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Francesca Matteoni – Tutti gli altri

Tutti-gli-altridi Anna Castellari

Tutti gli altri è un libro che necessita silenzio. O che, se si legge, scava una bolla di silenzio nel proprio io. È un libro che va letto d’inverno, oppure nella stagione della contemplazione del mondo e di se stessi. O che se si legge d’estate, tra lo schiamazzo dei bambini in spiaggia e il frangersi monotono delle onde, aiuta a concentrarsi sul rumore di queste ultime.

È un viaggio che ripercorre le tappe di una donna dall’infanzia a oggi, per tornare all’infanzia: non è certo un caso se ogni capitolo porta un nome e se l’ultimo nome è quello di Madre, perché in un viaggio bisogna sempre saper tornare al punto di partenza e spesso quel punto può essere la propria infanzia.

Perché Tutti gli altri? Perché, credo, nel corso della propria vita Matteoni mette a nudo sé stessa cercando in tutti gli altri qualcosa che non ha, da cui lei si sente estranea. È quel sentimento di estraneità dal mondo che mi ha fatto amare questo libro. Quel suo continuo distaccarsi da chi la circonda, sentirli lontani, come se fossero esseri di un altro pianeta – ma alla protagonista-narratrice, si sente, viene il dubbio di essere lei un essere proveniente da un altro pianeta. Le cose del mondo sembrano essere sempre secondarie, rispetto a quelle importanti: la protagonista si avvicina alle persone più marginali, quelle più problematiche, che si mettono continuamente in discussione o che mettono lei stessa continuamente in discussione.

Anche in questo volume, come in Dettato di Sergio Peter, della stessa collana i romanzi edita Tunué, non esiste una vera e propria storia, se non il filo conduttore della vita di Matteoni, narrato con uno stile preciso e ritmato, tipico di chi “viene dalla poesia” (come si dice spesso parlando di poeti che scrivono romanzi, a un certo punto, come se “poesia” fosse un pianeta lontano e sconosciuto, e forse in un certo senso lo è). Uno stile che trascina letteralmente il lettore nelle storie, con un intimismo e una profondità rare da rintracciare in letteratura. Non si può far altro che provare una certa empatia con la protagonista, circondata da personaggi dai nomi fantastici come Mangiafuoco, Nembo Kid, Akela, Alce o Pippi Calzelunghe. Che sogna una vita tra il verde delle colline inglesi, e andandosene altrove cerca in quell’altrove uno scopo, una identità.

Per tutti questi anni ho derubato la vita. Ho incanalato ogni immagine in me stessa come punti di sutura, frasi mandate a memoria spillate sui buchi di futuro. Mi sono contaminata, un’imitazione rocambolesca di qualsiasi cosa, un assemblaggio che cigola per tenersi insieme. Il mio sangue è una colla spalmata su tutto ciò a cui mi sembra di assomigliare. E poi non assomiglio a niente, mi stanco perfino di ciò che difendo come necessario, mi stancano lo stesso lavoro e le stesse facce: posso resistere qualche mese, finché ho voglia soltanto di starmene con l’erba in bocca a guardarmi gli alberi o sulla sabbia dove finisce l’occidente. Non la si vive davvero la vita, la si sottrae e a nostra volta si è sottratti, siamo un fuoco dentro un vaso d’argilla.

Francesca Matteoni da piccola (dal suo blog)

Francesca Matteoni da piccola (dal suo blog)

Credo sia in queste parole la chiave di tutto il romanzo, nonché il punto di maturazione e di consapevolezza della narratrice, che ci fa amare il suo essere allo “sbando” e la sua ricerca continua di un altrove in cui rifugiarsi. E credo che sia un romanzo di formazione, da leggere dai venti ai cent’anni.

