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I consigli dei Serpenti per l’estate 2017: Rossella Gaudenzi

Rossella Gaudenzi consiglia:

In un’estate in cui desidererei, ancor più degli anni passati, essere lambita dal freddo delle latitudini scandinave, ho scelto di ripercorrere il catalogo Iperborea alla ricerca di un titolo tra i più amati di sempre, L’imperatore di Portugallia del premio Nobel Selma Lagerlöf (1858-1940), la scrittrice svedese più nota al mondo. Custode delle memorie, delle tradizioni e delle saghe delle sue genti, Selma Lagerlöf costruisce la storia amara del bracciante di fine Ottocento Jan Andersson, che fa della paternità e della figura della figlioletta la sua ragione di vita.
«Per quanto vecchio diventasse, Jan Andersson di Skrolycka non poté mai stancarsi di raccontare di quel giorno in cui la sua bimbetta era venuta al mondo». Jan costruisce però una realtà parallela e sull’orlo della follia trasfigura l’esistenza meschina della sua famiglia raccontandosi belle favole irreali, in un gioco di equilibrismi tra sogno e verità.

Conquistata definitivamente dalle raccolte di racconti e dalla casa editrice Racconti Edizioni scelgo per l’estate una delle due ultime uscite, Eudora Welthy e le diciassette storie che danno vita a Una coltre di verde. Opto quindi, citando il titolo della recensione che al libro dedica la scrittrice (di racconti) Rossella Milone, per “l’umanità sgangherata alla periferia del Mississippi”.

Per i piccoli lettori ma non troppo, un classico e una nuova uscita da mettere nella valigia delle vacanze.
La coerenza mi porta a cercare una storia di divertimenti, di bambini tra fredde acque e si ferma su un capolavoro di un’autrice che ha tenuto generazioni di ragazzi con gli occhi incollati alle pagine delle sue storie avventurose: Astrid Lindgren, Vacanze all’isola dei gabbiani (Salani Editore).

Come è accaduto a Pinocchio e Lucignolo, a Hansel e Gretel o a Clara e Hans all’inseguimento del principe Schiaccianoci, Quanti pasticci, Ricottina! opera prima di Roberta Mastruzzi (Einaudi Ragazzi, Storie e Rime) trascinerà lettori bambini e adulti nell’irresistibile universo dei dolci, fatto di personaggi bizzarri a metà tra l’umano e il fantastico. Nel mondo di Ricottina i sentimenti più nobili albergano in personaggi fatti di dolciumi e i sentimenti più biechi in quelli in carne ed ossa. Ricottina, quasi interamente umana ma con mani e piedi di ricotta, è una piccola eroina del nostro tempo: sfida e vince i più temibili e irriducibili nemici, che sono le sue paure. Una storia fiabesca scritta con grazia, stile e intelligenza.

Racconti edizioni, una casa editrice da tenere d’occhio

di Emanuela D’Alessio

Uno scrittore che presenta due editori è già una notizia, ma se lo scrittore è Luciano Funetta, candidato allo Strega con il suo romanzo di esordio Dalle rovine (Tunué, 2015), la notizia è anche interessante. Se gli editori, infine, sono quelli che hanno fondato la prima casa editrice italiana dedicata esclusivamente ai racconti, la notizia diventa irresistibile.
Stiamo parlando di Stefano Friani ed Emanuele Giammarco che il 24 novembre alla libreria Assaggi di Roma (a San Lorenzo) hanno conversato con Luciano Funetta della loro casa editrice Racconti Edizioni e di molto altro.

Stefano Friani

Stefano Friani

Oggi riprendiamo il discorso con Stefano Friani.

Il racconto non va considerato come genere letterario” ma come forma”. Esattamente che cosa significa?
Il racconto, come il romanzo, la poesia o il saggio, è una forma letteraria. Esistono racconti di genere horror, fantascientifico, erotico e così via. Sono due cose diverse, forma e genere. La forma è la cornice strutturale, l’impalcatura del testo, il genere una sua particolare declinazione. Ma se vogliamo possiamo estendere questo ragionamento, chessò, anche ai film o altrove: il lungometraggio è la forma; Re-Animator 2 è un lungometraggio di genere splatter.

