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Consigli di lettura “indipendenti” #1

Ai protagonisti di Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti , la nostra novità editoriale del 2019abbiamo rivolto una nuova domanda:

Se ti trovassi nella necessità di regalare un libro, soltanto uno, quale sceglieresti e perché?

Ecco le risposte di Vanni Santoni, scrittore e direttore editoriale della collana Romanzi di Tunué, e Francesca Chiappa, editrice di Hacca.

Vanni Santoni
Se il libro deve essere uno nel senso di un libro nell’intenzione dell’autore, non posso che consigliare Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, essendo tutt’ora, con ogni probabilità, il miglior romanzo che ci sia; se però il fatto di esser composto da sette libri lo esclude, e il mio consiglio deve riguardare un solo volume, viro su tutt’altro genere, e punto sulla Bhagavad-Gita, essendo, con ogni probabilità, il libro singolo con più saggezza che ci sia; e se adesso arriva qualche pignolo a far notare che la Bhagavad-Gita è solo parte di un più vasto libro, allora vado su una novità e segnalo quello che per me è il miglior romanzo del 2019: Settembre 1972 di Imre Oravecz, pubblicato in Italia da Anfora Edizioni.

Francesca Chiappa
Non ho dubbi. Furore di John Steinbeck. Per farci raccontare, una volta ancora, cos’è la compassione.
«… io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. […] Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì. Se Casy aveva ragione, be’, allora sarò negli urli di quelli che si ribellano… e sarò nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno che la minestra è pronta. E quando la nostra gente mangerà le cose che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito… be’, io sarò lì.».

 

Otto anni di boschi narrativi #11 Francesca Chiappa -HACCA

Titolo?
Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
Introduzione?
Leonardo G. Luccone
Editore?
Via dei Serpenti
Uscita?
Settembre 2019

Il primo appuntamento per presentare Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti, è il 27 settembre alla libreria Tomo a Roma.
Si parlerà di Hacca e di molto altro con l’editrice Francesca Chiappa, l’art director Maurizio Ceccato, e lo scrittore Stefano Corbetta.

Intanto ecco uno stralcio della nuova intervista a Francesca Chiappa (giugno 2019). La precedente, invece, è stata realizzata nel febbraio 2013.

La ricerca di verità
È una verità più ampia, sconfinata. Abbiamo cercato di arricchire il catalogo di scrittori veggenti, che riuscissero a vedere oltre l’orizzonte noto, oltre questo tempo presente. La verità non solo degli uomini, con le loro relazioni, ma la verità oltre l’uomo. Sono arrivati allora gli infiniti, universi e mondi di Vassalli, gli occhi degli alberi di Chicca Gagliardo, il maestoso abbandono di Sara Gamberini, L’ora del mondo di Matteo Meschiari, le ballate di Mimmo Sammartino. Abbiamo affidato alla parola il racconto dell’invisibile, che non è finzione, ma solo una verità diversa da quella quotidiana e superficiale. Abbiamo alzato o abbassato lo sguardo.

Il connubio con Maurizio Ceccato, una mappa per immagini
Volendo fare una mappa per immagini del nostro catalogo, io sono estremamente legata alla prima copertina realizzata da Maurizio Ceccato, e cioè Cronista della solitudine di Antonio Veneziani, un poeta e amico a noi carissimo. È stato lui a portare Maurizio in casa editrice, ed è stato sempre lui a insegnarci l’amore per il nostro mestiere. Una copertina che ha poi segnato una tappa importante è stata Verrai a trovarmi d’inverno di Cristiana Alicata; qui io e Maurizio abbiamo iniziato a giocare, a divertirci con i materiali e con la fisicità del libro.  Un’altra copertina per me irripetibile è quella di Nato in Urss, di Vasile Ernu, che prendendo a prestito l’iconografia della pepsi, raccontava fin dalla prima pagina il cuore e il tono del racconto di un passaggio epocale. Poi la copertina di La città degli uomini d’oggi di Edoardo Persico, che con una foglia in copertina voleva in realtà rappresentare una mappa urbana, entrando idealmente nel dibattito urbanistico e naturalistico. Infine, il cerbiatto 3d di Maestoso è l’abbandono, che mi pare apra a una nostra tendenza a nominare in modo nuovo il mondo.

Otto anni nei boschi narrativi #7 Alcide Pierantozzi

Titolo?
Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
Introduzione?
Leonardo G. Luccone
Editore?
Via dei Serpenti
Uscita?
Settembre 2019

Di Alcide Pierantozzi, caso editoriale nel 2006 con Uno in diviso per Hacca, non ci limitiamo a un assaggio. Pubblichiamo integralmente la sua nuova intervista a Via dei Serpenti che troverete, insieme alla precedente (luglio 2015), in Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti.

Il tuo ultimo libro, Tutte le strade portano a noi, è uscito nel 2015. Da allora, quando dicevi: «Credo che sia arrivato il momento di cominciare a scrivere sul serio», che cosa è successo al Pierantozzi scrittore?
Gli ultimi quattro anni non sono stati facili per me, sono successe molte cose, molti eventi della vita che mi hanno scosso e cambiato. Ho perso i miei nonni, con i quali sono cresciuto, e sono andato più di una volta in crisi con la scrittura. Per molto tempo sono rimasto impantanato su un libro piuttosto difficile, sul disastro di Chernobyl, nella convinzione che fosse il «mio» libro – e tale è rimasto, in un certo senso, perché ci lavoro continuamente. Quando però sembrava che non riuscissi a scrivere altro, è arrivata Bompiani, nella persona dello scrittore e consulente Alessandro Mari. Con lui, e poi con Beatrice Masini, è nata l’idea di un nuovo romanzo, molto diverso dai miei precedenti (anche se, forse, li riecheggia tutti). Ci ho lavorato per un anno, con grande ispirazione.

