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RACCONTI ITALIANI #3 – Le bambole non muoiono

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

Le bambole non muoiono di Laura Fusconi è uscito sulla Rassegna di Oblique (febbraio 2016). Ringraziamo Leonardo G. Luccone per la gentile concessione.

di Laura Fusconi*

Il buio davanti a noi mi è familiare. Erano anni che non scendevo qua sotto e ci metto un po’ a trovare l’interruttore, come se nel tempo fosse scivolato più in basso. Matilde si lamenta e mi stringe più forte la mano. Io accarezzo la polvere.
Quando la luce investe la stanza, i miei occhi fanno fatica ad abituarsi e per un attimo mi sembra tutto sbiadito, un limbo di oggetti usati troppo o non usati mai. C’è qualcosa di inquietante nel modo in cui sono ammassati gli scatoloni e i sacchi di vestiti smessi, con i nomi delle stagioni scritti a pennarello su nastri di scotch. L’armadio, la cassapanca e la credenza sembrano guardarci con rassegnazione: mobili vecchi, ma ancora in buono stato, che è un peccato buttare per cui li si lascia qui, dove possono essere dimenticati senza sensi di colpa.
«Aiutami a cercare i piatti azzurri della nonna» dico a Matilde.
Lei mi lascia la mano e senza dir nulla raggiunge un cavallino a dondolo abbandonato in un angolo. Era il mio. I suoi occhi dipinti, neri e tondi, mi paiono tristi ora, ma forse è per via delle ombre che tagliano la stanza.
Mi avvicino al comò – troppo austera per il salotto di una casa moderna – e apro il primo cassetto: maglioni di lana con fantasie fuori moda. L’odore di vecchio mi pizzica le narici.
Nel secondo trovo foulard di seta e vestiti di carnevale. Sorrido nel vedere quello di Arlecchino, il mio preferito. Lo tiro fuori con delicatezza e scopro che manca il secondo bottone e che una manica è scucita. Mi chiedo se possa andare bene a Matilde e mi volto per mostrarglielo, ma le parole mi muoiono in gola.
Matilde è seduta per terra e tiene in grembo la teca con la treccia di Delfina. La guarda stupita, sfiorando il coperchio di vetro.
Mi avvicino e le tolgo la teca dalle mani.
«E questa dove l’hai trovata?»
Indica il ripiano basso del mobiletto vicino al cavallo a dondolo. Ero certa si trovasse da un’altra parte.
«è la treccia di una bambola» dico in fretta, per rispondere al suo sguardo interrogativo.
«Ma è morta» dice lei.
«Le bambole non muoiono.»
«No, la treccia. è morta.»
Rimango in silenzio.
«Sono capelli, come i tuoi» dico poi.
«I miei sono più biondi.»
«I tuoi sono bellissimi.»
Matilde mi guarda e io non so più cosa dire. Ho il vestito da Arlecchino in una mano e la teca nell’altra.

Era il nostro segreto più bello, quello che nonno Ezio ci raccontava ogni volta che mamma e papà uscivano. Non appena la porta si chiudeva, io e mio fratello ci precipitavamo in sala, davanti alla poltrona verde dove sedeva sempre il nonno. Si toglieva gli occhiali con un sorriso compiaciuto e ci squadrava come per valutare se fossimo all’altezza. Poi si chinava verso di noi e ci chiedeva, abbassando la voce: «Siv sicur?».

Delfina era la sorella della mia bisnonna, settima di dieci figli cresciuti come animali selvatici, scuri e magri da far spavento, con i denti storti e le mani consumate.
«Guardì i me occ» diceva sempre nonno Ezio. «A i enn i medesim occ ad me mèr. I medesim occ ch’ a gh’emma tutt’ in famiglia. I occ ch’a gh’avi anca viètar
Delfina era la sola ad avere gli occhi blu e i capelli biondi, motivo d’orgoglio per i genitori che la esibivano come un gioiello e cercavano di vestirla meglio che potevano. Dicevano che era il fiore della famiglia.
La maestra non la rimproverava mai, neanche quando non sapeva le risposte o sbagliava le operazioni alla lavagna. Si era arrabbiata con lei solo la volta in cui aveva rovesciato l’inchiostro del calamaio: stringendo nel pugno il vasetto, Delfina aveva alzato la mano, come per prendere parola, poi se l’era versato sui capelli senza dire nulla.
I compagni di scuola la guardavano con stizza e i fratelli, sulla via di casa, acceleravano il passo e la lasciavano indietro. Non parlava quasi mai.