Racconti edizioni nasce circa sette mesi fa. Avete pubblicato fino a oggi sette libri e ce ne sono altrettanti in lavorazione per il 2017. Si può fare un primo bilancio?
Si può fare, ma non so quanto sia la persona più adatta a farlo. Utilizzando un anglismo da pronunciare con smaccato accento meneghino, siamo stati letteralmente overwhelmed dalla risposta dei lettori, dei librai, degli operatori del settore, dai semplici amici che magari leggono un paio di libri l’anno e improvvisamente si sono trovati coinvolti, loro malgrado, nell’assistere alla nascita di una casa editrice. Travolti come siamo da questo fiume di passione, siamo difficilmente in grado di essere obiettivi.
Sicuramente c’è un movimento positivo attorno alla casa editrice e mi piacerebbe dire anche attorno al racconto in sé, con tante realtà (scusate la parola, la aborro anche io per solito) che hanno scelto questa forma come loro centro gravitazionale: penso a Cattedrale, Effe, 8×8, Colla, The Flr e tante che mi sto dimenticando.
Siamo convinti che leggere più racconti, siano quelli di Poissant o di Antrim o quelli di Faye e Tyrewala, giovi alla causa del racconto e indirettamente anche a noi, e faccia bene, in assoluto, proprio ai lettori e alle loro esperienze di lettura.

Fondare una casa editrice è considerata di per sé una scelta azzardata, se poi quella casa editrice è dedicata esclusivamente ai racconti, dall’azzardo si passa facilmente alla follia nell’opinione generale. Voi invece come la vedete?
Siamo abbastanza d’accordo con questa visione, ciò che aggiungerei è che si tratta di una follia ben ponderata e molto, molto studiata. Quando abbiamo deciso di fondare la casa editrice non ci era ancora chiaro che sarebbe stata Racconti, cercavamo un progetto e fino a quel momento ne avevamo uno piuttosto vagheggiato. Quando ci si è palesata l’intuizione di farla essere una casa editrice di soli racconti, allora ci siamo buttati a capofitto in un tentativo di onniscienza sulla forma racconto impossibile e dannoso per la salute. Poi sono venuti gli studi economici, il business plan visto e rivisto, per mesi.
Un nuovo editore deve idealmente fare una cosa sola: rendere disponibile qualcosa che prima non c’era. Creare un pubblico di lettori e fornirgli qualcosa a cui prima non avevano accesso. I racconti facevano esattamente al caso nostro. E come ci è stato confermato dai nostri primi mesi di attività, una casa editrice del genere semplicemente mancava. Non oserei dire che serviva, ma sicuramente non c’era. 

logo-racconti-edizioni

Tutti parlano di crisi del racconto, di forma letteraria minore, di editori che si rifiutano di pubblicare racconti perché tanto nessuno li legge. Sono solo luoghi comuni o esiste effettivamente un problema racconto”? Riprendendo il titolo dell’articolo di Vanni Santoni su VICE Magazine: perché in Italia abbiamo paura dei racconti?
Ho provato a dirlo altrove, non so con quanto successo: in Italia abbiamo una augusta tradizione di racconti, senza andare a scomodare Boccaccio, ma la forma breve privilegiata da sempre a scuola e all’università è la poesia. Nelle antologie scolastiche si leggono sempre stralci di romanzo e quasi mai racconti. Quando andava di moda la pubblicazione delle short stories sui giornali in Gran Bretagna e Stati Uniti, noi seguivamo i francesi con i romanzi d’appendice. Inoltre, ci si è messo il malcostume editoriale di snobbare le raccolte di short stories e tramutarle, quando possibile, in pseudoromanzi abborracciati, facendo il male dell’autore e dell’opera in questione. Eppure se pensiamo a Tondelli, Landolfi, Manganelli, Malerba, D’Arzo, Parise, Calvino, Benni, Ammaniti, Ortese, Banti c’è una tradizione fortissima, che andrebbe valorizzata. Sì, d’accordo, nel mondo angloamericano i racconti funzionano meglio che da noi, anche per via del successo negli anni ’80 di Carver e dei suoi epigoni, ma la nostra letteratura non è certo da meno.
Esiste un problema di «immersione» che i lettori meno avvezzi alla forma hanno nei confronti del racconto. Ma appunto si tratta di lettori che non hanno una frequentazione assidua con i racconti e non ne vedono i molti lati positivi rispetto all’impegno di tempo e risorse che pone invece un romanzo. È un tipo di lettura evidentemente più concentrata rispetto a quella più dilatata del romanzo, ma specie di questi tempi frenetici, in cui tutti si litigano il nostro tempo, se si vuole leggere buona letteratura senza sobbarcarsi imprese epiche forse il racconto fa al caso nostro.
Poi, come mi è capitato di dire recentemente a una blogger tra il serio e il faceto, in questo io sono leninista: il popolo non sa quello che vuole. C’è bisogno – un bisogno disperato di questi tempi – di intermediazione. Se non si sa che esistono i racconti, se non si pubblicano i racconti, di certo non li leggerà nessuno. Se invece i racconti si pubblicano e si spezza questo tabù – e mi è parso che questo sia stato un anno estremamente fecondo quanto alle pubblicazioni di racconti – allora ci sono più possibilità che qualcuno li legga questi benedetti racconti.

