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Un libro si traduce. La parola a Riccardo Duranti

 COSA SI FA CON UN LIBRO? Seconda edizione Roma

COSA SI FA CON UN LIBRO? prima edizione Roma

di Emanuela D’Alessio e Rossella Gaudenzi

Con Riccardo Duranti, il traduttore di Raymond Carver e non solo, si è conclusa il 6 maggio, alla libreria Pagina 348, la seconda edizione romana di Cosa si fa con un libro?
Siamo tornati da Marco Guerra, che già aveva ospitato il 6 febbraio l’incontro con l’editore di e/o Sandro Ferri, e subito gli abbiamo chiesto se fosse accaduto qualcosa di rilevante per le librerie indipendenti negli ultimi quattro mesi. La sua risposta è stata confortante e in controtendenza.

coverSegnali di vitalità per le librerie indipendenti
«I segnali sono positivi, di vitalità. Mentre le librerie di catena si sono avviate verso una crisi a mio avviso irreversibile, le librerie indipendenti godono di migliore salute. La crisi economica si sta un po’ attenuando e le librerie indipendenti “tengono botta” grazie a idee e rapidità di risposta ai lettori. Inoltre, non ci stanchiamo mai di ripeterlo, occorre saper fare questo mestiere e con molta umiltà: non basta alzare una saracinesca per essere libraio».

«Per Pagina 348 sono stati quattro mesi molto positivi – prosegue Guerra – e in questo mese (maggio) abbiamo avviato un laboratorio teatrale per bambini e un corso di scrittura creativa. Abbiamo iniziato anche a uscire dalla libreria, smettendo di giocare sempre in difesa e di litigare con gli altri librai per accaparrarsi i quattro lettori su dieci in circolazione. Bisognerebbe invece chiedersi dove sono e come fare a raggiungere gli altri sei, perché di libri ce ne sono veramente per tutti».

Che cosa significa tradurre?
Con Riccardo Duranti, “voce” di autori come Raymond Carver, John Berger, Philip K. Dick, Cormac McCarthy, Nathanael West, Elizabeth Bishop e Rohald Dhal, siamo partiti dalla metafora usata da Paul Auster per descrivere l’attività del tradurre: «Tradurre è un po’ come spalare carbone. Lo sollevi con il badile e lo rovesci nella fornace. Ogni pezzo è una parola, ogni palata è una nuova frase, e se hai la schiena abbastanza forte e la resistenza che serve a continuare per otto/dieci ore al giorno, riuscirai a tenere acceso il fuoco».

duranti_1Duranti si riconosce in quasi tutte le metafore sul traduttore. In quella di Auster emergono la fatica e l’energia, lui predilige la metafora dell’acqua che risale all’epoca della sua adolescenza quando era un lettore vorace. «Mi colpì – racconta –  un testo dei proverbi di Leonardo da Vinci che cito alla lettera: “Chi può bere alla fonte non beva dalla brocca”. Io non leggo quasi mai traduzioni e sono arrivato a trasformare questo proverbio in un principio deontologico: compiere la fatica, che è anche un immenso piacere, di tradurre per coloro che non possono leggere alla fonte». Duranti, che ha la fortuna di non dipendere economicamente dal lavoro di traduttore, traduce per passione e ha potuto sempre scegliere che cosa tradurre. Tradurre, un lavoro teoricamente impossibile, è il lavoro impossibile che si può fare.

Il mestiere del traduttore
Assumendo per scontato che ogni traduzione sia un’esperienza unica e irripetibile, che per ogni testo esistano difficoltà e soluzioni differenti, si può redigere un manuale minimo ideale per affrontare una traduzione? Ovviamente no. «Ogni traduzione è un viaggio di scoperta, una sfida: come rendere un concetto, un’espressione, uno stile in italiano? Le prime cinquanta pagine sono le più difficili, si parte in salita per poi proseguire e concludere in discesa. Per un romanzo è necessario un lavoro di almeno due o tre mesi, mentre per il numero di cartelle da tradurre al giorno, non esiste una cifra fissa, dipende dalle caratteristiche del testo».

«Mi è capitato di rado di trovare libri brutti, penso a Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick (Fanucci 2014). La scrittura era veramente sciatta ma le idee straordinarie».

Il rapporto con l’autore
Nella sua lunga carriera Riccardo Duranti ha avuto modo di conoscere e anche di instaurare rapporti di amicizia con molti degli autori tradotti. La conoscenza diretta della “fonte” fa senz’altro la differenza.

