Archivi tag: Elvis Malaj

Consigli di lettura indipendenti #4

Ai protagonisti di Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti , la nostra novità editoriale del 2019abbiamo rivolto una nuova domanda:

Se ti trovassi nella necessità di regalare un libro, soltanto uno, quale sceglieresti e perché?

Ecco le risposte degli scrittori Luciano Funetta, Laura Fusconi, Elvis Malaj.

Luciano Funetta
Io consiglio Miracoli della vita di James G. Ballard (traduzione di Antonio Caronia, Feltrinelli), l’autobiografia per lacune di un terrestre alieno, un Canto di Natale capovolto.

Laura Fusconi
In questo momento sceglierei Luce d’estate ed è subito notte di Jón Kalman Stefansson (traduzione di Silvia Cosimini, Iperborea) perché l’ho letto tempo fa e ancora ne sento il riverbero.
In questo libro ho rivisto i cieli strappati dei fiordi occidentali islandesi e il vento che insegue le pecore nell’erba alta. Mi ha fatto male, mi ha fatto desiderare di essere nata vicino al mare e in un tempo diverso.
Ha un ritmo bellissimo e delle immagini disarmanti. Ti fa venire voglia di andare dalle persone a cui vuoi bene e dargli un pizzicotto. È un libro che parla di stelle e di solitudini, della vita in un paesino di quattrocento anime ai confini del mondo. Un caleidoscopio di storie. Chi parte, chi resta, chi torna per restare, chi, come me, crede che “a volte nei posti piccoli la vita diventa più grande”.

Elvis Malaj
La prima cosa da considerare quando si regala un libro è conoscere il lettore cui è destinato. Data la mancanza di questa informazione, voglio ipotizzare un lettore a mia immagine e somiglianza, il che rende il lavoro molto più facile. Quindi regalerei La vita davanti a sé di Roman Gary (traduzione di Giovanni Bogliolo, Neri Pozza). Il primo motivo è che affronta tanti temi importanti con ironia, intelligenza e una purezza insolita. Il secondo è l’uso che fa della lingua: la plasma, la altera, ci gioca. È un libro che mi ha fatto divertire tanto.

 

 

RACCONTI ITALIANI #2 Intervista a Elvis Malaj, un cantastorie che diventa scrittore

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

*L’immagine di copertina è un’illustrazione di Alessandro Ripane

di Emanuela D’Alessio

Elvis Malaj, albanese di nascita, vive in Italia (attualmente a Padova) da quando aveva quindici anni. La sua “voce” è come l’acciottolìo di pietre che scivolano giù da un pendio, è una voce che non prende mai fiato, che rimbalza da una parola all’altra. E nonostante l’intercalare da “carrettiere” (chissà se lo fa apposta per scandalizzare o gli viene naturale), noi non smettiamo di ascoltare.
Elvis Malaj ha ventisette anni, ha imparato l’italiano guardando la tv, è diventato lettore leggendo in italiano, ma il suo è un italiano «sporco, spurio, meticcio», perché pur avendo tradito la lingua di origine «un immigrato in fin dei conti è uno che pensa a sé stesso», non è riuscito ad assorbire fino in fondo quella nuova.
A Bajze, dove è nato, non esiste nemmeno una libreria, non ha mai letto un libro o parlato di libri con gli amici, perché era «roba da froci».
Non sente di avere qualcosa di importante da dire, ma semplicemente di avere delle storie. «Sono un cantastorie, scrittore mi hanno fatto diventare quelli di Oblique». Quelli di Oblique sono Leonardo Luccone ed Elvira Grassi che a loro volta hanno convinto gli editori di Racconti Edizioni a pubblicare la raccolta di racconti Dal tuo terrazzo si vede casa mia.
«Penso che i ragazzi di Racconti siano dei pazzi. Poi, tenendo conto che neanche io sono uno tanto a posto, c’è il rischio che venga fuori qualcosa di buono».
Qualcosa di buono è già venuto fuori, visto che Elvis Malaj è il primo autore italiano della casa editrice romana specializzata in short stories, fino a oggi rigorosamente internazionali. Ha ultimato il suo primo romanzo Il mare è rotondo, in cerca di editore.

