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Il colore dell’assenza. Sonno bianco di Stefano Corbetta

di Emanuela D’Alessio

Nulla è definitivo, c’è sempre un’altra possibilità, a patto che si resti vivi.
Detta così suona come una delle clamorose banalità che leggiamo quando scartiamo un bacio Perugina. Ma la semplicità di ciò che appare scontato si trasforma in complessità quando assistiamo al suo verificarsi.
È quello che è capitato a Stefano Corbetta, oggi scrittore dopo essere stato un aspirante tennista e un affermato musicista jazz. È quello che succede nel suo libro Sonno bianco, pubblicato da Hacca, dove la condizione immobile e sospesa di Bianca, in coma da nove anni, si trasforma in uno straordinario esempio di cambiamento e trasformazione.
La storia che Stefano Corbetta racconta con delicata semplicità, con una voce lieve ma incalzante, è la dimostrazione delle infinite conseguenze che possono scaturire da un evento definitivo come l’incidente che squarcia l’infanzia spensierata (?) delle sorelle gemelle Emma e Bianca.
Le ritroviamo nove anni dopo, Emma alle prese con una adolescenza menomata dal dolore, Bianca immobilizzata in un letto di ospedale, con gli occhi aperti in un volto senza luce. Intorno a questo fermo-immagine c’è un’intensa attività, un fermento di pulsioni ed emozioni che restituisce il senso dell’incessante movimento con accelerazioni e brusche frenate, abbandoni e incontri, fughe e ritorni.
Corbetta è bravo a restituire i colori dell’assenza, le pulsioni della colpa, le contraddizioni del perdono, la straordinaria forza della speranza, e anche le dinamiche perverse che si scatenano all’interno di una famiglia. Ma non c’è mai uno sguardo definitivo, c’è sempre la possibilità di scoprire un’altra prospettiva.
Sonno bianco si legge in un fiato, ma resta impresso a lungo, come succede a certi sogni che al risveglio non svaniscono più.

Per non rimanere con curiosità irrisolte, ho comunque rivolto qualche domanda all’autore.

Da qualche parte ho letto che sei “Mobiliere per tradizione, batterista per passione, scrittore per necessità”. Ti riconosci in questa sintesi e puoi aggiungere qualche dettaglio utile a completare il tuo profilo?
Mi riconosco in parte. È piuttosto difficile distinguere tra passione e necessità. Iniziai a suonare per colmare un vuoto. A diciassette anni ero convinto che avrei fatto il tennista, mi dedicavo totalmente a quello sport, ore e ore tutti i giorni, sacrifici e rinunce con un unico obiettivo, poi arrivarono i medici e mi dissero che avrei dovuto smettere a causa di una lieve malformazione cardiaca. Fu devastante, così mi dissi, okay, si ricomincia. Quella fu necessità che si trasformò con il tempo in passione.
Vent’anni dopo (mi ero costruito una strada solida come musicista jazz, seppur non fosse il mio lavoro, e avevo raggiunto una certa stabilità, suonavo sia in Italia sia all’estero), mi alzai una mattina di ritorno da una tournée con l’orchestra filarmonica d’Abruzzo e mi dissi, okay, hai detto quello che dovevi dire, ora si ricomincia da un’altra parte. Avevo in mente una storia da tempo, suonavo e pensavo alle parole; ecco, quella sì, fu passione. La necessità arrivò dopo, spogliata del manto emotivo che imbriglia la scrittura. Oggi scrivo perché cerco di dare forma alle cose, è una necessità razionale. Stravinskij direbbe «far prevalere l’ordine sul caos».

In qualità di scrittore hai esordito nel 2017 con Le coccinelle non hanno paura per Morellini e, da pochi mesi, sei tornato in libreria con Sonno bianco per Hacca. Hai riposto le bacchette per impugnare la penna (metaforicamente), che cosa ha determinato questo cambiamento così drastico? E si può ritenerlo definitivo?
Credo di non averci pensato molto, è stata una decisione presa nello stesso modo in cui avevo mollato il tennis. Certo, in quella occasione ne fui costretto, ma quel cambio improvviso di direzione probabilmente esercitò su di me il fascino del sentirsi persi, svuotati, per cui concludo che in quel momento ne avessi bisogno. E poi in fondo io sono un esistenzialista, non c’è errore, ogni cosa si rivela nell’attimo in cui accade, e comunque anche da un errore può sempre nascere qualcosa di buono.