«Molti scrittori, pur non conoscendo la lingua italiana, riescono a comprenderla, ne percepiscono la musicalità. Mi ricordo, ad esempio, di quanto abbia faticato a tradurre il titolo di una poesia di Tess Gallagher, moglie di Carver. La parola era Willingly, all’inizio nessuna delle possibili traduzioni mi convinceva, poi scelsi Spontaneamente e quando la proposi all’autrice lei non ebbe alcun dubbio che fosse quella giusta».

duranti_4«Certamente è di aiuto chiedere qualcosa all’autore –  prosegue Duranti –  ma soprattutto è prezioso lo stimolo a livello psicologico che deriva dalla sua conoscenza. Con Carver, di cui ho tradotto tutto dopo la sua morte (quando era vivo tradussi solo il racconto Cattedrale), è stata una sorta di elaborazione del lutto, un modo per riascoltarne la voce».

«Talvolta, paradossalmente, diventi amico dell’autore perché è lui ad avere bisogno di te. Cito questo esempio. Il dattiloscritto del bellissimo libro Festa di nozze di John Berger (Il Saggiatore, 1995) conteneva degli errori culturali, ad esempio di tipo geografico. Trasmisi le correzioni via fax, un po’ preoccupato per le conseguenze. Ma in quel caso avvenne l’impensabile, mi chiamò John Berger in persona esclamando: “Riccardo, you’re like a brother for me!”. E la mia revisione fu inviata a tutte le traduzioni in procinto di essere stampate, ad eccezione degli Stati Uniti dove il libro era già in fase avanzata di pubblicazione».

Da Raymond Carver a Roald Dahl
Dalla narrativa alla letteratura per ragazzi alla poesia, Riccardo Duranti si è cimentato con molti generi. «La letteratura per l’infanzia è la mia passione. Quando si traduce Carver l’attenzione è rivolta a come rendere le sfumature di linguaggio e psicologiche. Gli autori per l’infanzia, invece, lanciano sfide nuove, quali la ricerca dell’umorismo e i giochi di parole, con battute e freddure da reinventare. La ri-creazione del testo è più accentuata nei libri per l’infanzia. A maggiore fatica corrisponde maggiore divertimento».

cop«La fabbrica di cioccolata di Roald Dahl l’ho tradotto in due settimane nella mia casa in campagna. Trascorrevo in solitudine tutta la giornata e la sera cercavo il confronto e il collaudo del lavoro con figli e nipoti».

Lo status del traduttore in Italia
In Italia i traduttori sono una categoria nascosta (i loro nomi vengono spesso omessi), sottopagata e scarsamente tutelata.

«Non lo so con esattezza perché sia così. Il traduttore deve essere trasparente e finisce con l’essere invisibile. Esiste una legge sul diritto di autore che risale al 1941 e con la quale anche i traduttori risultano tutelati, sebbene tutte le case editrici o quasi applichino la postilla “salvo pattuizione contraria”. La retribuzione di un traduttore in Italia va dai cinque ai venti euro a cartella. Con il sindacato dei traduttori STRADE sto conducendo la battaglia per fissare a quattordici euro il minimo sindacale»

Eppure, nonostante questo mestiere sia difficile e faticoso e dall’incerta soddisfazione economica, il numero dei traduttori in Italia risulta corposo. Nel 2014, secondo uno studio effettuato da Ernst & Young, i soggetti occupati nella traduzione di libri erano 7.500 (ne ha scritto Emanuele Tirelli su «pagina99» il 13 febbraio 2016).

«C’è il fascino della missione, della possibilità di lavorare come free lance – spiega Duranti – Io sono molto orgoglioso dei miei allievi, ma solo due o tre di loro riescono a lavorare e a vivere, faticosamente, solo di traduzione. È necessario comunque un percorso formativo molto duro. Per fortuna l’offerta di formazione si è ormai ampliata rispetto a quarant’anni fa. Ai miei tempi era stato appena esportato in Italia un workshop della Columbia University a cui partecipai. Ma fui l’unico. Oggi ci sono numerosi corsi di ottimo livello, anche universitari, a Roma, Pisa, Siena. Ci sono anche molti corsi privati, ma bisogna fare attenzione prima di sceglierne uno».

Gli altri mestieri di Riccardo Duranti
Riccardo Duranti ha compiuto, indubbiamente, un percorso editoriale completo, prima lettore poi traduttore, quindi scrittore (ha  pubblicato nel dicembre 2015 per Ianieri edizioni la raccolta di racconti L’orsacchiotto Carver e  altri segreti) e infine editore.

«Sì, ho iniziato con la poesia e la vera rivelazione ci fu quando andai a studiare negli Stati Uniti. Lì mi sono sentito libero senza più il peso di secoli di tradizione culturale italiana. Ho scoperto che era possibile un altro modo di scrivere poesie. Mi sono autotradotto in inglese per potermi confrontare con i poeti americani che incontrai. E poi ho fatto il contrario. Tutto ciò ha avuto un’influenza positiva sia sulla mia formazione di traduttore sia di poeta: quando mi bloccavo nello scrivere in italiano passavo alla lingua inglese. Tutto ciò è stato estremamente liberatorio».

