Archivi tag: Laterza

Quel che conta è giocare. Intervista a Vanni Santoni

di Emanuela D’Alessio

Vanni Santoni ci accompagna nella sua “stanza profonda” dove si gioca a Dungeons & Dragons, ci si ritrova e ci si perde, si costruiscono mondi immaginari, si prova a resistere con la fantasia all’omologazione della realtà.
Con La stanza profonda lo scrittore toscano e direttore editoriale di Tunuè ha messo sul tavolo un poker d’assi, tanto per restare in tema di gioco.
Innanzitutto entrare nella “dozzina” del Premio Strega, ingresso ancor più eclatante se si considera che per il suo editore, Laterza, si tratta di una prima assoluta.
Poi “sdoganare” l’universo dei Giochi di Ruolo, percepiti dai profani come una “roba da sfigati”, da cui stare alla larga o addirittura difendersi.
Quindi compiere un’ibridazione vincente tra saggio e romanzo, autobiografia e finzione, attraverso una scrittura asciutta e leggera senza intoppi retorici o nostalgici.
Infine svelare a tutti gli altri la “stanza profonda”, che diventa metafora dell’inesauribile lotta tra magia e realtà, dove si entra solo per giocare e per mettersi al riparo dal mondo reale, anche se «il gioco è più reale del fuori».

Vanni Santoni

Vanni Santoni

Ci riesce brillantemente Santoni a raccontare questo mondo dove c’è spazio solo per l’immaginazione, così come ci era riuscito con il rave nel suo precedente Muro di casse (sempre per Laterza).
E lo fa attraverso «un gruppo di sciamannati» che sono scesi nel seminterrato da adolescenti e ne sono usciti da adulti. Nel frattempo fuori tutto è cambiato, anche il modo di giocare, perché il dungeon master e i dadi colorati a venti facce, le mappe e il libro delle regole, le schede personaggio e i lapis Fila gommati, non servono più.
Nel frattempo sono arrivati i videogame e i giochi online e la scatola rossa di Dungeons & Dragons diventa un pezzo da collezione.
Non si tratta però di una disfatta o peggio di un annientamento, è questa la chiave di lettura alternativa di Santoni, ma di una evoluzione. I trenta milioni di giocatori di ruolo che per vent’anni (a partire dal 1974) sono scesi nelle “stanze profonde” in tutto il mondo, hanno rappresentato un’avanguardia dell’attuale miliardo di utenti di giochi online.
I GdR, insiste Santoni, sono stati controcultura, perché hanno dimostrato che rispetto alla competizione di una società afflitta e sfranta, ci si può divertire ed esaltare senza pagare nessuno e senza sottomettersi ad alcuna autorità, se non a quella di regole scelte insieme.
Quindi evviva i GdR, ma allo stesso tempo viene da chiedersi: l’attuale forsennata proliferazione dei giochi online rappresenta la nuova avanguardia culturale?
Forse troveremo la risposta nel prossimo libro di Santoni, cui nel frattempo abbiamo rivolto altre domande.

Vanni Santoni è di nuovo protagonista del Premio Strega, questa volta in qualità di scrittore con il suo “anomalo” La stanza profonda, pubblicato da Laterza. Per l’editore barese si tratta di una prima volta, non avendo mai partecipato allo Strega. Come mai ha deciso di iniziare proprio con il tuo libro?
Questo andrebbe chiesto a Anna Gialluca, direttrice editoriale di Laterza. Personalmente, posso solo essere onorato del fatto che una casa editrice con la storia della “Giuseppe Laterza & figli” abbia scelto me per partecipare al più importante premio letterario italiano. Da sempre in Laterza ho trovato grande fiducia nella mia scrittura, a partire da Se fossi fuoco arderei Firenze, del 2011 e continuando poi col successo di Muro di casse, uscito due anni fa – e tale fiducia è da me assolutamente ricambiata vista la qualità cristallina del loro lavoro a ogni livello, che sia di direzione, editing, bozze, grafica, segreteria, eventi, distribuzione o ufficio stampa.