Elvis Malaj

Sei nato in Albania e vivi a Padova, dopo essere passato da Alessandria e Belluno. Nel racconto Il lupo della steppa (nel tuo libro Dal tuo terrazzo si vede casa mia) alla domanda «come ti trovi in Italia?» il protagonista Çoban risponde: «Trovarsi bene o meno in un posto non dipende dal posto, dipende da te. Ovunque vai ti porti sempre dietro qualcosa che alla fine rende ogni posto uguale a un altro. Potrei anche rispondere alla sua domanda, ma non significherebbe niente. Tradirei semplicemente la mia capacità di trovarmi bene o male in Italia». Che cosa ti sei portato dietro fin qui, in Italia?
Ce l’hai presente quell’idea romantica del ricominciare? Andare alla stazione, salire su treno e partire, andare lontano, non importa dove, in una nuova città, una nuova vita, lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare. Magari addirittura in un altro paese, imparare una lingua nuova, costruirti una vita tutta da capo, come piace a te, senza ripetere gli errori fatti. Abbandonare una vita logora e stantia in direzione di qualcosa di nuovo, ributtarsi nella mischia e cercare di cogliere l’occasione, avere il coraggio di salire su quel cazzo di treno perché la vita è solo tua e puoi farne quello che vuoi (la senti, la senti l’eccitazione?). Ecco, per me questa cosa non ha mai funzionato. Non solo quando ho cambiato città, ma anche quando ho cambiato paese. Tutte le volte che ho ricominciato non ho mai veramente ricominciato. La mia vita è un copione che continua a ripetersi, magari i luoghi e le persone sono diversi ma il copione rimane sempre lo stesso. Cambiando paese non ho cambiato un bel niente. Secondo me la risposta di Çoban significa questo. E allora come si fa a ricominciare? Ricominciando da sé stessi. Ma come? Non lo so, non me l’hanno ancora insegnato. Che cosa mi sono portato dietro fin qui? Non so rispondere.

Ti sei convinto e hai convinto di essere uno scrittore e nel frattempo hai accumulato le occupazioni più disparate. Dici che stai cercando di smettere, di lavorare?
Quello che sto cercando di smettere non è di lavorare, ma di continuare a fare lavori di merda. Tutti i lavori che ho fatto finora, a parte scrivere, sono tali. Quindi, cercare di farla finita con lavori che non mi soddisfano non è mica un’idea malvagia. Solo che sappiamo bene che per arrivare al punto in cui uno scrittore possa vivere di sola scrittura ce ne vuole. Porca puttana, ho sbagliato mestiere.

«Scrivere è il modo più accessibile di raccontare storie» hai spiegato in occasione della presentazione a Roma del tuo libro. Quindi raccontare storie, per te, è una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
È la soddisfazione di un bisogno naturale, fisiologico, come scopare o mangiare. Non sento di avere qualcosa di importante da dire. Ho semplicemente delle storie, sono appassionato di storie. Le vedo, sono tutt’intorno a me. Magari io e te ascoltiamo e vediamo la stessa cosa, però io sono capace di vederci una storia, per quanto inutile e banale possa essere l’oggetto della nostra osservazione. E mi piace raccontarla. Sono un cantastorie. Adesso sarò un po’ melenso, ma il sorriso che riesco a strappare alle persone quando leggo un mio racconto mi fa veramente godere.

Come sei riuscito a convincere «quelli di Oblique» che sei uno scrittore?
Con il racconto Mrika, che è stato scelto in una delle serate di 8×8 di qualche anno fa. La verità è che non li ho convinti. Sono stati loro che sono riusciti a scorgere in me uno scrittore. Ma ancora non lo ero, loro mi hanno fatto diventare scrittore.