La vostra è la prima casa editrice italiana dedicata ai racconti. Tempo fa abbiamo conosciuto Rossella Milone, autrice di racconti e ideatrice dell’osservatorio Cattedrale che intende monitorare, promuovere e sostenere il racconto. Sembrerebbe un punto di riferimento prezioso per il vostro lavoro. Che cosa ne pensate?
Di Cattedrale? Tutto il bene possibile. Avere il loro riconoscimento per noi è stata una delle soddisfazioni più grandi. Mentre sondavamo i vari amici nell’ambiente editoriale e leggevamo racconti di ogni sorta, il fatto che ci fosse quel faro acceso sull’universo dei racconti per noi era un’indicazione di un pubblico di lettori che andavano solo snidati. Non che avessimo dubbi, ma Cattedrale come pure altre community online dimostravano plasticamente l’interesse dei lettori – e il bolso disinteresse delle case editrici – per i racconti. Poi dentro ci si trovano delle cose davvero meravigliose e fanno un lavoro pazzesco.

Scorrendo le copertine dei vostri libri pubblicati, ci si imbatte in autori dai nomi spesso impronunciabili e sconosciuti, differenti per nazionalità, genere, formazione. Come è avvenuta e avviene la scelta. In altre parole, qual è il progetto editoriale di Racconti edizioni?
Mah chissà, magari l’oggettiva difficoltà a pronunciare Ó Ceallaigh (che poi in realtà si dice comodamente come la parola italiana occhiali) e il fatto che scriva solo racconti o quasi gli hanno precluso la pubblicazione con un editore più grande qui in Italia. È tradotto in molte lingue, ha vinto il Rooney Prize che è il premio principale per la narrativa irlandese e in Uk pubblica con Granta e Penguin.
Sul fatto che i nostri autori siano perlopiù sconosciuti non sono del tutto d’accordo. Mistry ha sfiorato per tre volte il Man Booker Prize e da noi era pubblicato da Mondadori e Fazi. Faye ha pubblicato una novella e un romanzo con Barbès e Clichy prima della raccolta Sono il guardiano del faro con Racconti e in Francia è pluripremiato. Il romanzo precedente di Tyrewala l’ha pubblicato Feltrinelli ed è osannato da Salman Rushdie e Manil Suri. Baldwin è un gigante della letteratura americana, da noi lo pubblicava Rizzoli, se uno si facesse un giro online lo vedrebbe fotografato assieme a Bob Dylan, citato da Obama e Ta-Nehisi Coates a spron battuto. Per capirci, a febbraio esce anche I Am Not Your Negro, un film su di lui. Difficile dire sia uno sconosciuto (per quanto gli americanisti nostrani raramente se ne ricordano, tutti presi come sono a osannare il prototipo classico dello scrittore vista Manhattan borghese, di buone letture, maschio, bianco ed eterosessuale). Stephen Graham Jones negli Stati Uniti finisce regolarmente nelle liste dei migliori libri di genere horror. Virginia Woolf non c’è nemmeno bisogno di menzionarla. Poi per carità se riusciamo a portare o a riportare in auge nomi un po’ meno bazzicati dai lettori nostrani non possiamo che esserne felici. Se non li si è letti i libri sono sempre nuovi, anche a distanza di decenni.