Per te invece lo Strega è diventato una consuetudine: hai partecipato come editor dei fortunati Dalle rovine e Stalin+Bianca, due grandi successi di Tunuè, e ora come scrittore. Come ci si sente a svolgere molteplici ruoli contemporaneamente e in quale ti ritrovi più a tuo agio?
Non so se si possa parlare di consuetudine, per me lo Strega è qualcosa di mitologico – tra le foto-feticcio che ho affisse nella stanza in cui scrivo c’è quella di Elsa Morante (tra le tante cose l’unica scrittrice psichedelica italiana) che indica col bicchiere la leggendaria lavagna – e se è stata certamente positiva l’esperienza che ho avuto con la candidatura del libro di Barison e la “dozzina” con quello di Funetta, per me già solo esserci come autore è qualcosa di assolutamente emozionante.
Circa la mia attività di editor, è ancora qualcosa di relativamente nuovo rispetto a quella di scrittore, e la vivo molto bene, sia perché mi esalta l’attività di scouting, che si tratti di scoprire nuovi talenti o di recuperare autori magari non capiti appieno nel loro valore da un mondo editoriale a volte troppo frenetico, sia perché imparo sempre molto dai miei autori.

las_copertinaHo definito “anomalo” La stanza profonda perché sfugge a una facile catalogazione (un’ibridazione tra saggio e romanzo) e perché affronta un argomento, i giochi di ruolo, un po’ indigesto per i non addetti ai…giochi! Hai voluto rendere omaggio ai tuoi trascorsi ventennali di master e a tutti gli appassionati del genere?
La stanza profonda nasce per parlare anzitutto a chi non ha mai partecipato a un gioco di ruolo, esattamente come Muro di casse era destinato in primis a chi non aveva mai preso parte a un rave: lo spunto iniziale è proprio quello che deriva dalla volontà di storicizzare questi fenomeni e rendergli giustizia rispetto al peso culturale enorme che hanno avuto, e la scelta della forma-romanzo deriva proprio da tale volontà, visto che un dato tema può interessare a qualcuno sì e a qualcuno no, mentre a tutti piacciono le storie. Ovviamente, poi, c’è un secondo livello di lettura, legato alla mia esperienza diretta di raver e giocatore di ruolo, che si traduce nell’articolare un storia dei due fenomeni attraverso una narrazione romanzesca, con molti ammicchi a chi ne ha una conoscenza più profonda.

Un gioco di ruolo «non è una roba al computer, non è una roba di soldatini, non è una roba di carte, non è una roba in cui ti vesti da elfo». Ma allora che cos’è veramente? Resta il dubbio, fino alla fine, su chi siano i giocatori di ruolo: sfigati e autistici o un’avanguardia culturale che ha scelto di chiamarsi fuori dal sistema, facendo prevalere la fantasia sull’omologazione?
Credo sia interessante il fatto che molto spesso i GdR sono stati definiti per esclusione, come fa del resto il personaggio di Tiziano nel romanzo, nel passo che citi. Credo c’entri il fatto che sono facilissimi da sperimentare – ti siedi e giochi – mentre molto più complessi da spiegare. Tra le due definizioni che proponi, probabilmente mentre l’onda dei GdR era in corso, quella corretta è qualcosa a metà tra le due, mentre oggi che è finita prevale senz’altro la seconda: piaccia o no a chi buttava il suo tempo con gli sport, tanto i GdR come i rave erano cruciali avanguardie culturali… anche se non lo sembravano!

Perché il luogo ideale per giocare a Dungeons & Dragons è nascosto e sotterraneo, al riparo dalla luce e dalla vita di superficie, in una stanza segreta, profonda, appunto?
La spiegazione banale è che le altre stanze erano occupate dalle attività dei genitori. Ma è una spiegazione che nasconde altro. Mentre in salotto, la stanza in teoria più importante della casa, si svolgevano riti borghesi ormai vuoti, inutili, spogliati di ogni significato, nella cantina, la stanza in teoria meno importante, si progettava il futuro. Che si trattasse dei giochi di ruolo, delle prove del gruppo rock & roll o di quelle del futuro dj con la Korg o la TR-808, o ancora degli esperimenti dei giovani Jobs o Gates che realizzavano i prototipi dei loro “personal computer”, il garage è un vero e proprio topos della creatività rivoluzionaria dei nostri tempi.
Nel caso specifico dei GdR, per continuare il parallelismo con la free tekno, è interessante anche il fatto che si svolgessero in luoghi del genere, così come i rave si svolgevano in industrie abbandonate, per lo più fuori mano, esattamente come i culti perseguitati sceglievano le catacombe come luoghi del loro officiare: e infatti sia i rave che i giochi di ruolo sono, sociologicamente parlando, più manifestazioni rituali che di intrattenimento.

