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Otto anni nei boschi narrativi #7 Alcide Pierantozzi

Titolo?
Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
Introduzione?
Leonardo G. Luccone
Editore?
Via dei Serpenti
Uscita?
Settembre 2019

Di Alcide Pierantozzi, caso editoriale nel 2006 con Uno in diviso per Hacca, non ci limitiamo a un assaggio. Pubblichiamo integralmente la sua nuova intervista a Via dei Serpenti che troverete, insieme alla precedente (luglio 2015), in Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti.

Il tuo ultimo libro, Tutte le strade portano a noi, è uscito nel 2015. Da allora, quando dicevi: «Credo che sia arrivato il momento di cominciare a scrivere sul serio», che cosa è successo al Pierantozzi scrittore?
Gli ultimi quattro anni non sono stati facili per me, sono successe molte cose, molti eventi della vita che mi hanno scosso e cambiato. Ho perso i miei nonni, con i quali sono cresciuto, e sono andato più di una volta in crisi con la scrittura. Per molto tempo sono rimasto impantanato su un libro piuttosto difficile, sul disastro di Chernobyl, nella convinzione che fosse il «mio» libro – e tale è rimasto, in un certo senso, perché ci lavoro continuamente. Quando però sembrava che non riuscissi a scrivere altro, è arrivata Bompiani, nella persona dello scrittore e consulente Alessandro Mari. Con lui, e poi con Beatrice Masini, è nata l’idea di un nuovo romanzo, molto diverso dai miei precedenti (anche se, forse, li riecheggia tutti). Ci ho lavorato per un anno, con grande ispirazione.

Dopo il caso editoriale di Uno in diviso, che nel bene e nel male suscitò molto scalpore, hai continuato a scatenare forti reazioni, perché i tuoi libri sono «senza confini di stile», disorientano il lettore, lo costringono a nuotare in un mare aperto e agitato, tra ossessioni e interrogativi complessi e scomodi sull’esistenza. Se, come sembra evidente, lo scopo della tua scrittura non è compiacere il lettore e probabilmente nemmeno l’editore, puoi provare a spiegarci il percorso della tua ricerca letteraria e, nel caso esista, il suo obiettivo?
Compiacere il lettore no, ma stupirlo sì. Sempre. Lo stupore conta parecchio in un libro, o in un film, o in un discorso. Ogni scoperta scientifica si fonda sullo stupore. Il «thauma» di Aristotele non è la meraviglia, è lo stupore. Se non vuoi stupire, non fai Titanic, non scrivi la Divina Commedia, e soprattutto non fai la rivoluzione. Il punto è che lo stupore non puoi suscitarlo a tavolino, non è fatto di trucchi, non viene da noi ma siamo noi a doverlo accogliere; a volte è un luogo specifico della nostra memoria da cui attingere, è il nostro sé più lontano, è un giro di accordi di una canzone. Io il lettore lo devo stravolgere, capovolgere, devo metterlo in discussione da cima a fondo. Lo stupore è il mezzo per l’unico obiettivo che ho di fronte: il contenuto della materia che sto affrontando, e come riuscire a esplicitarlo al meglio per farlo arrivare a chi mi legge.

Alla domanda sul perché della tua scrittura avevi risposto che scrivi «per imparare a morire». Sei appassionato, tra le altre cose, di horror, perché è l’unico genere ad avere impostato un discorso sulla morte. A che punto sei con il tuo personale discorso al riguardo?
Appena finito di scrivere L’inconveniente di essere amati ho cominciato a lavorare a un progetto diciamo «quasi horror», che dovrebbe essere il mio nuovo libro. E il titolo del file Word è, non a caso, entrarenellamorte.doc. Il cinema dell’orrore è una mia grande passione, che si rinnova ogni volta che vedo film come Hereditary – Le radici del male, o Noi, o Suspiria di Guadagnino.
Più che un genere, credo che l’horror sia, per qualsiasi artista, una specie di miniera di pepite d’oro in grado di accendere la fantasia di chi se ne lascia ispirare, perché la paura e la fantasia sono migliori amiche. I film horror sanno fare il loro sporco lavoro meglio della maggior parte degli psicanalisti, sono come i cristalli di Sturgeon, che sognano. Gli Urania sono libri che sognano. E quello che sognano genera altre immagini, altre storie. Che a loro volta sognano rigenerando altre immagini, altre storie… Michele Mari, in Tu, sanguinosa infanzia, dedica pagine indimenticabili a questo discorso.