Dopo il caso editoriale di Uno in diviso, che nel bene e nel male suscitò molto scalpore, hai continuato a scatenare forti reazioni, perché i tuoi libri sono «senza confini di stile», disorientano il lettore, lo costringono a nuotare in un mare aperto e agitato, tra ossessioni e interrogativi complessi e scomodi sull’esistenza. Se, come sembra evidente, lo scopo della tua scrittura non è compiacere il lettore e probabilmente nemmeno l’editore, puoi provare a spiegarci il percorso della tua ricerca letteraria e, nel caso esista, il suo obiettivo?
Compiacere il lettore no, ma stupirlo sì. Sempre. Lo stupore conta parecchio in un libro, o in un film, o in un discorso. Ogni scoperta scientifica si fonda sullo stupore. Il «thauma» di Aristotele non è la meraviglia, è lo stupore. Se non vuoi stupire, non fai Titanic, non scrivi la Divina Commedia, e soprattutto non fai la rivoluzione. Il punto è che lo stupore non puoi suscitarlo a tavolino, non è fatto di trucchi, non viene da noi ma siamo noi a doverlo accogliere; a volte è un luogo specifico della nostra memoria da cui attingere, è il nostro sé più lontano, è un giro di accordi di una canzone. Io il lettore lo devo stravolgere, capovolgere, devo metterlo in discussione da cima a fondo. Lo stupore è il mezzo per l’unico obiettivo che ho di fronte: il contenuto della materia che sto affrontando, e come riuscire a esplicitarlo al meglio per farlo arrivare a chi mi legge.

Alla domanda sul perché della tua scrittura avevi risposto che scrivi «per imparare a morire». Sei appassionato, tra le altre cose, di horror, perché è l’unico genere ad avere impostato un discorso sulla morte. A che punto sei con il tuo personale discorso al riguardo?
Appena finito di scrivere L’inconveniente di essere amati ho cominciato a lavorare a un progetto diciamo «quasi horror», che dovrebbe essere il mio nuovo libro. E il titolo del file Word è, non a caso, entrarenellamorte.doc. Il cinema dell’orrore è una mia grande passione, che si rinnova ogni volta che vedo film come Hereditary – Le radici del male, o Noi, o Suspiria di Guadagnino.
Più che un genere, credo che l’horror sia, per qualsiasi artista, una specie di miniera di pepite d’oro in grado di accendere la fantasia di chi se ne lascia ispirare, perché la paura e la fantasia sono migliori amiche. I film horror sanno fare il loro sporco lavoro meglio della maggior parte degli psicanalisti, sono come i cristalli di Sturgeon, che sognano. Gli Urania sono libri che sognano. E quello che sognano genera altre immagini, altre storie. Che a loro volta sognano rigenerando altre immagini, altre storie… Michele Mari, in Tu, sanguinosa infanzia, dedica pagine indimenticabili a questo discorso.

Prima ho parlato di ossessioni, i tuoi libri sono densi di simbologie che le rappresentano. Provi ad analizzare la tua narrazione con la lente di ciò che ti ossessiona?
È difficile per me dire la verità su questo punto, perché io non credo affatto che la mia scrittura sia il risultato delle mie esperienze di vita e culturali, quindi di una mia certa idea del mondo. Non credo nemmeno di scrivere per mettere meglio a fuoco le cose, perché pensiero profondo e scrittura per me sono distinti, bicameralmente separati.
Io vengo continuamente visitato da immagini, che quando non spariscono si ripresentano sempre più ricche di dettagli, come le onde quando montano e fanno sempre più la spuma, e da lì parto per un viaggio di cui all’inizio non so niente, non mi interessa sapere niente. Nel tempo mi sono accorto che tutte le volte che ho provato a razionalizzare uscendo da questo esercizio di canalizzazione, i risultati non erano buoni, le parole fingevano, sembravano facce truccate male. Le parole sono molto brave a fingere.
Così come non è detto che un ragazzo carino sia l’uomo della tua vita, non è detto che una certa parola sia quella giusta. Allora come si fa a sapere qual è quella giusta? Si aspetta, si sente. Aspettare di sentire qualcosa di diverso, qualcosa che non sia una cosa tra le cose, è quello che faccio io, ogni giorno, è il mio mestiere. Non faccio altro che immaginare, sognare, di continuo. Ogni tanto sento una mano sulla spalla, è come se mi dicesse: «Ecco, è questo quello che cercavi». Se rispetto il volere di questa mano, allora la parola che ho scelto, o l’immagine sulla quale mi sono concentrato, è quella giusta. Giusta perché mi rispecchia, mi permette di capire un po’ meglio chi sono attraverso di lei.

Sul numero di dicembre 2018 della rivista «Nuovi Argomenti» è uscito un estratto del tuo nuovo romanzo, L’inconveniente di essere amati, che sarà pubblicato da Bompiani nel 2019. È una storia d’amore impossibile fra un uomo e una donna e nello scriverla sei partito dalla considerazione che forse nessun amore è impossibile sulla Terra. Senza scendere troppo nei particolari, che cosa puoi aggiungere a questa scarna presentazione?
Come dicevo prima, è un libro diverso dai miei precedenti. È una storia d’amore molto contemporanea, anche se ambientata in un paese immaginario di nome Calanchi a confine tra Marche e Abruzzo. Il protagonista, Paride Negri, è un cantautore trentenne che dopo una discreta fama è finito nel dimenticatoio. Lasciata Milano per tornare in Abruzzo, dopo aver troncato con il suo compagno, si trasferisce nella vecchia casa dei nonni morti. Al piano di sopra vive suo zio con la moglie Sonia, che Paride non ha mai conosciuto, e il cuginetto di cinque anni. L’incontro con questa donna e con questo bambino cambierà per sempre la sua vita costringendolo a mettere in discussione ogni cosa, obiettivi, bisogni, sogni e sensi di colpa.

