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Consigli di lettura indipendenti #4

Ai protagonisti di Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti , la nostra novità editoriale del 2019abbiamo rivolto una nuova domanda:

Se ti trovassi nella necessità di regalare un libro, soltanto uno, quale sceglieresti e perché?

Ecco le risposte degli scrittori Luciano Funetta, Laura Fusconi, Elvis Malaj.

Luciano Funetta
Io consiglio Miracoli della vita di James G. Ballard (traduzione di Antonio Caronia, Feltrinelli), l’autobiografia per lacune di un terrestre alieno, un Canto di Natale capovolto.

Laura Fusconi
In questo momento sceglierei Luce d’estate ed è subito notte di Jón Kalman Stefansson (traduzione di Silvia Cosimini, Iperborea) perché l’ho letto tempo fa e ancora ne sento il riverbero.
In questo libro ho rivisto i cieli strappati dei fiordi occidentali islandesi e il vento che insegue le pecore nell’erba alta. Mi ha fatto male, mi ha fatto desiderare di essere nata vicino al mare e in un tempo diverso.
Ha un ritmo bellissimo e delle immagini disarmanti. Ti fa venire voglia di andare dalle persone a cui vuoi bene e dargli un pizzicotto. È un libro che parla di stelle e di solitudini, della vita in un paesino di quattrocento anime ai confini del mondo. Un caleidoscopio di storie. Chi parte, chi resta, chi torna per restare, chi, come me, crede che “a volte nei posti piccoli la vita diventa più grande”.

Elvis Malaj
La prima cosa da considerare quando si regala un libro è conoscere il lettore cui è destinato. Data la mancanza di questa informazione, voglio ipotizzare un lettore a mia immagine e somiglianza, il che rende il lavoro molto più facile. Quindi regalerei La vita davanti a sé di Roman Gary (traduzione di Giovanni Bogliolo, Neri Pozza). Il primo motivo è che affronta tanti temi importanti con ironia, intelligenza e una purezza insolita. Il secondo è l’uso che fa della lingua: la plasma, la altera, ci gioca. È un libro che mi ha fatto divertire tanto.

 

 

Otto anni nei boschi narrativi #6 Laura Fusconi

Titolo?
Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
Editore?
Via dei Serpenti
Uscita?
Settembre 2019

Riprendiamo i nostri assaggi di Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti con Laura Fusconi, giovane scrittrice all’esordio con Volo di paglia, per Fazi, un anno fa.
La prima intervista a Via dei Serpenti risale ad agosto 2018.  La nuova è di luglio 2019.
Qui uno stralcio.

Qualche parola su Volo di paglia
Grazie a Volo di paglia ho conosciuto persone bellissime, librai e lettori che con la loro passione mi hanno contagiato e mi hanno dato energie positive e voglia di fare. Ho visto posti e vissuto momenti che non dimentico più: il prosecco di Conegliano, il pesce di Ascoli, il giardino di una ex vetreria a Milano nord, la passeggiata nei luoghi del romanzo – dalla chiesa di Verdeto al castello di Boffalora – fatta insieme ai ragazzi della terza media di Agazzano: avevano letto tutti il libro, e guardavano, chiedevano, volevano sapere cosa era cambiato, cosa era invece rimasto uguale.
Grazie alla scrittura ho rivissuto emozioni e situazioni appartenute all’infanzia che credevo dimenticate: scriverne per me significa capirne il senso, vedere collegamenti che al tempo erano nascosti, i fili che legano le cose. E, soprattutto, significa dare ai ricordi un’intensità che altrimenti non avrebbero.
In Volo di paglia c’è un po’ di tutto questo [cinema], c’è tanto di Bertolucci, da Novecento a Io ballo da sola, ci sono i campi di grano di Io non ho paura di Gabriele Salvatores e i colori di L’uomo che verrà di Giorgio Diritti.