Isolotto Maggi (Piacenza)

Piacenza, con i suoi lunghi viali alberati, si attraversava in venti minuti, fino al Po.
D’estate il fiume si animava: sull’isolotto Maggi andavano a fare il bagno con costumi castigatissimi le signorine e i signorini di buona famiglia, mentre in certe anse i figli dei braccianti lasciavano i vestiti sull’erba e sguazzavano nudi, inseguendo rane e pesci gatto.
Ma nei mesi autunnali, quando la luce cambiava con la stessa rapidità della corrente e le ombre lunghe dei pioppi scendevano sull’argine come fantasmi, il Po si faceva gonfio e muto, e la nebbia, una nebbia compatta che si alzava lenta dall’acqua, sembrava cancellare il passato. La gente si chiudeva in casa e lungo il fiume non si vedevano più pescatori, né carrettieri o lavandaie. Soltanto il prete di Borgotrebbia, ogni tanto, si spingeva più a ovest dell’argine fino alla chiesa sconsacrata degli appestati, per togliere le croci rovesciate e cancellare i pentacoli che qualche fanatico disegnava davanti al vecchio altare.
Non lontano dalla chiesa si poteva scorgere una cascina tra gli alberi, con le persiane scrostate e i muri cadenti. Ci abitava la Corca, una vecchia incattivita dalla solitudine che usciva solo per andare a raccogliere erbe e radici lungo il fiume. La gente evitava di passare per quel tratto dell’argine. Faceva il malocchio, dicevano. Qualcuno le vide camminare insieme, la Corca e Delfina, due sagome nere nella nebbia. E videro anche che Delfina la aiutava a trascinare il suo sacco.
«At gh’è da stè luntan da cla vecia lé» le dicevano.
Ma Delfina tornava tardi la sera e spesso spariva per ore senza dire a nessuno dove andava. Diventò ancora più silenziosa, i suoi occhi si fecero sfuggenti e quando rientrava in casa aveva le mani fredde e addosso l’odore del fiume.
«A t’er cu la Corca? Cus at ga vè a fè da lé?»
Delfina taceva e la gente iniziò a parlare. Dapprima voci isolate, poi sempre più insistenti. Se Delfina se ne stava sempre per conto suo, aveva un segreto da nascondere. Se la pioggia rovinava il raccolto, era colpa di Delfina. Se moriva un cane o un bambino, era sicuramente colpa di Delfina.
«Fiöla dal dieul» iniziarono a chiamarla.
I bambini più piccoli le lanciavano sassi quando camminava per strada e scappavano se lei si fermava a fissarli.
Il prete disse di averla sentita invocare il maligno nella chiesa degli appestati e la maestra smise di chiamarla alla lavagna.
Persino i fratelli e i genitori iniziarono a poco a poco a guardarla con una certa soggezione e a non farle più domande se tardava a rientrare.
Era una sera di ottobre, quando il prete trovò il corpicino bianco di Delfina gonfio d’acqua tra le canne del fiume. Radunò la gente in piazza e poi andarono alla cascina della Corca con vanghe e bastoni, ma la vecchia non era là, né da nessun’altra parte. Il fuoco del camino era ancora acceso.
Parteciparono in tanti al funerale, più per curiosità che per altro. Soltanto i bambini più piccoli rimasero fuori nella piazzola a giocare a Mondo. Al cimitero, invece, non andò quasi nessuno, forse per via del freddo, forse perché ognuno voleva dire la sua davanti a un bicchiere di vino.
La seppellirono in fretta, ansiosi di dimenticarsi di lei. Ma prima di chiudere la bara, la madre tagliò con un coltello la sua treccia.

