse provato a smutandarla dopo averle scalciato il sedere forte d’ammazzarla…
…però dopo ci vediamo e lo facciamo pure noi.  Il calcio, la smutandata e tutto. Se hai da ridire t’ammazzo pure, va bene?», durante l’ora di italiano, per nulla preoccupato dall’udito teso della corona di coetanei, di fatto esortati a ridacchiare e commentarmi. Subito mi si bagna la stoffa merlettata sotto il calzone stroppato. Da capirlo, questo fenomeno di tutta me smossa appena scatta l’intimidazione e sento una tacca di bersaglio sdrumarmi bene il cranio.

Ed ecco la madre di Maria.

Sfilo dita unte da busta di patatine. Le briciole salate frizzano un poco. Strilli di godimento da camera adiacente. La voce appartiene a mia madre: decede ogni sera e notte, percossa da colpi pelvici di maschi indistinti. Afferro ciocche; capelli corvini arricciati fra le labbra, districamento psicotico fino a indolenzire un polso svenato e coronato di ciondolii scrostanti ferite.[…] Incolpo lo stress da teenager all’ultimo anno di liceo. La vita è bellissima, ragazza sorridi. Com’è dissetante mentirsi, persuadersi fino a narcotizzarsi. […] Le grida, le urla; lei che ansima, poi una pausa. Insulti, sputi, schiocchi di palmi sudati al rintocco della carne nuda.
«Ti piace, troia?» Chiede chiunque.
«Ti amo», ribatte madre.

Si prosegue così fino alla fine, scoprendo che all’accelerazione del vissuto di Maria (una sorta di discesa negli inferi della nostra contemporaneità) corrisponde un avvitamento semantico che lascia senza respiro.

Rampicarsi aracnide su pareti tarpate d’appigli, mentre il vespro filastrocca mutismo decadente e c’è margine marmoreo sotto talloni senza calzature e un placido lembo acquitrinoso che ricorda gli occhi dello stronzo, se appena sporgo la nuca. Anni di coerente equilibrio nel detrarsi dalla mercificazione d’essenza connaturale. Palloncini d’elio smagriscono inglobati da batuffoli pitturati. Roma durante ore stokeriane ha cipria rilucente, subiscilo il Tevere implorare un abbraccio. La metropoli ha occhi supplenti labbra e rimira triturandoti. Librerò in dipinti senza sbaffi cerandomi sotto veste tramata dal medesimo incantesimo verseggiato durante proiezione d’archi in luce di farraginoso multitonale. Se l’ammetto d’essere stata cucciola e indifesa come voi? Se l’ammetto di non aver mutato tale setosa condizione? Che l’ostilità incompresa tramuta quest’abnorme creatura in ragazzina d’età quattro, spoglia d’un involucro sufficientemente difensivo. Ha speziata stortura la digestione rimessa. Disputa vivisezione mai arrendevole e constata tempo ubicato nel raggrumare saldatura mentale. Il dubbio è sussistito, se anziché al supplizio, fossi predestinata alla guerriglia. È intrasmutabile l’anguillesco a sfumarmi. Ciondolo inframmezzata da esiziale ascosto e sovversivo corruccio. Ottimo elargirsi al caso. C’è nitore cremoso sparso dall’evoluto abissale sferoide vigente dalla genesi cosmica. Sarò apparenza impura, eppure non è abitudine nel consueto denocciolare lo stupefacente. […] Ho diciannove anni e voglio morire. È questo, diventare adulti?

È con queste parole che Yasmine Incretolli si congeda dal lettore. Mi sono sentita, lo confesso, un po’ inadeguata a questo modo di fare letteratura, ma anche molto curiosa di leggere una seconda prova, sperando, chissà, in tonalità più seducenti.

Nota sull’autore
Yasmin Incretolli nasce a Roma nel 1994, cresce in una famiglia matriarcale e inizia a scrivere dall’infanzia racconti e novelle per poi arrivare a Ultra. Nell’ottobre 2014, per richiamare l’attenzione degli editori, pratica lo streaking in via Veneto, diventando un caso virale sulle piattaforme social. Diplomata al liceo artistico, frequenta la facoltà di Lettere e Filosofa all’Università La Sapienza di Roma. Mescolo tutto è il suo primo romanzo.

