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Otto anni nei boschi narrativi #10 Andrea Bergamini – Playground

 

Titolo?
Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
Introduzione?
Leonardo G. Luccone
Editore?
Via dei Serpenti
Uscita?
Settembre 2019

 

Realizzare Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti ci ha dato l’occasione di tornare a parlare con Andrea Bergamini, editore di Playground. La nostra prima intervista, nel settembre 2011, avvenne pochi mesi dopo la partecipazione allo Strega del romanzo di Gilberto Severini, A cosa servono gli amori infelici, e l’ingresso della casa editrice nel gruppo Fandango. Qui uno stralcio della nuova intervista, realizzata a luglio 2019.

Il nuovo percorso editoriale
Credo si possa dire, con la parzialità dello sguardo di chi è direttamente, quotidianamente e ossessivamente coinvolto, che ci troviamo di fronte a un’assoluta continuità rispetto alle direzioni intraprese a partire dal 2007, tre anni dopo la nascita della casa editrice. Playground resta una casa editrice di sola narrativa, con una preferenza per la letteratura nordamericana, e con l’impegno a valorizzare gli autori proponendo l’insieme della loro opera. Anche il numero dei titoli, per anno, è rimasto lo stesso. Molto ridotto.
A partire dal 2014 il logo dichiara anche l’appartenenza al gruppo Fandango Editore, tanto che oggi il nome è Fandango/Playground. Ma soprattutto la scelta di un nuovo art director, Maurizio Ceccato, ha comportato un ritorno alle copertine illustrate e d’autore. Progressivamente è scomparsa la nostra fascia caratteristica e ora le copertine sono a griglia aperta, con uno sforzo da parte dell’art director di rendere creativi e illustrati anche titolo e autore.

La letteratura targata Playground
La produzione di Playground ha mantenuto una sua continuità nel proporre letteratura nordamericana d’autore, a cominciare da Edmund White, Allan Gurganus, Helen Humphreys e Richard Bausch, e completandola, credo, attraverso figure, per così dire ‘eccentriche’, come Sam Shepard e Rudolph Wurlitzer, che sono state da sempre personalità di spicco nel proporre segmenti della vita americana più periferica, meno metropolitana, anche più sofferta e autentica. Con l’aggiunta di scelte originali, come il romanzo post apocalittico ed ecologista di Jean Hegland, Nella foresta, titolo cult dell’editoria indipendente americana e due anni best seller in Francia.
Si è continuato anche un lavoro sulla letteratura europea più giovane, penso all’autore francese Sébastien Marnier con il suo ‘Mimì’ (tra l’altro è ormai un regista cinematografico molto affermato in patria), ma soprattutto all’autore irlandese Karl Geary e al suo romanzo d’esordio Montpelier Parade, che considero tra i romanzi più belli che abbiamo pubblicato negli ultimi anni.
Anche per gli italiani vale il discorso fatto in precedenza per gli autori stranieri. Contano le dimensioni, le risorse, i rapporti. Detto questo, è vero che svolgiamo un lavoro molto ridotto sugli esordienti, e anche questa è una scelta editoriale, ma anche una necessità legata alla struttura, all’organico, al tempo e a molte altre variabili.
È vero che Playground ha pubblicato due soli esordi nella collana principale, ma tutti e due significativi. Sandro Campani, nel 2004 (il primo anno di vita della casa editrice) con È dolcissimo non appartenerti più. E proprio di recente abbiamo pubblicato una seconda esordiente, Francesca Capossele, con due romanzi molto belli, 1972 e Nel caso non mi riconoscessi. Aggiungo che abbiamo pubblicato il toccante secondo romanzo di Davide Martini e stiamo per ripubblicare tutta l’opera di Gilberto Severini, a mio parere uno degli autori di narrativa italiana più interessanti.