Il futuro
Ho alcuni punti fermi e faccio del mio meglio per vivere il presente, per il resto lascio che le cose accadano e cerco di accettarle. In quello che sto scrivendo adesso racconto di come la vita sia scandita da punti nodali che ne determinano il corso. Parlo di equilibri saltati, di incontri che salvano, di traumi che inizialmente possono sembrare solo negativi, ma che alla lunga diventano un’occasione. Anche questa volta sono storie del piacentino: la realtà contradditoria della provincia, dove alla libertà dello spazio geografico si contrappone di frequente la ristrettezza della mentalità degli abitanti, caratterizzata da meschinità, pregiudizi e spesso vigliaccheria, è qualcosa che rifiuto, ma che al tempo stesso mi affascina approfondire.

RACCONTI ITALIANI #3 – Intervista a Laura Fusconi, una voce che arriva dal passato

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

di Emanuela D’Alessio

Laura Fusconi, piacentina, ha 28 anni, lavora come grafica e appena può scappa in campagna per leggere e disegnare. Scrive storie per piacere. «Ci sono storie ovunque, alcune sono così belle che è un peccato vadano perse». Per scrivere ci vogliono pazienza e umiltà, ma più di ogni altra cosa «prepararsi a sputare sangue». A settembre uscirà il suo primo romanzo, Volo di paglia,  nato da una fotografia di sua madre del 1981,  «lei bella come il sole al castello di Boffalora, dove aveva affittato una stanza per l’estate». La “voce” di Laura Fusconi arriva dalla sua infanzia, dalle letture di Roald Dahl, dal suo film preferito Novecento, dalle fotografie della nonna.

Sei nata a Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, pochissimi anni fa, dopo gli studi classici ti sei dedicata alla grafica e alla scrittura, passando dalla scuola Holden di Torino. Hai scritto qualche racconto ma sei subito arrivata al romanzo, di cui aspettiamo l’uscita a settembre. Ebbene, che cosa fai in attesa di trovare il tuo primo libro in libreria?
In realtà continuo la mia vita di sempre: lavoro come grafica nel reparto creativo di un’azienda di Lodi e nei weekend scappo in campagna, a Verdeto, dove posso leggere, disegnare con gli acquerelli e farmi viziare dalla cucina di mio padre.
Certo, il pensiero del libro in uscita rende belle anche le giornate con trentasette gradi passate sui binari ad aspettare treni in ritardo.

Raccontare storie è, per te, una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
Raccontare storie per me è un piacere: mi diverto a inventare situazioni e personaggi, a scrivere dialoghi e a cacciare qua e là dettagli, pezzi di frasi e di persone che mi hanno colpito. Ci sono storie ovunque, alcune sono così belle che è un peccato vadano perse. Mi piace fermarle sulla carta. Avere l’impressione di riuscire in qualche modo a trattenerle.

Hai frequentato la celebre scuola Holden che, nel tuo caso, sembra aver determinato ottimi risultati. Devo quindi ricredermi sull’effettiva utilità delle scuole di scrittura?
I due anni della scuola Holden sono stati un tempo mio in cui ho potuto chiedermi se scrivere era davvero quello che volevo fare. Il confronto quotidiano con tanti ragazzi di talento ha rappresentato per me uno stimolo e un’occasione fondamentale per riflettere. Lì ho incontrato Leonardo Luccone, che mi ha subito colpito per la sua sensibilità e il suo gusto in ambito letterario.
Per quanto riguarda le scuole di scrittura in generale, credo che possano rappresentare una palestra significativa: certo non insegnano propriamente a scrivere, ma letture, incontri, discussioni, analisi ed esercizi aiutano a focalizzarsi meglio sulla scrittura e a trovare la propria voce. Il rischio da scongiurare è quello dell’appiattimento e dell’omologazione, perché l’originalità e l’anticonformismo non sempre vengono premiati.