Prima ho parlato di ossessioni, i tuoi libri sono densi di simbologie che le rappresentano. Provi ad analizzare la tua narrazione con la lente di ciò che ti ossessiona?
È difficile per me dire la verità su questo punto, perché io non credo affatto che la mia scrittura sia il risultato delle mie esperienze di vita e culturali, quindi di una mia certa idea del mondo. Non credo nemmeno di scrivere per mettere meglio a fuoco le cose, perché pensiero profondo e scrittura per me sono distinti, bicameralmente separati.
Io vengo continuamente visitato da immagini, che quando non spariscono si ripresentano sempre più ricche di dettagli, come le onde quando montano e fanno sempre più la spuma, e da lì parto per un viaggio di cui all’inizio non so niente, non mi interessa sapere niente. Nel tempo mi sono accorto che tutte le volte che ho provato a razionalizzare uscendo da questo esercizio di canalizzazione, i risultati non erano buoni, le parole fingevano, sembravano facce truccate male. Le parole sono molto brave a fingere.
Così come non è detto che un ragazzo carino sia l’uomo della tua vita, non è detto che una certa parola sia quella giusta. Allora come si fa a sapere qual è quella giusta? Si aspetta, si sente. Aspettare di sentire qualcosa di diverso, qualcosa che non sia una cosa tra le cose, è quello che faccio io, ogni giorno, è il mio mestiere. Non faccio altro che immaginare, sognare, di continuo. Ogni tanto sento una mano sulla spalla, è come se mi dicesse: «Ecco, è questo quello che cercavi». Se rispetto il volere di questa mano, allora la parola che ho scelto, o l’immagine sulla quale mi sono concentrato, è quella giusta. Giusta perché mi rispecchia, mi permette di capire un po’ meglio chi sono attraverso di lei.

Sul numero di dicembre 2018 della rivista «Nuovi Argomenti» è uscito un estratto del tuo nuovo romanzo, L’inconveniente di essere amati, che sarà pubblicato da Bompiani nel 2019. È una storia d’amore impossibile fra un uomo e una donna e nello scriverla sei partito dalla considerazione che forse nessun amore è impossibile sulla Terra. Senza scendere troppo nei particolari, che cosa puoi aggiungere a questa scarna presentazione?
Come dicevo prima, è un libro diverso dai miei precedenti. È una storia d’amore molto contemporanea, anche se ambientata in un paese immaginario di nome Calanchi a confine tra Marche e Abruzzo. Il protagonista, Paride Negri, è un cantautore trentenne che dopo una discreta fama è finito nel dimenticatoio. Lasciata Milano per tornare in Abruzzo, dopo aver troncato con il suo compagno, si trasferisce nella vecchia casa dei nonni morti. Al piano di sopra vive suo zio con la moglie Sonia, che Paride non ha mai conosciuto, e il cuginetto di cinque anni. L’incontro con questa donna e con questo bambino cambierà per sempre la sua vita costringendolo a mettere in discussione ogni cosa, obiettivi, bisogni, sogni e sensi di colpa.