Su Satisfaction si descrive così:
«Sono cresciuta a dieci minuti dalla top ten romana di Tripadvisor. Però per riposarmi favorivo posti di nicchia, chicche semisconosciute dove stare tranquilla. Ci raccoglievo ispirazioni speciali che maturavo su file. Il museo Hendrik Christian Andersen, il Giardino del Quirinale, il Roseto comunale, il Giardino degli Aranci. Altri posti che mi concentrano sono la stazione Termini, e piazza Vittorio Emanuele. Qui c’è una bakery giapponese dove ordinavo il bubble tea alla mela e uno spicchio di charlotte alle fragole. C’ho conosciuto la ragazza coi capelli rosa che nel mio romanzo avrebbe avuto il nome della torta che sbocconcellava – Margherita.
La bici l’ho comprata l’altro ieri, praticamente. In sella, finora, ho visto solo un uomo che falciava il prato del suo giardino, la coccinella che m’è saltata sul dorso della mano e tanto asfalto. Non ho la patente, l’auto la guida il mio ragazzo, e quando viaggiamo, solitamente, guardo lui mica altro.
Il rumore cittadino che m’è particolarmente caro è quello del mercato rionale davanti le finestre a casa di mia nonna. Della campagna, invece, apprezzo il sottofondo leggero del vento contro le foglie.
No, non fumo. E bevo quando mi va. Mi piace bere, e leggere nei bar. Che sono fichissimi, ma frequentati da troppo uomini, peccato: una si sente fuori luogo e non è giusto. Il peso non lo dico perché credo sia irrilevante in una persona.
Come ho già detto scrivo quando ho tempo, in questo momento ho tempo esclusivamente di mattina, e dovendo scegliere tra le categorie che mi metti a disposizione, probabilmente ho una scrittura di tipo carnale».

Mescolo tutto
Yasmine Incretolli
Tunué, 2016
pp. 154, € 9,90

A pietre rovesciate – Mauro Tetti

di Anna Castellari

A pietre rovesciate, più che un romanzo, è un viaggio nella storia ancestrale che si mescola a quella di un bambino, di un adolescente, di un ragazzo, di un adulto, e a quella di Giana “l’innamorata mia”.

La voce narrante è esattamente quella di un cantastorie, il tono favolistico riecheggia nella mente del lettore ben oltre il momento della lettura. Il suo ritmo incessante e inesorabile ricorda quello dei racconti orali, e infatti il narratore è nonna Dora, come nella migliore tradizione fiabesca.

Ciò che colpisce in questo libro è il continuo riassemblarsi delle storie antiche con quelle che vivono i due protagonisti, che abitano un luogo dal nome tanto mitico quanto evocativo: Nur, con evidenti relazioni con i nuraghi.

Il vero narratore dice ma non dice, o meglio: dice attraverso la voce di storie dal colore locale che diventano storie universali, comuni a tutti gli uomini. Il romanzo esce quindi dal semplice riportare le storie locali per diventare un veicolo consapevole del concetto che le fiabe, le più crudeli – perché le vere fiabe sono sempre crudeli, se si vuole considerarle tali, mai edulcorate – sono quelle che raccontano la verità.

Nell’introduzione alle sue Fiabe italiane, anche Calvino sostiene la verità delle fiabe. Sarebbero un «catalogo dei destini che possono darsi ad un uomo e ad una donna» durante la loro vita, «dalla nascita che sovente porta con sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano». Pur volendo classificare le fiabe, differenziarle tra loro per tipo (fiaba popolare, classica, d’autore, contemporanea) a fini meramente pratici e utili a chi le studia, la caratteristica di verità è comune a tutte, che vi siano o no elementi di fantasia, mitologici o leggendari.

E questo libro ne è la chiara dimostrazione. La crudeltà arriva dall’osservazione quasi di sguincio delle caratteristiche dell’altra protagonista, Giana, che da bambina innocente, in un paese isolato e degradato diventa una donna vittima di soprusi e violenze, sovrappeso, alcolizzata, della quale intuiamo il destino terribile a cui sta andando incontro.

