Titolo?
Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
Introduzione?
Leonardo G. Luccone
Editore?
Via dei Serpenti
Uscita?
Settembre 2019
Di Alcide Pierantozzi, caso editoriale nel 2006 con Uno in diviso per Hacca, non ci limitiamo a un assaggio. Pubblichiamo integralmente la sua nuova intervista a Via dei Serpenti che troverete, insieme alla precedente (luglio 2015), in Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti.
Il tuo ultimo libro, Tutte le strade portano a noi, è uscito nel 2015. Da allora, quando dicevi: «Credo che sia arrivato il momento di cominciare a scrivere sul serio», che cosa è successo al Pierantozzi scrittore?
Gli ultimi quattro anni non sono stati facili per me, sono successe molte cose, molti eventi della vita che mi hanno scosso e cambiato. Ho perso i miei nonni, con i quali sono cresciuto, e sono andato più di una volta in crisi con la scrittura. Per molto tempo sono rimasto impantanato su un libro piuttosto difficile, sul disastro di Chernobyl, nella convinzione che fosse il «mio» libro – e tale è rimasto, in un certo senso, perché ci lavoro continuamente. Quando però sembrava che non riuscissi a scrivere altro, è arrivata Bompiani, nella persona dello scrittore e consulente Alessandro Mari. Con lui, e poi con Beatrice Masini, è nata l’idea di un nuovo romanzo, molto diverso dai miei precedenti (anche se, forse, li riecheggia tutti). Ci ho lavorato per un anno, con grande ispirazione.
Dopo il caso editoriale di Uno in diviso, che nel bene e nel male suscitò molto scalpore, hai continuato a scatenare forti reazioni, perché i tuoi libri sono «senza confini di stile», disorientano il lettore, lo costringono a nuotare in un mare aperto e agitato, tra ossessioni e interrogativi complessi e scomodi sull’esistenza. Se, come sembra evidente, lo scopo della tua scrittura non è compiacere il lettore e probabilmente nemmeno l’editore, puoi provare a spiegarci il percorso della tua ricerca letteraria e, nel caso esista, il suo obiettivo?
Compiacere il lettore no, ma stupirlo sì. Sempre. Lo stupore conta parecchio in un libro, o in un film, o in un discorso. Ogni scoperta scientifica si fonda sullo stupore. Il «thauma» di Aristotele non è la meraviglia, è lo stupore. Se non vuoi stupire, non fai Titanic, non scrivi la Divina Commedia, e soprattutto non fai la rivoluzione. Il punto è che lo stupore non puoi suscitarlo a tavolino, non è fatto di trucchi, non viene da noi ma siamo noi a doverlo accogliere; a volte è un luogo specifico della nostra memoria da cui attingere, è il nostro sé più lontano, è un giro di accordi di una canzone. Io il lettore lo devo stravolgere, capovolgere, devo metterlo in discussione da cima a fondo. Lo stupore è il mezzo per l’unico obiettivo che ho di fronte: il contenuto della materia che sto affrontando, e come riuscire a esplicitarlo al meglio per farlo arrivare a chi mi legge.
Alla domanda sul perché della tua scrittura avevi risposto che scrivi «per imparare a morire». Sei appassionato, tra le altre cose, di horror, perché è l’unico genere ad avere impostato un discorso sulla morte. A che punto sei con il tuo personale discorso al riguardo?
Appena finito di scrivere L’inconveniente di essere amati ho cominciato a lavorare a un progetto diciamo «quasi horror», che dovrebbe essere il mio nuovo libro. E il titolo del file Word è, non a caso, entrarenellamorte.doc. Il cinema dell’orrore è una mia grande passione, che si rinnova ogni volta che vedo film come Hereditary – Le radici del male, o Noi, o Suspiria di Guadagnino.
Più che un genere, credo che l’horror sia, per qualsiasi artista, una specie di miniera di pepite d’oro in grado di accendere la fantasia di chi se ne lascia ispirare, perché la paura e la fantasia sono migliori amiche. I film horror sanno fare il loro sporco lavoro meglio della maggior parte degli psicanalisti, sono come i cristalli di Sturgeon, che sognano. Gli Urania sono libri che sognano. E quello che sognano genera altre immagini, altre storie. Che a loro volta sognano rigenerando altre immagini, altre storie… Michele Mari, in Tu, sanguinosa infanzia, dedica pagine indimenticabili a questo discorso.
Prima ho parlato di ossessioni, i tuoi libri sono densi di simbologie che le rappresentano. Provi ad analizzare la tua narrazione con la lente di ciò che ti ossessiona?