Il progetto Syncro/Europa
Sono felicissimo di questo progetto e marchio editoriale che, tra l’altro, non è più solo letterario, coinvolgendo anche l’illustrazione e l’audiovisivo. Credo sia la mia iniziativa più originale in quindici anni di attività di editore. L’ambizione (da incalliti e ostinati federalisti europei) è quella di raccontare e dimostrare come una “patria europea” esista già nella vita, nel quotidiano, nelle scelte libere, innanzitutto sul piano sentimentale, dei suoi giovani. Per farlo pubblicheremo trenta romanzi, ambientati nelle diverse città europee (sia capitali sia città più periferiche) e che hanno per protagonisti giovani europei gay (per giovani, in questo caso si intendono giovani uomini, ossia si va dai diciotto ai trentacinque anni). Ai romanzi, però, accompagniamo anche un racconto per immagini, attraverso stampe d’autore di trenta giovani artisti e illustratori europei e attraverso ritratti video di giovani europei. I primi romanzi usciti sono ambientati a Bilbao, Bucarest, Venezia e Goteborg. I prossimi a Parigi, Zagabria e Kalgenfurt. È un progetto che mi piace e mi diverte moltissimo.

Qualche novità
Mi concentro su un titolo che uscirà a settembre, Il gioco di De Niro, dell’autore libanese (naturalizzato canadese) Rawi Hage. Vincitore dell’Internazional Impac Dublin Literary Award, tra i più importanti e ricchi premi per la letteratura di lingua inglese nel mondo. Racconta dell’amicizia tra George e Bassam, amici d’infanzia, nella Beirut devastata dalla guerra civile a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. Un romanzo ricco di ironia amara, di un originale realismo magico, di toni noir, che sfociano in una denuncia, dal tono mai banale, della guerra, della violenza.

Libri in carcere

di Emanuela D’Alessio

il-canto-del-crepuscolo«Più tardi, quella sera, gli uomini della camerata di James, tranne James stesso e Stevens, si spostano in un’altra camerata della stessa baracca per giocare a carte. Come sempre, i due se ne stanno sdraiati sulle brande, a lanciarsi in grandi chiacchierate per poi chiudersi in prolungati silenzi. È bizzarro parlare con qualcuno senza vederlo, ma James ci ha fatto l’abitudine e anzi trova rassicurante la voce profonda di Stevens che sale fino a lui dalla branda di sotto, dove l’amico è steso, appoggiato su un gomito a leggere uno dei suoi infiniti romanzi. La Croce Rossa ha inviato un altro rifornimento di libri e i prigionieri hanno attrezzato una biblioteca per i prestiti. Stevens se ne serve tutti i giorni e nonostante ormai siano arrivati a qualche migliaio di volumi, James non si stupirebbe se l’amico riuscisse a leggerli tutti entro Natale».
James e Stevens, due ufficiali inglesi fatti prigionieri dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, sono diventati amici e trascorrono le loro giornate da reclusi adottando ciascuno la propria resistenza alla comune assenza di libertà e di futuro. James si scopre scrupoloso e ossessivo osservatore di una famiglia di codirossi (uccelli dalla coda striata di rosso), Stevens legge un libro dopo l’altro, trascorrendo gran parte del tempo sdraiato sulla branda e in silenzio.

La guerra e i suoi orrori rimangono sullo sfondo in Il canto del crepuscolo, l’ultimo romanzo di Helen Humphreys, uscito per Fandango/Playground nel 2015 con la copertina di Maurizio Ceccato e la traduzione di Fabio Viola. La scrittrice canadese ha voluto privilegiare un’altra angolazione da cui osservare il carattere umano e le sue infinite modalità di reazione e di adattamento ai grandi traumi dell’esistenza. Una di queste è proprio la lettura. I libri salvano la vita, o per lo meno aiutano a renderla meno insopportabile e penosa. Viene da sorridere al pensiero che in un campo di concentramento tedesco durante la seconda guerra mondiale esistesse una biblioteca a disposizione dei prigionieri.