libri
Al di là dei nomi e della relativa notorietà dei nostri autori, il nostro progetto letterario-culturale ci si è chiarito con le letture e se vogliamo indagando a posteriori ciò che finiva per attirare la nostra attenzione e piacerci. In questo, l’abbiamo detto più volte, è stato fondamentale un libro, ossia Kafka. Per una letteratura minore di Deleuze e Guattari. Ci sembra che le cose migliori che leggiamo vengano da chi ha una prospettiva alternativa e obliqua rispetto alla lingua e alla cultura in cui si muove, da chi, per dirla altrimenti non è a suo agio con gli altri e con sé, chi ha un’identità scissa e vive da straniero, in patria o altrove. Ci piacerebbe, come ha detto Emanuele, che anche i nostri autori di lingua italiana, in questo senso, fossero stranieri in patria e abitassero una lingua che non dànno per scontata e che devono giocoforza reinventare.
Questa cosa si è tradotta e ha avuto una ripercussione ovvia sui nostri libri. Philip Ó Ceallaigh è il prototipo dello sradicato, uno che ha abbandonato la terra natia a diciannove anni per viaggiare ovunque nel mondo, fare i mestieri più disparati e peggio pagati, per poi finire senza un soldo, come un migrante economico all’incontrario, a Bucarest in Romania. E questa cosa, come pure il suo retaggio working class, si sente nelle sue pagine; penso anche solo ai suoi liberatori ritratti del lavoro di fatica, della routine annichilente, di giorni uno uguale appresso all’altro in attesa dello sfogo del fine settimana.
Ma anche in un libro più filosofico-metafisico come Sono il guardiano del faro, il viaggio, l’elogio di una fuga da fermo, immaginifica o reale, e la scoperta del limite, dei confini e dell’altro diventano i punti nodali di racconti surreali e profondamente kafkiani. Faye ha viaggiato in estremo Oriente, in Siberia e in Kamčatka (no, non esiste solo a Risiko, sono rimasto basito anche io), ha vissuto dieci anni in Giappone e questi suoi viaggi e aneliti, la sua irrequietezza, traspaiono nei suoi racconti.
Poi Racconti ha l’ambizione di essere la casa delle short stories ed essendoci avocati un nome simile è giusto che questa nostra visione letteraria non diventi onnicomprensiva e che fatalmente si pubblichi anche il famoso scrittore vista Manhattan borghese, di buone letture, maschio, bianco ed eterosessuale di cui sopra. A patto che sia bravo.

Quali sono le principali fonti di ricerca per le vostre pubblicazioni: riviste letterarie, blog, cataloghi, il web in generale, il passaparola?
Gran parte del catalogo di quest’anno e del prossimo erano in nuce nel progetto editoriale che avevamo stilato, sono davvero pochi i titoli che sono arrivati in un secondo momento su suggestioni altrui. Come abbiamo trovato i libri? Banalmente leggendoli. Scovandoli su internet o in qualche recensione del Guardian, alcuni su Goodreads, altri su liste strampalate dei migliori racconti a tema stregonesco o con un cane parlante per protagonista. Fatico a ricordare come sono avvenuti certi incontri, ma lo scouting è forse la cosa più divertente di questo mestiere. Poi, certo, bisogna anche ragionare sulla costruzione di un catalogo fatto di libri che si rimandino tra di loro e che messi assieme siano come una casa con moltissimi ingressi e tante finestre.
Di sicuro avevo letto Albero di carne in inglese prima che la casa editrice fosse anche solo reconditamente un’eventualità, l’avevo finito e mi ero meravigliato di come nessuno in Italia lo avesse pubblicato. Stephen Graham Jones vende carrettate di copie negli Stati Uniti ed è uno dei nuovi maestri della narrativa horror e weird. Voglio dire, io ero venuto a sapere della sua esistenza tramite un’intervista credo sul Venerdì a Lansdale che lo citava tra i suoi autori preferiti… Pazzesco che non se ne sia accorto nessuno, prima. Una volta deciso il progetto lui è stato uno dei primi nomi a spuntare fuori e l’abbiamo contattato al suo indirizzo mail che è una cosa esilarante tipo banditboy@qualcosa ed è praticamente subito stato della partita.
Tra gli altri entusiasti dell’intera operazione possiamo annoverare anche Philip Ó Ceallaigh, che ho stalkerato direttamente su facebook e ormai è un habitué del Bel Paese. L’abbiamo portato a Torino, a Treviso e a Roma e siamo entusiasti del successo che sta riscuotendo tra i lettori. Non appena abbiamo letto Appunti da un bordello turco è stato amore a prima vista e abbiamo saputo immediatamente che doveva essere il nostro numero 1.
Di loro due, siamo davvero orgogliosi di averli pubblicati e portati per la prima volta in Italia.