La treccia rimase sul ripiano della credenza per giorni finché il padre non rientrò una sera con un grosso barattolo di vetro dal coperchio rosso, dentro cui la conservarono. Una volta alla settimana la madre cambiava i fiocchi della treccia e poi, insieme ai figli, andava a lasciare un fiore selvatico sulla tomba di Delfina. Sceglieva sempre fiori bianchi.
Il padre morì pochi anni dopo a Caporetto e la spagnola del ’19 si portò via la madre e i figli sopravvissuti alla guerra. Risparmiò solo la maggiore, la mia bisnonna Aurora, che a neanche vent’anni si trovò senza nessuno al mondo. Si guadagnava da vivere come camiciaia nella sartoria di via Sopramuro. Fu proprio lì che conobbe il mio bisnonno: era una mattina di aprile e lui si aggirava con una mappa della città, chiedendo ai passanti come raggiungere piazza Duomo. Non appena la mia bisnonna lo vide scoppiò a ridere. Non rideva quasi mai la mia bisnonna, e non seppe spiegare, neanche negli anni a venire, cosa avesse suscitato quella risata, se i pantaloni a quadretti o l’aria spaesata di lui.
Il mio bisnonno si chiamava Ernesto e veniva da Forlì: faceva il cantoniere ed era appena stato trasferito a Piacenza. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo. Il nonno diceva che era un bel tipo, d’un allegria contagiosa.
Quando, dopo il matrimonio, la mia bisnonna andò a vivere a Sant’Antonio, nella casa cantoniera rossa sul ciglio della provinciale, portò con sé il barattolo della treccia. Ernesto non si stancava mai di ascoltare la storia di Delfina.
Accompagnava la mia bisnonna al cimitero di Borgotrebbia e mentre lei pregava sulle tombe dei genitori e dei fratelli, lui rimaneva muto davanti a quella di Delfina.
Passeggiavano spesso sull’argine e lui, ogni volta, insisteva per arrivare fino alla cascina della Corca, anche se il sole era già calato.
Buttò il barattolo e fece costruire una teca per la treccia. Si divertiva quando veniva gente in casa: «Cla là a l’é me cugnè» diceva, in perfetto dialetto piacentino, indicando la teca in bella vista sulla credenza della cucina. Si beava delle espressioni stupite dei suoi ospiti. Nei momenti di intimità, capitava che chiamasse la mia bisnonna «Streghetta».
Lei morì dando alla luce mio nonno, un esserino rosso e grinzoso, con un sacco di capelli neri in testa e due occhi blu che in un paio di settimane divennero scuri come pozzi.
«Me pèr m’ l’ ha mei dit, ma l’aris vurì ch’ i me occ i rastesan bleu
Crebbe con la storia di Delfina e con la teca di vetro sul ripiano della credenza. La treccia della zia era tutto quello che lo teneva legato a sua madre.
Sposò mia nonna, una donna piccolina che insegnava alla scuola elementare Giuseppe Mazzini, ed ebbero una sola figlia. Ma fin da bambina, mia madre, piangeva ogni volta che sentiva nominare Delfina e si tappava le orecchie con le mani.
Quando mio nonno, ormai vedovo, si trasferì a casa nostra, portò con sé la treccia. Mia madre fu irremovibile, ci raccontò lui. «Puoi venire a stare da noi solo se ti liberi di quella cosa orrenda» gli aveva detto. «E non ti azzardare a farne parola con i bambini.»
Il nonno nascose la teca in cantina e giurò di averla buttata.