Hai pubblicato Dal tuo terrazzo si vede casa mia con Racconti edizioni, la giovanissima e agguerrita casa editrice romana che ha iniziato con te a pubblicare anche autori italiani, rigorosamente di racconti. Un esordio importante, sia per te, sia per loro. Che cosa ne pensi?
Esordire con un esordiente, in un mercato come il nostro, con una raccolta di racconti, prendendo un albanese e spacciandolo per italiano. Penso che i ragazzi di Racconti siano dei pazzi, e mi fa veramente piacere che lo siano. Poi, tenendo conto che neanche io sono uno tanto a posto, c’è il rischio che venga fuori qualcosa di buono.

Quando sei arrivato in Italia avevi quindici anni e già conoscevi l’italiano abbastanza bene. La tua scrittura nasce direttamente in italiano? E, se è così, che cosa vuol dire esprimersi in una lingua diversa dalla propria?
La mia scrittura nasce in italiano perché sono diventato un lettore leggendo in italiano. Cosa vuol dire? Niente, fai diventare la nuova lingua la tua lingua. Sa di tradimento? Sì, un po’ lo è. Un immigrato, in fin dei conti, è uno che pensa a sé stesso. Ma a parte questo, non assorbi mai la nuova lingua fino in fondo, e non riesci a separarla del tutto dalla lingua madre. Quindi il tuo non è italiano, è il tuo italiano. Un italiano sporco, spurio, meticcio.

Sei tornato in Albania solo tre volte in circa dieci anni dalla tua partenza, eppure le tue storie raccontano quasi sempre del tuo paese, attraverso i personaggi, i luoghi della tua infanzia. Di che cosa si tratta? Nostalgia, elaborazione di un distacco, riconciliazione con le proprie origini?
Non si tratta di nessuna di queste cose. Come scrittore, penso di avere un buon rapporto con l’Albania, c’è un ottimo equilibrio tra dare e avere. E forse sono lo scrittore albanese più albanese che ci sia in circolazione. Come persona, invece, come figlio di quella terra, è un altro paio di maniche, in questo caso la storia è un po’ più complicata. Il rapporto padre-figlio non è mai stato semplice. Comunque sia, che ti piacciano o meno, i tuoi genitori rimangono sempre i tuoi genitori.

La mia conoscenza della letteratura albanese si limita a Ismail Kadare, ormai 81enne, uno dei pochi tradotti in Italia. Puoi citarne altri, provando a spiegarci il perché della scarsa diffusione oltreconfine delle loro opere?
Ti dico la verità, pure la mia conoscenza della letteratura albanese è limitata. Ma un paio di nomi te li faccio: Gazmend Kapllani, che ha scritto un romanzo sull’immigrazione, Breve diario di frontiera (i romanzi sull’immigrazione di solito non mi piacciono ma il suo mi è piaciuto), e Ornela Vorpsi, perché sa scrivere. Sul motivo della scarsa diffusione non ti so dire, bisognerebbe fare un’analisi come si deve. Ti posso dire però che gli scrittori albanesi in Francia vanno di più.

Scrittori e libri non possono fare a meno delle librerie, l’anello più debole della filiera editoriale. Lo è in Italia senza dubbio, ma qual è la situazione delle librerie in Albania?
In Albania non ne parliamo. Manca proprio la cultura e la coltura del libro e delle librerie tra i giovani. Non leggono. Quando ero in Albania neanche io leggevo, non ho mai parlato con un amico di libri, e a Bajze non c’era nemmeno una libreria. I libri venivano visti come roba da froci. Con i miei amici parlavo di cose importanti, parlavamo di fica, anche se poi nessuno di noi scopava. Mi auguro che in questi anni qualcosa sia cambiato.

Qual è la tua libreria ideale?
La mia libreria ideale è una libreria piena di persone.