Da una parte ci sono le scuole di scrittura con costi di iscrizione anche elevati, dall’altra i forzati del self publishing, sempre più numerosi e incoraggiati dalla prospettiva di celebrità a costo zero e senza intermediari. In mezzo ci sono gli agenti letterari, ad esempio Oblique Studio che ti rappresenta, e in un angolo le centinaia di manoscritti nelle case editrici con l’unica prospettiva di prendere polvere. Che cosa c’è di giusto e sbagliato, necessario e superfluo in questo scenario?
Non mi ritengo la persona adatta per dire cosa c’è di giusto o di sbagliato in tutto questo: sono l’ultima arrivata. Nel mio piccolo, parlando della mia esperienza, penso che le parole chiave siano pazienza e umiltà. La pazienza perché il tutto e subito non esiste, e l’umiltà per non credere che quello che hai scritto sia da Nobel e tu un genio incompreso perché al 99% non lo sei. Penso sia sbagliato voler pubblicare a tutti i costi senza confrontarsi: puoi piangere finché vuoi, ma è fondamentale ascoltare le critiche, tutte, tornare e ritornare testa china sul proprio lavoro, lasciare da parte presunzione e arroganza che non portano a niente, trovare un buon agente, cercare di pubblicare su riviste, online e soprattutto cartacee e, più di ogni altra cosa, prepararsi a sputare sangue.

Soffermiamoci sul tuo racconto Le bambole non muoiono, una storia dai toni fiabeschi che, come tutte le favole, si nutre di mistero e magia, sempre in bilico tra realtà e fantasia, con un finale che lascia un brivido di inquietudine. Il tuo sguardo contemporaneo si sofferma sugli echi del passato per restituire voce a chi non è più. Uno sguardo profondo e intenso che suscita sorpresa e incanto. Da dove arriva questo sguardo?
Arriva dalla mia infanzia, dai miei genitori, dalle domeniche passate nella casa delle zie di mia madre, dai libri di Roald Dahl che leggevo da piccola, dalle storie che inventavo per terrorizzare mia sorella e da quelle che raccontava mio fratello non facendomi dormire la notte. Arriva da Novecento di Bertolucci che è il mio film preferito, dalle foto che mia nonna tirava fuori da una scatola di latta che teneva sopra l’armadio.

I tuoi racconti sono comparsi, oltre che sulle rassegne di Oblique, su alcune riviste letterarie. Qual è o dovrebbe essere il ruolo delle riviste letterarie nel mondo (ristretto) dell’editoria: palestre di scrittura, trampolini di lancio, luoghi culturali alternativi, rifugio per disillusi?
Le riviste letterarie sono un’occasione per chi vuole scrivere, una tappa fondamentale nel percorso di un autore dato che rappresentano il primo momento di confronto con l’editoria e il pubblico. Leggerle è piacere per la cura, l’attenzione ai dettagli e alla qualità che le caratterizzano.

Non parleremo ovviamente del tuo romanzo, Volo di paglia, perché lo faremo quando lo avrò letto. Però posso chiederti di raccontare rapidamente la sua gestazione, che mi sembra sia stata abbastanza lunga, e ancor prima, la sua idea originaria e l’incontro con Leonardo Luccone.
Del romanzo posso solo dire che è stato un lavoro lungo e bellissimo, non si arriva mai alla fine: ancora adesso non ci credo; forse quando lo vedrò in libreria incomincerò finalmente a realizzare. L’idea originaria è una fotografia di mia madre: 1981, lei bella come il sole al castello di Boffalora, dove aveva affittato una stanza per l’estate.

