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RACCONTI ITALIANI #3 – Le bambole non muoiono

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

Le bambole non muoiono di Laura Fusconi è uscito sulla Rassegna di Oblique (febbraio 2016). Ringraziamo Leonardo G. Luccone per la gentile concessione.

di Laura Fusconi*

Il buio davanti a noi mi è familiare. Erano anni che non scendevo qua sotto e ci metto un po’ a trovare l’interruttore, come se nel tempo fosse scivolato più in basso. Matilde si lamenta e mi stringe più forte la mano. Io accarezzo la polvere.
Quando la luce investe la stanza, i miei occhi fanno fatica ad abituarsi e per un attimo mi sembra tutto sbiadito, un limbo di oggetti usati troppo o non usati mai. C’è qualcosa di inquietante nel modo in cui sono ammassati gli scatoloni e i sacchi di vestiti smessi, con i nomi delle stagioni scritti a pennarello su nastri di scotch. L’armadio, la cassapanca e la credenza sembrano guardarci con rassegnazione: mobili vecchi, ma ancora in buono stato, che è un peccato buttare per cui li si lascia qui, dove possono essere dimenticati senza sensi di colpa.
«Aiutami a cercare i piatti azzurri della nonna» dico a Matilde.
Lei mi lascia la mano e senza dir nulla raggiunge un cavallino a dondolo abbandonato in un angolo. Era il mio. I suoi occhi dipinti, neri e tondi, mi paiono tristi ora, ma forse è per via delle ombre che tagliano la stanza.
Mi avvicino al comò – troppo austera per il salotto di una casa moderna – e apro il primo cassetto: maglioni di lana con fantasie fuori moda. L’odore di vecchio mi pizzica le narici.
Nel secondo trovo foulard di seta e vestiti di carnevale. Sorrido nel vedere quello di Arlecchino, il mio preferito. Lo tiro fuori con delicatezza e scopro che manca il secondo bottone e che una manica è scucita. Mi chiedo se possa andare bene a Matilde e mi volto per mostrarglielo, ma le parole mi muoiono in gola.
Matilde è seduta per terra e tiene in grembo la teca con la treccia di Delfina. La guarda stupita, sfiorando il coperchio di vetro.
Mi avvicino e le tolgo la teca dalle mani.
«E questa dove l’hai trovata?»
Indica il ripiano basso del mobiletto vicino al cavallo a dondolo. Ero certa si trovasse da un’altra parte.
«è la treccia di una bambola» dico in fretta, per rispondere al suo sguardo interrogativo.
«Ma è morta» dice lei.
«Le bambole non muoiono.»
«No, la treccia. è morta.»
Rimango in silenzio.
«Sono capelli, come i tuoi» dico poi.
«I miei sono più biondi.»
«I tuoi sono bellissimi.»
Matilde mi guarda e io non so più cosa dire. Ho il vestito da Arlecchino in una mano e la teca nell’altra.

Era il nostro segreto più bello, quello che nonno Ezio ci raccontava ogni volta che mamma e papà uscivano. Non appena la porta si chiudeva, io e mio fratello ci precipitavamo in sala, davanti alla poltrona verde dove sedeva sempre il nonno. Si toglieva gli occhiali con un sorriso compiaciuto e ci squadrava come per valutare se fossimo all’altezza. Poi si chinava verso di noi e ci chiedeva, abbassando la voce: «Siv sicur?».

Delfina era la sorella della mia bisnonna, settima di dieci figli cresciuti come animali selvatici, scuri e magri da far spavento, con i denti storti e le mani consumate.
«Guardì i me occ» diceva sempre nonno Ezio. «A i enn i medesim occ ad me mèr. I medesim occ ch’ a gh’emma tutt’ in famiglia. I occ ch’a gh’avi anca viètar
Delfina era la sola ad avere gli occhi blu e i capelli biondi, motivo d’orgoglio per i genitori che la esibivano come un gioiello e cercavano di vestirla meglio che potevano. Dicevano che era il fiore della famiglia.
La maestra non la rimproverava mai, neanche quando non sapeva le risposte o sbagliava le operazioni alla lavagna. Si era arrabbiata con lei solo la volta in cui aveva rovesciato l’inchiostro del calamaio: stringendo nel pugno il vasetto, Delfina aveva alzato la mano, come per prendere parola, poi se l’era versato sui capelli senza dire nulla.
I compagni di scuola la guardavano con stizza e i fratelli, sulla via di casa, acceleravano il passo e la lasciavano indietro. Non parlava quasi mai.