Appena si smette di giocare e si esce dalla “stanza profonda” incontriamo altro: una provincia depressa che ha perduto molti treni, un gruppo di adolescenti che nel passaggio all’età adulta sembra aver perduto un altro treno, quello dell’amicizia. È così?
Sicuramente è così per la provincia. Mentre scrivevo La stanza profonda, e ripercorrevo trent’anni di vita di provincia, mi rendevo conto di quanto il contesto di riferimento fosse cambiato; di quanto quella provincia, che negli anni della mia infanzia conservava ancora i tratti rurali di un tempo e quelli industriali che aveva acquisito nel frattempo, ora avesse perduto entrambi, senza sapersi reinventare, e anzi perseguitando in modo non meno che schizoide tutti i suoi giovani che provassero a inventarsi qualche alternativa – sono ben noti a tutti, perché si sono svolti ovunque, gli sgomberi e le denunce ai danni di qualunque ragazzo provasse a aiutare la propria comunità realizzando uno spazio autogestito per organizzarvi attività culturali, o anche solo una festa libera. Così ho finito per costruire il romanzo intorno a una sorta di dialettica inversa tra la creazione di mondi che avveniva nella stanza e la dissipazione del mondo che aveva luogo fuori.
Il discorso, invece, è diverso rispetto all’amicizia. Tutte le amicizie, non solo quelle cresciute intorno a una passione comune, cambiano dopo vent’anni, col sopraggiungere dell’età adulta, ed è quello che succede anche ai protagonisti della Stanza profonda, che finiscono per non riconoscersi più.

La narrazione procede con l’uso della seconda persona singolare. Chi legge si ritrova spettatore ininfluente di un dialogo tra lo scrittore e sé stesso. Perché questa scelta?
Ho cominciato a sperimentare col “tu” con Muro di casse, il cui prologo è scritto infatti alla seconda persona. L’idea nasceva dal fatto che quello rave era un movimento in cui era decisivo l’aspetto collettivo, tant’è che uno dei motti degli Spiral Tribe, capostipiti della free tekno, era “you are the party”, frase che – prima ancora di ogni discorso di rispetto del contesto e di chi lo vive – stava lì a sancire il decadimento della differenza sociale preordinata tra pubblico e performer: al rave tutti erano uguali. Così, lavorando sui giochi di ruolo, altra sottocultura caratterizzata da non competitività e eguaglianza radicale, mi è venuto spontaneo usare il “tu” fin dall’inizio; quando poi mi sono reso conto che la seconda persona, plurale o singolare, è quella che usa il dungeon master con i giocatori, ho capito che era la strada giusta e ho continuato così per tutto il romanzo.

Per concludere la consueta domanda: che cosa stai leggendo in questo momento?
Alcuni saggi di Roland Barthes sull’arte, per uno dei romanzi che sto scrivendo; La tavola del paradiso, il nuovo libro di Donald Ray Pollock appena uscito per Elliot; le poesie di Reverdy, consigliatemi da Andrea Breda Minello; tutta l’opera di Claudio Magris.

Alcide Pierantozzi, scrivere per imparare a morire

di Emanuela D’Alessio

Alcide Pierantozzi, Arcito per gli amatissimi nonni abruzzesi, ha trent’anni e vive a Milano. Fu caso editoriale nel 2006 il suo libro di esordio Uno in diviso (Hacca), sono seguiti nel 2008 L’uomo e il suo amore e nel 2012 Ivan il terribile, entrambi per Rizzoli.
Scrive per imparare a morire. Tra le cose che ama di più ci sono leggere in riva al mare fino al tramonto, andare al cinema con la madre, bere Negroni e acqua di cocco all’ananas, guardare film horror di notte, accendere candele in camera per i nonni.
Il suo ultimo sforzo narrativo è Tutte le strade portano a noi, pubblicato da Laterza nei mesi scorsi. Lo abbiamo letto (qui la recensione) e ci è venuta voglia di intervistare l’autore.