Scrittori e libri non possono fare a meno delle librerie, che restano sempre l’anello più debole della filiera editoriale. Confesso di non sapere affatto se Piacenza sia o meno una città viva sul piano culturale e letterario. Né conosco il contesto librario piacentino. Puoi fornire tu qualche indicazione?
La mia città ospita da sempre festival culturali di caratura nazionale: il mio preferito era Carovane, che ha portato in Italia scrittori come Luis Sepúlveda e Paco Ignazio Taibo II.
Lì, da ragazzina, avevo incontrato Bianca Pitzorno: era stata un’emozione farmi fare la dedica su Ascolta il mio cuore, quando ancora mi stavano antipatiche tutte le bambine che si chiamavano Sveva ed ero sicurissima che avrei chiamato mia figlia Prisca. Ora il posto di Carovane è stato preso dal festival blues Dal Mississippi al Po, che alla letteratura ha aggiunto la musica. In città ci sono tre librerie indipendenti (Fahrenheit, Bookbank, Romagnosi) che costituiscono importanti punti di aggregazione.

Come dovrebbe essere la tua libreria ideale e ti è capitato di entrarci almeno una volta?
Una via di mezzo tra Shakespeare and Company a Parigi, Strand a New York e City Lights a San Francisco: un posto pieno di divani e corridoi stretti, dove puoi passare ore a vagare tra gli scaffali e a parlare coi librai e con altri lettori.

Che tipo di lettrice sei (ordinata, compulsiva?) e qual è stato fino ad ora il tuo percorso di lettura?
Leggo molto, da sempre, di tutto. Quando trovo uno scrittore che mi è affine divento compulsiva e leggo tutto quello che trovo di suo. I primi che mi vengono in mente sono Cesare Pavese, Haruki Murakami, Irène Némirovsky, Kent Haruf, Alice Munro, Marilynne Robinson ed Elizabeth Strout. A proposito, non smette di emozionarmi il pensiero che il mio Volo di paglia uscirà proprio nella stessa collana dei romanzi Olive Kitteridge, I ragazzi Burgess, Resta con me, Amy e Isabelle.

Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
In questo momento La famiglia Aubrey di Rebecca West. In pianta stabile La luna e i falò di Cesare Pavese, Il fucile da caccia di Inoue Yasushi, La banda dei brocchi di Jonathan Coe e tutto il teatro di Sarah Kane.

 

 

RACCONTI ITALIANI #3 – Le bambole non muoiono

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

Le bambole non muoiono di Laura Fusconi è uscito sulla Rassegna di Oblique (febbraio 2016). Ringraziamo Leonardo G. Luccone per la gentile concessione.

di Laura Fusconi*

Il buio davanti a noi mi è familiare. Erano anni che non scendevo qua sotto e ci metto un po’ a trovare l’interruttore, come se nel tempo fosse scivolato più in basso. Matilde si lamenta e mi stringe più forte la mano. Io accarezzo la polvere.
Quando la luce investe la stanza, i miei occhi fanno fatica ad abituarsi e per un attimo mi sembra tutto sbiadito, un limbo di oggetti usati troppo o non usati mai. C’è qualcosa di inquietante nel modo in cui sono ammassati gli scatoloni e i sacchi di vestiti smessi, con i nomi delle stagioni scritti a pennarello su nastri di scotch. L’armadio, la cassapanca e la credenza sembrano guardarci con rassegnazione: mobili vecchi, ma ancora in buono stato, che è un peccato buttare per cui li si lascia qui, dove possono essere dimenticati senza sensi di colpa.
«Aiutami a cercare i piatti azzurri della nonna» dico a Matilde.
Lei mi lascia la mano e senza dir nulla raggiunge un cavallino a dondolo abbandonato in un angolo. Era il mio. I suoi occhi dipinti, neri e tondi, mi paiono tristi ora, ma forse è per via delle ombre che tagliano la stanza.
Mi avvicino al comò – troppo austera per il salotto di una casa moderna – e apro il primo cassetto: maglioni di lana con fantasie fuori moda. L’odore di vecchio mi pizzica le narici.
Nel secondo trovo foulard di seta e vestiti di carnevale. Sorrido nel vedere quello di Arlecchino, il mio preferito. Lo tiro fuori con delicatezza e scopro che manca il secondo bottone e che una manica è scucita. Mi chiedo se possa andare bene a Matilde e mi volto per mostrarglielo, ma le parole mi muoiono in gola.
Matilde è seduta per terra e tiene in grembo la teca con la treccia di Delfina. La guarda stupita, sfiorando il coperchio di vetro.
Mi avvicino e le tolgo la teca dalle mani.
«E questa dove l’hai trovata?»
Indica il ripiano basso del mobiletto vicino al cavallo a dondolo. Ero certa si trovasse da un’altra parte.
«è la treccia di una bambola» dico in fretta, per rispondere al suo sguardo interrogativo.
«Ma è morta» dice lei.
«Le bambole non muoiono.»
«No, la treccia. è morta.»
Rimango in silenzio.
«Sono capelli, come i tuoi» dico poi.
«I miei sono più biondi.»
«I tuoi sono bellissimi.»
Matilde mi guarda e io non so più cosa dire. Ho il vestito da Arlecchino in una mano e la teca nell’altra.