Isolotto Maggi (Piacenza)

Piacenza, con i suoi lunghi viali alberati, si attraversava in venti minuti, fino al Po.
D’estate il fiume si animava: sull’isolotto Maggi andavano a fare il bagno con costumi castigatissimi le signorine e i signorini di buona famiglia, mentre in certe anse i figli dei braccianti lasciavano i vestiti sull’erba e sguazzavano nudi, inseguendo rane e pesci gatto.
Ma nei mesi autunnali, quando la luce cambiava con la stessa rapidità della corrente e le ombre lunghe dei pioppi scendevano sull’argine come fantasmi, il Po si faceva gonfio e muto, e la nebbia, una nebbia compatta che si alzava lenta dall’acqua, sembrava cancellare il passato. La gente si chiudeva in casa e lungo il fiume non si vedevano più pescatori, né carrettieri o lavandaie. Soltanto il prete di Borgotrebbia, ogni tanto, si spingeva più a ovest dell’argine fino alla chiesa sconsacrata degli appestati, per togliere le croci rovesciate e cancellare i pentacoli che qualche fanatico disegnava davanti al vecchio altare.
Non lontano dalla chiesa si poteva scorgere una cascina tra gli alberi, con le persiane scrostate e i muri cadenti. Ci abitava la Corca, una vecchia incattivita dalla solitudine che usciva solo per andare a raccogliere erbe e radici lungo il fiume. La gente evitava di passare per quel tratto dell’argine. Faceva il malocchio, dicevano. Qualcuno le vide camminare insieme, la Corca e Delfina, due sagome nere nella nebbia. E videro anche che Delfina la aiutava a trascinare il suo sacco.
«At gh’è da stè luntan da cla vecia lé» le dicevano.
Ma Delfina tornava tardi la sera e spesso spariva per ore senza dire a nessuno dove andava. Diventò ancora più silenziosa, i suoi occhi si fecero sfuggenti e quando rientrava in casa aveva le mani fredde e addosso l’odore del fiume.
«A t’er cu la Corca? Cus at ga vè a fè da lé?»
Delfina taceva e la gente iniziò a parlare. Dapprima voci isolate, poi sempre più insistenti. Se Delfina se ne stava sempre per conto suo, aveva un segreto da nascondere. Se la pioggia rovinava il raccolto, era colpa di Delfina. Se moriva un cane o un bambino, era sicuramente colpa di Delfina.
«Fiöla dal dieul» iniziarono a chiamarla.
I bambini più piccoli le lanciavano sassi quando camminava per strada e scappavano se lei si fermava a fissarli.
Il prete disse di averla sentita invocare il maligno nella chiesa degli appestati e la maestra smise di chiamarla alla lavagna.
Persino i fratelli e i genitori iniziarono a poco a poco a guardarla con una certa soggezione e a non farle più domande se tardava a rientrare.
Era una sera di ottobre, quando il prete trovò il corpicino bianco di Delfina gonfio d’acqua tra le canne del fiume. Radunò la gente in piazza e poi andarono alla cascina della Corca con vanghe e bastoni, ma la vecchia non era là, né da nessun’altra parte. Il fuoco del camino era ancora acceso.
Parteciparono in tanti al funerale, più per curiosità che per altro. Soltanto i bambini più piccoli rimasero fuori nella piazzola a giocare a Mondo. Al cimitero, invece, non andò quasi nessuno, forse per via del freddo, forse perché ognuno voleva dire la sua davanti a un bicchiere di vino.
La seppellirono in fretta, ansiosi di dimenticarsi di lei. Ma prima di chiudere la bara, la madre tagliò con un coltello la sua treccia.