Prima di scrivere si deve (o dovrebbe) leggere. Qual è stato ed è il tuo percorso di lettore?
Il mio periodo più intenso di lettore è stato quello iniziale, quando è scattata la fiamma, e ho letto autori di fine Ottocento-inizio Novecento, tipo Kafka, Svevo, Čechov, Schnitzler, Pirandello, Tozzi, Hesse eccetera. Invece quello attuale è un po’ a caso, leggo di tutto senza un nesso logico.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Paolo Nori, Bassotuba non c’è.

Leggi L’autobiografia del personaggio che poi sarei io

RACCONTI ITALIANI #2 – L’autobiografia del personaggio che poi sarei io

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

L’autobiografia del personaggio che poi sarei io di Elvis Malaj è uscito su Il Libraio (19 ottobre 2017). Ringraziamo Leonardo G. Luccone per la gentile concessione.

di Elvis Malaj*

Sono nato nel marzo del Novanta, un anno di grandi cambiamenti per l’Albania. Alle famiglie delle zone rurali vennero concessi una mucca e qualche pecora, il che significava che non avrei patito la fame toccata a mio fratello più grande. Mentre trascorrevo un’infanzia spensierata scarrozzando per la campagna in uno stato brado, l’Albania attraversava una fase confusa dove non era chiaro il confine tra legale e illegale. Bajze, dove sono nato, si trova in una posizione strategica, e così in poco tempo è diventata una cittadina fiorente grazie al contrabbando con il Montenegro. Gli albanesi stavano assaporando la democrazia, ma poi si è rivelata non essere la democrazia che credevano e sono rimasti delusi.

Bajze, stazione

Quando siamo arrivati in Italia avevo quindici anni. La lingua la sapevo abbastanza e degli italiani sapevo che erano molto amichevoli. Tutto questo grazie alla tv. Già il primo giorno, mentre eravamo in treno verso Alessandria, un signore siciliano seduto di fianco si è mostrato molto gentile quando gli ho detto che ero albanese. Mi ha messo una mano sul ginocchio e poi l’ha fatta scivolare verso l’interno della coscia. Io l’ho lasciato fare, non sapevo ancora dell’esistenza dei gay. Un’altra cosa che sapevo degli italiani, cioè che sapevamo tutti, è che erano ricchi e che buttavano la roba ancora buona. Lì nel condominio mi vedevano spesso insieme a mio fratello fare su e giù per le scale con divani scassati e tv rotte.

Mia madre l’italiano non lo sapeva per niente. Le prime parole che ha imparato sono state «katro figli scola, no lavore». Era riuscita a scovare tutte le sedi della Caritas e associazioni simili di Alessandria. Una volta ho dovuto accompagnarla per fare da traduttore. Mentre mia madre mi dettava le parole da dire alla tipa, io mi guardavo intorno attonito; c’erano barboni, gente malmessa sul serio, una donna che parlava da sola, un uomo che fissava il vuoto in uno stato catatonico mentre un altro sembrava in crisi d’astinenza.
«Ushqim» mi diceva mia madre, ma ero talmente imbarazzato che non sapevo più l’italiano. Alla fine è riuscita a farsi capire da sola e la tipa ha detto che non distribuivano cibo da portare via, ma potevamo mangiare lì se volevamo.
Mia madre stava per chiederci: «Ragazzi, volete sedervi e mangiare?», ma si è girata verso i barboni e ha capito che non era il caso. Non sono mai stato così incazzato con mia madre come in quel momento.

In quel periodo stavo attraversando una fase critica, cominciata l’ultimo anno che ho passato in Albania, e con il trasferimento in Italia si è acuita. Mi sono isolato ancora di più, e ho preso a parlare sempre meno. La cosa è diventata preoccupante quando, ormai già al secondo semestre inoltrato, m’è scappato un commento nei confronti dell’insegnante d’inglese e lei c’è rimasta secca: «Ma allora tu parli?!». Ci ero rimasto male.

Io comunque facevo di tutto per sembrare un ragazzo normale, e ci tenevo ad esserlo. L’estate seguente l’ho passata chiuso in casa, le mie nevrosi, le mie fobie, i miei complessi, le mie paranoie eccetera hanno avuto un’impennata. La cosa mi ha procurato un bel po’ di seccature con i miei. Non sapevo come spiegargli quell’isolamento, né la mia paura del mondo. Poi è ricominciata la scuola e ho dovuto riprendere a uscire.