Tra gli elementi stilistici possiamo reperire una certa musicalità delle parole, nella quale si può leggere però, sempre, il filo rosso della storia, senza mai perderlo realmente di vista. Non c’è vaghezza, c’è solo lo sguardo sul mondo con gli occhiali dell’infanzia, forse di un bambino che si rifugia nelle storie della storia del mondo per sfuggire a quella del presente. Ma in fondo, rifugiarsi in quelle storie non è una vera fuga, semmai è un riconoscimento delle proprie vicende in quelle di altri, è un modo di sentirsi meno solo.

Che è il fine ultimo, poi, di tutte le fiabe, che siano destinate ad adulti o a bambini: affrontare dolore, paura, risentimento attraverso una narrazione, per non sentirsi da soli con i propri momenti di difficoltà.

A-PIETRE-ROVESCIATENota sull’autore
Mauro Tetti. È nato nel 1986 e vive a Cagliari. Ha pubblicato racconti su FlaneríInchiostro e altre riviste. Nel 2011 ha vinto il Premio Masala con il monologo Adynaton. A pietre rovesciate, vincitore del Premio Gramsci per inediti, è il suo primo romanzo.

A pietre rovesciate Mauro Tetti Tunué 2016 pp. 96, €9,90.

Luciano Funetta, scrittore per caso

di Emanuela D’Alessio

Intervista a Luciano Funetta, autore di Dalle rovine, romanzo di esordio nella collana Romanzi di Tunué, curata da Vanni Santoni.

«Ogni stanza aveva la sua finestra; l’unico ambiente cieco era la stanza delle teche, dove Rivera teneva la collezione. Anche quando se ne stava tranquillo in soggiorno a non fare niente, sapeva che dietro la porta della stanza c’erano trenta creature la cui sopravvivenza dipendeva da lui. Aveva cominciato a collezionarle quindici anni prima e ormai occupavano gran parte delle sue giornate. Le catturava in campagna, le ordinava nei negozi di animali esotici oppure se le procurava al mercato nero, tramite individui che all’inizio lo avevano spaventato ma che ben presto erano diventati i suoi unici contatti con l’esterno, fatta eccezione per la corrispondenza che Rivera teneva con altri collezionisti, uomini e donne che non aveva mai visto, ma che gli sembrava di conoscere dall’infanzia».

Rivera è il protagonista di Dalle rovine, stupefacente esordio di Luciano Funetta (Tunuè, 2015). È un collezionista di serpenti rari e velenosi, custoditi in teche di vetro in un appartamento «al terzo piano di uno dei condomini semicircolari della periferia nord» di Fortezza, la città immaginaria che «la sera si rintanava in se stessa, i portoni inghiottivano le sagome di quelli che tornavano a casa e le finestre si illuminavano per poi tornare buie nel giro di pochi secondi, come se la permanenza di quelle persone nei loro appartamenti fosse limitata a un brevissimo arco di tempo in seguito al quale c’era solo il nulla».
Rivera rinuncia al lavoro e alla famiglia per dedicarsi con la mente e con il corpo (è proprio il caso di dirlo) ai serpenti. Una passione che diventa ossessione e perversione, che lo sprofonda nell’abisso di una solitudine disperata, che lo accompagna sulla china di un nulla popolato da ombre e fantasmi, uomini e donne ai margini del tempo e della realtà e della loro stessa vita.

Dalle rovine è un romanzo stupefacente perché fin dalle prime pagine si avverte la potenza di una storia ipnotica, straordinaria nel senso letterale di fuori dall’ordinario. Una storia audace, raccapricciante e commovente. Una storia dove sono caduta dentro senza volerlo, perché i serpenti mi suscitano una certa repulsione e la pornografia, per quanto artistica, mi lascia un po’ perplessa. Ci sono rimasta fino alla fine, trattenuta da un ritmo incalzante, da una tensione sottile e costante, da una scrittura raffinata ed evocativa. Una storia da cui sono uscita con sollievo, come quando ci si risveglia finalmente da un incubo, ma anche con il desiderio di parlare con l’autore, di chiedergli: perché?