Il cinema è tra le tue grandi passioni, sia come fruitore, sia come autore di sceneggiature. L’ultimo tuo libro sembra ispirato e dedicato a Bernardo Bertolucci. In che modo la tua scrittura cinematografica e la sua traduzione in immagini contaminano la tua scrittura letteraria, o viceversa?
Quando andavo al liceo mia madre un giorno tornò a casa e mi disse «dobbiamo vedere La luna di Bertolucci», uno dei suoi film più duri. Ricordo che fui molto colpito da come questo regista usava le tende o da come fotografava i cancelli. Io venivo da una forte e precoce passione per Pasolini e per il cinema horror, soprattutto Dario Argento, perciò ero abituato ad attori con poche sfumature facciali, piuttosto bidimensionali. Nei film di Bertolucci agli attori succedeva qualcosa di diverso, lui si muoveva tantissimo con la cinepresa attorno a loro, attorno agli oggetti, era come se stesse sempre rincorrendo qualcosa. Era come Proust, o forse come suo padre Attilio quando ha scritto il capolavoro La camera da letto. Dopo La luna mi immersi in tutto il suo cinema, io e una mia amica avremmo visto The dreamers in sala almeno dieci volte, a casa lei fingeva di essere la Venere di Milo come Eva Green. E poi Ultimo tango a Parigi, ricordo ancora il pomeriggio in cui l’ho visto, il senso di poetico disgusto che provai, speculare alle sensazioni che avevo provato vedendo Salò di Pasolini. Poi, dopo l’uscita del mio primo romanzo, il tempo di dedicarmi al cinema è stato poco, soprattutto è stato poco il tempo per studiare quelle formule di scrittura tipiche del cinema che avrebbero potuto servirmi per scrivere meglio, per costruire meglio una storia, perché a vent’anni c’erano ancora tanti libri fondamentali – Dostoevskij, Flaubert, Carver – che non avevo mai letto, e se uno vuole fare lo scrittore deve leggerli.
Nel 2015 la mia amica Monica Stambrini mi portò a cena da lui, nella sua magnifica casa di Viale Giulia a Roma, ignara dell’enormità del suo dono. Mi comprai un cappello di paglia a Trastevere quel giorno, mi presentai da lui in veste di contadinello abruzzese. Lo trovai di fronte a un maxischermo a parete, semidisteso su una poltrona reclinabile accanto al grande divano di casa, circondato di libri, la sigaretta che in bocca a lui sembrava fuori contesto, perché Bernardo, per quel poco che l’ho conosciuto io, per quelle poche serate, era davvero un bambino. Un bambino magico, dall’aura a volte luciferina, coltissimo, spudorato. La prima volta si divertì molto a interrogarmi, se avevo letto questo o quel libro, se conoscessi quel certo mediometraggio tedesco degli anni Trenta. Oppure, con il supporto della sua amica Patrizia Cavalli, si metteva a recitare dei versi a casaccio e chiedeva agli ospiti di chi fossero. Al vincitore veniva riservato il riverbero soddisfatto dei suoi occhi, l’allegria malinconica di cui solo lui era capace. Una sera mi chiamò in disparte, chiedendomi di spingere la carrozzella in fondo al corridoio, e mi disse: «Keep smiling, ricordatelo sempre Alcide». Vedi, ora ad esempio è successa una cosa strana, perché il computer ha trasformato keep smiling in keep smoking. Dev’essere un suo messaggio, visto che lui, che ha sempre girato in pellicola, amava fumare sul set così da rendere più denso lo spessore della luce.

Tra i tuoi riferimenti letterari e culturali spiccano Pier Paolo Pasolini, Emanuele Severino, W.S. Burroughs, Fëdor Dostoevskij. Lascio a te aggiungerne altri e spiegarci, se possibile, che cosa di ciascuno ha lasciato un segno.
Sono tanti, ho avuto una forte passione almeno per cinquanta scrittori. Poi, però, bisogna stare attenti alle proprie passioni, perché tu puoi amare alla follia Patrick Modiano – faccio davvero un esempio a caso – o la filosofia di Spinoza, o i thriller di Vargas. Ma la crescita culturale e psicologica di un autore non va di pari passo con la lista dei libri letti su Anobii, se funzionasse così ogni singolo studioso di sant’Anselmo d’Aosta, ogni bibliotecario, ogni laureando in Lettere, sarebbe più titolato di Arthur Rimbaud a scrivere qualcosa. Bisogna leggere, certo, e tanto, procedendo secondo una dialettica negativa che ci consenta di accantonare per sempre il loglio. Dobbiamo augurarci una vecchiaia circondata di grano.