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«Fondando la casa editrice Coazinzola Press mi sono messo in gioco, o meglio, ho deciso che era venuto il momento di pubblicare libri come dicevo io. Ho investito parte della liquidazione e mi raffiguro come un Don Chisciotte, però alla fine faccio i libri che mi piacciono e di qualità».

Che cosa c’è sul comodino di Riccardo Duranti?
«Quando lavori come traduttore, scrittore ed editore finisce che di tempo per essere lettore ne resta pochissimo. Ho appena terminato la sorprendente opera prima della scrittrice Francesca Marzia Esposito, La forma minima della felicità (Baldini & Castoldi, 2015)».

Ringraziamo Riccardo Duranti e Marco Guerra per la disponibilità.

Cosa si fa con un libro? va in vacanza, dando appuntamento al prossimo anno.

Intervista a Stefano Tummolini, il traduttore di Stoner di John Williams

di Emanuela D’Alessio

Stefano Tummolini

Stefano Tummolini

Ho conosciuto Stefano Tummolini alla libreria Pagina 348 in un incontro sulla traduzione. Tummolini è, tra l’altro, il traduttore di Stoner di John Williams, ripubblicato da Fazi nel 2012. Un libro che abbiamo amato molto. Qui le nostre recensioni.

Stefano Tummolini, classe 1969, oltre a lavorare come traduttore, ha collaborato alla sceneggiatura di alcune serie tv (Distretto di polizia, Il bello delle donne, Tutti pazzi per amore) e film per il grande schermo, tra cui Il bagno turco di Ferzan Ozpetek. Ha realizzato vari cortometraggi. Nel 2008 è uscito il suo primo romanzo La guerra dei sessi (Liberamente editore) e nel 2014 ha pubblicato per Fazi Un’estate fa.

Leggendo le tue note biografiche scopriamo che la traduzione non è il tuo unico mestiere. Hai scritto sceneggiature per la televisione e per il cinema, hai fatto il regista, hai scritto racconti e un romanzo. Qual è la tua vocazione?
Sono molto pigro, temo che la mia vocazione più profonda sia l’inerzia. Forse la regia è la mia vera passione, perché tra quelle che svolgo è l’attività più completa: anche se è tremendamente faticosa e soggetta a mille costrizioni. Il lavoro dello sceneggiatore è più comodo, non hai mai l’ultima parola e questo in qualche modo ti deresponsabilizza. La letteratura mi ha dato più soddisfazione e più libertà, ma credo di non essermici ancora impegnato abbastanza.

Concentriamoci sul mestiere di traduttore. Come si diventa traduttori? E per quanto riguarda la tua esperienza, quando hai deciso di intraprendere questo mestiere?
Ai tempi della laurea ricordo di aver fatto qualche prova di traduzione per delle case editrici – senza mai ricevere offerte di lavoro. Poi una mia amica mi disse che Fazi aveva bisogno di qualcuno che revisionasse la traduzione di un romanzo di Thomas Hardy, The woodlanders. Così ho incontrato Laura Senserini, storico capo-redattore della casa editrice, che mi ha messo sotto contratto. La revisione si è poi trasformata in una traduzione ex-novo, che ancora oggi credo sia la migliore che ho fatto. Il titolo italiano è Nel bosco.

Sebbene in Italia gran parte dei libri pubblicati siano di autori stranieri, il mestiere del traduttore non è particolarmente valorizzato soprattutto dal punto di vista economico. Perché secondo te?
I libri si vendono poco, a parte rare eccezioni. Immagino che questa sia la ragione principale. È anche vero che alcuni editori se ne approfittano, proponendo ai traduttori compensi da fame.

C’è differenza, secondo te, tra imparare a tradurre e imparare a essere un traduttore?
Beh, io ho imparato a tradurre ai tempi del liceo. Ho fatto il classico, ricordo che ero piuttosto bravo sia in greco che in latino. È stato in quegli anni che ho cominciato a ragionare come un traduttore, cioè a destrutturare un testo per capire come funziona, e a ricostruirlo nella mia lingua. Ovviamente questo non basta a fare un buon traduttore. All’epoca non mi impegnavo molto a restituire lo stile dei singoli autori che traducevo. La mia sola preoccupazione era quella di capire il significato dell’originale e di renderlo in un italiano corretto. Col tempo ho imparato anche a individuare, attraverso il testo, la specificità degli autori, sia in termini linguistici sia poetici.