Il cinema è tra le tue grandi passioni, sia come fruitore, sia come autore di sceneggiature. L’ultimo tuo libro sembra ispirato e dedicato a Bernardo Bertolucci. In che modo la tua scrittura cinematografica e la sua traduzione in immagini contaminano la tua scrittura letteraria, o viceversa?
Quando andavo al liceo mia madre un giorno tornò a casa e mi disse «dobbiamo vedere La luna di Bertolucci», uno dei suoi film più duri. Ricordo che fui molto colpito da come questo regista usava le tende o da come fotografava i cancelli. Io venivo da una forte e precoce passione per Pasolini e per il cinema horror, soprattutto Dario Argento, perciò ero abituato ad attori con poche sfumature facciali, piuttosto bidimensionali. Nei film di Bertolucci agli attori succedeva qualcosa di diverso, lui si muoveva tantissimo con la cinepresa attorno a loro, attorno agli oggetti, era come se stesse sempre rincorrendo qualcosa. Era come Proust, o forse come suo padre Attilio quando ha scritto il capolavoro La camera da letto. Dopo La luna mi immersi in tutto il suo cinema, io e una mia amica avremmo visto The dreamers in sala almeno dieci volte, a casa lei fingeva di essere la Venere di Milo come Eva Green. E poi Ultimo tango a Parigi, ricordo ancora il pomeriggio in cui l’ho visto, il senso di poetico disgusto che provai, speculare alle sensazioni che avevo provato vedendo Salò di Pasolini. Poi, dopo l’uscita del mio primo romanzo, il tempo di dedicarmi al cinema è stato poco, soprattutto è stato poco il tempo per studiare quelle formule di scrittura tipiche del cinema che avrebbero potuto servirmi per scrivere meglio, per costruire meglio una storia, perché a vent’anni c’erano ancora tanti libri fondamentali – Dostoevskij, Flaubert, Carver – che non avevo mai letto, e se uno vuole fare lo scrittore deve leggerli.
Nel 2015 la mia amica Monica Stambrini mi portò a cena da lui, nella sua magnifica casa di Viale Giulia a Roma, ignara dell’enormità del suo dono. Mi comprai un cappello di paglia a Trastevere quel giorno, mi presentai da lui in veste di contadinello abruzzese. Lo trovai di fronte a un maxischermo a parete, semidisteso su una poltrona reclinabile accanto al grande divano di casa, circondato di libri, la sigaretta che in bocca a lui sembrava fuori contesto, perché Bernardo, per quel poco che l’ho conosciuto io, per quelle poche serate, era davvero un bambino. Un bambino magico, dall’aura a volte luciferina, coltissimo, spudorato. La prima volta si divertì molto a interrogarmi, se avevo letto questo o quel libro, se conoscessi quel certo mediometraggio tedesco degli anni Trenta. Oppure, con il supporto della sua amica Patrizia Cavalli, si metteva a recitare dei versi a casaccio e chiedeva agli ospiti di chi fossero. Al vincitore veniva riservato il riverbero soddisfatto dei suoi occhi, l’allegria malinconica di cui solo lui era capace. Una sera mi chiamò in disparte, chiedendomi di spingere la carrozzella in fondo al corridoio, e mi disse: «Keep smiling, ricordatelo sempre Alcide». Vedi, ora ad esempio è successa una cosa strana, perché il computer ha trasformato keep smiling in keep smoking. Dev’essere un suo messaggio, visto che lui, che ha sempre girato in pellicola, amava fumare sul set così da rendere più denso lo spessore della luce.

Tra i tuoi riferimenti letterari e culturali spiccano Pier Paolo Pasolini, Emanuele Severino, W.S. Burroughs, Fëdor Dostoevskij. Lascio a te aggiungerne altri e spiegarci, se possibile, che cosa di ciascuno ha lasciato un segno.
Sono tanti, ho avuto una forte passione almeno per cinquanta scrittori. Poi, però, bisogna stare attenti alle proprie passioni, perché tu puoi amare alla follia Patrick Modiano – faccio davvero un esempio a caso – o la filosofia di Spinoza, o i thriller di Vargas. Ma la crescita culturale e psicologica di un autore non va di pari passo con la lista dei libri letti su Anobii, se funzionasse così ogni singolo studioso di sant’Anselmo d’Aosta, ogni bibliotecario, ogni laureando in Lettere, sarebbe più titolato di Arthur Rimbaud a scrivere qualcosa. Bisogna leggere, certo, e tanto, procedendo secondo una dialettica negativa che ci consenta di accantonare per sempre il loglio. Dobbiamo augurarci una vecchiaia circondata di grano.