Francesca Matteoni, Tutti gli altri
Tunué, 2014
€9,90

www.tunue.com
orso-polare.blogspot.com

Intervista a Iacopo Barison

FUORI STRADA – Rubrica di approfondimento della piccola e media editoria “extra-capitolina”

di Emanuela D’Alessio

Iacopo Barison

Iacopo Barison

Iacopo Barison ha venticinque anni, è piemontese, la sua grande passione è il cinema, nel frattempo sta riscuotendo un grande successo come scrittore. Gli piace dormire fino a tardi, girare a vuoto nei centri commerciali, andare a mangiare fuori. Prima di Stalin+Bianca, il secondo titolo della nuova collana di narrativa di Tunué, nel 2010 ha pubblicato 28 grammi dopo (Voras)  tratto dal suo blog.
Sul suo comodino c’è in questo momento il fumetto The Walking Dead, prima di addormentarsi non vuole impegnarsi troppo.

Prima di tutto vorrei togliermi una curiosità. Hai mai visto un arcobaleno?
Sì, dalle mie parti capita abbastanza spesso. L’ultimo, se non sbaglio, risale a una decina di giorni fa. Ho anche provato a fotografarlo, però è venuto uno schifo, era tutto sfocato.

Bene, ora possiamo iniziare. Quali aggettivi sceglieresti per descrivere Iacopo Barison?
Mah, è una domanda difficile. Se dovessi descrivermi come individuo, tralasciando quindi la scrittura, direi che sono pigro (mi piace dormire fino a tardi) ma anche determinato e molto ambizioso.

Hai venticinque anni e già sei al secondo romanzo con Stalin+Bianca, dopo aver pubblicato a vent’anni 28 grammi dopo (Voras). Quando hai capito che lo scrivere sarebbe stato l’unico modo (o uno dei possibili) di dare senso alla tua vita?
 Questa cosa non l’ho mai detta, è una specie di confessione. In pratica, quando avevo diciotto anni, soffrivo d’ansia e vivere era piuttosto difficile. Non che meditassi il suicidio, intendiamoci, però faticavo a costruirmi una routine accettabile. Anche le cose semplici, come uscire di casa e divertirmi, oppure andare regolarmente a scuola, diventavano insormontabili. In quel periodo, appunto, ho iniziato a scrivere e ho conosciuto la mia attuale fidanzata. Due eventi che mi hanno “salvato”, non saprei trovare un’altra parola. Pian piano, nel corso del tempo, ho imparato a gestire l’ansia. La scrittura e l’amore funzionano in modo simile, ti ci aggrappi nei momenti bui e perciò hanno un valore terapeutico.

barison_tg5Stai riscuotendo un grande successo, senz’altro meritato. Lo speravi, lo prevedevi, come lo stai gestendo?
Credevo e credo tuttora nel mio romanzo, però non me l’aspettavo. Stalin + Bianca ha fatto e sta facendo miracoli, diventando un piccolo caso editoriale. Alcuni l’hanno etichettato come un romanzo generazionale, altri come una storia d’amore, altri ancora come un romanzo di formazione. Quello che mi dà più gioia, al di là delle etichette, è che Stalin e Bianca sono riusciti a “parlare” a un pubblico molto vasto, anche anagraficamente. Credo che questo romanzo abbia diversi livelli di lettura. Ognuno sceglie e si ferma al livello che preferisce, non è necessario scavare in profondità. Ho ricevuto email di complimenti da ragazzi e ragazze giovanissimi, oltre che splendide recensioni da parte di critici autorevoli. Queste due cose, però, le metto sullo stesso piano, mi fanno piacere allo stesso modo. Poi, vabbè, andare al TG5 è stata un’esperienza strana, per certi versi onirica. È incredibile come la televisione riesca a condizionarci e a condizionare il pubblico. Mi sono arrivate decine e decine di messaggi, anche da parte di gente che non sentivo da anni. È ridicolo, per certi versi. Fino al momento prima, se ne fregavano della mia scrittura o la vedevano come una specie di gioco, di passatempo per non fare nulla di serio. Poi, dopo il TG5, hanno cambiato totalmente idea. Adesso ero legittimato, ero diventato uno scrittore vero. Comunque sono molto contento, gestisco questi traguardi senza pensarci troppo. Me li godo per ventiquattro/quarantotto ore, poi li dimentico e vado oltre, per aggirare il rischio di diventarne schiavo.