dentroÈ comunque una suggestione e ne richiama un’altra, quella che propone Sandro Bonvissuto in Dentro, una raccolta di tre racconti pubblicati nel 2012 per Einaudi. Nel primo, Il giardino delle arance amare, cronaca di un periodo di vita in carcere di un uomo senza identità e colpa, leggiamo: «La biblioteca stava al piano di sotto. Era una stanza con delle mensole vuote, una scrivania, pure quella vuota di ogni cosa. E una sedia. In certi giorni stabiliti, che nessuno aveva mai capito bene quali fossero, era previsto che venisse un volontario per distribuire i libri ai detenuti. Una volta, durante l’ora d’aria, mi capitò di trovare quella stanza aperta. Allora decisi di entrare per prendere un libro in prestito. Dentro c’era l’incaricato seduto alla scrivania. Forse aspettava qualcuno, o forse aspettava solamente che finisse il suo turno, per tornare a essere involontario. Mi guardai intorno cercando i libri. Sugli scaffali però c’era un solo volume. La cosa mi parve assurda, ma poi mi vennero in mente altre cose che avevo visto lì dentro molto più assurde di quella e decisi di dire all’incaricato che desideravo un libro in lettura. Quello rispose che andava bene. Allora chiesi quali libri fosse possibile avere in prestito. L’incaricato si alzò dalla scrivania; rispose che avrebbe controllato. Scorse con lo sguardo tutta la libreria come se fosse piena. E lo fece lentamente, quasi si stesse impegnando davvero a leggere i titoli sugli scaffali. Poi si girò verso di me e, costernato, disse che purtroppo era disponibile un solo libro: il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes Saavedra. Era stato donato all’istituto di pena da un ex direttore. Risposi che avrei preso quello. Lui accolse le mie parole con una punta di stupore, come se con la mia scelta avessi ignorato l’esistenza di molte altre possibilità. Chiesi allora se fossero disponibili altri libri che magari non erano lì al momento. Rispose che ci sarebbero anche stati, ma erano andati in prestito e purtroppo non avevano più fatto ritorno. Mi venne da ridere. Gli dissi che comunque avrebbero potuto anche comprarne di nuovi, ma lui replicò che non c’erano soldi a sufficienza, e i pochi a disposizione dell’amministrazione dovevano essere usati per acquistare cose più importanti per i detenuti. Feci presente che i libri dovevano essere cose molto importanti per i detenuti; se non fosse stato così, li avrebbero di certo restituiti. Perché al mondo non c’è nessuno in grado di stabilire se una cosa ha valore o meno meglio di un carcerato».

Da una biblioteca con migliaia di volumi ai tempi della seconda guerra mondiale a quella con un solo libro disponibile in un carcere contemporaneo, da Helen Humpreys a Sandro Bonvissuto il salto sarebbe vertiginoso a volerlo compiere, ma l’intento non è confrontare i due autori e le loro scritture, bensì cogliere questo comune riferimento alla funzione “terapeutica” dei libri.
Leggere per anestetizzare l’orrore della guerra e la paura della morte, leggere per ingaggiare una sfida con il tempo quando diventa improvvisamente vuoto e privo di scopo, leggere per curare la mente e lenire l’anima.

Bonvissuto_DionisiIn carcere si legge? «Dipende dalle situazioni – aveva risposto Sandro Bonvissuto durante l’incontro di Cosa si fa con un libro? del 16 gennaio – esistono carceri modello dove sono previsti percorsi di lettura e altri penitenziari dove il concetto di detenzione è fermo a qualche secolo fa».
L’associazione Antigone, che da oltre trent’anni segue la realtà carceraria italiana, redige un rapporto annuale sulle condizioni di detenzione in Italia, una fotografia abbastanza puntuale e rappresentativa dei 205 istituti di pena presenti sul territorio. Solo per fare un esempio: nel Lazio ci sono quindici penitenziari, soltanto quattro hanno una biblioteca e l’unica a risultare funzionante e rifornita regolarmente di libri (oltre 8.000 volumi) è quella del carcere femminile di Rebibbia, a Roma.

Di certo non è questa la sede per affrontare un tema abbastanza complicato come la realtà carceraria italiana, con tutte le sue drammatiche carenze e criticità. A fronte di spazi sovraffollati e condizioni di vivibilità molto spesso disumane e folli, il problema della lettura in carcere può risultare anacronistico, se non del tutto incomprensibile.
Ma si era partiti da una suggestione letteraria e, per una volta, perché non iniziare dall’immaginazione per approdare alla realtà e provare a comprenderla?