È difficile per me dire la verità su questo punto, perché io non credo affatto che la mia scrittura sia il risultato delle mie esperienze di vita e culturali, quindi di una mia certa idea del mondo. Non credo nemmeno di scrivere per mettere meglio a fuoco le cose, perché pensiero profondo e scrittura per me sono distinti, bicameralmente separati.
Io vengo continuamente visitato da immagini, che quando non spariscono si ripresentano sempre più ricche di dettagli, come le onde quando montano e fanno sempre più la spuma, e da lì parto per un viaggio di cui all’inizio non so niente, non mi interessa sapere niente. Nel tempo mi sono accorto che tutte le volte che ho provato a razionalizzare uscendo da questo esercizio di canalizzazione, i risultati non erano buoni, le parole fingevano, sembravano facce truccate male. Le parole sono molto brave a fingere.
Così come non è detto che un ragazzo carino sia l’uomo della tua vita, non è detto che una certa parola sia quella giusta. Allora come si fa a sapere qual è quella giusta? Si aspetta, si sente. Aspettare di sentire qualcosa di diverso, qualcosa che non sia una cosa tra le cose, è quello che faccio io, ogni giorno, è il mio mestiere. Non faccio altro che immaginare, sognare, di continuo. Ogni tanto sento una mano sulla spalla, è come se mi dicesse: «Ecco, è questo quello che cercavi». Se rispetto il volere di questa mano, allora la parola che ho scelto, o l’immagine sulla quale mi sono concentrato, è quella giusta. Giusta perché mi rispecchia, mi permette di capire un po’ meglio chi sono attraverso di lei.
Sul numero di dicembre 2018 della rivista «Nuovi Argomenti» è uscito un estratto del tuo nuovo romanzo, L’inconveniente di essere amati, che sarà pubblicato da Bompiani nel 2019. È una storia d’amore impossibile fra un uomo e una donna e nello scriverla sei partito dalla considerazione che forse nessun amore è impossibile sulla Terra. Senza scendere troppo nei particolari, che cosa puoi aggiungere a questa scarna presentazione?
Come dicevo prima, è un libro diverso dai miei precedenti. È una storia d’amore molto contemporanea, anche se ambientata in un paese immaginario di nome Calanchi a confine tra Marche e Abruzzo. Il protagonista, Paride Negri, è un cantautore trentenne che dopo una discreta fama è finito nel dimenticatoio. Lasciata Milano per tornare in Abruzzo, dopo aver troncato con il suo compagno, si trasferisce nella vecchia casa dei nonni morti. Al piano di sopra vive suo zio con la moglie Sonia, che Paride non ha mai conosciuto, e il cuginetto di cinque anni. L’incontro con questa donna e con questo bambino cambierà per sempre la sua vita costringendolo a mettere in discussione ogni cosa, obiettivi, bisogni, sogni e sensi di colpa.
Il cinema è tra le tue grandi passioni, sia come fruitore, sia come autore di sceneggiature. L’ultimo tuo libro sembra ispirato e dedicato a Bernardo Bertolucci. In che modo la tua scrittura cinematografica e la sua traduzione in immagini contaminano la tua scrittura letteraria, o viceversa?
Quando andavo al liceo mia madre un giorno tornò a casa e mi disse «dobbiamo vedere La luna di Bertolucci», uno dei suoi film più duri. Ricordo che fui molto colpito da come questo regista usava le tende o da come fotografava i cancelli. Io venivo da una forte e precoce passione per Pasolini e per il cinema horror, soprattutto Dario Argento, perciò ero abituato ad attori con poche sfumature facciali, piuttosto bidimensionali. Nei film di Bertolucci agli attori succedeva qualcosa di diverso, lui si muoveva tantissimo con la cinepresa attorno a loro, attorno agli oggetti, era come se stesse sempre rincorrendo qualcosa. Era come Proust, o forse come suo padre Attilio quando ha scritto il capolavoro La camera da letto. Dopo La luna mi immersi in tutto il suo cinema, io e una mia amica avremmo visto The dreamers in sala almeno dieci volte, a casa lei fingeva di essere la Venere di Milo come Eva Green. E poi Ultimo tango a Parigi, ricordo ancora il pomeriggio in cui l’ho visto, il senso di poetico disgusto che provai, speculare alle sensazioni che avevo provato vedendo Salò di Pasolini. Poi, dopo l’uscita del mio primo romanzo, il tempo di dedicarmi al cinema è stato poco, soprattutto è stato poco il tempo per studiare quelle formule di scrittura tipiche del cinema che avrebbero potuto servirmi per scrivere meglio, per costruire meglio una storia, perché a vent’anni c’erano ancora tanti libri fondamentali – Dostoevskij, Flaubert, Carver – che non avevo mai letto, e se uno vuole fare lo scrittore deve leggerli.