Forse ti risulterà banale questa domanda: perché scrivi? Provo a spiegarmi meglio: scrivi per te stesso, per soddisfare una tua personale esigenza (catartica, terapeutica) o per il lettore, per creare ponti, trasferire idee, avviare un dialogo e quindi ricevere risposte?
Sarò sincero, ho iniziato a scrivere per non lavorare. Poi mi sono accorto che mi faceva stare bene, che influiva positivamente sul mio stato d’animo. Era ed è tuttora un modo per sentirmi completo, per definirmi come individuo. Inoltre, col tempo, sono arrivati i lettori, e mentirei se dicessi che non scrivo per loro. Certo, la scrittura è una cosa intima, personale, ma sono i lettori a darle un significato, a chiudere realmente il cerchio. Altrimenti l’editoria non esisterebbe, e tutti noi scriveremmo dei diari e poi li chiuderemmo nei cassetti a prendere polvere. Insomma, si può dire che io abbia un grande rispetto per i lettori.

Fabio Mollo

Fabio Mollo

I tuoi studi si sono concentrati sul cinema, ti sei laureato al DAMS, nel romanzo ci sono molte citazioni di film e registi, Stalin, il protagonista si porta sempre dietro una videocamera digitale, “la sua coperta di Linus”. In quale rapporto sei con il cinema? Passione da tempo libero? Amore non corrisposto?
Il cinema è una mia grande passione, ma non nego che vorrei farne un lavoro. O meglio, che vorrei provare a lavorare in quell’ambito. Guardo valanghe di film. Una volta riuscivo a vederne molti di più. L’uscita di Stalin + Bianca, purtroppo, sta mangiando tutto il mio tempo libero, ma in fondo va bene così. Ho tratto una sceneggiatura da un mio breve racconto. Se tutto andrà come deve andare, Fabio Mollo dirigerà un cortometraggio da questa storia. Lui è un regista che apprezzo molto, è bravo e giovane e talentuoso. Eppure il mondo del cinema è complicato, si tende a navigare a vista. Questo perché di mezzo ci sono i soldi, e i soldi sono sempre un ostacolo. La letteratura è molto più democratica. Il cinema, però, anche in relazione a quello che scrivo, è una grande fonte d’ispirazione, forse la principale.

Stalin+BiancaDi Stalin+Bianca hanno detto che è un romanzo “ipermoderno”, “contemporaneo”, “veloce”, “di formazione”, “on the road”. Provo una discreta insofferenza per le categorizzazioni e non riesco a trovarne una che racchiuda tutto quello che ho percepito leggendo il libro. Puoi provare tu a dirci che libro hai scritto?
Volevo scrivere, innanzitutto, una storia semplice e lineare, che raccontasse l’amore fra due adolescenti con diversi problemi. Tutto il resto è venuto dopo.

Al centro della scena ci sono loro, Stalin e Bianca, due diciottenni che decidono di andarsene da casa, per fuggire, per cercare altro. Sullo sfondo ci sono numerose comparse, ragazzi come loro, in fuga, in viaggio, o semplicemente alla deriva. Su nessuno ti soffermi più di tanto, non fornisci un profilo né un nome, ad eccezione di Jean, l’anziano custode del campo di calcio che incontriamo all’inizio della storia. In realtà è Stalin a chiamarlo così, gli ricorda l’attore Jean Gabin. Chi è Jean?
Jean è un vecchio depresso, che sfrutta Stalin per fargli fare dei lavori “sporchi”, più o meno legali. Si illude che la rabbia del protagonista funzioni a comando, eppure non è così. Stalin è un personaggio sfaccettato, che perde la testa ma poi lotta con il senso di colpa.