La treccia rimase sul ripiano della credenza per giorni finché il padre non rientrò una sera con un grosso barattolo di vetro dal coperchio rosso, dentro cui la conservarono. Una volta alla settimana la madre cambiava i fiocchi della treccia e poi, insieme ai figli, andava a lasciare un fiore selvatico sulla tomba di Delfina. Sceglieva sempre fiori bianchi.
Il padre morì pochi anni dopo a Caporetto e la spagnola del ’19 si portò via la madre e i figli sopravvissuti alla guerra. Risparmiò solo la maggiore, la mia bisnonna Aurora, che a neanche vent’anni si trovò senza nessuno al mondo. Si guadagnava da vivere come camiciaia nella sartoria di via Sopramuro. Fu proprio lì che conobbe il mio bisnonno: era una mattina di aprile e lui si aggirava con una mappa della città, chiedendo ai passanti come raggiungere piazza Duomo. Non appena la mia bisnonna lo vide scoppiò a ridere. Non rideva quasi mai la mia bisnonna, e non seppe spiegare, neanche negli anni a venire, cosa avesse suscitato quella risata, se i pantaloni a quadretti o l’aria spaesata di lui.
Il mio bisnonno si chiamava Ernesto e veniva da Forlì: faceva il cantoniere ed era appena stato trasferito a Piacenza. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo. Il nonno diceva che era un bel tipo, d’un allegria contagiosa.
Quando, dopo il matrimonio, la mia bisnonna andò a vivere a Sant’Antonio, nella casa cantoniera rossa sul ciglio della provinciale, portò con sé il barattolo della treccia. Ernesto non si stancava mai di ascoltare la storia di Delfina.
Accompagnava la mia bisnonna al cimitero di Borgotrebbia e mentre lei pregava sulle tombe dei genitori e dei fratelli, lui rimaneva muto davanti a quella di Delfina.
Passeggiavano spesso sull’argine e lui, ogni volta, insisteva per arrivare fino alla cascina della Corca, anche se il sole era già calato.
Buttò il barattolo e fece costruire una teca per la treccia. Si divertiva quando veniva gente in casa: «Cla là a l’é me cugnè» diceva, in perfetto dialetto piacentino, indicando la teca in bella vista sulla credenza della cucina. Si beava delle espressioni stupite dei suoi ospiti. Nei momenti di intimità, capitava che chiamasse la mia bisnonna «Streghetta».
Lei morì dando alla luce mio nonno, un esserino rosso e grinzoso, con un sacco di capelli neri in testa e due occhi blu che in un paio di settimane divennero scuri come pozzi.
«Me pèr m’ l’ ha mei dit, ma l’aris vurì ch’ i me occ i rastesan bleu
Crebbe con la storia di Delfina e con la teca di vetro sul ripiano della credenza. La treccia della zia era tutto quello che lo teneva legato a sua madre.
Sposò mia nonna, una donna piccolina che insegnava alla scuola elementare Giuseppe Mazzini, ed ebbero una sola figlia. Ma fin da bambina, mia madre, piangeva ogni volta che sentiva nominare Delfina e si tappava le orecchie con le mani.
Quando mio nonno, ormai vedovo, si trasferì a casa nostra, portò con sé la treccia. Mia madre fu irremovibile, ci raccontò lui. «Puoi venire a stare da noi solo se ti liberi di quella cosa orrenda» gli aveva detto. «E non ti azzardare a farne parola con i bambini.»
Il nonno nascose la teca in cantina e giurò di averla buttata.

«Un dé v’ la farò ved» ci diceva. La curiosità ci divorava e ci teneva svegli la notte a immaginare gli incantesimi che la Corca insegnava a Delfina.
Ogni volta, alla fine del racconto, il nonno si incupiva: era inconcepibile per lui che una bambina di neanche dieci anni fosse stata uccisa solo perché aveva gli occhi blu e se ne stava per conto suo. Ma io e mio fratello smettevamo di ascoltare le sue congetture, a quel punto.
Poi un pomeriggio ci portò in cantina e ci mostrò la treccia. Era il giorno del mio undicesimo compleanno.

Matilde mi prende la mano, mi dice che vuole tornare di sopra perché c’è puzza e non le piace stare qua sotto. Vuole che le legga le avventure di Ciccio e Tommasone. Appoggio la teca su uno scaffale in alto e mi chino per prendere in braccio Matilde.
«Menne» le dico, mentre usciamo dalla cantina. «Facciamo che la treccia della bambola è il nostro segreto? Non lo devi dire a nessuno che l’hai vista.»
«Neanche a papà e a mamma?»
«No, sarà il segreto tuo e della zia. Promesso?»