«Un dé v’ la farò ved» ci diceva. La curiosità ci divorava e ci teneva svegli la notte a immaginare gli incantesimi che la Corca insegnava a Delfina.
Ogni volta, alla fine del racconto, il nonno si incupiva: era inconcepibile per lui che una bambina di neanche dieci anni fosse stata uccisa solo perché aveva gli occhi blu e se ne stava per conto suo. Ma io e mio fratello smettevamo di ascoltare le sue congetture, a quel punto.
Poi un pomeriggio ci portò in cantina e ci mostrò la treccia. Era il giorno del mio undicesimo compleanno.

Matilde mi prende la mano, mi dice che vuole tornare di sopra perché c’è puzza e non le piace stare qua sotto. Vuole che le legga le avventure di Ciccio e Tommasone. Appoggio la teca su uno scaffale in alto e mi chino per prendere in braccio Matilde.
«Menne» le dico, mentre usciamo dalla cantina. «Facciamo che la treccia della bambola è il nostro segreto? Non lo devi dire a nessuno che l’hai vista.»
«Neanche a papà e a mamma?»
«No, sarà il segreto tuo e della zia. Promesso?»

Siamo coricate sul divano, mi formicola una gamba, ma non oso muovermi. Il libro di Ciccio e Tommasone è aperto sul pavimento. Matilde ha la testa sulla mia pancia, credo si sia addormentata. La accarezzo piano, il suo respiro è tranquillo. Mi sembra così fragile. Quando era più piccola non volevo tenerla in braccio perché avevo paura di romperla. Mio fratello rideva. «Hai venticinque anni e non sai tenere in braccio una bambina.»

Quando morì mio nonno non piansi. Ero arrabbiata perché ci aveva lasciato così, da un giorno all’altro, senza nemmeno salutarci. Io e mio fratello smettemmo di parlare di Delfina, nascondemmo la treccia in una parte buia del nostro cuore, dove gettammo alla rinfusa anche la nostra infanzia e gli occhiali del nonno, senza farne più parola. Ricordo che lo sognavo spesso la notte. Erano sogni muti, vedevo lui e Delfina lungo il fiume che si tenevano per mano, nipote e zia, lui il vecchio che per me era sempre stato, lei una bambina bellissima con un vestitino bianco. Ma quando provavo a chiamarli non mi sentivano, e se iniziavo a correre loro scomparivano tra gli alberi. Allora mi sedevo per terra e restavo a guardare le increspature dell’acqua e i gorghi in cui si rincorrevano gli anni, dove l’età non contava nulla e tutto era inconsistenza e ripetizione. Mi sporgevo oltre la riva e volevo buttarmi, chiudere gli occhi e abbandonarmi al fiume che mi chiamava con la voce del nonno, ma qualcosa me lo impediva e potevo solo guardare il mio riflesso che tremava sull’acqua. Nel fiume iniziavano a scorrere capelli biondi e io ci immergevo le mani. Non ero spaventata. Mi solleticavano le dita. Solo dopo mi rendevo conto che tra quei capelli c’erano anche i miei, e non erano neri, ma bianchi, più bianchi di quelli del nonno. Mi sporgevo di nuovo e il mio riflesso era scomparso. Lasciavo impronte vuote sull’acqua.
Mi svegliavo in lacrime, con la pelle umida e le mani gelate.