Sconcertante l’assenza o la rappresentazione negativa (al limite del grottesco) delle figure genitoriali. Stalin non ha conosciuto il padre e detesta profondamente il patrigno, con la madre ha dei problemi; dei genitori di Bianca si sa pochissimo, così come di tutti quelli che sono stati lasciati alle spalle. Sembra una condanna senza appello della famiglia (come istituzione), degli adulti come genitori e in generale (anche Jean, l’altro adulto della storia, in fondo è una figura opaca e incomprensibile). È così che appaiono gli adulti ai loro “figli”?
Questa è una cosa che mi hanno detto in molti. Sembra che io sia stato impietoso col mondo degli adulti, ma ho trattato allo stesso modo sia Stalin che Bianca. Il primo, ad esempio, è un personaggio sempre in bilico, conteso fra l’amore e la rabbia, fra la purezza di Bianca e lo schifo del mondo che lo circonda. Quasi tutti i personaggi, nel corso del romanzo, commettono almeno un errore, finendo per tradire loro stessi e quello in cui credono. È una cosa che accade spesso, perlomeno nella vita reale. Ho l’impressione che la mia generazione goda di troppa libertà, che sia abbandonata a se stessa. Il lato positivo delle dittature è che almeno sai quello che devi fare. Questa frase è una provocazione, intendiamoci, ma nasconde un fondo di verità. È come se i nostri genitori ci avessero lasciati da soli a casa, liberi di poter bere e fumare e drogarci e fare l’amore. È come se, dietro a una patina di perbenismo, ci fosse concessa qualunque cosa. Tutta questa libertà è inquietante, per certi versi. Ti confonde e ti impedisce di avere dei punti di riferimento. Siamo bloccati nella casa di Mamma, ho perso l’aereo. Siamo come Kevin McCallister, soltanto che alla fine i nostri genitori non tornano, e la nostra anarchia prosegue in una specie di loop infinito.

Nel romanzo “non” ci sono molte cose, ad esempio manca qualsiasi riferimento spaziale e temporale, tutto si svolge in una dimensione delocalizzata. Il tempo scorre scandito dagli spostamenti di Stalin e Bianca, dall’avvicendarsi del giorno e della notte, senza altri riferimenti temporali. Non ci sono luci e colori, ma un’atmosfera di perenne penombra o oscurità. Non c’è quasi mail il sole, ma neve, ghiaccio, pioggia e una costante sensazione di freddo. Insomma, scelte nette di prospettiva che lasciano al centro della scena pienamente a fuoco solo Stalin e Bianca. Tutto voluto? e perché?
Sì, non ho voluto dare riferimenti precisi, né geografici né temporali, in modo che il lettore potesse inserirsi nel testo e proiettarci sopra la sua esperienza, il suo vissuto, la sua visione del mondo. Mi spiego meglio: questa nazione che io non nomino mai, per qualcuno è un luogo immaginario, per qualcun altro è l’Italia, per altri ancora l’Inghilterra o gli Stati Uniti. Stesso discorso per la cronologia degli eventi. Alcuni critici hanno parlato di un futuro non troppo lontano, altri di un presente inquietante e giunto al capolinea. È bello dare vita a tutte queste interpretazioni, era proprio il mio intento. La crisi che si respira in Stalin + Bianca è globale, proprio come la nostra, e non si limita all’aspetto economico. È una crisi individuale, emotiva, che le persone hanno interiorizzato. Non esistono paradisi in Terra. Stalin e Bianca, viaggiando, capiscono proprio questo.

arcobalenoDimenticavo l’assenza più eclatante (per me): non ci sono gli arcobaleni, nessuno ne ha mai visto uno. Ci puoi spiegare la metafora dell’arcobaleno e della sua scomparsa?
L’arcobaleno, di solito, è un simbolo di speranza, compare dopo un temporale e coincide col diradarsi delle nuvole, col ritorno del sole. Ecco, al di là dell’allegoria più immediata, volevo che i personaggi del mio libro trovassero dentro se stessi la forza di andare avanti. Senza più alibi, sono costretti ad analizzarsi e scavare nella propria interiorità. Al di fuori non c’è più niente, nemmeno gli arcobaleni. La speranza va cercata nelle persone.