Era il nostro segreto più bello, quello che nonno Ezio ci raccontava ogni volta che mamma e papà uscivano. Non appena la porta si chiudeva, io e mio fratello ci precipitavamo in sala, davanti alla poltrona verde dove sedeva sempre il nonno. Si toglieva gli occhiali con un sorriso compiaciuto e ci squadrava come per valutare se fossimo all’altezza. Poi si chinava verso di noi e ci chiedeva, abbassando la voce: «Siv sicur?».

Delfina era la sorella della mia bisnonna, settima di dieci figli cresciuti come animali selvatici, scuri e magri da far spavento, con i denti storti e le mani consumate.
«Guardì i me occ» diceva sempre nonno Ezio. «A i enn i medesim occ ad me mèr. I medesim occ ch’ a gh’emma tutt’ in famiglia. I occ ch’a gh’avi anca viètar
Delfina era la sola ad avere gli occhi blu e i capelli biondi, motivo d’orgoglio per i genitori che la esibivano come un gioiello e cercavano di vestirla meglio che potevano. Dicevano che era il fiore della famiglia.
La maestra non la rimproverava mai, neanche quando non sapeva le risposte o sbagliava le operazioni alla lavagna. Si era arrabbiata con lei solo la volta in cui aveva rovesciato l’inchiostro del calamaio: stringendo nel pugno il vasetto, Delfina aveva alzato la mano, come per prendere parola, poi se l’era versato sui capelli senza dire nulla.
I compagni di scuola la guardavano con stizza e i fratelli, sulla via di casa, acceleravano il passo e la lasciavano indietro. Non parlava quasi mai.

Isolotto Maggi (Piacenza)