Ecco qualche domanda a Luciano Funetta.

Luciano Funetta

Da Gioia del Colle a Roma, passando per Bologna. Che cosa ti è successo strada facendo in questi ultimi trent’anni?
Un po’ di cose, ma nulla che credo possa interessare davvero i lettori di Via dei Serpenti. Ho camminato e letto molto, studiato quel che bastava, viaggiato poco. In compenso ho portato a buon fine un numero spaventoso di traslochi (uno dei quali a piedi, in una Bologna innevata e silenziosa); ho comprato molti libri, il che mi fa stare a posto con la coscienza per quelli che ho rubato. Ho imparato a cucinare discretamente, mi sono sposato, ho scritto nonostante qualsiasi condizione climatica, economica, sentimentale, familiare, geopolitica, astrologica.

Sei uno scrittore per vocazione, necessità o casualità?
Casualità, senza dubbio.

Da una parte le scuole di scrittura con costi di iscrizione anche elevati, dall’altra i forzati del self publishing, sempre più numerosi e incoraggiati dalla prospettiva di celebrità a costo zero e senza intermediari. In mezzo ci sono gli agenti letterari, ad esempio Oblique Studio che ti rappresenta, e in un angolo le centinaia di manoscritti nelle case editrici con l’unica prospettiva di prendere polvere. Che cosa c’è di giusto e sbagliato, necessario e superfluo in questo scenario?
Prima di conoscere Leonardo Luccone di Oblique ho inviato anch’io un paio manoscritti a qualche casa editrice. Immagino che quei manoscritti abbiano passato un po’ di tempo su una scrivania o in un armadio di ferro, poi siano stati trasferiti in una cantina o direttamente in un cassonetto della spazzatura. In tutto questo, in questo mistero avventuroso dei manoscritti che ogni giorno vengono spediti in ogni forma possibile, non vedo nulla di sbagliato e soprattutto nulla di superfluo. In quanto alle scuole di scrittura, non ne ho mai frequentata una. Di preciso non so neanche troppo bene di cosa si tratti. Detto questo, grazie al cielo il mio lavoro non è l’editoria e posso permettermi di guardare a tutto con un certo distacco, e vedere in lontananza pochi cavalieri senza macchia e senza fortuna, un numero spaventoso di giovani scudieri che portano in spalla le armi altrui, uno o due re, qualche amazzone, un esercito di mercanti e un’orda di mendicanti senza dignità, che sarebbero gli scrittori. C’è da dire che ci sono alcuni scrittori che in realtà sono cavalieri, scrittrici che sono amazzoni ed editori che sono ladri. Tutta questa confusione mi spingerà a restare sempre dalla parte dei lettori.

Illustrazione di Maurizio L'Altrella WATT 0

Illustrazione di Maurizio L’Altrella WATT 0

Dal racconto Noi stessi abbiamo dimenticato, pubblicato su «Watt», al romanzo Dalle rovine, uscito per Tunué, il percorso sembra lungo e forse accidentato. Come è nato il rapporto con l’editore, e che cosa significa esordire con una piccola casa editrice, per quanto agguerrita e intraprendente come Tunué?
Tunué è arrivata quando ormai si pensava che il romanzo non sarebbe più stato pubblicato. I miei rapporti e scambi sono stati, fino a ora, soprattutto con Vanni Santoni, editor della collana Romanzi, e Claudia Papaleo, ufficio stampa della narrativa. Entrambi hanno fatto un lavoro meraviglioso. In generale tutta la casa editrice mi sembra proceda in una direzione, con consapevolezza, e questo per un editore è solo un bene. Quando si pubblica con un piccolo editore agguerrito e intraprendente, bisogna adeguarsi ed essere agguerriti e intraprendenti per fare in modo che il libro abbia qualche possibilità.