In una delle poche interviste che hai rilasciato negli ultimi anni hai parlato del tuo vero desiderio: andare a vivere in Texas per sempre. Vivi tra Milano e l’Abruzzo, hai ambientato i tuoi libri in paesi remoti, idealmente e geograficamente. Dalla provincia marchigiana al Texas, passando per l’Albania: dove finisce la realtà e inizia la metafora?
Io non ci credo nella realtà. Non ci credo talmente tanto che anche se quando faccio questi discorsi mi considerano pazzo, preferisco essere considerato pazzo ma continuare a farli. Mettiamola così: mi dicono che sono nato, trentacinque anni fa, a San Benedetto del Tronto. Io però non me lo ricordo. Me l’hanno detto gli altri, okay, e ho visto nascere altra gente. Purtroppo non basta, perché io, di me, non me lo ricordo. Che io non me lo ricordi è una cosa irreale. Io ricordo un paesaggio, la mia bisnonna che affilava i coltelli, i calanchi d’Abruzzo sopra casa mia, il pane con l’olio di mia nonna, l’amore per i cani, io so di appartenere a questo paesaggio, e allora lo cerco, e le storie che racconto possono avvenire solo dentro questo paesaggio certo, assodato dentro di me. Ecco, credo che la realtà sia una grande metafora, un grande indizio di questo paesaggio.

Com’è il tuo sguardo sul futuro e che cosa puoi dirci dei tuoi prossimi progetti?
Bisognerebbe chiederlo al futuro, quale sia il suo sguardo su di me. Cosa fanno i miei prossimi progetti mentre aspettano che io mi avvicini a loro, che io oltrepassi questi anni così pieni, folli e tristi?

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Le poesie di Milo De Angelis.

 

Il colore dell’assenza. Sonno bianco di Stefano Corbetta

di Emanuela D’Alessio

Nulla è definitivo, c’è sempre un’altra possibilità, a patto che si resti vivi.
Detta così suona come una delle clamorose banalità che leggiamo quando scartiamo un bacio Perugina. Ma la semplicità di ciò che appare scontato si trasforma in complessità quando assistiamo al suo verificarsi.
È quello che è capitato a Stefano Corbetta, oggi scrittore dopo essere stato un aspirante tennista e un affermato musicista jazz. È quello che succede nel suo libro Sonno bianco, pubblicato da Hacca, dove la condizione immobile e sospesa di Bianca, in coma da nove anni, si trasforma in uno straordinario esempio di cambiamento e trasformazione.
La storia che Stefano Corbetta racconta con delicata semplicità, con una voce lieve ma incalzante, è la dimostrazione delle infinite conseguenze che possono scaturire da un evento definitivo come l’incidente che squarcia l’infanzia spensierata (?) delle sorelle gemelle Emma e Bianca.
Le ritroviamo nove anni dopo, Emma alle prese con una adolescenza menomata dal dolore, Bianca immobilizzata in un letto di ospedale, con gli occhi aperti in un volto senza luce. Intorno a questo fermo-immagine c’è un’intensa attività, un fermento di pulsioni ed emozioni che restituisce il senso dell’incessante movimento con accelerazioni e brusche frenate, abbandoni e incontri, fughe e ritorni.
Corbetta è bravo a restituire i colori dell’assenza, le pulsioni della colpa, le contraddizioni del perdono, la straordinaria forza della speranza, e anche le dinamiche perverse che si scatenano all’interno di una famiglia. Ma non c’è mai uno sguardo definitivo, c’è sempre la possibilità di scoprire un’altra prospettiva.
Sonno bianco si legge in un fiato, ma resta impresso a lungo, come succede a certi sogni che al risveglio non svaniscono più.

Per non rimanere con curiosità irrisolte, ho comunque rivolto qualche domanda all’autore.

Da qualche parte ho letto che sei “Mobiliere per tradizione, batterista per passione, scrittore per necessità”. Ti riconosci in questa sintesi e puoi aggiungere qualche dettaglio utile a completare il tuo profilo?
Mi riconosco in parte. È piuttosto difficile distinguere tra passione e necessità. Iniziai a suonare per colmare un vuoto. A diciassette anni ero convinto che avrei fatto il tennista, mi dedicavo totalmente a quello sport, ore e ore tutti i giorni, sacrifici e rinunce con un unico obiettivo, poi arrivarono i medici e mi dissero che avrei dovuto smettere a causa di una lieve malformazione cardiaca. Fu devastante, così mi dissi, okay, si ricomincia. Quella fu necessità che si trasformò con il tempo in passione.
Vent’anni dopo (mi ero costruito una strada solida come musicista jazz, seppur non fosse il mio lavoro, e avevo raggiunto una certa stabilità, suonavo sia in Italia sia all’estero), mi alzai una mattina di ritorno da una tournée con l’orchestra filarmonica d’Abruzzo e mi dissi, okay, hai detto quello che dovevi dire, ora si ricomincia da un’altra parte. Avevo in mente una storia da tempo, suonavo e pensavo alle parole; ecco, quella sì, fu passione. La necessità arrivò dopo, spogliata del manto emotivo che imbriglia la scrittura. Oggi scrivo perché cerco di dare forma alle cose, è una necessità razionale. Stravinskij direbbe «far prevalere l’ordine sul caos».

In qualità di scrittore hai esordito nel 2017 con Le coccinelle non hanno paura per Morellini e, da pochi mesi, sei tornato in libreria con Sonno bianco per Hacca. Hai riposto le bacchette per impugnare la penna (metaforicamente), che cosa ha determinato questo cambiamento così drastico? E si può ritenerlo definitivo?
Credo di non averci pensato molto, è stata una decisione presa nello stesso modo in cui avevo mollato il tennis. Certo, in quella occasione ne fui costretto, ma quel cambio improvviso di direzione probabilmente esercitò su di me il fascino del sentirsi persi, svuotati, per cui concludo che in quel momento ne avessi bisogno. E poi in fondo io sono un esistenzialista, non c’è errore, ogni cosa si rivela nell’attimo in cui accade, e comunque anche da un errore può sempre nascere qualcosa di buono.

