RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo
*L’immagine di copertina è un’illustrazione di Alessandro Ripane
di Emanuela D’Alessio
Elvis Malaj, albanese di nascita, vive in Italia (attualmente a Padova) da quando aveva quindici anni. La sua “voce” è come l’acciottolìo di pietre che scivolano giù da un pendio, è una voce che non prende mai fiato, che rimbalza da una parola all’altra. E nonostante l’intercalare da “carrettiere” (chissà se lo fa apposta per scandalizzare o gli viene naturale), noi non smettiamo di ascoltare.
Elvis Malaj ha ventisette anni, ha imparato l’italiano guardando la tv, è diventato lettore leggendo in italiano, ma il suo è un italiano «sporco, spurio, meticcio», perché pur avendo tradito la lingua di origine «un immigrato in fin dei conti è uno che pensa a sé stesso», non è riuscito ad assorbire fino in fondo quella nuova.
A Bajze, dove è nato, non esiste nemmeno una libreria, non ha mai letto un libro o parlato di libri con gli amici, perché era «roba da froci».
Non sente di avere qualcosa di importante da dire, ma semplicemente di avere delle storie. «Sono un cantastorie, scrittore mi hanno fatto diventare quelli di Oblique». Quelli di Oblique sono Leonardo Luccone ed Elvira Grassi che a loro volta hanno convinto gli editori di Racconti Edizioni a pubblicare la raccolta di racconti Dal tuo terrazzo si vede casa mia.
«Penso che i ragazzi di Racconti siano dei pazzi. Poi, tenendo conto che neanche io sono uno tanto a posto, c’è il rischio che venga fuori qualcosa di buono».
Qualcosa di buono è già venuto fuori, visto che Elvis Malaj è il primo autore italiano della casa editrice romana specializzata in short stories, fino a oggi rigorosamente internazionali. Ha ultimato il suo primo romanzo Il mare è rotondo, in cerca di editore.
Elvis Malaj
Sei nato in Albania e vivi a Padova, dopo essere passato da Alessandria e Belluno. Nel racconto Il lupo della steppa (nel tuo libro Dal tuo terrazzo si vede casa mia) alla domanda «come ti trovi in Italia?» il protagonista Çoban risponde: «Trovarsi bene o meno in un posto non dipende dal posto, dipende da te. Ovunque vai ti porti sempre dietro qualcosa che alla fine rende ogni posto uguale a un altro. Potrei anche rispondere alla sua domanda, ma non significherebbe niente. Tradirei semplicemente la mia capacità di trovarmi bene o male in Italia». Che cosa ti sei portato dietro fin qui, in Italia?
Ce l’hai presente quell’idea romantica del ricominciare? Andare alla stazione, salire su treno e partire, andare lontano, non importa dove, in una nuova città, una nuova vita, lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare. Magari addirittura in un altro paese, imparare una lingua nuova, costruirti una vita tutta da capo, come piace a te, senza ripetere gli errori fatti. Abbandonare una vita logora e stantia in direzione di qualcosa di nuovo, ributtarsi nella mischia e cercare di cogliere l’occasione, avere il coraggio di salire su quel cazzo di treno perché la vita è solo tua e puoi farne quello che vuoi (la senti, la senti l’eccitazione?). Ecco, per me questa cosa non ha mai funzionato. Non solo quando ho cambiato città, ma anche quando ho cambiato paese. Tutte le volte che ho ricominciato non ho mai veramente ricominciato. La mia vita è un copione che continua a ripetersi, magari i luoghi e le persone sono diversi ma il copione rimane sempre lo stesso. Cambiando paese non ho cambiato un bel niente. Secondo me la risposta di Çoban significa questo. E allora come si fa a ricominciare? Ricominciando da sé stessi. Ma come? Non lo so, non me l’hanno ancora insegnato. Che cosa mi sono portato dietro fin qui? Non so rispondere.
Ti sei convinto e hai convinto di essere uno scrittore e nel frattempo hai accumulato le occupazioni più disparate. Dici che stai cercando di smettere, di lavorare?
Quello che sto cercando di smettere non è di lavorare, ma di continuare a fare lavori di merda. Tutti i lavori che ho fatto finora, a parte scrivere, sono tali. Quindi, cercare di farla finita con lavori che non mi soddisfano non è mica un’idea malvagia. Solo che sappiamo bene che per arrivare al punto in cui uno scrittore possa vivere di sola scrittura ce ne vuole. Porca puttana, ho sbagliato mestiere.
«Scrivere è il modo più accessibile di raccontare storie» hai spiegato in occasione della presentazione a Roma del tuo libro. Quindi raccontare storie, per te, è una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
È la soddisfazione di un bisogno naturale, fisiologico, come scopare o mangiare. Non sento di avere qualcosa di importante da dire. Ho semplicemente delle storie, sono appassionato di storie. Le vedo, sono tutt’intorno a me. Magari io e te ascoltiamo e vediamo la stessa cosa, però io sono capace di vederci una storia, per quanto inutile e banale possa essere l’oggetto della nostra osservazione. E mi piace raccontarla. Sono un cantastorie. Adesso sarò un po’ melenso, ma il sorriso che riesco a strappare alle persone quando leggo un mio racconto mi fa veramente godere.