Tra i primi aggettivi che mi sono venuti in mente leggendo Dalle rovine c’è ‘straordinario’, nel senso letterale di fuori dall’ordinario.  Così mi è parsa, innanzitutto, la scelta della voce narrante, un “noi” che lascia perplessi e un po’ inquieti. Si percorre l’intero libro rimbalzando da una domanda all’altra: sono fantasmi o demoni, voci interiori? Perché seguono il protagonista Rivera, osservandone ogni gesto senza mai cedere ad alcuna empatia? Tra “loro” e Rivera non sembra esserci alcuna reciproca consapevolezza. Forse puoi offrici una chiave di lettura più precisa?
No, non posso. Posso dire che non sono d’accordo sul fatto che tra Rivera e i narratori non vi sia consapevolezza reciproca. Penso anche di aver lasciato tracce del fatto che tra l’uomo e i suoi inseguitori/custodi esista un rapporto, una relazione di tipo spettrale, qualcosa che non ha corrispettivi nella gamma dei sentimenti umani, come un’accettazione naturale della sovrapposizione tra due mondi. L’empatia da parte dei narratori esiste e viene mostrata, anche dichiarata, a volte. Quello che è incomprensibile – e che per me è stato incomprensibile mentre scrivevo – è come questi fantasmi non umani possano esistere senza essere percepiti da nessuno se non da Rivera. In realtà tutta la vicenda del romanzo si svolge in luoghi di confine o in luoghi estremi dell’immaginazione e della fascinazione. Siamo nel regno che sta tra l’ultimo respiro e la morte, l’ultimo istante di percezione, la frazione inenarrabile. Tutto può avvenire in quel momento, anche che un coro greco prenda la parola e si metta a raccontare di un uomo chiamato Rivera.

Procedendo per aggettivi, la tua storia è anche (per me s’intende), audace, raccapricciante e commovente. Per te invece com’è e perché?
Scriverla è stato commovente anche per me. Nonostante l’ossessione, la fatica, la certezza di essere perseguitato dai fantasmi dei personaggi e da decine di altri fantasmi sconosciuti, nonostante l’inquietudine, direi che la commozione è rimasta sempre il sentimento più insistente, insieme alla malinconia. Non mi sono commosso, invece, quando ho visto per la prima volta il libro stampato, e sono felice che non mi abbia fatto granché effetto.

Dalle_rovineL’ambientazione oscilla tra luoghi immaginari come Fortezza, la città in cui vive il protagonista Rivera, e reali come Barcellona, dove Rivera e i suoi “amici” conquistano la celebrità. I confini tra realtà e immaginazione sono molto labili, e alla fine si precipita in un sogno-incubo da cui nessuno sembra riuscire a risvegliarsi. Era questo il tuo intento?
A dire il vero sono convinto che un’opera letteraria non dovrebbe mai proporsi un intento, se non quello di raccontare qualcosa nell’unico modo possibile. La storia di Dalle rovine si è generata da sé, con le sue caratteristiche peculiari, che nascono da fattori molteplici. Innanzitutto la mia formazione, il mio interesse per certi temi che con il tempo si è trasformato in ossessione, le letture che sono state il terreno che mi si è incollato sotto le suole dopo aver passeggiato a lungo nel giardino dell’infanzia e dell’adolescenza, il rapporto di empatia che ho sviluppato nei confronti dei personaggi, anche dei più miserabili e diabolici. A conti fatti, se quello che mi riporti è l’effetto che il romanzo ha sortito su di te, posso dire che molto di quello che ho provato io scrivendolo ha avuto la forza di riproporsi anche a un lettore sconosciuto.

La storia predilige i tempi della notte e le tonalità del nero e del grigio, i personaggi si aggirano per lo più in luoghi chiusi e bui, fumano e bevono molto, dormono poco e male, respirano i loro afrori, l’odore della paura e della morte. La luce, la speranza, il sollievo risultano banditi dal tuo romanzo. Perché?
La speranza in qualche misura è presente. È uno sguardo lanciato verso il passato, verso precisi momenti del passato che restano nella memoria come iconostasi, visioni di santità riportate sul legno ed esposte in una chiesa bombardata. Dalle rovine viene fuori un canto, e nonostante il passato sia perduto e il futuro viaggi verso una nuova rovina, quel canto può essere ascoltato. «Chi è per le statue deve essere anche per le macerie» scriveva Gottfried Benn.