Pur avendo smesso di suonare la musica continua a svolgere un ruolo predominante nella tua vita e quindi nella tua scrittura. In Sonno bianco uno dei personaggi, Léon, è un musicista che dà lezioni di pianoforte al piccolo e talentuoso Mattia. La musica è utilizzata come terapia per il recupero dei pazienti in stato vegetativo come Bianca, la sorella gemella di Emma, che “dorme” da nove anni. Puoi provare a declinare il romanzo attraverso la sua colonna sonora?
Avevo in mente Sonno bianco come una sinfonia in cui il silenzio dovesse avere una parte importante e dove i movimenti fossero caratterizzati da un continuo riprendere e abbandonare il tema iniziale. Nello svolgersi della storia la musica si insinua lentamente in quei silenzi, nei vuoti dei personaggi, nel loro non dire, nel loro muoversi senza parlare, e questo mi sembrava interessante perché mi permetteva di esemplificare il cambiamento degli sguardi senza essere esplicito, che è ciò che la scrittura può fare con grande forza, proprio negando in parte la propria natura. C’è solo un momento in cui cito espressamente un brano musicale, ed è la Patetica di Beethoven, ma per il resto ho cercato di restare sul vago per evitare di ingabbiare il lettore e cadere nel rischio di diventare didascalico.

In tutto il romanzo, in realtà, incontriamo diverse forme di arte. Oltre alla musica c’è il teatro, con la controversa decisione di Emma di entrare in una compagnia teatrale. Ci sono i disegni di Emma che riempiono le bianche pareti della stanza dove giace Bianca, immobile e assente. C’è un disegno in particolare da cui sembra prendere inizio tutta la storia. C’è una scultura in creta, due mani con le dita intrecciate che nascondono un piccola pallina rossa. Che cosa ci può dire l’arte che le semplici parole non riescono ad esprimere?
C’è un celebre racconto di Carver, Cattedrale, in cui un uomo deve spiegare a un cieco come sia fatta una cattedrale. Bene, quest’uomo tenta di farlo con le parole, ma poi il cieco, non soddisfatto del risultato, gli chiede di disegnarla, appoggiando la mano sulla sua. Per me quella è una dichiarazione di poetica. Le immagini possono dire più delle parole perché raccontano meno. E detto da uno scrittore come Carver fa un certo effetto. Non ho la pretesa di dire ciò che Carver pensava davvero sull’argomento, ma è quello che a me è parso chiaro, e lo prendo per buono.
La scultura, nel romanzo, è la Cattedrale di Rodin, e quando mi sono ritrovato di fronte a quell’immagine – Sonno bianco ha preso vita da quell’immagine – ho capito che la sua forza di espansione era enorme e così ho cercato di decifrarla.
Le varie forme d’arte che compaiono nel romanzo non trasmettono emozioni o sentimenti, ma dicono di uno stato delle cose o di una possibilità di sguardo differente. Emma impara ad ascoltarsi attraverso ciò che Léon le dice sulla musica, il teatro la mette in contatto con il doppio di sé, dandogli vita e rendendolo accettabile, la Cattedrale esemplifica il dialogo muto tra Emma e Bianca.
Quindi, per rispondere alla tua domanda, ma questo è un punto di vista assolutamente personale e per questo anche non condivisibile, l’arte forse riesce a fare la cosa più difficile, e cioè a non spiegare le cose, ma a raccontarcele in un solo istante, in un linguaggio implicito che parla alla nostra mente più che al nostro cuore.

Se il tema centrale di Sonno bianco sembra essere la lunga e dolorosa esperienza del coma di Bianca, quasi subito ci si accorge che questo è un pretesto per declinare il complesso tema dell’assenza, il senso della colpa, la difficoltà del perdono, la forza della speranza, le dinamiche perverse che si agitano all’interno di una famiglia. Che cosa ne pensi?
Penso che tu abbia colto perfettamente la questione, il coma è un pretesto. Bianca, nel suo essere assente, diventa una presenza centrale con cui tutti devono fare i conti – questa era la sfida che mi interessava. Volevo sondare gli effetti del senso di colpa, quello che un sopravvissuto sviluppa come sindrome, e quello che gli altri, anche le persone più vicine a noi, possono alimentare più o meno consapevolmente. E poi, come dici tu, ci sono le dinamiche complesse, a volte perverse, che si declinano nei silenzi, soprattutto, e che soffocano le speranze e impediscono di concedere il perdono, prima che agli altri, innanzitutto a se stessi. E quando tutto questo si gioca nel rapporto tra mondo adulto e adolescenti, allora c’è la possibilità di uno sguardo multiplo che allarga il senso di ciò che accade.

Sei riuscito a restituire con semplicità e delicatezza la profondità di tutti i protagonisti della storia, ad eccezione forse di Valeria, la madre di Emma e Bianca. Una donna e una madre verso cui non si prova empatia, che si preferisce giudicare piuttosto che comprendere. È con questo modello di madre che hai voluto fare i conti?
Guarda, io la penso così: i personaggi di una storia non si giudicano, si osservano. Quando qualcuno giudica un personaggio sta rinunciando a comprenderlo, e spesso per ragioni di sovrapposizione. In questi casi mi viene sempre da chiedere se quello stesso personaggio non stia provocando il lettore a tal punto da costringerlo a prendere posizione, e non sempre si è disposti a farlo. Ed ecco che scatta la difensiva. Il discorso su Valeria è ambivalente. Da una parte avevo la necessità di creare all’interno della famiglia un contrappeso alla capacità di ascolto di Enrico, il padre; dall’altra, mi interessava un meccanismo che ho visto mettere in atto spesso, e cioè la trasformazione di un dolore in rabbia. Il dolore è sempre personale, difficilmente assume una connotazione collettiva, il dolore divide, più raramente unisce, ma se lo trasformi in rabbia puoi sfogarlo sugli altri, avendo l’illusione di liberartene. Ma appunto, è soltanto un’illusione.