Cosa leggiamo a Natale. I consigli dei Serpenti (1)

I consigli di Emanuela D’Alessio

Così ha inizio il male di Javier Marias
Sto leggendo l’ultimo romanzo di Javier Marias, Così ha inizio il male (traduzione di Maria Nicola, Einaudi, 2015). La lettura procede molto lentamente perché l’autore spagnolo, famoso per i suoi Domani nella battaglia pensa a me e Un cuore così bianco (solo per citare alcuni titoli della sua corposa produzione letteraria) sembra non avere fretta di svelare quello che ha intenzione di raccontare. Qui, più che nei libri precedenti, ha ulteriormente affinato la memorabile capacità introspettiva, il lavoro di scavo nell’animo umano e nelle sfaccettature della realtà che lo caratterizzano, indugiando, fin troppo direi, su un dettaglio, un’idea, una sensazione. Al centro di Così ha inizio il male, titolo che si rifà a un verso dell’Amleto di Shakespeare (da cui Marias ama trarre ispirazione), c’è il matrimonio di Eduardo Muriel, mediocre cineasta e di Betariz Noguera, donna infelice, avvenente e dolente. Un matrimonio che nulla ha a che vedere con l’amore e il rispetto ma con i loro esatti contrari. E attraverso la voce narrante di Juan De Vere, alle dipendenze di Muriel quando era un giovane ventitreenne, ci ritroviamo immersi in questa intrigata ed enigmatica storia, sullo sfondo gli anni del franchismo, di cui si anela a scoprire la fine. Non è una lettura da consumare, ma da assimilare, e di questi tempi se ne avverte più che mai il bisogno.

dalle-rovineDalle rovine di Luciano Funetta
Mentre stavo lasciando decantare le pagine di Marias, ho aperto Dalle rovine, stupefacente esordio di Luciano Funetta (Tunuè, 2015). Stupefacente perché fin dalle prime pagine si avverte la potenza di una storia ipnotica, straordinaria nel senso letterale di fuori dall’ordinario. Una storia audace, raccapricciante e commovente. Una storia dove sono caduta dentro senza volerlo, perché i serpenti mi suscitano una certa repulsione e la pornografia, per quanto artistica, mi lascia un po’ perplessa. Ma del libro parlerò meglio in seguito, intanto ecco un incipit: «Ogni stanza aveva la sua finestra; l’unico ambiente cieco era la stanza delle teche, dove Rivera teneva la collezione. Anche quando se ne stava tranquillo in soggiorno a non fare niente, sapeva che dietro la porta della stanza c’erano trenta creature la cui sopravvivenza dipendeva da lui. Aveva cominciato a collezionarle quindici anni prima e ormai occupavano gran parte delle sue giornate. Le catturava in campagna, le ordinava nei negozi di animali esotici oppure se le procurava al mercato nero, tramite individui che all’inizio lo avevano spaventato ma che ben presto erano diventati i suoi unici contatti con l’esterno, fatta eccezione per la corrispondenza che Rivera teneva con altri collezionisti, uomini e donne che non aveva mai visto, ma che gli sembrava di conoscere dall’infanzia».

Il canto del crepuscolo di Helen Humphreys
Infine c’è Il canto del crepuscolo di Helen Humphreys (traduzione di Fabio Viola, Playground, 2015), la scrittrice canadese insignita di prestigiosi premi letterari e di cui ho particolarmente amato La verità, soltanto la verità. Sarà la mia prossima lettura di questo Natale, che mi incalza con il suo inedito carico di tristezza. Leggo dalla bandella: «Nel 1940, James e Rose sono una giovane coppia inglese che la guerra separa subito dopo il matrimonio. Lui, pilota della Raf, viene catturato dai tedeschi e spedito in un campo di concentramento. Lei si ritrova sola in un piccolo villaggio del Sussex, a svolgere il lavoro di sorveglianza per il mantenimento del coprifuoco».