In una delle poche interviste che hai rilasciato negli ultimi anni hai parlato del tuo vero desiderio: andare a vivere in Texas per sempre. Vivi tra Milano e l’Abruzzo, hai ambientato i tuoi libri in paesi remoti, idealmente e geograficamente. Dalla provincia marchigiana al Texas, passando per l’Albania: dove finisce la realtà e inizia la metafora?
Io non ci credo nella realtà. Non ci credo talmente tanto che anche se quando faccio questi discorsi mi considerano pazzo, preferisco essere considerato pazzo ma continuare a farli. Mettiamola così: mi dicono che sono nato, trentacinque anni fa, a San Benedetto del Tronto. Io però non me lo ricordo. Me l’hanno detto gli altri, okay, e ho visto nascere altra gente. Purtroppo non basta, perché io, di me, non me lo ricordo. Che io non me lo ricordi è una cosa irreale. Io ricordo un paesaggio, la mia bisnonna che affilava i coltelli, i calanchi d’Abruzzo sopra casa mia, il pane con l’olio di mia nonna, l’amore per i cani, io so di appartenere a questo paesaggio, e allora lo cerco, e le storie che racconto possono avvenire solo dentro questo paesaggio certo, assodato dentro di me. Ecco, credo che la realtà sia una grande metafora, un grande indizio di questo paesaggio.

Com’è il tuo sguardo sul futuro e che cosa puoi dirci dei tuoi prossimi progetti?
Bisognerebbe chiederlo al futuro, quale sia il suo sguardo su di me. Cosa fanno i miei prossimi progetti mentre aspettano che io mi avvicini a loro, che io oltrepassi questi anni così pieni, folli e tristi?

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Le poesie di Milo De Angelis.

 

Alcide Pierantozzi, scrivere per imparare a morire

di Emanuela D’Alessio

Alcide Pierantozzi, Arcito per gli amatissimi nonni abruzzesi, ha trent’anni e vive a Milano. Fu caso editoriale nel 2006 il suo libro di esordio Uno in diviso (Hacca), sono seguiti nel 2008 L’uomo e il suo amore e nel 2012 Ivan il terribile, entrambi per Rizzoli.
Scrive per imparare a morire. Tra le cose che ama di più ci sono leggere in riva al mare fino al tramonto, andare al cinema con la madre, bere Negroni e acqua di cocco all’ananas, guardare film horror di notte, accendere candele in camera per i nonni.
Il suo ultimo sforzo narrativo è Tutte le strade portano a noi, pubblicato da Laterza nei mesi scorsi. Lo abbiamo letto (qui la recensione) e ci è venuta voglia di intervistare l’autore.

Alcìde o Arcito? Come tAlci fai chiamare adesso, di ritorno dalla lunga passeggiata per l’Italia? (per i lettori: Arcito era il nome con cui la nonna Nadina chiamava Alcìde Pierantozzi).
Molti, scrivendomi su Facebook, attaccano così: “Ciao Arcito”. È una cosa che mi piace molto, e per due ragioni. La prima perché mi fa pensare a mia nonna (e i nonni – anzi, le persone anziane in generale – sono quanto di più poetico e essenziale esista al mondo), la seconda perché il mio nome negli anni ha subìto tante di quelle modifiche, tanti di quegli storpiamenti, che per una volta ho voluto storpiarmelo da solo. A scuola durante l’appello ero Alice Pierantozzi, per i milanesi sono Àlcide con l’accento sulla a. Poi c’è chi passa in rassegna i vari Alcibiade, Alceo, Alvise… Nonna mi chiamava Arcito, o Arcite se il tentativo era quello di pronunciarlo bene. Che poi uno a un certo punto si chiede: ma se i miei nonni, gli stessi che il nome me l’hanno dato, lo pronunciano così, allora perché gli altri dovrebbero pronunciarlo diversamente?