Dedichiamo qualche parola all’editore Hacca. Come è avvenuta la scelta di questa piccola casa editrice marchigiana?
Be’, innanzitutto diciamo che mi hanno scelto loro (anche se in realtà avevo un’alternativa). Seguivo Hacca da tempo e mai avrei pensato di poter arrivare a pubblicare con loro. I loro libri hanno una caratteristica ben precisa, seppur eterogenei all’interno del catalogo – e questo è un grande pregio –, riescono a lavorare intorno a un’idea narrativa che scava attraverso un linguaggio sempre personale. Durante il lavoro di editing mi hanno messo di fronte alla mia storia in un modo nuovo e ne è uscito un testo che, senza essere stato minimamente snaturato, ha acquistato forza. Questo dovrebbe fare un editore, camminare insieme all’autore, rispettandolo, e questo Hacca lo fa con grande consapevolezza.
Come ci sono arrivato? Una lettrice a cui avevo mandato il testo per sottoporlo a uno sguardo esterno lo aveva trovato molto interessante e mi ha suggerito di provare a farlo leggere a Francesca Chiappa, che dopo qualche mese mi ha scritto dicendo che il romanzo era interessante e che avrebbe voluto pubblicarlo.

In questi mesi stai accompagnando Sonno bianco in giro per l’Italia, io stessa “vi” ho conosciuti a Roma alla libreria Assaggi, che nel frattempo ha completato la sua trasformazione in Tomo libreria caffè. La “tradizionale” presentazione dell’autore in una libreria, più o meno affollata, conserva ancora la sua efficacia in piena rivoluzione digitale come l’attuale, volendo riprendere il tema ampiamente esplorato da Alessandro Baricco nel suo recentissimo Game?
Dunque, qui la faccenda si fa complessa. Faccio un esempio. Recentemente ho presentato il romanzo in una libreria in cui è stata fatta una diretta integrale. A me in generale questa cosa non piace, e per molte ragioni che adesso non sto qui a spiegare, ma la serata era pessima, pioveva come se fossimo ai tempi di Noè e molti avevano disdetto. Risultato: poche persone in libreria, ma più di mille visualizzazioni con conseguenti complimenti in privato da gente di Catania. In più aggiungiamo che i lettori sono sempre meno – così dicono – e quando in libreria arrivano quindici persone sei contento, inutile raccontarci storie (certo, se sei un nome che conta o sul quale la major ha puntato è un altro discorso, ma qui sto parlando di comuni mortali come me). Quindi, che senso ha investire tempo, soldi, energie in spostamenti che non sempre ripagano in termini di copie vendute? Semplice, si incontrano le persone, riaffermando con forza l’insostituibilità degli sguardi e la necessità di avere un corpo e una voce reali.
Ti faccio un esempio. Anni fa capitai a Ravenna e per caso nell’unica sera in cui pernottai in città davano al Dante Alighieri una commedia di Jasmina Reza, Art, con Alessandro Haber, Alessio Boni e Gigio Alberti. Fu incredibile, uscii con i crampi allo stomaco per le risate. Un anno dopo iniziai a sentire nostalgia di quella serata e cercai lo spettacolo per capire se fosse ancora possibile vederlo da qualche parte. Niente, ormai il tour era terminato. Mi dissi, c’è You Tube! Sai cosa è successo? Ho visto la commedia a video e la delusione è stata profondissima, nessuna empatia con i personaggi, solo un vago senso di familiarità assolutamente asettica. La rivoluzione digitale funziona per i contenuti, per la velocità con cui vengono trasmessi e tutto quello che ci sta dietro e che Baricco spiega bene nel suo Game, cambia il mondo, e quindi le persone, ma c’è poco da fare, gli incontri interpersonali ne vengono depotenziati. Parlavo recentemente con un professore dell’università Bocconi e mi diceva che loro ancora fanno incontri e conferenze recandosi all’estero, quando potrebbero tranquillamente usare i computer. Certo, in alcuni casi vale comunque la pena collegarsi via internet, ma l’efficacia di una stretta di mano non credo sarà mai sostituibile.

Prima di essere uno scrittore si è (o dovrebbe essere) un lettore. Tu che tipo di lettore sei?
Sono un lettore lento, analitico, molto esigente con me stesso. Se devo leggere un libro per il piacere di leggerlo, devo farlo la seconda volta. Quando inizio un romanzo ho sempre accanto a me matite colorate e un quaderno. Sottolineo con colori diversi, faccio schemi, trascrivo. È l’unico modo che conosco per far sì che il testo mi rimanga, altrimenti lo dimentico. Questa è la ragione per cui leggo al massimo una ventina di romanzi all’anno, quando va bene.