Siamo coricate sul divano, mi formicola una gamba, ma non oso muovermi. Il libro di Ciccio e Tommasone è aperto sul pavimento. Matilde ha la testa sulla mia pancia, credo si sia addormentata. La accarezzo piano, il suo respiro è tranquillo. Mi sembra così fragile. Quando era più piccola non volevo tenerla in braccio perché avevo paura di romperla. Mio fratello rideva. «Hai venticinque anni e non sai tenere in braccio una bambina.»

Quando morì mio nonno non piansi. Ero arrabbiata perché ci aveva lasciato così, da un giorno all’altro, senza nemmeno salutarci. Io e mio fratello smettemmo di parlare di Delfina, nascondemmo la treccia in una parte buia del nostro cuore, dove gettammo alla rinfusa anche la nostra infanzia e gli occhiali del nonno, senza farne più parola. Ricordo che lo sognavo spesso la notte. Erano sogni muti, vedevo lui e Delfina lungo il fiume che si tenevano per mano, nipote e zia, lui il vecchio che per me era sempre stato, lei una bambina bellissima con un vestitino bianco. Ma quando provavo a chiamarli non mi sentivano, e se iniziavo a correre loro scomparivano tra gli alberi. Allora mi sedevo per terra e restavo a guardare le increspature dell’acqua e i gorghi in cui si rincorrevano gli anni, dove l’età non contava nulla e tutto era inconsistenza e ripetizione. Mi sporgevo oltre la riva e volevo buttarmi, chiudere gli occhi e abbandonarmi al fiume che mi chiamava con la voce del nonno, ma qualcosa me lo impediva e potevo solo guardare il mio riflesso che tremava sull’acqua. Nel fiume iniziavano a scorrere capelli biondi e io ci immergevo le mani. Non ero spaventata. Mi solleticavano le dita. Solo dopo mi rendevo conto che tra quei capelli c’erano anche i miei, e non erano neri, ma bianchi, più bianchi di quelli del nonno. Mi sporgevo di nuovo e il mio riflesso era scomparso. Lasciavo impronte vuote sull’acqua.
Mi svegliavo in lacrime, con la pelle umida e le mani gelate.

Sto per chiudere gli occhi quando Matilde ha un piccolo sussulto e poi, lentamente, si volta verso di me.
«Come si chiamava la bambola?» chiede
.La guancia schiacciata le deforma l’espressione assorta.
«Delfina» le dico.
Lei ride.
«Come l’animale?»
«Come l’animale.»
Ci pensa un po’ su.
«E dov’è adesso?»
«è andata via perché nessuno voleva giocare con lei.»
«E perché le avete tagliato i capelli?»
Sto per risponderle qualcosa, ma suona il campanello.
Lei scatta in piedi e corre al citofono, come fa ogni volta che è qui.
«Chi è?» la sento chiedere con la sua vocetta squillante.
Resto a guardare il soffitto.
Dopo qualche secondo ricompare in salotto stropicciandosi le mani.
«Credevo che era il mio papà, ma invece era Delfina» dice, evitando il mio sguardo.
Mi alzo a sedere.
«Come?»
Si tira giù le maniche della felpa fino a coprirsi le dita.
«Ha detto che rivuole i suoi capelli.»
Sento bussare alla porta. Dalla cadenza dei colpi riconosco mio fratello.
Guardo Matilde, lei guarda me, con gli occhi di chi si aspetta qualcosa.
Mi chino verso di lei.
«Andiamo ad aprirle?» le sussurro all’orecchio.
Lei si illumina in un sorriso di vittoria.
«Sì» dice convinta.
Ci incamminiamo verso la porta tenendoci per mano. Non ricordo se sono stata io a prendere la sua o lei a prendere la mia, ma per un attimo mi sembra di provare una sensazione che non mi è nuova, e la mano di mio fratello è piccola e sudata nella mia e la voce di nonno Ezio non è falsata da quindici anni di silenzio, ma la sento chiara e nitida quando, prima di spingere piano la porta della cantina e addentrarsi nel buio, si volta verso di noi e ci chiede, con gli occhi che brillano quanto i nostri: «Siv sicur?».

*Laura Fusconi è nata a Piacenza nel 1990. Dopo il liceo classico e una laurea in Graphic Design&Art Direction alla Naba, si è diplomata nel 2015 al college di scrittura della Scuola Holden. I suoi racconti sono usciti su «retabloid», «effe», «verde rivista», «achab». Il 30 agosto 2018 uscirà per Fazi Volo di paglia, il suo primo romanzo.