Alcìde o Arcito? Come tAlci fai chiamare adesso, di ritorno dalla lunga passeggiata per l’Italia? (per i lettori: Arcito era il nome con cui la nonna Nadina chiamava Alcìde Pierantozzi).
Molti, scrivendomi su Facebook, attaccano così: “Ciao Arcito”. È una cosa che mi piace molto, e per due ragioni. La prima perché mi fa pensare a mia nonna (e i nonni – anzi, le persone anziane in generale – sono quanto di più poetico e essenziale esista al mondo), la seconda perché il mio nome negli anni ha subìto tante di quelle modifiche, tanti di quegli storpiamenti, che per una volta ho voluto storpiarmelo da solo. A scuola durante l’appello ero Alice Pierantozzi, per i milanesi sono Àlcide con l’accento sulla a. Poi c’è chi passa in rassegna i vari Alcibiade, Alceo, Alvise… Nonna mi chiamava Arcito, o Arcite se il tentativo era quello di pronunciarlo bene. Che poi uno a un certo punto si chiede: ma se i miei nonni, gli stessi che il nome me l’hanno dato, lo pronunciano così, allora perché gli altri dovrebbero pronunciarlo diversamente?

Alcide Pierantozzi è nato nel 1985, è abruzzese e vive a Milano, ha studiato filosofia, ha pubblicato il suo primo libro a vent’anni. Che cosa aggiungeresti a questa stringata biografia?
Non so, forse quello che amo. Così, disordinatamente: bere litri di acqua di cocco all’ananas, mangiare barattoloni interi di gelato Häagen-Dazs gusto cookies o gusto banana guardando le serie tv, cucinare piatti con la curcuma, leggere in riva al mare dalle due del pomeriggio al tramonto ininterrottamente, andare al cinema con mia madre nei multiplex dei centri commerciali, leggere riviste di cinema come Ciak e FilmTv, guardare film horror di notte, passare ore al bar Picchio con i miei amici, passare ore nella vasca da bagno a leggere dei thrilleroni di cui non dirò mai il titolo, fare frullati alla fragola e frutti di bosco, bere Negroni quando non scrivo, ascoltare i Cure e i Cocteau Twins, fumare canne, accendere candele in camera per i miei nonni, la notte, rischiando che prenda fuoco la casa.

Su Via dei Serpenti abbiamo inaugurato recentemente la nuova rubrica “Perché scrivo?” dedicata ai perché della scrittura. Ti sei posto coscientemente questa domanda? Hai trovato qualche risposta?
La risposta è la stessa che darei alla domanda “perché leggo?”. Per imparare a morire.

Alcide Pierantozzi, Elena Dal Molin e Andrea De Spirt a Siena

Alcide Pierantozzi, Elena Dal Molin e Andrea De Spirt a Siena

Il viaggio di cui ci parli in Tutte le strade portano a noi è durato un mese (da maggio a giugno 2014). Invece quanto sono durate la gestazione dell’idea e la preparazione per trasformarla in azione? E che cosa è arrivata prima, l’idea di scrivere un libro o quella di percorrere a piedi l’Italia?
Il libro viene dopo. Nel senso che con l’editor di Laterza e il mio agente stavamo pensando a una sorta di reportage divertente, che raccontasse anche le radici abruzzesi. Allora ho proposto di fare a piedi l’Abruzzo, poi ho pensato che avrei potuto fare a piedi l’Italia intera e ho proposto l’idea. Hanno accettato, e a quel punto ero fregato.