Piacenza, con i suoi lunghi viali alberati, si attraversava in venti minuti, fino al Po.
D’estate il fiume si animava: sull’isolotto Maggi andavano a fare il bagno con costumi castigatissimi le signorine e i signorini di buona famiglia, mentre in certe anse i figli dei braccianti lasciavano i vestiti sull’erba e sguazzavano nudi, inseguendo rane e pesci gatto.
Ma nei mesi autunnali, quando la luce cambiava con la stessa rapidità della corrente e le ombre lunghe dei pioppi scendevano sull’argine come fantasmi, il Po si faceva gonfio e muto, e la nebbia, una nebbia compatta che si alzava lenta dall’acqua, sembrava cancellare il passato. La gente si chiudeva in casa e lungo il fiume non si vedevano più pescatori, né carrettieri o lavandaie. Soltanto il prete di Borgotrebbia, ogni tanto, si spingeva più a ovest dell’argine fino alla chiesa sconsacrata degli appestati, per togliere le croci rovesciate e cancellare i pentacoli che qualche fanatico disegnava davanti al vecchio altare.
Non lontano dalla chiesa si poteva scorgere una cascina tra gli alberi, con le persiane scrostate e i muri cadenti. Ci abitava la Corca, una vecchia incattivita dalla solitudine che usciva solo per andare a raccogliere erbe e radici lungo il fiume. La gente evitava di passare per quel tratto dell’argine. Faceva il malocchio, dicevano. Qualcuno le vide camminare insieme, la Corca e Delfina, due sagome nere nella nebbia. E videro anche che Delfina la aiutava a trascinare il suo sacco.
«At gh’è da stè luntan da cla vecia lé» le dicevano.
Ma Delfina tornava tardi la sera e spesso spariva per ore senza dire a nessuno dove andava. Diventò ancora più silenziosa, i suoi occhi si fecero sfuggenti e quando rientrava in casa aveva le mani fredde e addosso l’odore del fiume.
«A t’er cu la Corca? Cus at ga vè a fè da lé?»
Delfina taceva e la gente iniziò a parlare. Dapprima voci isolate, poi sempre più insistenti. Se Delfina se ne stava sempre per conto suo, aveva un segreto da nascondere. Se la pioggia rovinava il raccolto, era colpa di Delfina. Se moriva un cane o un bambino, era sicuramente colpa di Delfina.
«Fiöla dal dieul» iniziarono a chiamarla.
I bambini più piccoli le lanciavano sassi quando camminava per strada e scappavano se lei si fermava a fissarli.
Il prete disse di averla sentita invocare il maligno nella chiesa degli appestati e la maestra smise di chiamarla alla lavagna.
Persino i fratelli e i genitori iniziarono a poco a poco a guardarla con una certa soggezione e a non farle più domande se tardava a rientrare.
Era una sera di ottobre, quando il prete trovò il corpicino bianco di Delfina gonfio d’acqua tra le canne del fiume. Radunò la gente in piazza e poi andarono alla cascina della Corca con vanghe e bastoni, ma la vecchia non era là, né da nessun’altra parte. Il fuoco del camino era ancora acceso.
Parteciparono in tanti al funerale, più per curiosità che per altro. Soltanto i bambini più piccoli rimasero fuori nella piazzola a giocare a Mondo. Al cimitero, invece, non andò quasi nessuno, forse per via del freddo, forse perché ognuno voleva dire la sua davanti a un bicchiere di vino.
La seppellirono in fretta, ansiosi di dimenticarsi di lei. Ma prima di chiudere la bara, la madre tagliò con un coltello la sua treccia.