Alcide Pierantozzi è nato nel 1985, è abruzzese e vive a Milano, ha studiato filosofia, ha pubblicato il suo primo libro a vent’anni. Che cosa aggiungeresti a questa stringata biografia?
Non so, forse quello che amo. Così, disordinatamente: bere litri di acqua di cocco all’ananas, mangiare barattoloni interi di gelato Häagen-Dazs gusto cookies o gusto banana guardando le serie tv, cucinare piatti con la curcuma, leggere in riva al mare dalle due del pomeriggio al tramonto ininterrottamente, andare al cinema con mia madre nei multiplex dei centri commerciali, leggere riviste di cinema come Ciak e FilmTv, guardare film horror di notte, passare ore al bar Picchio con i miei amici, passare ore nella vasca da bagno a leggere dei thrilleroni di cui non dirò mai il titolo, fare frullati alla fragola e frutti di bosco, bere Negroni quando non scrivo, ascoltare i Cure e i Cocteau Twins, fumare canne, accendere candele in camera per i miei nonni, la notte, rischiando che prenda fuoco la casa.

Su Via dei Serpenti abbiamo inaugurato recentemente la nuova rubrica “Perché scrivo?” dedicata ai perché della scrittura. Ti sei posto coscientemente questa domanda? Hai trovato qualche risposta?
La risposta è la stessa che darei alla domanda “perché leggo?”. Per imparare a morire.

Alcide Pierantozzi, Elena Dal Molin e Andrea De Spirt a Siena

Alcide Pierantozzi, Elena Dal Molin e Andrea De Spirt a Siena

Il viaggio di cui ci parli in Tutte le strade portano a noi è durato un mese (da maggio a giugno 2014). Invece quanto sono durate la gestazione dell’idea e la preparazione per trasformarla in azione? E che cosa è arrivata prima, l’idea di scrivere un libro o quella di percorrere a piedi l’Italia?
Il libro viene dopo. Nel senso che con l’editor di Laterza e il mio agente stavamo pensando a una sorta di reportage divertente, che raccontasse anche le radici abruzzesi. Allora ho proposto di fare a piedi l’Abruzzo, poi ho pensato che avrei potuto fare a piedi l’Italia intera e ho proposto l’idea. Hanno accettato, e a quel punto ero fregato.

I tuoi compagni di viaggio sono co-protagonisti di una narrazione rocambolesca e spesso impietosa, la loro selezione appare un po’ casuale, a volte anche incomprensibile. In questo viaggio, in realtà, di casualità sembra essercene molto meno di quella che vuoi farci credere. Mi sbaglio? E perché non hai deciso di partire da solo?
Non c’è stato niente di casuale nella loro scelta, hai ragione. Se uno di loro, uno soltanto, non ci fosse stato, il libro sarebbe stato monco. Di questo sono pienamente convinto. Da solo? Sarei impazzito dopo cinque chilometri. Io non riesco a stare nemmeno una serata da solo, figuriamoci…

Chi ha letto Tutte le strade portano a noi non dovrebbe avere dubbi su quello che hai trovato durante e alla fine del viaggio, puoi comunque spiegarlo di nuovo? Gli altri compagni di strada, invece, che cosa hanno trovato?
Io, procedendo in avanti nel cammino, sono tornato indietro. Ho camminato sempre pensando ai miei nonni, alla loro vita, al fatto che io debba ogni cosa ai loro sacrifici fatti nelle campagne in Abruzzo, dove hanno lavorato tutti i giorni, sotto la pioggia e sotto il sole, per più di ottant’anni. Non basterebbe raggiungere a piedi i Poli, per ricompensarli.