I tuoi compagni di viaggio sono co-protagonisti di una narrazione rocambolesca e spesso impietosa, la loro selezione appare un po’ casuale, a volte anche incomprensibile. In questo viaggio, in realtà, di casualità sembra essercene molto meno di quella che vuoi farci credere. Mi sbaglio? E perché non hai deciso di partire da solo?
Non c’è stato niente di casuale nella loro scelta, hai ragione. Se uno di loro, uno soltanto, non ci fosse stato, il libro sarebbe stato monco. Di questo sono pienamente convinto. Da solo? Sarei impazzito dopo cinque chilometri. Io non riesco a stare nemmeno una serata da solo, figuriamoci…

Chi ha letto Tutte le strade portano a noi non dovrebbe avere dubbi su quello che hai trovato durante e alla fine del viaggio, puoi comunque spiegarlo di nuovo? Gli altri compagni di strada, invece, che cosa hanno trovato?
Io, procedendo in avanti nel cammino, sono tornato indietro. Ho camminato sempre pensando ai miei nonni, alla loro vita, al fatto che io debba ogni cosa ai loro sacrifici fatti nelle campagne in Abruzzo, dove hanno lavorato tutti i giorni, sotto la pioggia e sotto il sole, per più di ottant’anni. Non basterebbe raggiungere a piedi i Poli, per ricompensarli.

Vorrei soffermarmi in particolare su Romina Rizzuto, sorta di «sherpa» contemporaneo che vi ha seguiti in automobile trasportando i bagagli. È un personaggio dai netti contrasti, una ragazza di una «bellezza che arresta il tempo» ma dal linguaggio direi cabarettistico, tanto esilarante quanto improbabile. Romina esiste veramente o è uno dei tanti frutti del tuo istinto creativo?
Esiste veramente. Tutto quello che racconto nel libro è vero. Romina è un miracolo, se l’avesse vista Fellini l’avrebbe scritturata immediatamente. È una persona speciale, senza la quale il viaggio non avrebbe avuto lo stesso significato.

Dopo mille chilometri a piedi e di vita promiscua possono andare irrimediabilmente perduti rapporti di amicizia e di amore, oppure nascere legami indissolubili. Che cosa è accaduto a voi?
Ci siamo legati parecchio. All’inizio, subito dopo il viaggio, non ne potevamo più l’uno dell’altro e per due mesi non ci siamo più sentiti. Da settembre siamo tornati quelli di prima. Brando De Sica, che ho conosciuto durante il viaggio, è diventato una delle persone più importanti della mia vita, Martina Codecasa la sento praticamente ogni giorno e a Roma spesso sono ospite da lei a Pigneto, Monica Stambrini lo stesso, a Roma ci vediamo sempre. Mi manca molto Romina, che sento spesso ma è una di quelle persone con cui vorresti stare insieme dalla mattina alla sera. Non vedo l’ora di organizzare un nuovo grande progetto per farla tornare a collaborare con me. Quanto ad Andrea e a Elena, eravamo già molto amici prima di partire.

Dal tuo primo romanzo Uno in diviso, caso letterario del 2006, a Tutte le strade portano a noi, di «strade» ne hai già attraversate molte. A che punto sei del percorso?
Be’, spero all’inizio. Ho la fortuna di aver cominciato presto, a diciannove anni, adesso che ne ho trenta ho un decennio di esperienza alle spalle in cui ne ho viste e sentite di tutti i colori. Credo che sia arrivato il momento di cominciare a scrivere sul serio.

unoindivisoDi Uno in diviso sono state dette molte cose, tra le altre che è «decisamente vicino alla lezione, stilistica e concettuale, della magistrale Agota Kristof della Trilogia della città di K». Questo per chiederti se sei d’accordo con l’accostamento, ma soprattutto quali sono i tuoi “venerati maestri”.
Non posso essere d’accordo, pur essendone onorato, per il semplice fatto che a diciannove anni non avevo letto la Kristof. Così come non avevo letto l’Amras di Thomas Bernhard, al quale accostavano il mio libro, o Emmanuel Carnevali. A dire la verità, a diciannove anni non sapevo nemmeno cosa fosse una casa editrice. Li ho letti dopo, mi hanno incantato. Però non scherziamo… Accostare il mio libro alla Kristof o a Bernhard è tanto, tanto esagerato.

Di “venerati maestri” parla l’ultimo numero della rivista Orlando Esplorazioni dedicato a un sondaggio per scoprire chi tra gli scrittori 50-60enni di oggi comparirà nei manuali di letteratura dei nostri figli. A rispondere sono stati lettori e critici tra i 20 e i 40 anni. Tu che cosa risponderesti?
Alcuni, sì: Marcello Fois, Rosa Matteucci, Michele Mari, Edgardo Franzosini, Domenico Starnone, Licia Giaquinto, la poetessa Patrizia Cavalli. Ognuno di loro ha scritto almeno un libro fondamentale.