Sto per chiudere gli occhi quando Matilde ha un piccolo sussulto e poi, lentamente, si volta verso di me.
«Come si chiamava la bambola?» chiede
.La guancia schiacciata le deforma l’espressione assorta.
«Delfina» le dico.
Lei ride.
«Come l’animale?»
«Come l’animale.»
Ci pensa un po’ su.
«E dov’è adesso?»
«è andata via perché nessuno voleva giocare con lei.»
«E perché le avete tagliato i capelli?»
Sto per risponderle qualcosa, ma suona il campanello.
Lei scatta in piedi e corre al citofono, come fa ogni volta che è qui.
«Chi è?» la sento chiedere con la sua vocetta squillante.
Resto a guardare il soffitto.
Dopo qualche secondo ricompare in salotto stropicciandosi le mani.
«Credevo che era il mio papà, ma invece era Delfina» dice, evitando il mio sguardo.
Mi alzo a sedere.
«Come?»
Si tira giù le maniche della felpa fino a coprirsi le dita.
«Ha detto che rivuole i suoi capelli.»
Sento bussare alla porta. Dalla cadenza dei colpi riconosco mio fratello.
Guardo Matilde, lei guarda me, con gli occhi di chi si aspetta qualcosa.
Mi chino verso di lei.
«Andiamo ad aprirle?» le sussurro all’orecchio.
Lei si illumina in un sorriso di vittoria.
«Sì» dice convinta.
Ci incamminiamo verso la porta tenendoci per mano. Non ricordo se sono stata io a prendere la sua o lei a prendere la mia, ma per un attimo mi sembra di provare una sensazione che non mi è nuova, e la mano di mio fratello è piccola e sudata nella mia e la voce di nonno Ezio non è falsata da quindici anni di silenzio, ma la sento chiara e nitida quando, prima di spingere piano la porta della cantina e addentrarsi nel buio, si volta verso di noi e ci chiede, con gli occhi che brillano quanto i nostri: «Siv sicur?».

*Laura Fusconi è nata a Piacenza nel 1990. Dopo il liceo classico e una laurea in Graphic Design&Art Direction alla Naba, si è diplomata nel 2015 al college di scrittura della Scuola Holden. I suoi racconti sono usciti su «retabloid», «effe», «verde rivista», «achab». Il 30 agosto 2018 uscirà per Fazi Volo di paglia, il suo primo romanzo.

RACCONTI ITALIANI #2 Intervista a Elvis Malaj, un cantastorie che diventa scrittore

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

*L’immagine di copertina è un’illustrazione di Alessandro Ripane

di Emanuela D’Alessio

Elvis Malaj, albanese di nascita, vive in Italia (attualmente a Padova) da quando aveva quindici anni. La sua “voce” è come l’acciottolìo di pietre che scivolano giù da un pendio, è una voce che non prende mai fiato, che rimbalza da una parola all’altra. E nonostante l’intercalare da “carrettiere” (chissà se lo fa apposta per scandalizzare o gli viene naturale), noi non smettiamo di ascoltare.
Elvis Malaj ha ventisette anni, ha imparato l’italiano guardando la tv, è diventato lettore leggendo in italiano, ma il suo è un italiano «sporco, spurio, meticcio», perché pur avendo tradito la lingua di origine «un immigrato in fin dei conti è uno che pensa a sé stesso», non è riuscito ad assorbire fino in fondo quella nuova.
A Bajze, dove è nato, non esiste nemmeno una libreria, non ha mai letto un libro o parlato di libri con gli amici, perché era «roba da froci».
Non sente di avere qualcosa di importante da dire, ma semplicemente di avere delle storie. «Sono un cantastorie, scrittore mi hanno fatto diventare quelli di Oblique». Quelli di Oblique sono Leonardo Luccone ed Elvira Grassi che a loro volta hanno convinto gli editori di Racconti Edizioni a pubblicare la raccolta di racconti Dal tuo terrazzo si vede casa mia.
«Penso che i ragazzi di Racconti siano dei pazzi. Poi, tenendo conto che neanche io sono uno tanto a posto, c’è il rischio che venga fuori qualcosa di buono».
Qualcosa di buono è già venuto fuori, visto che Elvis Malaj è il primo autore italiano della casa editrice romana specializzata in short stories, fino a oggi rigorosamente internazionali. Ha ultimato il suo primo romanzo Il mare è rotondo, in cerca di editore.