Pur avendo smesso di suonare la musica continua a svolgere un ruolo predominante nella tua vita e quindi nella tua scrittura. In Sonno bianco uno dei personaggi, Léon, è un musicista che dà lezioni di pianoforte al piccolo e talentuoso Mattia. La musica è utilizzata come terapia per il recupero dei pazienti in stato vegetativo come Bianca, la sorella gemella di Emma, che “dorme” da nove anni. Puoi provare a declinare il romanzo attraverso la sua colonna sonora?
Avevo in mente Sonno bianco come una sinfonia in cui il silenzio dovesse avere una parte importante e dove i movimenti fossero caratterizzati da un continuo riprendere e abbandonare il tema iniziale. Nello svolgersi della storia la musica si insinua lentamente in quei silenzi, nei vuoti dei personaggi, nel loro non dire, nel loro muoversi senza parlare, e questo mi sembrava interessante perché mi permetteva di esemplificare il cambiamento degli sguardi senza essere esplicito, che è ciò che la scrittura può fare con grande forza, proprio negando in parte la propria natura. C’è solo un momento in cui cito espressamente un brano musicale, ed è la Patetica di Beethoven, ma per il resto ho cercato di restare sul vago per evitare di ingabbiare il lettore e cadere nel rischio di diventare didascalico.

In tutto il romanzo, in realtà, incontriamo diverse forme di arte. Oltre alla musica c’è il teatro, con la controversa decisione di Emma di entrare in una compagnia teatrale. Ci sono i disegni di Emma che riempiono le bianche pareti della stanza dove giace Bianca, immobile e assente. C’è un disegno in particolare da cui sembra prendere inizio tutta la storia. C’è una scultura in creta, due mani con le dita intrecciate che nascondono un piccola pallina rossa. Che cosa ci può dire l’arte che le semplici parole non riescono ad esprimere?
C’è un celebre racconto di Carver, Cattedrale, in cui un uomo deve spiegare a un cieco come sia fatta una cattedrale. Bene, quest’uomo tenta di farlo con le parole, ma poi il cieco, non soddisfatto del risultato, gli chiede di disegnarla, appoggiando la mano sulla sua. Per me quella è una dichiarazione di poetica. Le immagini possono dire più delle parole perché raccontano meno. E detto da uno scrittore come Carver fa un certo effetto. Non ho la pretesa di dire ciò che Carver pensava davvero sull’argomento, ma è quello che a me è parso chiaro, e lo prendo per buono.
La scultura, nel romanzo, è la Cattedrale di Rodin, e quando mi sono ritrovato di fronte a quell’immagine – Sonno bianco ha preso vita da quell’immagine – ho capito che la sua forza di espansione era enorme e così ho cercato di decifrarla.
Le varie forme d’arte che compaiono nel romanzo non trasmettono emozioni o sentimenti, ma dicono di uno stato delle cose o di una possibilità di sguardo differente. Emma impara ad ascoltarsi attraverso ciò che Léon le dice sulla musica, il teatro la mette in contatto con il doppio di sé, dandogli vita e rendendolo accettabile, la Cattedrale esemplifica il dialogo muto tra Emma e Bianca.
Quindi, per rispondere alla tua domanda, ma questo è un punto di vista assolutamente personale e per questo anche non condivisibile, l’arte forse riesce a fare la cosa più difficile, e cioè a non spiegare le cose, ma a raccontarcele in un solo istante, in un linguaggio implicito che parla alla nostra mente più che al nostro cuore.