Notturno – Helen Humphreys

Recensione di Emanuela D’Alessio

Elaborare il lutto attraverso la scrittura è uno dei modi possibili per affrontare la scomparsa di una persona amata: un mezzo a disposizione di tutti coloro che riescono con le parole a mettere ordine tra le emozioni, un privilegio per chi nella scrittura ha trovato la vocazione e la passione, il senso dell’esistenza.
Un privilegio, però, sempre più spesso ostentato e quasi imposto a quei lettori che si affidano entusiasti alle nuove pagine di un autore, desiderosi di trovare sollievo, ispirazione, un’altra occasione per riflettere o semplicemente per sospendere la propria tribolazione quotidiana. Questa fiducia assoluta, pari solo a quella di un bambino per il mondo ancora sconosciuto, è priva di filtri e protezioni, e infine sottovalutata, forse tradita.
È questa la sensazione provocata da Notturno, l’ultimo libro di Helen Humphreys (tradotto dall’autore di Sparire Fabio Viola) dedicato alla morte del giovane fratello, pianista di grande talento, uomo generoso e inquieto, ucciso a quarantacinque anni da un cancro al pancreas. La scrittrice canadese ha deciso di raccontarsi e raccontarci che cosa è accaduto prima, dopo, durante gli ultimi mesi di vita di Martin, rendendo pubblica una sofferenza privata, esibendo senza veli e senza filtri  il proprio dolore.
Milioni di persone combattono ogni giorno con la morte, sia con la propria e quindi destinati al fallimento, sia con quella delle persone che amano e quindi costretti a ricercare un nuovo modo di sopravvivenza, ma sono pochi quelli che possono permettersi di dare a un evento della vita quotidiana come la morte del proprio fratello uno spessore letterario.
E qui allora torna la solita domanda su che cosa sia letteratura. Restituire originalità e dignità alla “normalità” della morte? Trasformare un’esperienza personale in evento universale? Morire di cancro non è un fatto straordinario, come non lo è il dolore assoluto, denso e ineliminabile di chi resta e deve fare i conti con la vita interrotta e svuotata. Eppure libri come Notturno sembrano avere l’ambizione di smentire tale certezza. Ambizione che risulta inopportuna e ingiustificata, che provoca più distacco che empatia, perché ci si rende conto che lo scrittore non sta pensando ai lettori ma solo a sé stesso: cerca sollievo a una pena intollerabile attraverso il privilegio della letteratura.
«Subito dopo la tua morte ho provato a scrivere, ma mi sembrava che non ci fosse nulla da dire. Tuttavia sono sempre stata una scrittrice e come per gli atleti con la memoria muscolare, alla mia memoria scrittoria è difficile mettere un freno, anche quando a mancare è la motivazione. Non avevo niente da dire, nessuna storia da raccontare».
La Humphreys ha deciso di scrivere Notturno per il fratello scomparso, per assecondare un sogno dove lui le chiedeva di raccontargli che cosa fosse successo dopo la sua morte. Per Emanuele Tonon Luce prima (Isbn, 2011) è stato un canto d’amore per «la mia mamma piccola e povera che ha attraversato questo mondo con poche parole e una ridda di gesti di dedizione, sacrificio e tenerezza. Un canto che ho voluto far diventare letteratura».
E anche Backstage, l’ultimo libro di Gilberto Severini (Playground, 2013), si inserisce tra quelle opere scritte per risolvere un empasse. «Solo appunti – lo definisce lo scrittore marchigiano – niente di più, il dietro le quinte di uno spettacolo che non va in scena». Un fallimento, dopo aver deciso a tavolino con l’editore un testo sulla condizione di orfani.
Tre esempi recenti di autori assai diversi e distanti per stile, cultura e origini, ma accomunati dal medesimo esercizio di un privilegio. Tre esempi di come la letteratura diventi pretesto per ripiegarsi su sé stessi alla ricerca di una purificazione, avviare un processo di catarsi che li conduca al di là dell’ostacolo, occasione per rivisitare la propria vita invece di offrire un’altra visione del mondo. Letteratura come ausilio psicologico anziché strumento di espressione creativa.  

Nota sull’autore
Helen Humphreys, nata a Londra nel 1961, è scrittrice e poetessa canadese. Nel 1997 il suo romanzo Leaving Earth ha vinto il prestigioso premio letterario City of Toronto Book Award. Il suo secondo romanzo Afterimage è stato segnalato fra i dieci romanzi più significativi dell’anno da «The New York Times» e ha vinto il Rogers Writers’ Trust Fiction Prize. Il giardino perduto (2002) è stato selezionato dal Canadian Broadcasting Corporation (CBC) e dal Canada Reads Selection e il suo ultimo romanzo, Coventry (2008), è stato diverse settimane ai vertici delle classifiche canadesi. Nel 2009 Helen Humphreys ha vinto il prestigioso l’Harbourfront Festival Prize. Di Helen Humphreys Playground ha già pubblicato Cani selvaggi (2007), Il giardino perduto (2009), Coventry (2010) e La verità, soltanto la verità (2011).