Philip Ó Ceallaigh

Philip Ó Ceallaigh

Avete più volte annunciato che nel 2017 pubblicherete il primo libro di racconti di uno scrittore esordiente italiano.  I lettori sono pronti a leggere racconti italiani?
Sì. Se ne pubblicano diversi peraltro e i lettori forti, siano essi lettori abituali o meno di racconti, fanno poco caso alla forma. Ci sono moltissimi scrittori di racconti italiani che amiamo e leggiamo e non siamo mosche bianche in questo, come noi li leggono in tanti. Scrivono racconti belli Paolo Cognetti, Michele Mari, Valeria Parrella, Rossella Milone, Luca Ricci, Elena Varvello, Vitaliano Trevisan dico i primi nomi che mi càpitano in testa un po’ alla rinfusa, ma non li leggiamo mica solo noi.
A partire da gennaio, su Altri animali (www.altrianimali.it) chiederemo proprio agli autori che ci piacciono di parlarci dei loro libri di racconti preferiti, sarà una rubrica fissa o quasi e si chiamerà «Racconti dalla cripta», con una citazione che gli aficionados dello Zio Tibia apprezzeranno.

A parte Stefano Friani ed Emanuele Giammarco, da chi è composta la casa editrice e come è suddiviso il lavoro?
Il lavoro è diviso male, anzitutto. Nel senso che tutti fanno tutto. Siamo ancora in una fase di rodaggio e ci stiamo via via specializzando ognuno nei nostri compiti, ma non è male mettere le mani in pasta un po’ in tutti gli ambiti editoriali e non, crescendo assieme e acquisendo man mano competenze che mai avremmo ottenuto nel nostro ruolo da stagisti eterni che la società ci aveva assegnato.
Oltre a me ed Emanuele, c’è Leonardo Neri, che cura il blog Altri animali e la nostra comunicazione web e social. Ma in realtà fa molto di più di questo: dalle bozze ai pacchi, fino alle scelte editoriali e strategiche, è compartecipe al cento per cento con noi di questa avventura. Siamo per il diy e, per ora, in tre, ci destreggiamo artigianalmente in tutti i compiti che in una casa editrice medio-piccola fanno in dieci persone. La casa editrice è diventata giocoforza la nostra vita.

scarafaggioUno sguardo al progetto grafico e al logo. Lo scarafaggio richiama inevitabilmente Kafka e il suo racconto La metamorfosi. Perché questa citazione (ammesso che sia una citazione)?
Tutto nasce da un veto, lo ricordo bene perché l’avevo messo io. Basta animali nei loghi: niente elefantini, pavoni, struzzi, tonni ecc. Poi un bel giorno, io ed Emanuele, che all’epoca era di stanza a Londra, stiamo chattando su facebook riguardo al progetto grafico e lui se ne esce con l’idea di adottare uno scarafaggio come logo. Ritratto immediatamente il veto e aderisco con entusiasmo alla mozione scarafaggio.
Da allora, anche grazie alla consulenza della mai troppo ringraziata e lodata Monica Aldi, veniamo a sapere che Franco Matticchio aveva disegnato uno scarafaggio kafkiano che proiettava un uomo come sua ombra o viceversa, ora non ricordo. Entusiasti gli chiediamo di lavorare a un logo, lui si innamora del progetto e pur non avendone mai fatto uno, tira fuori quella bellezza che ora campeggia sulle nostre copertine.
Il nostro sfigatissimo scarafaggio sembra quasi rivolgersi al lettore, si agita non riuscendo a rimettersi in piedi, lo fissa negli occhi e gli chiede aiuto. Del resto, non potevamo avere un altro simbolo considerato come vengono visti i racconti da noi e, diciamolo, c’era anche un’identificazione di noi come persone che stavano faticosamente avviando una casa editrice. Ci piaceva scegliere un underdog simile e poi il richiamo a La metamorfosi, il miglior racconto mai scritto, e a Kafka, che con la sua letteratura di minoranza è il nostro nume tutelare, erano troppo invitanti per non essere raccolti.