Se il tema centrale di Sonno bianco sembra essere la lunga e dolorosa esperienza del coma di Bianca, quasi subito ci si accorge che questo è un pretesto per declinare il complesso tema dell’assenza, il senso della colpa, la difficoltà del perdono, la forza della speranza, le dinamiche perverse che si agitano all’interno di una famiglia. Che cosa ne pensi?
Penso che tu abbia colto perfettamente la questione, il coma è un pretesto. Bianca, nel suo essere assente, diventa una presenza centrale con cui tutti devono fare i conti – questa era la sfida che mi interessava. Volevo sondare gli effetti del senso di colpa, quello che un sopravvissuto sviluppa come sindrome, e quello che gli altri, anche le persone più vicine a noi, possono alimentare più o meno consapevolmente. E poi, come dici tu, ci sono le dinamiche complesse, a volte perverse, che si declinano nei silenzi, soprattutto, e che soffocano le speranze e impediscono di concedere il perdono, prima che agli altri, innanzitutto a se stessi. E quando tutto questo si gioca nel rapporto tra mondo adulto e adolescenti, allora c’è la possibilità di uno sguardo multiplo che allarga il senso di ciò che accade.

Sei riuscito a restituire con semplicità e delicatezza la profondità di tutti i protagonisti della storia, ad eccezione forse di Valeria, la madre di Emma e Bianca. Una donna e una madre verso cui non si prova empatia, che si preferisce giudicare piuttosto che comprendere. È con questo modello di madre che hai voluto fare i conti?
Guarda, io la penso così: i personaggi di una storia non si giudicano, si osservano. Quando qualcuno giudica un personaggio sta rinunciando a comprenderlo, e spesso per ragioni di sovrapposizione. In questi casi mi viene sempre da chiedere se quello stesso personaggio non stia provocando il lettore a tal punto da costringerlo a prendere posizione, e non sempre si è disposti a farlo. Ed ecco che scatta la difensiva. Il discorso su Valeria è ambivalente. Da una parte avevo la necessità di creare all’interno della famiglia un contrappeso alla capacità di ascolto di Enrico, il padre; dall’altra, mi interessava un meccanismo che ho visto mettere in atto spesso, e cioè la trasformazione di un dolore in rabbia. Il dolore è sempre personale, difficilmente assume una connotazione collettiva, il dolore divide, più raramente unisce, ma se lo trasformi in rabbia puoi sfogarlo sugli altri, avendo l’illusione di liberartene. Ma appunto, è soltanto un’illusione.

Dedichiamo qualche parola all’editore Hacca. Come è avvenuta la scelta di questa piccola casa editrice marchigiana?
Be’, innanzitutto diciamo che mi hanno scelto loro (anche se in realtà avevo un’alternativa). Seguivo Hacca da tempo e mai avrei pensato di poter arrivare a pubblicare con loro. I loro libri hanno una caratteristica ben precisa, seppur eterogenei all’interno del catalogo – e questo è un grande pregio –, riescono a lavorare intorno a un’idea narrativa che scava attraverso un linguaggio sempre personale. Durante il lavoro di editing mi hanno messo di fronte alla mia storia in un modo nuovo e ne è uscito un testo che, senza essere stato minimamente snaturato, ha acquistato forza. Questo dovrebbe fare un editore, camminare insieme all’autore, rispettandolo, e questo Hacca lo fa con grande consapevolezza.
Come ci sono arrivato? Una lettrice a cui avevo mandato il testo per sottoporlo a uno sguardo esterno lo aveva trovato molto interessante e mi ha suggerito di provare a farlo leggere a Francesca Chiappa, che dopo qualche mese mi ha scritto dicendo che il romanzo era interessante e che avrebbe voluto pubblicarlo.