Nel 2015 la mia amica Monica Stambrini mi portò a cena da lui, nella sua magnifica casa di Viale Giulia a Roma, ignara dell’enormità del suo dono. Mi comprai un cappello di paglia a Trastevere quel giorno, mi presentai da lui in veste di contadinello abruzzese. Lo trovai di fronte a un maxischermo a parete, semidisteso su una poltrona reclinabile accanto al grande divano di casa, circondato di libri, la sigaretta che in bocca a lui sembrava fuori contesto, perché Bernardo, per quel poco che l’ho conosciuto io, per quelle poche serate, era davvero un bambino. Un bambino magico, dall’aura a volte luciferina, coltissimo, spudorato. La prima volta si divertì molto a interrogarmi, se avevo letto questo o quel libro, se conoscessi quel certo mediometraggio tedesco degli anni Trenta. Oppure, con il supporto della sua amica Patrizia Cavalli, si metteva a recitare dei versi a casaccio e chiedeva agli ospiti di chi fossero. Al vincitore veniva riservato il riverbero soddisfatto dei suoi occhi, l’allegria malinconica di cui solo lui era capace. Una sera mi chiamò in disparte, chiedendomi di spingere la carrozzella in fondo al corridoio, e mi disse: «Keep smiling, ricordatelo sempre Alcide». Vedi, ora ad esempio è successa una cosa strana, perché il computer ha trasformato keep smiling in keep smoking. Dev’essere un suo messaggio, visto che lui, che ha sempre girato in pellicola, amava fumare sul set così da rendere più denso lo spessore della luce.
Tra i tuoi riferimenti letterari e culturali spiccano Pier Paolo Pasolini, Emanuele Severino, W.S. Burroughs, Fëdor Dostoevskij. Lascio a te aggiungerne altri e spiegarci, se possibile, che cosa di ciascuno ha lasciato un segno.
Sono tanti, ho avuto una forte passione almeno per cinquanta scrittori. Poi, però, bisogna stare attenti alle proprie passioni, perché tu puoi amare alla follia Patrick Modiano – faccio davvero un esempio a caso – o la filosofia di Spinoza, o i thriller di Vargas. Ma la crescita culturale e psicologica di un autore non va di pari passo con la lista dei libri letti su Anobii, se funzionasse così ogni singolo studioso di sant’Anselmo d’Aosta, ogni bibliotecario, ogni laureando in Lettere, sarebbe più titolato di Arthur Rimbaud a scrivere qualcosa. Bisogna leggere, certo, e tanto, procedendo secondo una dialettica negativa che ci consenta di accantonare per sempre il loglio. Dobbiamo augurarci una vecchiaia circondata di grano.
In una delle poche interviste che hai rilasciato negli ultimi anni hai parlato del tuo vero desiderio: andare a vivere in Texas per sempre. Vivi tra Milano e l’Abruzzo, hai ambientato i tuoi libri in paesi remoti, idealmente e geograficamente. Dalla provincia marchigiana al Texas, passando per l’Albania: dove finisce la realtà e inizia la metafora?
Io non ci credo nella realtà. Non ci credo talmente tanto che anche se quando faccio questi discorsi mi considerano pazzo, preferisco essere considerato pazzo ma continuare a farli. Mettiamola così: mi dicono che sono nato, trentacinque anni fa, a San Benedetto del Tronto. Io però non me lo ricordo. Me l’hanno detto gli altri, okay, e ho visto nascere altra gente. Purtroppo non basta, perché io, di me, non me lo ricordo. Che io non me lo ricordi è una cosa irreale. Io ricordo un paesaggio, la mia bisnonna che affilava i coltelli, i calanchi d’Abruzzo sopra casa mia, il pane con l’olio di mia nonna, l’amore per i cani, io so di appartenere a questo paesaggio, e allora lo cerco, e le storie che racconto possono avvenire solo dentro questo paesaggio certo, assodato dentro di me. Ecco, credo che la realtà sia una grande metafora, un grande indizio di questo paesaggio.
Com’è il tuo sguardo sul futuro e che cosa puoi dirci dei tuoi prossimi progetti?
Bisognerebbe chiederlo al futuro, quale sia il suo sguardo su di me. Cosa fanno i miei prossimi progetti mentre aspettano che io mi avvicini a loro, che io oltrepassi questi anni così pieni, folli e tristi?
Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Le poesie di Milo De Angelis.