Il primo ritorno in Albania è stato tre anni dopo averla lasciata. Ero diventato quello che ritorna, e in Albania le persone che ritornano assurgono a una categoria speciale che gode di grande stima. Quello che ritorna tornava a raccontare la sua vita bellissima nel paese in cui era emigrato e infondeva agli altri la speranza di toccare con mano un giorno quelle meraviglie. La parte più importante di quei racconti, ovviamente, riguardava il sesso. Sono riuscito a eludere la questione per un po’ finché, davanti alla stazione, davanti ai binari, Nard Shala mi ha chiesto senza mezzi termini: «A ke qi gja?». A quel punto tutti si sono zittiti per ascoltare. Mi ha preso un leggero panico ma poi, dissimulando il peso della verginità, ho fatto il mio dovere: ho raccontato di quante me ne ero scopate, come me l’ero scopate, dove le avevo scopate, quante in una volta; ho raccontato di come le ragazze italiane facevano bene i pompini, e gli ho detto che andavano pazze per il cazzo albanese.
Serio in faccia, Nard Shala si è avvicinato ed è rimasto a guardarmi fisso. Io ero lì pronto a confessare, a chiedere perdono, solo che lui continuava a non dire niente. A un certo punto mi ha dato una bella pacca sulla spalla, orgoglioso di me. Dopo quella volta in Albania ci sono ritornato solo in un paio di occasioni, e solo perché la mia presenza era obbligatoria.

Nel frattempo ci eravamo trasferiti a Belluno, rinnovando la mia condizione di nuovo, estraneo, diverso. Nel 2009 mi sono diplomato come perito meccanico e mi sono iscritto alla facoltà di fisica a Milano; dopo due mesi mi sono trasferito a filosofia, e dopo altri due mesi ho lasciato definitivamente gli studi. Ho girovagato per i centri sociali insieme a un mio amico d’infanzia che avevo ritrovato a Milano, facendo grandiosi progetti mentre eravamo strafatti e continuando a sperperare i soldi dei miei, che non sapevano che avevo mollato gli studi.

Un giorno mi sono svegliato alle tre del mattino su una panchina di un parco mai visto prima, e così ho deciso di ritornare a Belluno. Il mio rientro è coinciso con un momento di difficoltà economiche dei miei, e il mio ritorno è stato interpretato come un gesto per non gravare sulla famiglia, con conseguenti sensi di colpa dei miei. Quando mi chiedevano se il motivo era proprio quello io rispondevo di no, ma ciò non faceva altro che aumentare la nobiltà del mio gesto. E così ho cominciato a lavorare, collezionando le più disparate occupazioni: muratore, addetto alle pulizie industriali, operaio manutentore, lavapiatti, magazziniere, lavacessi, archivista, guardia notturna eccetera. Ma sto cercando di smettere. Nel frattempo mi sono trasferito a Padova e sono riuscito a convincere quelli di Oblique Studio che sono uno scrittore, e loro mi hanno aiutato a convincere quelli di Racconti Edizioni che ho scritto un libro.

*Elvis Malaj è nato a Malësi e Madhe (Albania) nel 1990. A quindici anni si è trasferito ad Alessandria con la famiglia. Oggi vive e lavora a Padova. Ha partecipato al concorso 8X8 nel 2013 con il racconto Mrika; il racconto L’incidente è stato selezionato per la Rassegna stampa di Oblique (giugno 2015); il racconto Il televisore è stato pubblicato sul numero #4 di effePeriodico di altre narratività. Ha appena terminato il suo primo romanzo Il mare è rotondo, come si legge sul sito di Oblique Studio che lo rappresenta. Nel frattempo è uscita la raccolta di racconti Dal tuo terrazzo si vede casa mia per Racconti edizioni.

Leggi l’intervista all’autore