Vorrei soffermarmi in particolare su Romina Rizzuto, sorta di «sherpa» contemporaneo che vi ha seguiti in automobile trasportando i bagagli. È un personaggio dai netti contrasti, una ragazza di una «bellezza che arresta il tempo» ma dal linguaggio direi cabarettistico, tanto esilarante quanto improbabile. Romina esiste veramente o è uno dei tanti frutti del tuo istinto creativo?
Esiste veramente. Tutto quello che racconto nel libro è vero. Romina è un miracolo, se l’avesse vista Fellini l’avrebbe scritturata immediatamente. È una persona speciale, senza la quale il viaggio non avrebbe avuto lo stesso significato.

Dopo mille chilometri a piedi e di vita promiscua possono andare irrimediabilmente perduti rapporti di amicizia e di amore, oppure nascere legami indissolubili. Che cosa è accaduto a voi?
Ci siamo legati parecchio. All’inizio, subito dopo il viaggio, non ne potevamo più l’uno dell’altro e per due mesi non ci siamo più sentiti. Da settembre siamo tornati quelli di prima. Brando De Sica, che ho conosciuto durante il viaggio, è diventato una delle persone più importanti della mia vita, Martina Codecasa la sento praticamente ogni giorno e a Roma spesso sono ospite da lei a Pigneto, Monica Stambrini lo stesso, a Roma ci vediamo sempre. Mi manca molto Romina, che sento spesso ma è una di quelle persone con cui vorresti stare insieme dalla mattina alla sera. Non vedo l’ora di organizzare un nuovo grande progetto per farla tornare a collaborare con me. Quanto ad Andrea e a Elena, eravamo già molto amici prima di partire.

Dal tuo primo romanzo Uno in diviso, caso letterario del 2006, a Tutte le strade portano a noi, di «strade» ne hai già attraversate molte. A che punto sei del percorso?
Be’, spero all’inizio. Ho la fortuna di aver cominciato presto, a diciannove anni, adesso che ne ho trenta ho un decennio di esperienza alle spalle in cui ne ho viste e sentite di tutti i colori. Credo che sia arrivato il momento di cominciare a scrivere sul serio.

unoindivisoDi Uno in diviso sono state dette molte cose, tra le altre che è «decisamente vicino alla lezione, stilistica e concettuale, della magistrale Agota Kristof della Trilogia della città di K». Questo per chiederti se sei d’accordo con l’accostamento, ma soprattutto quali sono i tuoi “venerati maestri”.
Non posso essere d’accordo, pur essendone onorato, per il semplice fatto che a diciannove anni non avevo letto la Kristof. Così come non avevo letto l’Amras di Thomas Bernhard, al quale accostavano il mio libro, o Emmanuel Carnevali. A dire la verità, a diciannove anni non sapevo nemmeno cosa fosse una casa editrice. Li ho letti dopo, mi hanno incantato. Però non scherziamo… Accostare il mio libro alla Kristof o a Bernhard è tanto, tanto esagerato.

Di “venerati maestri” parla l’ultimo numero della rivista Orlando Esplorazioni dedicato a un sondaggio per scoprire chi tra gli scrittori 50-60enni di oggi comparirà nei manuali di letteratura dei nostri figli. A rispondere sono stati lettori e critici tra i 20 e i 40 anni. Tu che cosa risponderesti?
Alcuni, sì: Marcello Fois, Rosa Matteucci, Michele Mari, Edgardo Franzosini, Domenico Starnone, Licia Giaquinto, la poetessa Patrizia Cavalli. Ognuno di loro ha scritto almeno un libro fondamentale.