La treccia rimase sul ripiano della credenza per giorni finché il padre non rientrò una sera con un grosso barattolo di vetro dal coperchio rosso, dentro cui la conservarono. Una volta alla settimana la madre cambiava i fiocchi della treccia e poi, insieme ai figli, andava a lasciare un fiore selvatico sulla tomba di Delfina. Sceglieva sempre fiori bianchi.
Il padre morì pochi anni dopo a Caporetto e la spagnola del ’19 si portò via la madre e i figli sopravvissuti alla guerra. Risparmiò solo la maggiore, la mia bisnonna Aurora, che a neanche vent’anni si trovò senza nessuno al mondo. Si guadagnava da vivere come camiciaia nella sartoria di via Sopramuro. Fu proprio lì che conobbe il mio bisnonno: era una mattina di aprile e lui si aggirava con una mappa della città, chiedendo ai passanti come raggiungere piazza Duomo. Non appena la mia bisnonna lo vide scoppiò a ridere. Non rideva quasi mai la mia bisnonna, e non seppe spiegare, neanche negli anni a venire, cosa avesse suscitato quella risata, se i pantaloni a quadretti o l’aria spaesata di lui.
Il mio bisnonno si chiamava Ernesto e veniva da Forlì: faceva il cantoniere ed era appena stato trasferito a Piacenza. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo. Il nonno diceva che era un bel tipo, d’un allegria contagiosa.
Quando, dopo il matrimonio, la mia bisnonna andò a vivere a Sant’Antonio, nella casa cantoniera rossa sul ciglio della provinciale, portò con sé il barattolo della treccia. Ernesto non si stancava mai di ascoltare la storia di Delfina.
Accompagnava la mia bisnonna al cimitero di Borgotrebbia e mentre lei pregava sulle tombe dei genitori e dei fratelli, lui rimaneva muto davanti a quella di Delfina.
Passeggiavano spesso sull’argine e lui, ogni volta, insisteva per arrivare fino alla cascina della Corca, anche se il sole era già calato.
Buttò il barattolo e fece costruire una teca per la treccia. Si divertiva quando veniva gente in casa: «Cla là a l’é me cugnè» diceva, in perfetto dialetto piacentino, indicando la teca in bella vista sulla credenza della cucina. Si beava delle espressioni stupite dei suoi ospiti. Nei momenti di intimità, capitava che chiamasse la mia bisnonna «Streghetta».
Lei morì dando alla luce mio nonno, un esserino rosso e grinzoso, con un sacco di capelli neri in testa e due occhi blu che in un paio di settimane divennero scuri come pozzi.
«Me pèr m’ l’ ha mei dit, ma l’aris vurì ch’ i me occ i rastesan bleu
Crebbe con la storia di Delfina e con la teca di vetro sul ripiano della credenza. La treccia della zia era tutto quello che lo teneva legato a sua madre.
Sposò mia nonna, una donna piccolina che insegnava alla scuola elementare Giuseppe Mazzini, ed ebbero una sola figlia. Ma fin da bambina, mia madre, piangeva ogni volta che sentiva nominare Delfina e si tappava le orecchie con le mani.
Quando mio nonno, ormai vedovo, si trasferì a casa nostra, portò con sé la treccia. Mia madre fu irremovibile, ci raccontò lui. «Puoi venire a stare da noi solo se ti liberi di quella cosa orrenda» gli aveva detto. «E non ti azzardare a farne parola con i bambini.»
Il nonno nascose la teca in cantina e giurò di averla buttata.

«Un dé v’ la farò ved» ci diceva. La curiosità ci divorava e ci teneva svegli la notte a immaginare gli incantesimi che la Corca insegnava a Delfina.
Ogni volta, alla fine del racconto, il nonno si incupiva: era inconcepibile per lui che una bambina di neanche dieci anni fosse stata uccisa solo perché aveva gli occhi blu e se ne stava per conto suo. Ma io e mio fratello smettevamo di ascoltare le sue congetture, a quel punto.
Poi un pomeriggio ci portò in cantina e ci mostrò la treccia. Era il giorno del mio undicesimo compleanno.

Matilde mi prende la mano, mi dice che vuole tornare di sopra perché c’è puzza e non le piace stare qua sotto. Vuole che le legga le avventure di Ciccio e Tommasone. Appoggio la teca su uno scaffale in alto e mi chino per prendere in braccio Matilde.
«Menne» le dico, mentre usciamo dalla cantina. «Facciamo che la treccia della bambola è il nostro segreto? Non lo devi dire a nessuno che l’hai vista.»
«Neanche a papà e a mamma?»
«No, sarà il segreto tuo e della zia. Promesso?»

Siamo coricate sul divano, mi formicola una gamba, ma non oso muovermi. Il libro di Ciccio e Tommasone è aperto sul pavimento. Matilde ha la testa sulla mia pancia, credo si sia addormentata. La accarezzo piano, il suo respiro è tranquillo. Mi sembra così fragile. Quando era più piccola non volevo tenerla in braccio perché avevo paura di romperla. Mio fratello rideva. «Hai venticinque anni e non sai tenere in braccio una bambina.»