Stephen Graham Jones

Stephen Graham Jones

Sul progetto grafico: l’esigenza e la volontà erano di avere l’oggetto assieme al progetto, fare libri belli dentro e fuori. La lettura è un’esperienza anche estetica che coinvolge molti sensi, olfatto tatto vista, e quindi era importante che la carta fosse di qualità, così come la rilegatura e così via. Sulle illustrazioni siamo stati subito d’accordo, volevamo che fossero il più essenziali possibile e che restituissero al contempo la compiutezza e la scarnezza del racconto, per questo abbiamo anche deciso di accludere un bozzetto dell’autore o dell’autrice in bandella. Pochi tratti che servono a tratteggiare un intero universo, questo era il principio.
Io ed Emanuele, da buoni illuministi, poi, amiamo i libri bianchi: quelli di Quodlibet e Nottetempo come quelli delle case editrici per cui abbiamo avuto la fortuna di lavorare, Einaudi e Il Saggiatore. Non solo in libreria o alle fiere saltano subito all’occhio – sebbene siano facili a sporcarsi, e croce e delizia di ogni libraio – ma sono libri che ci rappresentano e che non inseguono mode di passaggio, non sono sgargianti e fotogenici come altri che poi finiscono a svernare sulle bancarelle dei remainders. Qualcuno ha detto che erano libri tutto sommato già visti, e può ben darsi. Basta entrare in una libreria in Francia per rendersi conto di come quasi tutti i libri si assomiglino e abbiano una smaccata tendenza al bianco, anche lì. Racconti ambiva a diventare la casa delle short stories e un progetto grafico «classico», che si richiama alla tradizione nobile della nostra editoria, poteva essere accogliente sia per i racconti più tradizionali di Eudora Welty sia per quelli granguignoleschi di Stephen Graham Jones. E poi del resto, come diceva Antoni Gaudí, l’originalità sta nel tornare alle origini.

Chi ti viene in mente se dovessi fare un nome di un autore celebre per i suoi romanzi ma che ha scritto racconti meravigliosi?
Be’ qualcuno l’abbiamo anche pubblicato, penso a Rohinton Mistry o a Virginia Woolf, universalmente noti per i loro romanzi (nel caso di Mistry romanz-oni) eppure autori di racconti a dir poco sensazionali. Ma evitando l’autopromozione, una volta tanto, potrei sparare un nome nel mucchio di uno scrittore che ahinoi si legge sempre meno: Paul Bowles.
Okay, state andando in Marocco (o più improbabilmente in Algeria) e vi siete procurati Il tè nel deserto, avete perfino visto il film di Bertolucci. Ora non avete che da setacciare il web (difficile che li troviate in libreria, a meno che non li ordiniate) e rimediare anche La delicata preda e Messa di mezzanotte, e se riuscite anche le sue antologie tradotte e curate da lui di autori marocchini (tra le sua scoperte lo Choukri di Il pane nudo), non ve ne pentirete.

Con quale libro hai iniziato il viaggio nella lettura e quali sono i tre libri più importanti della tua vita?
Dei libri letti da bambino ho ricordi assai sfocati, l’unico che mi ha lasciato una memoria imperitura è La guerra dei bottoni di Louis Pergaud, con queste bande di ragazzini che si facevano imboscate e non perdevano occasione di far partire una bella sassaiola, me lo ricordo come fosse ieri. C’è da stupirsi che non sia diventato un black bloc, in effetti, anche se c’è mancato poco.
Sui tre libri più importanti della mia vita la vedo durissima rispondere. Posso dire quelli che mi hanno influenzato o segnato di più da ragazzo e che non hanno mai smesso di esercitare un certo richiamo: La notte del drive-in di Lansdale, Altri libertini di Tondelli, Pulp di Bukowski. (Dopo questa lista l’intervista perderà metà dei lettori lo so, ma poteva andarvi peggio: avrei potuto dire Il giorno dello sciacallo di Forsyth, I sei giorni del Condor di James Grady assieme a un accostamento implausibile e inconsequenziale tipo L’importanza di chiamarsi Ernest di Wilde.)