Sul fenomeno del self-publishing, che ha assunto dimensioni impressionanti, mi sembra tu abbia idee in controtendenza. Vuoi parlarcene un po’?
Mah… forse erano di controtendenza un paio d’anni fa, quando scrissi l’articolo su Affaritaliani che affrontava questi temi. La mia opinione è molto semplice: è possibile che un autore che si è stampato un libro da solo sia più bravo, decisamente più bravo, di chi pubblica – e mi ci metto io per primo – con una grande casa editrice. Il sistema editoriale è costretto a seguire regole di mercato ben precise che presuppongono la forza mediatica dello scrittore, la facilità del libro, la sua rassegna stampa, la sua biografia, le copie vendute. Naturalmente non vale per tutti gli editori. È anche giusto che sia così, cioè che i libri pubblicati arrivano al maggior numero di persone; ma occhio a non confondere tutto questo con la qualità letteraria. D’altronde è una cosa che sanno bene anche gli editor: non tutto ciò che è bello, o importante, può essere pubblicato. È un peccato, spesso è un vero dolore, ma non c’è alternativa.

Immancabile la domanda sui tuoi prossimi “passi”, sul tuo prossimo viaggio, non soltanto metaforico. Più banalmente, qual è il tuo nuovo progetto?
Ho tanti progetti in cantiere. Sto pensando a un paio di saggi da scrivere insieme a Luca Scarlini, e sto ultimando un libro su Chernobyl cui lavoro ormai da sei anni. Nel frattempo penso anche al nuovo romanzo. Il lavoro di sceneggiatore mi sta portando via molto tempo, ma mi sta anche facendo crescere. Ho ricominciato a chiedermi: cosa voglio che veda il lettore? Dopo Uno in diviso, per anni, mi sono chiesto: cosa voglio che legga il lettore? Sto anche pensando a una trasmissione televisiva che mi hanno proposto, un programma di cultura ma very strange. Fosse per me farei tutto, anche lo stuntman a Cinecittà.

Per concludere, che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
I piccoli dispiaceri di Miriam Towes e Il cervello di Alberto Sordi di Tatti Sanguineti. Poi tantissime poesie di Patrizia Cavalli, che adoro. Ma io non ce l’ho un comodino, i miei libri sono tutti appoggiati per terra. Diciamo che a casa mia più o meno tutto è appoggiato per terra: dvd, dischi, bottiglie d’acqua, statue… L’unico a non avere i piedi per terra sono io.

Alcide Pierantozzi – Tutte le strade portano a noi

tutte_le_strade_coverdi Emanuela D’Alessio

Di alcune cose potete stare certi se deciderete di leggere Tutte le strade portano a noi, l’ultimo sforzo narrativo del giovane Alcide Pierantozzi, in libreria per Laterza da qualche settimana.
Non incapperete nell’ennesimo diario di viaggio o, peggio ancora, nell’ultima guida “alternativa” su come visitare l’Italia, perché nelle 196 pagine di Tutte le strade portano a noi non c’è traccia di indirizzi e dritte su cosa fare o vedere. Toglietevi dalla faccia anche quel sorrisetto di sufficienza pensando di trovare una sbiadita e provinciale imitazione dell’on the road alla Kerouac o alla Chatwin, perché Pierantozzi non sembra interessato all’emulazione.

Nel caso abbiate letto il suo libro di esordio Uno in diviso (Hacca), caso letterario nel 2006, ricevendone un discreto turbamento e anche un po’ di raccapriccio tanto da relegarlo nella parte più inaccessibile della libreria (come è successo a me), non preoccupatevi, con Tutte le strade portano a noi si arriva alla fine un po’ sorpresi e divertiti e con l’idea (effimera quanto si vuole) che forse un giorno anche voi potreste incamminarvi lungo una strada.