Per approfondire
Di Helen Humphreys la nostra doppia recensione di
La verità, soltanto la verità
La nostra intervista a Emanuele Tonon

Notturno – Helen Humphreys
Traduzione di Fabio Viola
Playground, 2013
pp. 185, 15,00 €

INDILIBR(A)I – Scripta Manent: il libro più venduto a settembre

"A cosa servono gli amori infelici" Gilberto SeveriniINDILIBR(A)I Rubrica dedicata ai librai e ai lettori indipendenti

Libreria Scripta Manent
Via Pietro Fedele, 54 – Roma

A cosa servono gli amori infelici di Gilberto Severini (Playground) è il libro più venduto a settembre dalla libreria Scripta Manent.

 A cosa servono gli amori infelici di Gilberto Severini
Playground, 2010
pp. 128, euro 11

Gilberto Severini è tra gli autori italiani più amati da Via dei Serpenti che ha “esordito” proprio con A cosa servono gli amori infelici (qui la nostra recensione), candidato al Premio Strega nel 2011.
Abbiamo letto anche Congedo ordinario (qui la nostra doppia recensione), caso letterario ripubblicato  nel 2012 da Playground, e Backstage l’ultima prova dello scrittore marchigiano (qui la nostra recensione) sempre per Playground.

Backstage – Gilberto Severini

 di Emanuela D’Alessio

Philip Roth a settantanove anni ha dichiarato di non volere più scrivere, «chi ha bisogno di leggere un altro libro mediocre?». Alice Munro lo ha annunciato a ottantuno anni, «perché alla  mia età non vuoi più essere sola come uno scrittore deve essere».
Di celebri addii alla scrittura ne possiamo ricordare altri: J.D. Salinger smise di pubblicare nel 1965, a “soli” sessantaquattro anni, il premio Nobel magiaro Imre Kertész lo ha fatto a ottantadue anni.
Gilberto Severini, l’autore marchigiano candidato allo Strega 2011 con il suo A cosa servono gli amori infelici (qui la nostra recensione), si pone il problema a settantuno anni, scrivendo una lettera al suo editore Andrea Bergamini (Playground) per spiegare perché non sia riuscito a produrre il suo nuovo romanzo. Una lettera che diventa essa stessa un libro, Backstage, «frammenti di memoria rielaborati o inventati. A volte riflessioni suggerite da idee di autori citate con molta gratitudine», certamente non un addio alla scrittura.
La prima riflessione riguarda proprio l’età massima per scrivere romanzi: settantatré anni secondo Pietro Citati, smentito però da Carlo Fruttero che nel 2006 (di anni ne aveva ottanta) pubblicò il romanzo giallo Donne informate sui fatti e quattro anni dopo l’ironica autobiografia Mutandine di chiffon. Severini non sembra aver trovato una risposta, sarà per questo che si affida ancora una volta alla formula epistolare «perché si scrivono lettere aspettando risposte», ripercorrendo tutte le domande che hanno attraversato la sua esistenza.
Backstage è un’autobiografia ma diventa nuovo e raffinato pretesto per continuare, sempre con eleganza essenziale, quella ricerca di senso e di una spiegazione definitiva al mistero del vivere, per arrendersi comunque all’evidenza che «si deve vivere per tutto il tempo che si è vivi qualunque cosa succeda».
Un percorso costellato da incursioni nel passato e riflessioni sul presente, popolato da personaggi noti e sconosciuti, occasione per ricordare e capire, per porsi domande, prima fra tutte il perché dello scrivere. Si scrive perché si ha qualcosa da dire, affermava Francis Scott Fitzgerald e anche Severini ha qualcosa da dire sebbene con Backstage voglia dimostrare il contrario. Solo appunti, lo definisce, niente di più, il dietro le quinte di uno spettacolo che non va in scena. Un fallimento, dopo aver deciso a tavolino con l’editore un testo sulla condizione di orfani. Ma il tema Severini lo svolge ugualmente, al di fuori degli schemi e dei condizionamenti nei quali si tende a confinare il concetto di letteratura. La condizione di orfano diventa, nelle parole dell’autore marchigiano, uno status esistenziale, si è orfani quando i genitori sono morti, ma si è orfani anche con i genitori in vita, «quando si vive senza genitori consistenti in famiglia e senza equivalenti genitoriali nelle comunità sociali». Si è orfani perché non si incontra o si perde la fede, perché si assiste al fallimento delle ideologie, perché si perdono gli amici più cari, quelli che aiutano a ricordare la fortuna di essere vivi. La mancanza è una forma di conoscenza diversa dal possesso, rivela in un istante l’importanza di tutto quello di cui si è stati privati. Severini è un orfano totale, possiamo dire, perché non ha mai conosciuto il padre, «morto in una guerra sbagliata», perché è cresciuto come figlio unico di madre vedova, perché il suo intimo amico e poeta anconetano Franco Scataglini si è suicidato a quarantatré anni, lasciandogli un vuoto incolmabile e la sua poesia come rivelazione, quella, forse la più importante, sul senso dello scrivere.
Se il vero scrittore è colui che scrive senza progetti, che non rispetta schemi e indicazioni convenzionali, allora Severini è un vero scrittore che non fa mistero dei suoi turbamenti e delle sue sconfitte, dei suoi dolori e delle sue mancanze, che affronta con disincanto e ironia il fallimento di tutti gli uomini, accettandone senza infingimenti l’inevitabilità e provando, come fanno gli artisti, a consolarsi cercando di creare qualcosa di bello. Perché se si riuscirà a liberare i sentimenti dalle convenzioni con cui si esprimono o si celano, a raccontarli solo con la nuda verità, diventeranno i sentimenti di tutti e l’emozione di chi legge.
Backstage non è un fallimento, è un altro prezioso frammento di letteratura che ci aiuta a proseguire nella dolorosa ricerca di significato. Una possibile via di scampo è quella indicata da Ennio Flaiano, in un’intervista rilasciata due settimane prima di morire di infarto.
«L’amore che comincia da sé e va verso gli altri, che comprende i giorni, comprende il tempo che abbiamo vissuto, comprende gli amici che ci hanno abbandonato, che sono morti, comprende le persone che abbiamo conosciuto, comprende anche le persone che non conosciamo». 