Quando eri piccolo che cosa desideravi diventare da grande?
Oddio, come tutti i bambini credo fossi vagamente mitomane e aspirassi a essere il sovrano di una monarchia universale illuminata parzialmente temperata da istituti democratici tipo il tabaccaio che vendeva le Goleador e il pizzettaro vicino la scuola. Insomma, non auspicavo la servitù della gleba, ma non ero neppure visceralmente contrario. A mia parziale discolpa posso dire di essere cambiato molto, non so se in meglio.
Mi piaceva leggere questo sì: un sacco di «Piccoli Brividi» e libri game, quelli di Lupo solitario su tutti, e poi i fumetti Bonelli, soprattutto Tex.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Il mio comodino è un disastro; se un investigatore volesse tirarne fuori un profilo psicologico sarei nei guai sul serio. Al momento ci sono Auto da fé di Canetti, Viaggio in Russia di Joseph Roth, I racconti di Kolyma di Šalamov, Anatomia di un soldato di Harry Parker, il terzo volume Fanucci di Tutti i racconti di Ballard. Esco da una full immersion totale e devastante nei libri sulla guerra in Iraq, per cui perlomeno per un po’ vorrei evitare di leggere di frutteti massacrati e torture a prigionieri di guerra bendati e ammanettati.
Ora per Natale mi vorrei concentrare su qualche lettura arretrata di italiani: La gemella H di Giorgio Falco, Tutti i bambini di Giuseppe Zucco, Overlove di Alessandra Minervini, Fuori si gela di Debora Omassi, Medusa di Luca Bernardi e A pietre rovesciate di Mauro Tetti. Ho i libri di Malerba sparsi un po’ ovunque, ma quelli me li centellino per quando sono davvero giù di corda dopo l’ennesimo libro deludente.
Poi ci sono anche cose che mi sono più consone: I veri credenti di Joseph O’ Connor, un libro di racconti uscito una miriade di anni fa per Stile Libero, e la trilogia di libri irlandesi di Milieu edizioni (On the Brinks di Sam Millar, Bomber Renegade di Michael Dixie Dickson e The General di Paul Williams), che è precisamente il genere di cose che adoro leggere. Temo di avere un leggerissimo feticismo per banditi, hooligan, storia e cultura britannica e, nemmeno a dirlo, per l’epoca dei Troubles.
Comunque sì, è un comodino molto affollato.

 

 

Cosa leggiamo a Natale. I consigli dei Serpenti

Come ogni anno, eccoci arrivati alle porte del Natale. Anche quest’anno, dunque, arrivano puntuali i consigli dei Serpenti.

Emanuela D’Alessio
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Leggere per viaggiare o viaggiare per leggere? In realtà la lettura è di per sé un viaggio, di cui spesso si ignorano i punti di partenza e di arrivo.
Con Le otto montagne di Paolo Cognetti (Einaudi, 2016) si parte da Milano per arrivare a Grana, ai piedi del Monte Rosa, passando per il Nepal e le valli sacre dell’Annapurna. Inizia così un andare e venire dall’estate all’inverno, un salire e scendere tra pascoli, boschi e alpeggi, una storia d’amore con la montagna che dura una vita intera, tra un padre un figlio, tra due amici che si scoprono da bambini e si ritrovano adulti. Si cammina e ci si arrampica, si suda e si soffre, si ascoltano i suoni della notte gelida e del ghiacciaio che si ritira, si scopre che «l’estate cancella i ricordi proprio come scioglie la neve, ma il ghiacciaio è la neve degli inverni lontani, è un ricordo d’inverno che non vuole essere dimenticato».
Una bellissima e potente storia, da leggere con lo stesso incedere lento e costante di chi va in montagna, per fermarsi solo quando si è arrivati in cima.

Con Karma clown di Altaf Tyrewala (traduzione di Gioia Guerzoni, Racconti edizioni, 2016) si precipita nel caos spiazzante di Mumbai, trascinati dalla voce sferzante e ironica di uno scrittore atipico e sconosciuto ai più, nato a Mumbai nel 1977, attualmente residente negli Stati Uniti. Il suo ritorno in Italia (era uscito per Feltrinelli nel 2007 il romanzo Nessun dio in vista) lo dobbiamo alla traduttrice Gioia Guerzoni: «Altaf è stato la mia guida a Bombay per tantissimi inverni. Peccato che ora abiti a Dallas, e che Modi sia al governo. Non ci vediamo da tempo ma sono riuscita a proporre i suoi racconti durissimi e molto poco Shining India, Karma clown, a un altro editore del cuore» (dall’intervista di Elvira Grassi, novembre 2016) e ai due giovani editori romani Stefano Friani ed Emanuele Gianmarco di Racconti edizioni. Quattordici racconti per narrare, tra iperrealismo e fantasia, un’umanità eterogenea, sgangherata e cialtrona, cinica e idealista. Da non perdere l’incipit di Libri nuovi e di seconda mano, con cui si apre il libro. «La lettura è sopravalutata. Non leggo un libro da anni e sto bene lo stesso, grazie tante. Solo perché vendo libri di mestiere non vuol dire che debba sapere di cosa parlano. Sono come un chimico. Se provassi i miei prodotti sarei già morto e sepolto oppure molto molto malato. E comunque è così che vedo i libri, come una cura per menti malate, stampelle di carta per intelletti vacillanti che faticano a trovare un appiglio nel mondo».