Non leggerete nemmeno un pamphlet sul significato del pellegrinaggio e la psicologia del pellegrino, nonostante gli studi di filosofa teoretica dell’autore, perché Pierantozzi e i suoi compagni di viaggio non hanno nulla del pellegrino e sono tutti consapevoli che alla fine dell’avventura torneranno comunque a casa, preferendo nel frattempo i piaceri della cucina a quelli della preghiera, senza rinunciare al comfort di smartphone e ipod.
I preti e le suore incrociati lungo il cammino non assomigliano al buon samaritano caritatevole e ospitale, si incontrano più facilmente viandanti di una umanità sbrindellata e un po’ folle con cui l’autore ci intrattiene, sempre in bilico tra metafora e realtà.

in viaggio

Il fatto che Pierantozzi abbia scelto di attraversare l’Italia, di percorrerla a piedi per mille chilometri da Milano a Bari lungo la Via Francigena, «la stessa strada che nel Medioevo percorrevano i pellegrini di tutta Europa per raggiungere la tomba di San Pietro a Roma» ha una spiegazione più prosaica, «Io per me parto da un’esigenza primaria: evitare le strade troppo trafficate».
A parte la battuta, l’idea dell’Italia a piedi è un pretesto per raccontare le mille e una storia con cui accompagnare il viandante/lettore lungo un’altra strada, quella dell’autore, innanzitutto. La strada che lo ha portato dai campi di verza lungo la riva del Tronto a varcare il confine con le Marche, distante da quella terra d’Abruzzo rurale e un po’ arcaica dove sono vissuti la bisnonna Peppina, che «rifulgeva nella sua povera veste di canapa e al suo passaggio lasciava una scia luminosa lungo la strada», la nonna Nadina e il nonno che non volevano che il loro Arcito passasse il tempo delle vacanze a leggere libri. Tutti con una strada segnata che Pierantozzi ha voluto ripercorrere, scoprire di nuovo o per la prima volta, in questo viaggio reale e contemporaneo, un po’ bizzarro e divertito, a ritroso nel tempo e nello spazio.
Un viaggio nella memoria e nel presente di boschi secolari, vallate disabitate, paesi arroccati, attraversando territori geografici e interiori sconosciuti, spronati da quel “ma cammina” con cui i nonni di Alcide liquidavano tutto ciò che risultava loro insensato o incomprensibile.

A che cosa è servita l’Italia a piedi? A ritrovare la strada verso sé stesso per Pierantozzi, a scoprire il desiderio di continuare a cercare la propria per tutti gli altri.

pierantozzi«Cammini in avanti velocemente, ancora più velocemente i tuoi ricordi ti trascinano all’indietro, istante dopo istante, e tu risali fino alle sorgenti primordiali dei tuoi giorni su questa terra. Sai che laggiù risiedono i proprietari del tuo castello interiore, il duca e la duchessa che furono tuo nonno e tua nonna. Sai che loro nel tuo ricordo, non sono meno reali della strada sotto i tuoi piedi. Degli alberi che ti circondano. Ti sforzi di ravvivarne i dettagli, senti allora venirti incontro le molte sfumature che poensavi di avere dimenticato per sempre. Vedi tutto. E la cosa più curiosa è che se vedi tutto, tuto è ancora lì. E se tutto è ancora lì, tornerà».

Il viaggio è stato seguito dal social network italiano Jobyourlife creato da Andrea De Sprit, uno dei protagonisti del cammino, che aiuta a trovare un lavoro. L’esperienza è stata documentata Qui e confluirà anche in un dvd.

Nota sull’autore
Alcide Pierantozzi è nato nel 1985 a San Benedetto del Tronto e vive a Milano. Ha studiato filosofia teoretica. Il suo romanzo d’esordio, Uno in diviso pubblicato da Hacca nel 2006, è dedicato alla memoria di Pier Paolo Pasolini. Ne è stata pubblicata una graphic novel nel 2013 da Tunué. Il secondo romanzo, L’uomo e il suo amore, è uscito per Rizzoli nel 2008. Nel 2012 ha pubblicato Ivan il terribile (Rizzoli). Nel 2014 è stato l’unico autore europeo selezionato dalla rivista americana The Juvenilia (costola di McSweeney’s fondata da Dave Eggers).

Tutte le strade portano a noi di Alcide Pierantozzi
Laterza, 2015
pp. 206, 13€