Qual è la tua libreria ideale?
In questo periodo sto girando molto per tutta Italia e ho l’occasione di entrare in molte librerie. Devo dire che la combinazione più accattivante, ormai mi pare peraltro abbastanza consolidata, è quella libri-caffetteria disseminata di tavolini e poltrone sfondate. Da grande consumatore di cappuccino e dolciumi vari, sedermi a stomaco pieno e iniziare a leggere è una cosa che mi dà sempre particolare piacere. Sono stato recentemente a Firenze, alla libreria La Cité, e mi ha affascinato per l’atmosfera accogliente e il via vai. Ho visto entrare personaggi degni di nota, musica in sottofondo, un soppalco con tavolini rotondi e legno ovunque, non il massimo se uno cerca pace e tranquillità, ma estremamente stimolante.

Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino?
Sul mio comodino c’è una pila di libri che attentano alla mia vita durante la notte perché arriva a metà parete e se un giorno dovesse franare ne rimarrei sommerso durante il sonno. Al momento sto leggendo Goodbye, Columbus di Philip Roth e Vedere voci di Oliver Sacks.

Stefano Corbetta è nato a Milano nel 1970. Interior designer, collabora con il quotidiano «Il Cittadino di Lodi», per cui scrive articoli e recensioni. Dopo una lunga esperienza come musicista jazz, si dedica per qualche anno al teatro, per poi approdare alla scrittura. Ha esordito con il romanzo Le coccinelle non hanno paura (Morellini, 2017), ed è tra gli autori dell’antologia Lettera alla madre (Morellini, 2018). Sonno bianco (Hacca, 2018) è il suo secondo romanzo.

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Flavio Ignelzi (ottobre 2015)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Flavio Ignelzi

Flavio Ignelzi (Benevento, 1972) legge, scrive e fa altre cose, non tutte interessanti. Ha seminato qualche racconto in piccole antologie di provincia, perché piccolo è bello; qualcuna l’ha anche curata (Oschi Loschi), ora stanno tutte bene. Ha scritto di musica tosta (Salad Days Magazine), ma al momento ha smesso, senza neanche bisogno di medicine. Qualcuno lo chiama ancora ingegnere, ma lui ha imparato a non offendersi. Un giorno farà quello che gli piace davvero, appena capirà cosa.

In camera da letto, il comodino sta alla libreria come la sedia sta all’armadio. Il mio comodino non fa eccezione. Sul mio transitano quasi tutti i libri che leggo, essendo la lettura la seconda cosa che preferisco fare a letto prima di addormentarmi.

L’amore e altre forme d’odio di Luca Ricci (Einaudi, 2006) è un libretto con un po’ di anni sul groppone, alquanto rovinato (qualche pagina si è staccata), che attendeva pazientemente di essere letto. Racconti brevi che potrebbero avere in Carver e Cheever i loro referenti nobili, che giungono a centrare sempre il cuore dei personaggi, tutti senza nome. A volte ne viene fuori una stoccata sociologica (La veranda), altre volte delle spurie sedute di terapia di coppia (Moquette, dappertutto). Comunque, mentre lo si legge, si ha sempre l’impressione di spiare o essere spiati da qualcuno.

Le ultime 5 ore di Douglas Coupland (Isbn, 2012) sicuramente non è il suo miglior romanzo (gli preferisco Hey Nostradamus!, Dio odia il Giappone o il classico Generazione X), ma lo scrittore canadese riesce sempre a farti amare i suoi personaggi, nonostante qualche imperfezione per prevedibilità e superficialità. A causa dell’ambientazione claustrofobica, questo romanzo mi ha dato l’idea di quei film low-budget che risparmiano su tutto, pure sul catering per attori e comparse.

Tutti i racconti di Roald Dahl (Longanesi, 2009) è un macigno che raccoglie tutta l’opera breve del maestro britannico (se non erro ne restano fuori solo gli scritti per bambini). A mio avviso, ogni scrittore che volesse cimentarsi con la short-story, in particolare con quella di stampo fantastico, dovrebbe consultarlo come libro di testo imprescindibile. Ogni racconto è un viaggio ai confini della realtà (la citazione non è casuale) e sto provando a sorbirmene uno a sera, come un elisir di salute.

Amo le antologie a tema (ho avuto anche la fortuna di curarne alcune). Esc. Quando tutto finisce (Hacca, 2013) è una di quelle che mi ha più impressionato per la qualità dei racconti, uniformemente proiettata verso l’alto. Letta adesso, dopo che la febbre da fine del mondo s’è ormai raffreddata, non perde potenza o incisività, e forse neanche l’urgenza degli interventi. È una di quelle raccolte assemblate così bene che ti fa venire voglia di segnarti i nomi di tutti i partecipanti per andare a recuperarne i libri. Detto tra noi, ho fatto esattamente così.

Dio taglia 60 di Gianluca Merola (Ad Est dell’Equatore, 2013) è un libretto sottile sottile di raccontini affilati come coltelli da prosciutto (di maialino nero casertano). L’umanità tratteggiata in queste pagine è crudele, approfittatrice, delusa, tormentata. I bambini non possono salvarsi, gli adulti sono già condannati, la scenografia è la periferia del mondo che assomiglia maledettamente a un carcere da cui è impossibile scappare. Una raccolta che fa perdere ogni speranza di redenzione. Viva iddio.

Occhio di Falco di Matt Fraction e disegnatori vari (Panini) è, insieme al Daredevil di Mark Ward, l’unica lettura che mi lega mensilmente al mondo dei supertizi disegnati. Ora, a parte le trovate di sceneggiatura (l’episodio narrato dal point of view del cane Lucky, l’episodio con i balloon vuoti per i problemi di udito), che a volte paiono più delle spacconate, ciò che mi incanta della serie è la scrittura veramente certosina. Meno male che chiude adesso, un attimo prima di perdere colpi.