Come sei riuscito a convincere «quelli di Oblique» che sei uno scrittore?
Con il racconto Mrika, che è stato scelto in una delle serate di 8×8 di qualche anno fa. La verità è che non li ho convinti. Sono stati loro che sono riusciti a scorgere in me uno scrittore. Ma ancora non lo ero, loro mi hanno fatto diventare scrittore.
Hai pubblicato Dal tuo terrazzo si vede casa mia con Racconti edizioni, la giovanissima e agguerrita casa editrice romana che ha iniziato con te a pubblicare anche autori italiani, rigorosamente di racconti. Un esordio importante, sia per te, sia per loro. Che cosa ne pensi?
Esordire con un esordiente, in un mercato come il nostro, con una raccolta di racconti, prendendo un albanese e spacciandolo per italiano. Penso che i ragazzi di Racconti siano dei pazzi, e mi fa veramente piacere che lo siano. Poi, tenendo conto che neanche io sono uno tanto a posto, c’è il rischio che venga fuori qualcosa di buono.
Quando sei arrivato in Italia avevi quindici anni e già conoscevi l’italiano abbastanza bene. La tua scrittura nasce direttamente in italiano? E, se è così, che cosa vuol dire esprimersi in una lingua diversa dalla propria?
La mia scrittura nasce in italiano perché sono diventato un lettore leggendo in italiano. Cosa vuol dire? Niente, fai diventare la nuova lingua la tua lingua. Sa di tradimento? Sì, un po’ lo è. Un immigrato, in fin dei conti, è uno che pensa a sé stesso. Ma a parte questo, non assorbi mai la nuova lingua fino in fondo, e non riesci a separarla del tutto dalla lingua madre. Quindi il tuo non è italiano, è il tuo italiano. Un italiano sporco, spurio, meticcio.
Sei tornato in Albania solo tre volte in circa dieci anni dalla tua partenza, eppure le tue storie raccontano quasi sempre del tuo paese, attraverso i personaggi, i luoghi della tua infanzia. Di che cosa si tratta? Nostalgia, elaborazione di un distacco, riconciliazione con le proprie origini?
Non si tratta di nessuna di queste cose. Come scrittore, penso di avere un buon rapporto con l’Albania, c’è un ottimo equilibrio tra dare e avere. E forse sono lo scrittore albanese più albanese che ci sia in circolazione. Come persona, invece, come figlio di quella terra, è un altro paio di maniche, in questo caso la storia è un po’ più complicata. Il rapporto padre-figlio non è mai stato semplice. Comunque sia, che ti piacciano o meno, i tuoi genitori rimangono sempre i tuoi genitori.
La mia conoscenza della letteratura albanese si limita a Ismail Kadare, ormai 81enne, uno dei pochi tradotti in Italia. Puoi citarne altri, provando a spiegarci il perché della scarsa diffusione oltreconfine delle loro opere?
Ti dico la verità, pure la mia conoscenza della letteratura albanese è limitata. Ma un paio di nomi te li faccio: Gazmend Kapllani, che ha scritto un romanzo sull’immigrazione, Breve diario di frontiera (i romanzi sull’immigrazione di solito non mi piacciono ma il suo mi è piaciuto), e Ornela Vorpsi, perché sa scrivere. Sul motivo della scarsa diffusione non ti so dire, bisognerebbe fare un’analisi come si deve. Ti posso dire però che gli scrittori albanesi in Francia vanno di più.
Scrittori e libri non possono fare a meno delle librerie, l’anello più debole della filiera editoriale. Lo è in Italia senza dubbio, ma qual è la situazione delle librerie in Albania?
In Albania non ne parliamo. Manca proprio la cultura e la coltura del libro e delle librerie tra i giovani. Non leggono. Quando ero in Albania neanche io leggevo, non ho mai parlato con un amico di libri, e a Bajze non c’era nemmeno una libreria. I libri venivano visti come roba da froci. Con i miei amici parlavo di cose importanti, parlavamo di fica, anche se poi nessuno di noi scopava. Mi auguro che in questi anni qualcosa sia cambiato.
Qual è la tua libreria ideale?
La mia libreria ideale è una libreria piena di persone.
Prima di scrivere si deve (o dovrebbe) leggere. Qual è stato ed è il tuo percorso di lettore?
Il mio periodo più intenso di lettore è stato quello iniziale, quando è scattata la fiamma, e ho letto autori di fine Ottocento-inizio Novecento, tipo Kafka, Svevo, Čechov, Schnitzler, Pirandello, Tozzi, Hesse eccetera. Invece quello attuale è un po’ a caso, leggo di tutto senza un nesso logico.
Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Paolo Nori, Bassotuba non c’è.
Leggi L’autobiografia del personaggio che poi sarei io