Elvis Malaj

Sei nato in Albania e vivi a Padova, dopo essere passato da Alessandria e Belluno. Nel racconto Il lupo della steppa (nel tuo libro Dal tuo terrazzo si vede casa mia) alla domanda «come ti trovi in Italia?» il protagonista Çoban risponde: «Trovarsi bene o meno in un posto non dipende dal posto, dipende da te. Ovunque vai ti porti sempre dietro qualcosa che alla fine rende ogni posto uguale a un altro. Potrei anche rispondere alla sua domanda, ma non significherebbe niente. Tradirei semplicemente la mia capacità di trovarmi bene o male in Italia». Che cosa ti sei portato dietro fin qui, in Italia?
Ce l’hai presente quell’idea romantica del ricominciare? Andare alla stazione, salire su treno e partire, andare lontano, non importa dove, in una nuova città, una nuova vita, lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare. Magari addirittura in un altro paese, imparare una lingua nuova, costruirti una vita tutta da capo, come piace a te, senza ripetere gli errori fatti. Abbandonare una vita logora e stantia in direzione di qualcosa di nuovo, ributtarsi nella mischia e cercare di cogliere l’occasione, avere il coraggio di salire su quel cazzo di treno perché la vita è solo tua e puoi farne quello che vuoi (la senti, la senti l’eccitazione?). Ecco, per me questa cosa non ha mai funzionato. Non solo quando ho cambiato città, ma anche quando ho cambiato paese. Tutte le volte che ho ricominciato non ho mai veramente ricominciato. La mia vita è un copione che continua a ripetersi, magari i luoghi e le persone sono diversi ma il copione rimane sempre lo stesso. Cambiando paese non ho cambiato un bel niente. Secondo me la risposta di Çoban significa questo. E allora come si fa a ricominciare? Ricominciando da sé stessi. Ma come? Non lo so, non me l’hanno ancora insegnato. Che cosa mi sono portato dietro fin qui? Non so rispondere.

Ti sei convinto e hai convinto di essere uno scrittore e nel frattempo hai accumulato le occupazioni più disparate. Dici che stai cercando di smettere, di lavorare?
Quello che sto cercando di smettere non è di lavorare, ma di continuare a fare lavori di merda. Tutti i lavori che ho fatto finora, a parte scrivere, sono tali. Quindi, cercare di farla finita con lavori che non mi soddisfano non è mica un’idea malvagia. Solo che sappiamo bene che per arrivare al punto in cui uno scrittore possa vivere di sola scrittura ce ne vuole. Porca puttana, ho sbagliato mestiere.

«Scrivere è il modo più accessibile di raccontare storie» hai spiegato in occasione della presentazione a Roma del tuo libro. Quindi raccontare storie, per te, è una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
È la soddisfazione di un bisogno naturale, fisiologico, come scopare o mangiare. Non sento di avere qualcosa di importante da dire. Ho semplicemente delle storie, sono appassionato di storie. Le vedo, sono tutt’intorno a me. Magari io e te ascoltiamo e vediamo la stessa cosa, però io sono capace di vederci una storia, per quanto inutile e banale possa essere l’oggetto della nostra osservazione. E mi piace raccontarla. Sono un cantastorie. Adesso sarò un po’ melenso, ma il sorriso che riesco a strappare alle persone quando leggo un mio racconto mi fa veramente godere.

Come sei riuscito a convincere «quelli di Oblique» che sei uno scrittore?
Con il racconto Mrika, che è stato scelto in una delle serate di 8×8 di qualche anno fa. La verità è che non li ho convinti. Sono stati loro che sono riusciti a scorgere in me uno scrittore. Ma ancora non lo ero, loro mi hanno fatto diventare scrittore.

Hai pubblicato Dal tuo terrazzo si vede casa mia con Racconti edizioni, la giovanissima e agguerrita casa editrice romana che ha iniziato con te a pubblicare anche autori italiani, rigorosamente di racconti. Un esordio importante, sia per te, sia per loro. Che cosa ne pensi?
Esordire con un esordiente, in un mercato come il nostro, con una raccolta di racconti, prendendo un albanese e spacciandolo per italiano. Penso che i ragazzi di Racconti siano dei pazzi, e mi fa veramente piacere che lo siano. Poi, tenendo conto che neanche io sono uno tanto a posto, c’è il rischio che venga fuori qualcosa di buono.