Qui la nostra doppia recensione di Congedo ordinario

Nota sull’autore
Gilberto Severini, marchigiano di Osimo, settantenne, schivo e appartato, non è uno scrittore di trame e intrecci, perché «nei libri conta quello che accade dentro le persone più che quello che succede fuori». Oltre alle classiche letture, è rimasto folgorato dal primo Arbasino, quello di Fratelli d’Italia. Ama ricordare l’intensa amicizia con Pier Vittorio Tondelli, «un uomo d’incredibile generosità, come è estremamente raro trovare». E di lui Tondelli diceva: «La novità della sua scrittura è proprio l’estrema capacità di tenuta e soffocazione delle punte estreme d’emotività. È come se l’autore, abilmente, volesse giungere al massimo solo per contrazione, creare tensione per non usarla, creare emozione per svaporarla, preferendo a tutto ciò un gioco di sentimenti malinconici e sfumature: come se, per lui, la più grande deflagrazione dell’intensità intima fosse l’espressione di un silenzio assoluto appena spezzato da un lontano e improbabile singhiozzo».

Severini può vantare una nutrita produzione letteraria, tra racconti, romanzi e poesie. Ha esordito nel 1988 con i tre romanzi brevi della trilogia Partners per Transeuropa. Nel 1996 il romanzo Congedo ordinario (peQuod) diventa un caso letterario e nel 2012 è tornato in libreria con Playground. Sempre con peQuod, tra il 2002 e il 2005, sono usciti Ospite in soffitta e Ragazzo prodigio. Nel 2009 esce Il praticante e nel 2010 A cosa servono gli amori infelici (finalista allo Strega 2011), entrambi pubblicati da Playground.

Backstage di Gilberto Severini
Playground, 2013
pp. 138, € 13,00

Recensione su D – la Repubblica
Recensione di Nadia Terranova