Alla domanda se la pornografia possa diventare una forma d’arte non mi pare che Dalle rovine abbia trovato una risposta. I tuoi personaggi, per quanto anelino a realizzare “il film” dopo il quale nulla sarà più necessario e possibile, non sembrano riuscirsi, né trovare qualche traccia di sollievo. Al contrario, tutto sembra irrimediabilmente perduto. Che ne pensi?
Questo perché “il film” non è propriamente un film, ma una condanna, il coronamento di una condanna, anche se la condanna dell’uomo è proseguire nella sua eterna cecità. Anche il finale, che alcuni considerano mozzo, ha per me un valore in questo senso. Una delle domande che il libro si pone è se l’arte possa considerarsi una forma di tortura e se la tortura, come prodotto dell’ingegno, possa essere chiamata arte. C’è un personaggio che pensa che la risposta a tutto questo sia affermativa. Allo stesso tempo, un altro personaggio che porta il nome tedesco del sogno afferma che produrre arte sia la manifestazione più ignobile della presenza umana sulla terra. Forse le teorie dei due coincidono, o per lo meno si sfiorano. Quel che è certo è che nonostante tutto proceda, nei secoli, precipitando in voragini concentriche, niente è mai davvero perduto, o meglio è legittimo illudersi che non lo sia.

Perdonami, ma non posso evitare una domanda sui serpenti. Li hai scelti perché ti attraggono realmente o per esorcizzare una fobia?
Nessuna delle due. Ho scelto i serpenti, che considero animali magici, per capovolgere un simbolo di infamia.

Che tipo di lettore sei (compulsivo o rilassato) e che cosa hai letto fino ad ora?
Non ho letto neanche un quarto di quello che vorrei riuscire a leggere prima di morire. Questo, suppongo, mi porterà in punto di morte a considerare la possibilità di non aver vissuto che un terzo di quanto avrei sperato. C’è poco da essere rilassati.

Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
Europe central di Vollmann, Fervore di Emanuele Tonon, il primo volume delle Dionisiache di Nonno di Panopoli, L’uomo in rivolta di Camus e un’antologia Einaudi di lirici greci.

Grigorys Kapsomenos

Grigorys Kapsomenos

Come deve essere la tua libreria ideale? Ti è capitato di entrarci?
La mia libreria ideale è stata per anni quella di Grigorys Kapsomenos a Bologna. Si tratta del posto in cui, intorno ai vent’anni, ho comprato i libri che hanno segnato quel periodo della mia vita (e grazie ai quali quel momento rifulge nel passato come una cicatrice fluorescente). Molti di quei libri non sarebbero finiti in mio possesso se non fosse stato per Grigorys, il vecchio libraio greco. È stato lui, per esempio, a costringermi a leggere L’enciclopedia dei morti. Riconosco i libri che ho preso lì da un piccolo adesivo con impresso un labirinto bianco in campo rosso. Adesso quella libreria ha chiuso, Grigorys è morto e io non sono mai andato sulla sua tomba.

Ci puoi anticipare qualcosa dei tuoi progetti?
Finire di scrivere quello a cui sto lavorando da un anno e mezzo, anche se l’idea di non finirlo e di lavorarci in eterno mi piace ancora di più.

Che cosa fai quando non scrivi e non leggi?
Vivo con Francesca, mia moglie, passo il tempo con i miei amici di TerraNullius, a volte mi capita di rivedere amici lontani e ciò mi rende felice; guardo film, lavoro da qualche mese come libraio, prendo i mezzi pubblici, cucino, fumo, dormo.cultura_a_bologna_4_-_la_libreria_delle_moline

Luciano Funetta è nato nel 1986 a Gioia del Colle. Dopo sette anni a Bologna, nel 2012 si è trasferito a Roma dove è entrato a far parte di TerraNullius e della direzione artistica del Flep! – Festival delle letterature popolari. Finora ha pubblicato: Noi stessi abbiamo dimenticato, «Watt» 0; Certe informazioni, «Costola» 1; Gli occhi della montagna su Cosa si scrive quando si scrive in Italia, Granta Italia; Strappacuore su «Prospektiva» 55; alcuni contributi per archiviobolano.it oltre a numerosi racconti e saggi su TerraNullius.