Quando sei arrivato in Italia avevi quindici anni e già conoscevi l’italiano abbastanza bene. La tua scrittura nasce direttamente in italiano? E, se è così, che cosa vuol dire esprimersi in una lingua diversa dalla propria?
La mia scrittura nasce in italiano perché sono diventato un lettore leggendo in italiano. Cosa vuol dire? Niente, fai diventare la nuova lingua la tua lingua. Sa di tradimento? Sì, un po’ lo è. Un immigrato, in fin dei conti, è uno che pensa a sé stesso. Ma a parte questo, non assorbi mai la nuova lingua fino in fondo, e non riesci a separarla del tutto dalla lingua madre. Quindi il tuo non è italiano, è il tuo italiano. Un italiano sporco, spurio, meticcio.

Sei tornato in Albania solo tre volte in circa dieci anni dalla tua partenza, eppure le tue storie raccontano quasi sempre del tuo paese, attraverso i personaggi, i luoghi della tua infanzia. Di che cosa si tratta? Nostalgia, elaborazione di un distacco, riconciliazione con le proprie origini?
Non si tratta di nessuna di queste cose. Come scrittore, penso di avere un buon rapporto con l’Albania, c’è un ottimo equilibrio tra dare e avere. E forse sono lo scrittore albanese più albanese che ci sia in circolazione. Come persona, invece, come figlio di quella terra, è un altro paio di maniche, in questo caso la storia è un po’ più complicata. Il rapporto padre-figlio non è mai stato semplice. Comunque sia, che ti piacciano o meno, i tuoi genitori rimangono sempre i tuoi genitori.

La mia conoscenza della letteratura albanese si limita a Ismail Kadare, ormai 81enne, uno dei pochi tradotti in Italia. Puoi citarne altri, provando a spiegarci il perché della scarsa diffusione oltreconfine delle loro opere?
Ti dico la verità, pure la mia conoscenza della letteratura albanese è limitata. Ma un paio di nomi te li faccio: Gazmend Kapllani, che ha scritto un romanzo sull’immigrazione, Breve diario di frontiera (i romanzi sull’immigrazione di solito non mi piacciono ma il suo mi è piaciuto), e Ornela Vorpsi, perché sa scrivere. Sul motivo della scarsa diffusione non ti so dire, bisognerebbe fare un’analisi come si deve. Ti posso dire però che gli scrittori albanesi in Francia vanno di più.

Scrittori e libri non possono fare a meno delle librerie, l’anello più debole della filiera editoriale. Lo è in Italia senza dubbio, ma qual è la situazione delle librerie in Albania?
In Albania non ne parliamo. Manca proprio la cultura e la coltura del libro e delle librerie tra i giovani. Non leggono. Quando ero in Albania neanche io leggevo, non ho mai parlato con un amico di libri, e a Bajze non c’era nemmeno una libreria. I libri venivano visti come roba da froci. Con i miei amici parlavo di cose importanti, parlavamo di fica, anche se poi nessuno di noi scopava. Mi auguro che in questi anni qualcosa sia cambiato.

Qual è la tua libreria ideale?
La mia libreria ideale è una libreria piena di persone.

Prima di scrivere si deve (o dovrebbe) leggere. Qual è stato ed è il tuo percorso di lettore?
Il mio periodo più intenso di lettore è stato quello iniziale, quando è scattata la fiamma, e ho letto autori di fine Ottocento-inizio Novecento, tipo Kafka, Svevo, Čechov, Schnitzler, Pirandello, Tozzi, Hesse eccetera. Invece quello attuale è un po’ a caso, leggo di tutto senza un nesso logico.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Paolo Nori, Bassotuba non c’è.