Norman Gobetti, traduttore di autori come Philip Roth, Martin Amis, Aravind Adiga e molti altri, ha dato una definizione a mio parere poetica dei traduttori. «I traduttori sono ladri innamorati». Che cosa ne pensi? Tu come definiresti il traduttore?
Non mi riconosco in questa definizione. Per me un traduttore è prima di tutto un lettore attento, più attento della media. E poi uno scrittore, che conosce le risorse della propria lingua, e le mette al servizio del lavoro di un altro. Con grande amore – questo sì – e spirito di abnegazione.

Che cosa è più importante per un traduttore: conoscere la lingua di origine o la lingua di arrivo?
Direi entrambe, più o meno in ugual misura.

Thomas Hardy

Thomas Hardy

Qual è stato il tuo primo autore tradotto? E come è andata?
Thomas Hardy, come dicevo prima. Nel bosco è un romanzo incantevole e struggente, un classico che stranamente non era mai stato tradotto in italiano. Difficilissimo da tradurre, peraltro – sia sotto l’aspetto lessicale sia stilistico. La prosa di Hardy è quasi lirica, ricordo che potevo stare un pomeriggio intero su una frase senza venirne a capo. Non perché non capissi il significato, ma perché non riuscivo a restituirlo al meglio. È stata un’impresa quasi eroica, anche perché avevo dei tempi molto stretti. Ricordo di aver pianto per la fatica, qualche volta. Ma poi la soddisfazione è stata immensa.

Qual è stato per te l’autore più difficile e il più amato? E perché?
Sempre Hardy, il più amato e il più difficile. Ho amato molto anche Williams. E poi Fat City di Leonard Gardner. E Eyrie di Tim Winton, che sto traducendo adesso.

Hai tradotto i libri di John Williams tra cui il celebre Stoner, un caso editoriale postumo. Ci vuoi proporre un brano che ti è particolarmente piaciuto, o che ti è risultato particolarmente difficile, spiegandoci anche il perché?
Citerei l’incipit di Stoner, così asciutto e evocativo: «William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956».
Adoro l’essenzialità di Williams. Come iniziare il romanzo di una vita? Con il nome e il cognome del protagonista! Non ho incontrato particolari difficoltà a tradurre i suoi testi, perché la sua prosa è molto classica, e apparentemente semplice. Immagino che lavorasse tanto per ottenere quest’effetto di semplicità. Ricordo che all’inizio, per cercare di restituire l’eleganza di certe frasi, tendevo a fare delle circonvoluzioni – complicando leggermente l’originale. E puntualmente dovevo fare un passo indietro, perché la semplicità funzionava meglio anche in italiano. È una cosa strana, che non mi era mai successa prima. Di solito, se si è molto fedeli all’originale, ci si ritrova a scrivere in uno strano italiano – specie quando si traduce dall’inglese. Nel caso di Williams invece non è stato così: era come se tutta la fatica per arrivare all’essenziale, al cuore delle cose e delle parole, l’avesse già fatta lui.

Stoner

Quali sono i tuoi strumenti di lavoro e quali le modalità? Fai una prima stesura completa, procedi per capitoli? Quanto tempo ti serve per tradurre un romanzo?
Prima traducevo pagina per pagina, per non guastarmi la sorpresa della lettura. Poi ho capito che non era affatto pratico, anzi un po’ idiota, perché mi toccava ritornare indietro e aggiustare continuamente il tiro. Ora leggo prima tutto il romanzo, e poi traduco mantenendo una certa media di pagine al giorno – in genere quattro o cinque, a seconda della difficoltà del testo. Sono molto accurato fin da subito, non traduco all’impronta o grossolanamente, per poi tornarci su. In genere quando rileggo va già tutto bene.

Nel caso di traduzioni di autori contemporanei, sei mai entrato in contatto con qualcuno di loro? Hai qualche aneddoto da riportare?
Ho conosciuto Guillermo Arriaga, gli ho fatto anche da interprete in varie occasioni. È un uomo brillante e amabile, ma anche vagamente inquietante. Percepivo qualcosa di oscuro in lui, una sorta di violenza latente, forse il residuo di un’adolescenza tormentata. E poi ci assomigliamo fisicamente, altra cosa strana. Ho una sua foto in cui mi ricorda moltissimo mio padre.

Che cosa consiglieresti a un giovane che ha deciso di intraprendere questo mestiere?
Di individuare un testo inedito che gli piace e di proporlo ad un editore, insieme ad una prova di traduzione. Credo sia il modo migliore per farsi conoscere.

Hai scoperto o vuoi proporre un nuovo autore che vorresti far conoscere al pubblico italiano?
Finora non mi è mai capitato. Sempre per pigrizia, immagino.

Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino?
Sottomissione di Houellebecq, L’ultima estate di Cesarina Vighy e una raccolta di racconti italiani degli anni sessanta.