Vanni Santoni, scrittore e giornalista, autore pubblicato da Feltrinelli, Mondadori e Voland tra gli altri, e creatore – insieme a Gregorio Magini – del metodo Scrittura Industriale Collettiva (qui  l’intervista a Santoni e Magini in occasione dell’uscita di In territorio nemico, primo romanzo scritto con il metodo SIC e pubblicato da minimum fax nel 2013), dal 2014 dirige la collana di narrativa di Tunué. Qui la nostra intervista a Vanni Santoni del 30 aprile 2014.

Cosa leggiamo a Natale. I consigli dei Serpenti (1)

I consigli di Emanuela D’Alessio

Così ha inizio il male di Javier Marias
Sto leggendo l’ultimo romanzo di Javier Marias, Così ha inizio il male (traduzione di Maria Nicola, Einaudi, 2015). La lettura procede molto lentamente perché l’autore spagnolo, famoso per i suoi Domani nella battaglia pensa a me e Un cuore così bianco (solo per citare alcuni titoli della sua corposa produzione letteraria) sembra non avere fretta di svelare quello che ha intenzione di raccontare. Qui, più che nei libri precedenti, ha ulteriormente affinato la memorabile capacità introspettiva, il lavoro di scavo nell’animo umano e nelle sfaccettature della realtà che lo caratterizzano, indugiando, fin troppo direi, su un dettaglio, un’idea, una sensazione. Al centro di Così ha inizio il male, titolo che si rifà a un verso dell’Amleto di Shakespeare (da cui Marias ama trarre ispirazione), c’è il matrimonio di Eduardo Muriel, mediocre cineasta e di Betariz Noguera, donna infelice, avvenente e dolente. Un matrimonio che nulla ha a che vedere con l’amore e il rispetto ma con i loro esatti contrari. E attraverso la voce narrante di Juan De Vere, alle dipendenze di Muriel quando era un giovane ventitreenne, ci ritroviamo immersi in questa intrigata ed enigmatica storia, sullo sfondo gli anni del franchismo, di cui si anela a scoprire la fine. Non è una lettura da consumare, ma da assimilare, e di questi tempi se ne avverte più che mai il bisogno.

dalle-rovineDalle rovine di Luciano Funetta
Mentre stavo lasciando decantare le pagine di Marias, ho aperto Dalle rovine, stupefacente esordio di Luciano Funetta (Tunuè, 2015). Stupefacente perché fin dalle prime pagine si avverte la potenza di una storia ipnotica, straordinaria nel senso letterale di fuori dall’ordinario. Una storia audace, raccapricciante e commovente. Una storia dove sono caduta dentro senza volerlo, perché i serpenti mi suscitano una certa repulsione e la pornografia, per quanto artistica, mi lascia un po’ perplessa. Ma del libro parlerò meglio in seguito, intanto ecco un incipit: «Ogni stanza aveva la sua finestra; l’unico ambiente cieco era la stanza delle teche, dove Rivera teneva la collezione. Anche quando se ne stava tranquillo in soggiorno a non fare niente, sapeva che dietro la porta della stanza c’erano trenta creature la cui sopravvivenza dipendeva da lui. Aveva cominciato a collezionarle quindici anni prima e ormai occupavano gran parte delle sue giornate. Le catturava in campagna, le ordinava nei negozi di animali esotici oppure se le procurava al mercato nero, tramite individui che all’inizio lo avevano spaventato ma che ben presto erano diventati i suoi unici contatti con l’esterno, fatta eccezione per la corrispondenza che Rivera teneva con altri collezionisti, uomini e donne che non aveva mai visto, ma che gli sembrava di conoscere dall’infanzia».

Il canto del crepuscolo di Helen Humphreys
Infine c’è Il canto del crepuscolo di Helen Humphreys (traduzione di Fabio Viola, Playground, 2015), la scrittrice canadese insignita di prestigiosi premi letterari e di cui ho particolarmente amato La verità, soltanto la verità. Sarà la mia prossima lettura di questo Natale, che mi incalza con il suo inedito carico di tristezza. Leggo dalla bandella: «Nel 1940, James e Rose sono una giovane coppia inglese che la guerra separa subito dopo il matrimonio. Lui, pilota della Raf, viene catturato dai tedeschi e spedito in un campo di concentramento. Lei si ritrova sola in un piccolo villaggio del Sussex, a svolgere il lavoro di sorveglianza per il mantenimento del coprifuoco».