Un altro tema dominante è l’amore, perché in fondo Stalin+Bianca è una delicata storia d’amore. Amore che non viene dichiarato né consumato. I due ragazzi si abbracciano, si accarezzano, si scambiano qualche bacio, ma nulla di più, quasi a volerlo preservare, per non contaminarlo, per non indebolirne la straordinaria forza che li unisce e li fa andare avanti. È questa la condizione necessaria per restituire valore e significato a un sentimento che sembra in via di estinzione?
La speranza va cercata nelle persone, l’ho appena detto. Per questo motivo, l’amore mi sembra il sentimento ideale per chiarirci e analizzarci come individui. Sarà che sono un grande ammiratore dei film di Truffaut. Con questo libro, ho provato a ricalcarne l’atmosfera e la resa generale, sporcandola un po’, rendendola più cattiva e forse anche più tragica. Spero che l’amore non stia scomparendo, come dici tu, altrimenti sarebbe la fine. L’amore è insito nelle persone, proprio come l’odio, quindi non scomparirà mai. Fa parte della nostra natura. Questo, almeno, è ciò che mi auguro.

Cormac McCarthy

Cormac McCarthy

Qualcuno ha ritrovato in Stalin+Bianca le atmosfere e lo stile di Cormac McCarthy. Sei d’accordo? Quali sono i tuoi riferimenti letterari, non tanto come scrittore ma come lettore?
Sì, sono d’accordo, McCarthy è un autore che apprezzo molto. Racconta la natura e il viaggio in maniera unica, con uno stile asciutto ma evocativo. I miei riferimenti, sia da scrittore che da lettore, sono molti e dispersivi. Mi piace il minimalismo d’oltreoceano, da Carver a Bret Easton Ellis, tuttavia mi sono formato sui classici di Flaubert e Tolstoj. Amo i postmoderni, David Foster Wallace su tutti. Poi, mi piace spezzare il ritmo con fumetti e graphic novel e brutta televisione. In fondo, gran parte del mio immaginario deriva dalla cosiddetta cultura pop.

Passiamo al tuo rapporto con Tunué. Come è avvenuto l’incontro?
Conoscevo da tempo Vanni Santoni, l’editor di questa nuova collana di narrativa. Ha sempre creduto in me, anche in tempi non sospetti, quando pubblicavo su Internet i miei primi racconti. La pubblicazione di Stalin + Bianca, dunque, è venuta in modo molto spontaneo. Era da tempo che auspicavamo di lavorare insieme. Durante l’editing e anche dopo, ho fatto soprattutto riferimento a lui. Ma il rapporto è ottimo anche col resto della casa editrice. Tunué lavora benissimo, e i risultati gli stanno dando ragione. Non li ho certo scoperti io.

Come è stato il lavoro di editing?
Con Vanni c’era grande sintonia. È riuscito a mostrarmi il vero nucleo del libro, gli aspetti da valorizzare, quelli da alleggerire. Non è mai stato pedante, né invasivo o quant’altro. Si può dire che Stalin + Bianca sia davvero migliorato durante l’editing, ma anche che la sostanza sia rimasta la stessa, inalterata eppure resa stabile, definitiva. Spero, in futuro, di trovare altri editor come Vanni.

Il fenomeno del self-publishing ha assunto dimensioni impressionanti, una sorta di editoria, o “non” editoria parallela. Perché, secondo te, sta prevalendo questa presunzione di poter fare meglio e subito rispetto al tradizionale percorso in casa editrice?
Penso che il self-publishing abbia le stesse dinamiche della masturbazione. Si fa tutto da soli, senza intermediari, e la soddisfazione è quella che è, né troppa né troppo poca. Poi non saprei che altro dire, è un fenomeno che conosco poco.

Frequenti le librerie? Qual è per te la libreria ideale?
Frequento molto le librerie, se non altro per presentare Stalin + Bianca. Alcune, purtroppo, si meritano Amazon, perché vivono nel totale immobilismo e non fanno nulla per promuovere la cultura, per renderla più dinamica. Il loro ciclo vitale dipende quasi esclusivamente dalla vendita dei testi scolastici. Altre, e non sono poche, fanno il possibile e l’impossibile per organizzare presentazioni ed eventi e per creare un rapporto di fiducia coi propri clienti. Di solito, questo è il caso delle librerie di quartiere, oppure di una serie di librerie indipendenti che costruiscono man mano la loro fama. Queste non meritano la concorrenza di Amazon, e saranno le uniche a sopravvivere.