Sul fenomeno del self-publishing, che ha assunto dimensioni impressionanti, mi sembra tu abbia idee in controtendenza. Vuoi parlarcene un po’?
Mah… forse erano di controtendenza un paio d’anni fa, quando scrissi l’articolo su Affaritaliani che affrontava questi temi. La mia opinione è molto semplice: è possibile che un autore che si è stampato un libro da solo sia più bravo, decisamente più bravo, di chi pubblica – e mi ci metto io per primo – con una grande casa editrice. Il sistema editoriale è costretto a seguire regole di mercato ben precise che presuppongono la forza mediatica dello scrittore, la facilità del libro, la sua rassegna stampa, la sua biografia, le copie vendute. Naturalmente non vale per tutti gli editori. È anche giusto che sia così, cioè che i libri pubblicati arrivano al maggior numero di persone; ma occhio a non confondere tutto questo con la qualità letteraria. D’altronde è una cosa che sanno bene anche gli editor: non tutto ciò che è bello, o importante, può essere pubblicato. È un peccato, spesso è un vero dolore, ma non c’è alternativa.

Immancabile la domanda sui tuoi prossimi “passi”, sul tuo prossimo viaggio, non soltanto metaforico. Più banalmente, qual è il tuo nuovo progetto?
Ho tanti progetti in cantiere. Sto pensando a un paio di saggi da scrivere insieme a Luca Scarlini, e sto ultimando un libro su Chernobyl cui lavoro ormai da sei anni. Nel frattempo penso anche al nuovo romanzo. Il lavoro di sceneggiatore mi sta portando via molto tempo, ma mi sta anche facendo crescere. Ho ricominciato a chiedermi: cosa voglio che veda il lettore? Dopo Uno in diviso, per anni, mi sono chiesto: cosa voglio che legga il lettore? Sto anche pensando a una trasmissione televisiva che mi hanno proposto, un programma di cultura ma very strange. Fosse per me farei tutto, anche lo stuntman a Cinecittà.

Per concludere, che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
I piccoli dispiaceri di Miriam Towes e Il cervello di Alberto Sordi di Tatti Sanguineti. Poi tantissime poesie di Patrizia Cavalli, che adoro. Ma io non ce l’ho un comodino, i miei libri sono tutti appoggiati per terra. Diciamo che a casa mia più o meno tutto è appoggiato per terra: dvd, dischi, bottiglie d’acqua, statue… L’unico a non avere i piedi per terra sono io.

Alcide Pierantozzi – Tutte le strade portano a noi

tutte_le_strade_coverdi Emanuela D’Alessio

Di alcune cose potete stare certi se deciderete di leggere Tutte le strade portano a noi, l’ultimo sforzo narrativo del giovane Alcide Pierantozzi, in libreria per Laterza da qualche settimana.
Non incapperete nell’ennesimo diario di viaggio o, peggio ancora, nell’ultima guida “alternativa” su come visitare l’Italia, perché nelle 196 pagine di Tutte le strade portano a noi non c’è traccia di indirizzi e dritte su cosa fare o vedere. Toglietevi dalla faccia anche quel sorrisetto di sufficienza pensando di trovare una sbiadita e provinciale imitazione dell’on the road alla Kerouac o alla Chatwin, perché Pierantozzi non sembra interessato all’emulazione.

Nel caso abbiate letto il suo libro di esordio Uno in diviso (Hacca), caso letterario nel 2006, ricevendone un discreto turbamento e anche un po’ di raccapriccio tanto da relegarlo nella parte più inaccessibile della libreria (come è successo a me), non preoccupatevi, con Tutte le strade portano a noi si arriva alla fine un po’ sorpresi e divertiti e con l’idea (effimera quanto si vuole) che forse un giorno anche voi potreste incamminarvi lungo una strada.