Francesca Matteoni – Tutti gli altri

Tutti-gli-altridi Anna Castellari

Tutti gli altri è un libro che necessita silenzio. O che, se si legge, scava una bolla di silenzio nel proprio io. È un libro che va letto d’inverno, oppure nella stagione della contemplazione del mondo e di se stessi. O che se si legge d’estate, tra lo schiamazzo dei bambini in spiaggia e il frangersi monotono delle onde, aiuta a concentrarsi sul rumore di queste ultime.

È un viaggio che ripercorre le tappe di una donna dall’infanzia a oggi, per tornare all’infanzia: non è certo un caso se ogni capitolo porta un nome e se l’ultimo nome è quello di Madre, perché in un viaggio bisogna sempre saper tornare al punto di partenza e spesso quel punto può essere la propria infanzia.

Perché Tutti gli altri? Perché, credo, nel corso della propria vita Matteoni mette a nudo sé stessa cercando in tutti gli altri qualcosa che non ha, da cui lei si sente estranea. È quel sentimento di estraneità dal mondo che mi ha fatto amare questo libro. Quel suo continuo distaccarsi da chi la circonda, sentirli lontani, come se fossero esseri di un altro pianeta – ma alla protagonista-narratrice, si sente, viene il dubbio di essere lei un essere proveniente da un altro pianeta. Le cose del mondo sembrano essere sempre secondarie, rispetto a quelle importanti: la protagonista si avvicina alle persone più marginali, quelle più problematiche, che si mettono continuamente in discussione o che mettono lei stessa continuamente in discussione.

Anche in questo volume, come in Dettato di Sergio Peter, della stessa collana i romanzi edita Tunué, non esiste una vera e propria storia, se non il filo conduttore della vita di Matteoni, narrato con uno stile preciso e ritmato, tipico di chi “viene dalla poesia” (come si dice spesso parlando di poeti che scrivono romanzi, a un certo punto, come se “poesia” fosse un pianeta lontano e sconosciuto, e forse in un certo senso lo è). Uno stile che trascina letteralmente il lettore nelle storie, con un intimismo e una profondità rare da rintracciare in letteratura. Non si può far altro che provare una certa empatia con la protagonista, circondata da personaggi dai nomi fantastici come Mangiafuoco, Nembo Kid, Akela, Alce o Pippi Calzelunghe. Che sogna una vita tra il verde delle colline inglesi, e andandosene altrove cerca in quell’altrove uno scopo, una identità.

Per tutti questi anni ho derubato la vita. Ho incanalato ogni immagine in me stessa come punti di sutura, frasi mandate a memoria spillate sui buchi di futuro. Mi sono contaminata, un’imitazione rocambolesca di qualsiasi cosa, un assemblaggio che cigola per tenersi insieme. Il mio sangue è una colla spalmata su tutto ciò a cui mi sembra di assomigliare. E poi non assomiglio a niente, mi stanco perfino di ciò che difendo come necessario, mi stancano lo stesso lavoro e le stesse facce: posso resistere qualche mese, finché ho voglia soltanto di starmene con l’erba in bocca a guardarmi gli alberi o sulla sabbia dove finisce l’occidente. Non la si vive davvero la vita, la si sottrae e a nostra volta si è sottratti, siamo un fuoco dentro un vaso d’argilla.

Francesca Matteoni da piccola (dal suo blog)

Francesca Matteoni da piccola (dal suo blog)

Credo sia in queste parole la chiave di tutto il romanzo, nonché il punto di maturazione e di consapevolezza della narratrice, che ci fa amare il suo essere allo “sbando” e la sua ricerca continua di un altrove in cui rifugiarsi. E credo che sia un romanzo di formazione, da leggere dai venti ai cent’anni.

Francesca Matteoni, Tutti gli altri
Tunué, 2014
€9,90

www.tunue.com
orso-polare.blogspot.com