Che cosa fai quando non scrivi?
La mia routine è abbastanza monotona, anche se Stalin + Bianca è riuscito a movimentarla, fra presentazioni e giri per l’Italia. In genere mi piace leggere, guardare film, andare a fare la spesa e girare a vuoto nei centri commerciali. Ogni tanto mi diverto ancora coi videogiochi. Poi, be’, di solito mi sveglio tardi, la mia giornata comincia verso le 10:00 am. Amo anche andare a mangiare fuori, nei ristoranti che scopro su Tripadvisor, e lì spendere un sacco di soldi e sperperare le mie finanze.

Concludo con una domanda fuori tema: che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
Ora c’è il fumetto di The Walking Dead di Robert Krkman. Mi piace, è molto spinto e brutale, ma anche ben costruito. Calcola, però, che prima di dormire non voglio impegnarmi troppo, dunque prediligo le cose leggere.

Qui la recensione di Stalin+Bianca.

Approfondimento Tunué

Stalin+Bianca – Iacopo Barison

Stalin+BiancaFUORI STRADA – Rubrica di approfondimento della piccola e media editoria “extra-capitolina”
di Emanuela D’Alessio

«In un angolo del locale, una ragazza giovane sta disegnando a matita. Quando mi alzo per andare in bagno, do un’occhiata al disegno e il soggetto sembra essere un arcobaleno. Un arcobaleno in bianco e nero disegnato a matita. Tornato dal bagno, chiedo al ragazzo della dubstep se ha mai visto un arcobaleno. Lui risponde di no, perché siamo quasi coetanei, e intanto giocherella con l’allarga lobo».

Dopo aver letto queste parole mi sono resa conto che sulla copertina di Stalin+Bianca, il secondo titolo della collana Romanzi che Tunué ha affidato a Vanni Santoni, c’è proprio un piccolo arcobaleno senza colore, disegnato a matita. Nessuno, nel romanzo di Iacopo Barison, ha mai visto un arcobaleno, se ne parla, si cerca di scoprire le ragioni della sua scomparsa, al massimo lo si disegna in bianco e nero.
Già dalla copertina, quindi, possiamo farci un’idea di che cosa ci aspetta all’interno, a voler interpretare i segni. L’arcobaleno è l’emblema collettivo di armonia e speranza, e al suo cospetto è difficile non provare almeno un fremito di emozione e stupore. Un arcobaleno in bianco e nero, invece, sembra la negazione di tutto questo, la fine della speranza perché si è smarrito il futuro. Ma se ad aver visto un arcobaleno solo in fotografia sono adolescenti, ci accorgiamo che anche il presente è stato compromesso.
È così che si sentono i due giovani protagonisti Stalin e Bianca, vivono un presente contaminato dall’assenza di certezze e prospettive, circondati da adulti indifferenti se non ostili, da un contesto sociale desolato e degradato.

«Nel nostro quartiere ci sono persone, finestre aggiustate col nastro adesivo, lampioni spenti. Le persone guardano sempre in basso, e vanno di fretta. Non vedranno la pioggia radioattiva, o il meteorite che supera la stratosfera pronto a trasformarli in cenere. Oggi, ad esempio, non hanno visto la neve cadere dal cielo. Nel nostro quartiere ci sono negozi chiusi, firme sui muri e topi che attraversano la strada col semaforo lampeggiante. Il nostro quartiere rappresenta il tramonto della classe media».