Non leggerete nemmeno un pamphlet sul significato del pellegrinaggio e la psicologia del pellegrino, nonostante gli studi di filosofa teoretica dell’autore, perché Pierantozzi e i suoi compagni di viaggio non hanno nulla del pellegrino e sono tutti consapevoli che alla fine dell’avventura torneranno comunque a casa, preferendo nel frattempo i piaceri della cucina a quelli della preghiera, senza rinunciare al comfort di smartphone e ipod.
I preti e le suore incrociati lungo il cammino non assomigliano al buon samaritano caritatevole e ospitale, si incontrano più facilmente viandanti di una umanità sbrindellata e un po’ folle con cui l’autore ci intrattiene, sempre in bilico tra metafora e realtà.

in viaggio

Il fatto che Pierantozzi abbia scelto di attraversare l’Italia, di percorrerla a piedi per mille chilometri da Milano a Bari lungo la Via Francigena, «la stessa strada che nel Medioevo percorrevano i pellegrini di tutta Europa per raggiungere la tomba di San Pietro a Roma» ha una spiegazione più prosaica, «Io per me parto da un’esigenza primaria: evitare le strade troppo trafficate».
A parte la battuta, l’idea dell’Italia a piedi è un pretesto per raccontare le mille e una storia con cui accompagnare il viandante/lettore lungo un’altra strada, quella dell’autore, innanzitutto. La strada che lo ha portato dai campi di verza lungo la riva del Tronto a varcare il confine con le Marche, distante da quella terra d’Abruzzo rurale e un po’ arcaica dove sono vissuti la bisnonna Peppina, che «rifulgeva nella sua povera veste di canapa e al suo passaggio lasciava una scia luminosa lungo la strada», la nonna Nadina e il nonno che non volevano che il loro Arcito passasse il tempo delle vacanze a leggere libri. Tutti con una strada segnata che Pierantozzi ha voluto ripercorrere, scoprire di nuovo o per la prima volta, in questo viaggio reale e contemporaneo, un po’ bizzarro e divertito, a ritroso nel tempo e nello spazio.
Un viaggio nella memoria e nel presente di boschi secolari, vallate disabitate, paesi arroccati, attraversando territori geografici e interiori sconosciuti, spronati da quel “ma cammina” con cui i nonni di Alcide liquidavano tutto ciò che risultava loro insensato o incomprensibile.

A che cosa è servita l’Italia a piedi? A ritrovare la strada verso sé stesso per Pierantozzi, a scoprire il desiderio di continuare a cercare la propria per tutti gli altri.

pierantozzi«Cammini in avanti velocemente, ancora più velocemente i tuoi ricordi ti trascinano all’indietro, istante dopo istante, e tu risali fino alle sorgenti primordiali dei tuoi giorni su questa terra. Sai che laggiù risiedono i proprietari del tuo castello interiore, il duca e la duchessa che furono tuo nonno e tua nonna. Sai che loro nel tuo ricordo, non sono meno reali della strada sotto i tuoi piedi. Degli alberi che ti circondano. Ti sforzi di ravvivarne i dettagli, senti allora venirti incontro le molte sfumature che poensavi di avere dimenticato per sempre. Vedi tutto. E la cosa più curiosa è che se vedi tutto, tuto è ancora lì. E se tutto è ancora lì, tornerà».

Il viaggio è stato seguito dal social network italiano Jobyourlife creato da Andrea De Sprit, uno dei protagonisti del cammino, che aiuta a trovare un lavoro. L’esperienza è stata documentata Qui e confluirà anche in un dvd.

Nota sull’autore
Alcide Pierantozzi è nato nel 1985 a San Benedetto del Tronto e vive a Milano. Ha studiato filosofia teoretica. Il suo romanzo d’esordio, Uno in diviso pubblicato da Hacca nel 2006, è dedicato alla memoria di Pier Paolo Pasolini. Ne è stata pubblicata una graphic novel nel 2013 da Tunué. Il secondo romanzo, L’uomo e il suo amore, è uscito per Rizzoli nel 2008. Nel 2012 ha pubblicato Ivan il terribile (Rizzoli). Nel 2014 è stato l’unico autore europeo selezionato dalla rivista americana The Juvenilia (costola di McSweeney’s fondata da Dave Eggers).

Tutte le strade portano a noi di Alcide Pierantozzi
Laterza, 2015
pp. 206, 13€