In questi mesi stai accompagnando Sonno bianco in giro per l’Italia, io stessa “vi” ho conosciuti a Roma alla libreria Assaggi, che nel frattempo ha completato la sua trasformazione in Tomo libreria caffè. La “tradizionale” presentazione dell’autore in una libreria, più o meno affollata, conserva ancora la sua efficacia in piena rivoluzione digitale come l’attuale, volendo riprendere il tema ampiamente esplorato da Alessandro Baricco nel suo recentissimo Game?
Dunque, qui la faccenda si fa complessa. Faccio un esempio. Recentemente ho presentato il romanzo in una libreria in cui è stata fatta una diretta integrale. A me in generale questa cosa non piace, e per molte ragioni che adesso non sto qui a spiegare, ma la serata era pessima, pioveva come se fossimo ai tempi di Noè e molti avevano disdetto. Risultato: poche persone in libreria, ma più di mille visualizzazioni con conseguenti complimenti in privato da gente di Catania. In più aggiungiamo che i lettori sono sempre meno – così dicono – e quando in libreria arrivano quindici persone sei contento, inutile raccontarci storie (certo, se sei un nome che conta o sul quale la major ha puntato è un altro discorso, ma qui sto parlando di comuni mortali come me). Quindi, che senso ha investire tempo, soldi, energie in spostamenti che non sempre ripagano in termini di copie vendute? Semplice, si incontrano le persone, riaffermando con forza l’insostituibilità degli sguardi e la necessità di avere un corpo e una voce reali.
Ti faccio un esempio. Anni fa capitai a Ravenna e per caso nell’unica sera in cui pernottai in città davano al Dante Alighieri una commedia di Jasmina Reza, Art, con Alessandro Haber, Alessio Boni e Gigio Alberti. Fu incredibile, uscii con i crampi allo stomaco per le risate. Un anno dopo iniziai a sentire nostalgia di quella serata e cercai lo spettacolo per capire se fosse ancora possibile vederlo da qualche parte. Niente, ormai il tour era terminato. Mi dissi, c’è You Tube! Sai cosa è successo? Ho visto la commedia a video e la delusione è stata profondissima, nessuna empatia con i personaggi, solo un vago senso di familiarità assolutamente asettica. La rivoluzione digitale funziona per i contenuti, per la velocità con cui vengono trasmessi e tutto quello che ci sta dietro e che Baricco spiega bene nel suo Game, cambia il mondo, e quindi le persone, ma c’è poco da fare, gli incontri interpersonali ne vengono depotenziati. Parlavo recentemente con un professore dell’università Bocconi e mi diceva che loro ancora fanno incontri e conferenze recandosi all’estero, quando potrebbero tranquillamente usare i computer. Certo, in alcuni casi vale comunque la pena collegarsi via internet, ma l’efficacia di una stretta di mano non credo sarà mai sostituibile.

Prima di essere uno scrittore si è (o dovrebbe essere) un lettore. Tu che tipo di lettore sei?
Sono un lettore lento, analitico, molto esigente con me stesso. Se devo leggere un libro per il piacere di leggerlo, devo farlo la seconda volta. Quando inizio un romanzo ho sempre accanto a me matite colorate e un quaderno. Sottolineo con colori diversi, faccio schemi, trascrivo. È l’unico modo che conosco per far sì che il testo mi rimanga, altrimenti lo dimentico. Questa è la ragione per cui leggo al massimo una ventina di romanzi all’anno, quando va bene.

Qual è la tua libreria ideale?
In questo periodo sto girando molto per tutta Italia e ho l’occasione di entrare in molte librerie. Devo dire che la combinazione più accattivante, ormai mi pare peraltro abbastanza consolidata, è quella libri-caffetteria disseminata di tavolini e poltrone sfondate. Da grande consumatore di cappuccino e dolciumi vari, sedermi a stomaco pieno e iniziare a leggere è una cosa che mi dà sempre particolare piacere. Sono stato recentemente a Firenze, alla libreria La Cité, e mi ha affascinato per l’atmosfera accogliente e il via vai. Ho visto entrare personaggi degni di nota, musica in sottofondo, un soppalco con tavolini rotondi e legno ovunque, non il massimo se uno cerca pace e tranquillità, ma estremamente stimolante.

Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino?
Sul mio comodino c’è una pila di libri che attentano alla mia vita durante la notte perché arriva a metà parete e se un giorno dovesse franare ne rimarrei sommerso durante il sonno. Al momento sto leggendo Goodbye, Columbus di Philip Roth e Vedere voci di Oliver Sacks.

Stefano Corbetta è nato a Milano nel 1970. Interior designer, collabora con il quotidiano «Il Cittadino di Lodi», per cui scrive articoli e recensioni. Dopo una lunga esperienza come musicista jazz, si dedica per qualche anno al teatro, per poi approdare alla scrittura. Ha esordito con il romanzo Le coccinelle non hanno paura (Morellini, 2017), ed è tra gli autori dell’antologia Lettera alla madre (Morellini, 2018). Sonno bianco (Hacca, 2018) è il suo secondo romanzo.