Stalin sta per compiere diciotto anni, gli piacerebbe avere qualche certezza, sapere che la sua vita prima o poi cambierà. Ogni mattina cerca di rendersi presentabile ma non si sente mai felice. Lui e Bianca sono più fragili e vulnerabili degli altri, lui non riesce a tenere a freno la rabbia, lei è cieca, ma hanno le loro insensate o straordinarie passioni: per Stalin è una videocamera, la porta con sé ovunque per girare i frammenti di quel film che lo renderà famoso; per Bianca sono le poesie ed «è innamorata di un mondo che non ha mai visto». Insieme si compensano e si sostengono, e insieme decidono di intraprendere il loro viaggio verso un futuro imprecisato, perché non è importante dove andare ma quello che si vuole abbandonare.

«Lasceremo la Vespa e ci metteremo in viaggio. Andremo dove vogliamo, e faremo le nostre esperienze e non avremo né vincoli, né obblighi, né orari da rispettare. Ci dissolveremo nell’aria, e i chilometri ci faranno crescere. Io scriverò poesie e tu, invece, girerai dei film e diventerai famoso».

Non è così che ci si sente di fronte alle scelte rese inevitabili dallo scorrere del tempo? E quando, se non l’adolescenza, è il momento delle scelte irrevocabili ed estreme? Ma Barison non ci racconta solo una storia di adolescenti in fuga, ambisce a qualcosa di più complesso e a volte ci riesce.
Mettendo a fuoco solo Stalin e Bianca e lasciando tutto il resto in secondo piano, sfocato e sfumato, ci accompagna attraverso luoghi privi di qualsiasi indizio geografico, ci fa incontrare persone senza volto e senza nome, quasi sempre adolescenti in fuga e alle prese con vite precarie e marginali oppure adulti relegati al ruolo di tristi comparse su una scena spettrale, distopica. Ci fa sentire il freddo e la fame, il sonno e la stanchezza, la disperazione e l’attesa di un domani che stenta a svelarsi, «perché il mondo ha smesso di girare, è arrivato a un punto morto». Ci avverte che la realtà è una grande bolla che ovatta i suoni ed è sempre pronta a diventare un incubo. Ci fa assaporare un’aria che sa di sconfitte.
Così facendo ci racconta un’altra storia, quella di un’epoca contemporanea che mostra i segni di un declino inarrestabile. Ci mostra fabbriche abbandonate e palazzi incompiuti, città fantasma e baracche in rovina, addirittura un museo del degrado ambientale e un locale dedicato alla fine del mondo, per confermare il fallimento universale di una promessa. «Il progresso è come un boomerang. Questa è l’epoca in cui il boomerang ritorna indietro».
Ma nemmeno questa è la storia più importante né la migliore del romanzo, a mio parere, troppo pervasa da atmosfere apocalittiche e perturbanti che appesantiscono il ritmo narrativo, altrimenti veloce ed efficace, asciutto e anche poetico.
La storia più bella, che ci commuove e un po’ ci rassicura, è proprio quella di Stalin+Bianca, dove il + del titolo riassume con straordinaria semplicità il senso, anch’esso universale, dell’esistenza. È una storia d’amore quella che Barison ha voluto raccontare, perché Stalin e Bianca sono una sola entità, a dispetto delle loro diversità e dell’insostenibile difficoltà di vivere, si prendono per mano e provano a non spaventarsi di fronte all’assenza di un arcobaleno.
E noi, congedandoci dalla lettura, ci chiediamo: siamo ancora in tempo per tornare a vedere gli arcobaleni insieme ai nostri figli?

Nota sull’autore
Iacopo Barison è nato a Fossano (Cuneo) nel 1988. Nel 2010 ha pubblicato il suo primo romanzo, 28 grammi dopo (Voras) tratto dal suo blog. Suoi racconti e articoli sono apparsi su numerosi siti e riviste. Collabora con minima&moralia. Stalin + Bianca (2014 ) è edito da Tunué, nella nuova collana Romanzi.