Qui gli altri comodini.

Il comodino di Flavio Ignelzi

Il comodino di Flavio Ignelzi

Il poeta dell’aria – Chicca Gagliardo

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Chicca Gagliardo, Il poeta dell’aria, Hacca Edizioni, 2014

di Anna Castellari

Questo libro mi è capitato tra le mani il giorno del rogito di vendita della casa. Mi stavo trasferendo da un piano rialzato a un quinto piano, quindi comprare un libro sul volo proprio quando mi accingevo a traslocare verso piani più alti mi è sembrato di buon auspicio: si aprono le ali, in questo libro, come si fa con certe scelte radicali nel corso della vita. Ci si libera del peso del corpo, che poi è una metafora dei doveri imposti dalla società e un modo per rimanere ancorati al materiale.

Qualcuno ha scritto, di questo libro, che non c’è una vera e propria storia, ma tante storie che si intrecciano. Un po’ è vero, anche se nello scorrere delle pagine ci si affeziona al narratore, il poeta dell’aria del titolo, si imparano ad amare i suoi voli pindarici, le parole da scrivere nell’aria, anche quelle cosiddette “chiaroscuro”. È un libro leggero, non nel senso che non ha importanza, al contrario: in esso anche la forma delle parole riveste la medesima importanza della sostanza delle parole stesse.

Tanto che l’art director, Maurizio Ceccato (che, tra l’altro, sarà uno dei protagonisti, il 15 gennaio 2015, di una delle serate romane del ciclo “Cosa si fa con un libro”, organizzato da noi Serpenti) ha inserito nel libro una copertina che è una straordinaria sintesi tra l’immagine di Yves Klein Il salto nel vuoto e la storia di Chicca. Gli spazi bianchi, punti solitari in fondo alla pagina, frasi che suonano come una sinfonia nella mente del lettore, che escono dalla pagina per rimanere impressi nella nostra memoria, fanno il resto. E qui entra in gioco il bellissimo lavoro dell’editore, Hacca Edizioni, e di Francesca Chiappa che ne ha curato l’impaginazione, in concerto con l’autrice che, volutamente, ha voluto questo lavoro di spazi bianchi e punti.

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Chicca Gagliardo, Il poeta dell’aria, Hacca Edizioni, 2014

Quegli spazi bianchi, prima di frasi o di segni di interpunzione insolitamente lasciati in fondo a una pagina, o soli al centro di una pagina vuota, sono un respiro per il lettore. Enfatizzano le frasi che seguono; hanno insomma un valore pari a quello delle parole. La scrittura scorre leggera tra le pagine. Si può dire che quella compiuta dall’autrice, assieme all’art director, sia una operazione munariana? Si può dire, così come si può dire che questo sia un libro d’artista, un oggetto da sfogliare. Leggendolo, ritrovo le atmosfere piene di sorprese di Nella notte buia, solo che è tutto il contrario: quello di Gagliardo è un libro pieno di luce, nel testo di Munari invece il nero faceva confondere cose e persone – così come accade anche Nella nebbia di Milano, sempre dell’autore e maestro del design italiano.

Si vola, si salta tra i tetti di una città che non ha nome, si spiano le persone dalle finestre mentre dormono, le si ama. Si legge com’è la vita lassù, dotati solo di ali e di respiro. Si gode del vento, lo si declina a proprio favore.

I personaggi che si incontrano assumono nomi diversi da quelli che avevano nella loro vita terrestre, e questo perché nella seconda vita di volatili il nome che ci si dà è quello di un desiderio, di una tensione assoluta verso l’infinito.

Un libro unico nel suo genere: non è una frase fatta da articolo promozionale, ma una constatazione. Forse, senza volerlo, Chicca Gagliardo è riuscita nell’intento di creare un’opera d’arte alla portata di tutti, una scultura da viaggio, un volo fatto di pagine, e questo supera di gran lunga la presunta leggerezza dell’eBook. Avvezza com’è a vedere i suoi libri trasformarsi in opere d’arte, per Gagliardo questo è solo un piacevole effetto collaterale.

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Chicca Gagliardo

Chicca Gagliardo io l’ho conosciuta indirettamente attraverso i racconti delle volontarie della Grande Fabbrica delle Parole, laboratorio di scrittura creativa per ragazzi al quale collaboro anch’io. Ricordo Francesca Frediani che mi spiegava entusiasta il metodo usato da Chicca con i bambini: mostrava loro le fotografie di Massimiliano Tappari, usate nel suo libro Gli occhi degli alberi, per scatenare la loro fantasia nel vedere creature meravigliose in immagini che ritraevano alberi, condomini, nuvole. Ho scoperto che ha curato anche alcuni libri della Merini, e che Immagini dall’aldilà dei pesci è un’installazione presente al Mart di Rovereto e tratta dal suo libro Nell’aldilà dei pesci, che ha ispirato anche Antonio Rezza. Aspetto di vedermela apparire, prima o poi, con i suoi riccioli biondi, in un tram lento e arancione di Milano.

Ventitreesimo giorno, martedì

Oltre l’oltremare

Ho trovato la foto di cui parla Zuzù.
Osserva lo sguardo che si lancia nel vuoto.
La voce nell’aria che dice: «Prima, non c’è nulla, poi c’è un nulla profondo, poi una profondità blu».
Un giorno troveremo la risposta a questa domanda:
che colore c’è oltre l’oltremare?

Chicca Gagliardo, Il poeta dell’aria

Hacca Edizioni, 2014
€ 15,00