Infine, per concludere questo viaggio o per renderlo infinito, c’è Bussola di Mathias Enard (traduzione di Yasmina Melaouah, Einaudi, 2016), un libro maestoso e imponente, raffinato e inesauribile, che ha vinto il Premio Goncourt nel 2015. Una storia d’amore che si snoda per anni tra Europa, Iran, Siria e Turchia. Un romanzo senza limiti temporali e senza confini, dove perdersi e smettere di cercarsi.

Rossella Gaudenzi
Uno degli incontri sulla letteratura per ragazzi tra gli undici e i quattordici anni tenuti da Carla Ghisalberti un anno fa verteva sul tema “La banda… uno, nessuno e centomila”. In quell’occasione sono stati presentati diversi libri sull’argomento. Uno in particolare mi era venuto in mente, La guerra dei bottoni di Louis Pergaud nell’edizione integrale BUR ragazzi a cura di Antonio Faeti. La presentazione di Susanna Mattiangeli mi ha fatto pensare a un romanzo giocoso, un classico scritto oltre cento anni fa, nel 1912, dal linguaggio obsoleto e spassoso. L’ho acquistato di recente, finalmente, e lo leggerò senz’altro durante il periodo natalizio.

bordelloA completare la mia selezione natalizia ci sono due titoli destinati a un pubblico più maturo, acquistati a Più Libri Più Liberi di quest’anno. Appunti da un bordello turco di Philip Ó Ceallaigh (traduzione di Stefano Friani), il libro numero uno (maggio 2016) della nuova piccola casa editrice romana Racconti edizioni. «Se vuoi farti un’idea di come se la passa una città devi andare a vedere i suoi margini. Il centro ti dirà che va tutto bene. La periferia ti dirà il resto». L’autore, nato in Irlanda, vive a Bucarest da quindici anni, ha girato mezzo mondo ed è approdato alla scrittura dopo aver svolto una moltitudine di lavori, i più disparati. Ammetto di avere grandi aspettative da questa nuova realtà editoriale.

L’esile Pronto soccorso per scrittori esordienti di Jack London (traduzione di Andreina Lombardi Bom, minimum fax 2005), raccolta di testi narrativi, lettere e brevi saggi sul mestiere della scrittura, ha solleticato la mia curiosità. L’associazione tra autore e titolo mi è sembrata insolita e questo è bastato per desiderane la lettura.

Elena Refraschini
Se non l’aveste già letta, il mio primo consiglio per queste vacanze è di gettarvi nella Trilogia della Pianura di Kent Haruf, recentemente ripubblicata in tiratura limitata da NN Editore in un cofanetto per i lettori più affezionati. Vi troverete raccolti, naturalmente, i titoli già pubblicati nel corso degli ultimi due anni: Benedizione, Canto della pianura e Crepuscolo. Le chicche che ve ne faranno innamorare, però, sono le due mappe della città di Holt disegnate da Marco Denti e da Franco Matticchio (chiunque si senta un esploratore oltre che lettore non potrà che lasciarsi incantare da questa proposta), e un messaggio da parte di Cathy Haruf, moglie dell’autore scomparso nel 2014.

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Anche i miei due prossimi titoli hanno a che fare col viaggio, anche se in sensi e intenti molto diversi. La graphic novel Il suono del mondo a memoria del fumettista italiano Giacomo Bevilacqua (Bao publishing, 2016) è una lettera d’amore a colori per New York, e la delicata storia che narra ne impreziosisce il risultato. Vi sfido a voltare l’ultima pagina e resistere all’impulso di prenotare il primo volo verso l’Atlantico.

Il terzo titolo è l’uscita più recente del mio autore del cuore, Kader Abdolah, che è passato in Italia qualche settimana fa per promuovere Un pappagallo volò sull’Ijssel (traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo, Iperborea, 2016). Una storia corale che, come gli altri titoli dell’autore, vi farà riflettere sui grandi temi, dalla guerra alla povertà, dall’immigrazione all’integrazione, all’amore e alla poesia. Ma, come ogni grande libro che si rispetti, alla fine vi costringerà a riposizionare qualcosa nel vostro arredamento emotivo.