Per approfondire
La recensione  su Patria Letteratura
La recensione su Linkiesta

L’intervista su Via dei Serpenti a Vanni Santoni, il curatore della collana Romanzi

Approfondimento Tunué

Stalin+Bianca
Iacopo Barison
Tunué, collana Romanzi, 2014
pp. 175, € 9,90

Dettato — Sergio Peter

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FUORI STRADA – Rubrica di approfondimento della piccola e media editoria “extra-capitolina”

di Anna Castellari

Non sia detto mai che non amo la letteratura dialettale, la memorialistica, gli sperimentalismi. No, ho una formazione linguistica e come molti sanno, amo leggere non solo in lingua straniera, ma anche in dialetto. Il dialetto, che linguisticamente non ha alcuna differenza con la lingua, ma è solo una lingua che — politicamente, numericamente — non si è affermata, mi è molto caro, sono certa che va preservato anche attraverso la nuova letteratura, sempre in maniera spontanea e vivace, senza forzature.

In questo, Sergio Peter è riuscito nell’intento. Il suo Dettato, che dalla casa editrice Tunué viene presentato come un “romanzo”, ha sicuramente il pregio di valorizzare la lingua locale, quella delle valli attorno al lago di Como, dandogli nuova vita attraverso le sperimentazioni. Verso la fine del volume ci sono alcune lettere, riportate o riprodotte attraverso mimesi linguistica non si sa, che fanno piombare il lettore non solo in un’altra cultura, ma anche in un’altra epoca. Così anche la sperimentazione poetica, sempre nelle ultime pagine, è da vedersi come una sorta di riappropriazione della cantilena della lingua locale, cantilena da cui, forse, scaturisce la poesia (nell’antichità non era altro che una conseguenza delle storie raccontate oralmente, si vedano i poemi epici).

Tuttavia, questo libro è molto difficile. Il ruolo degli autori è quello di sconfinare, dice Peter. Sì, sconfinare serve a conoscere ciò che è altro da sé, serve ad allargare i propri orizzonti. Ma questo sconfinamento pecca, in maniera alquanto contraddittoria, di autoreferenzialità: è davvero complicato seguire il filo del discorso, i luoghi vengono presentati in maniera dettagliata ma sfugge il loro nesso nella storia. Sì, a un certo punto l’autore racconta di un padre scomparso prematuramente, e capiamo (finalmente) qual è il fil rouge che unisce tutto il libro.

Ma se gli esercizi di stile sono cosa buona e giusta, a mio parere (umile parere) essi dovrebbero essere funzionali a una storia per poter rendere quella narrazione davvero intellegibile e se si vuole che arrivi a tutti. Invece questa narrazione è troppo debole, rimane sospesa, non arriva mai a un punto e io, lettore, a pagina 15 mi innervosisco. Probabilmente è un mio limite, probabilmente non sono addestrata a leggere per il piacere di leggere, specie in tempi di stimoli continui che riceviamo oggi, ma forse nemmeno dieci anni fa avrei saputo apprezzarlo.

Eppure, la scrittura di Sergio Peter merita. Forse un po’ di editing in più, forse dirigerla verso un sentiero meno difficoltoso avrebbe fatto bene al libro. Che, si badi bene, non è affatto un romanzo. Pur apprezzabile come exercice de style, questa raccolta di riflessioni che ruotano attorno all’infanzia e alla morte del padre di Peter, a un immaginario culturale e collettivo di una valle chiusa, un’analisi antropologica interessante e ben articolata, non è affatto un romanzo. Perciò, se vi aspettate questo non leggetelo. Ma se volete conoscere una voce sicuramente nuova e interessante del panorama attuale, beh, allora Dettato è il libro che fa per voi.

Sergio Peter, Dettato
Libro della collana diretta da Vanni Santoni
Tunué, 2014
pp. 112, € 9,90

Nota sull’autore
Sergio Peter è nato a Como nel 1986. Ha studiato filosofia all’Università Cattolica, laureandosi con una tesi di Estetica. Ha pubblicato racconti in riviste cartacee e online. Vive a Milano. Questo è il suo primo romanzo.

Per approfondire
Consigli di lettura: Sergio Peter presenta “Dettato” (Tunué)
Dettato di Sergio Peter

Il progetto editoriale descritto in un’intervista per Via dei Serpenti a Vanni Santoni

Approfondimento Tunué