Quando morì mio nonno non piansi. Ero arrabbiata perché ci aveva lasciato così, da un giorno all’altro, senza nemmeno salutarci. Io e mio fratello smettemmo di parlare di Delfina, nascondemmo la treccia in una parte buia del nostro cuore, dove gettammo alla rinfusa anche la nostra infanzia e gli occhiali del nonno, senza farne più parola. Ricordo che lo sognavo spesso la notte. Erano sogni muti, vedevo lui e Delfina lungo il fiume che si tenevano per mano, nipote e zia, lui il vecchio che per me era sempre stato, lei una bambina bellissima con un vestitino bianco. Ma quando provavo a chiamarli non mi sentivano, e se iniziavo a correre loro scomparivano tra gli alberi. Allora mi sedevo per terra e restavo a guardare le increspature dell’acqua e i gorghi in cui si rincorrevano gli anni, dove l’età non contava nulla e tutto era inconsistenza e ripetizione. Mi sporgevo oltre la riva e volevo buttarmi, chiudere gli occhi e abbandonarmi al fiume che mi chiamava con la voce del nonno, ma qualcosa me lo impediva e potevo solo guardare il mio riflesso che tremava sull’acqua. Nel fiume iniziavano a scorrere capelli biondi e io ci immergevo le mani. Non ero spaventata. Mi solleticavano le dita. Solo dopo mi rendevo conto che tra quei capelli c’erano anche i miei, e non erano neri, ma bianchi, più bianchi di quelli del nonno. Mi sporgevo di nuovo e il mio riflesso era scomparso. Lasciavo impronte vuote sull’acqua.
Mi svegliavo in lacrime, con la pelle umida e le mani gelate.

Sto per chiudere gli occhi quando Matilde ha un piccolo sussulto e poi, lentamente, si volta verso di me.
«Come si chiamava la bambola?» chiede
.La guancia schiacciata le deforma l’espressione assorta.
«Delfina» le dico.
Lei ride.
«Come l’animale?»
«Come l’animale.»
Ci pensa un po’ su.
«E dov’è adesso?»
«è andata via perché nessuno voleva giocare con lei.»
«E perché le avete tagliato i capelli?»
Sto per risponderle qualcosa, ma suona il campanello.
Lei scatta in piedi e corre al citofono, come fa ogni volta che è qui.
«Chi è?» la sento chiedere con la sua vocetta squillante.
Resto a guardare il soffitto.
Dopo qualche secondo ricompare in salotto stropicciandosi le mani.
«Credevo che era il mio papà, ma invece era Delfina» dice, evitando il mio sguardo.
Mi alzo a sedere.
«Come?»
Si tira giù le maniche della felpa fino a coprirsi le dita.
«Ha detto che rivuole i suoi capelli.»
Sento bussare alla porta. Dalla cadenza dei colpi riconosco mio fratello.
Guardo Matilde, lei guarda me, con gli occhi di chi si aspetta qualcosa.
Mi chino verso di lei.
«Andiamo ad aprirle?» le sussurro all’orecchio.
Lei si illumina in un sorriso di vittoria.
«Sì» dice convinta.
Ci incamminiamo verso la porta tenendoci per mano. Non ricordo se sono stata io a prendere la sua o lei a prendere la mia, ma per un attimo mi sembra di provare una sensazione che non mi è nuova, e la mano di mio fratello è piccola e sudata nella mia e la voce di nonno Ezio non è falsata da quindici anni di silenzio, ma la sento chiara e nitida quando, prima di spingere piano la porta della cantina e addentrarsi nel buio, si volta verso di noi e ci chiede, con gli occhi che brillano quanto i nostri: «Siv sicur?».

*Laura Fusconi è nata a Piacenza nel 1990. Dopo il liceo classico e una laurea in Graphic Design&Art Direction alla Naba, si è diplomata nel 2015 al college di scrittura della Scuola Holden. I suoi racconti sono usciti su «retabloid», «effe», «verde rivista», «achab». Il 30 agosto 2018 uscirà per Fazi Volo di paglia, il suo primo romanzo.