Leggi L’autobiografia del personaggio che poi sarei io

RACCONTI ITALIANI #2 – L’autobiografia del personaggio che poi sarei io

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

L’autobiografia del personaggio che poi sarei io di Elvis Malaj è uscito su Il Libraio (19 ottobre 2017). Ringraziamo Leonardo G. Luccone per la gentile concessione.

di Elvis Malaj*

Sono nato nel marzo del Novanta, un anno di grandi cambiamenti per l’Albania. Alle famiglie delle zone rurali vennero concessi una mucca e qualche pecora, il che significava che non avrei patito la fame toccata a mio fratello più grande. Mentre trascorrevo un’infanzia spensierata scarrozzando per la campagna in uno stato brado, l’Albania attraversava una fase confusa dove non era chiaro il confine tra legale e illegale. Bajze, dove sono nato, si trova in una posizione strategica, e così in poco tempo è diventata una cittadina fiorente grazie al contrabbando con il Montenegro. Gli albanesi stavano assaporando la democrazia, ma poi si è rivelata non essere la democrazia che credevano e sono rimasti delusi.

Bajze, stazione

Quando siamo arrivati in Italia avevo quindici anni. La lingua la sapevo abbastanza e degli italiani sapevo che erano molto amichevoli. Tutto questo grazie alla tv. Già il primo giorno, mentre eravamo in treno verso Alessandria, un signore siciliano seduto di fianco si è mostrato molto gentile quando gli ho detto che ero albanese. Mi ha messo una mano sul ginocchio e poi l’ha fatta scivolare verso l’interno della coscia. Io l’ho lasciato fare, non sapevo ancora dell’esistenza dei gay. Un’altra cosa che sapevo degli italiani, cioè che sapevamo tutti, è che erano ricchi e che buttavano la roba ancora buona. Lì nel condominio mi vedevano spesso insieme a mio fratello fare su e giù per le scale con divani scassati e tv rotte.

Mia madre l’italiano non lo sapeva per niente. Le prime parole che ha imparato sono state «katro figli scola, no lavore». Era riuscita a scovare tutte le sedi della Caritas e associazioni simili di Alessandria. Una volta ho dovuto accompagnarla per fare da traduttore. Mentre mia madre mi dettava le parole da dire alla tipa, io mi guardavo intorno attonito; c’erano barboni, gente malmessa sul serio, una donna che parlava da sola, un uomo che fissava il vuoto in uno stato catatonico mentre un altro sembrava in crisi d’astinenza.
«Ushqim» mi diceva mia madre, ma ero talmente imbarazzato che non sapevo più l’italiano. Alla fine è riuscita a farsi capire da sola e la tipa ha detto che non distribuivano cibo da portare via, ma potevamo mangiare lì se volevamo.
Mia madre stava per chiederci: «Ragazzi, volete sedervi e mangiare?», ma si è girata verso i barboni e ha capito che non era il caso. Non sono mai stato così incazzato con mia madre come in quel momento.

In quel periodo stavo attraversando una fase critica, cominciata l’ultimo anno che ho passato in Albania, e con il trasferimento in Italia si è acuita. Mi sono isolato ancora di più, e ho preso a parlare sempre meno. La cosa è diventata preoccupante quando, ormai già al secondo semestre inoltrato, m’è scappato un commento nei confronti dell’insegnante d’inglese e lei c’è rimasta secca: «Ma allora tu parli?!». Ci ero rimasto male.

Io comunque facevo di tutto per sembrare un ragazzo normale, e ci tenevo ad esserlo. L’estate seguente l’ho passata chiuso in casa, le mie nevrosi, le mie fobie, i miei complessi, le mie paranoie eccetera hanno avuto un’impennata. La cosa mi ha procurato un bel po’ di seccature con i miei. Non sapevo come spiegargli quell’isolamento, né la mia paura del mondo. Poi è ricominciata la scuola e ho dovuto riprendere a uscire.

Il primo ritorno in Albania è stato tre anni dopo averla lasciata. Ero diventato quello che ritorna, e in Albania le persone che ritornano assurgono a una categoria speciale che gode di grande stima. Quello che ritorna tornava a raccontare la sua vita bellissima nel paese in cui era emigrato e infondeva agli altri la speranza di toccare con mano un giorno quelle meraviglie. La parte più importante di quei racconti, ovviamente, riguardava il sesso. Sono riuscito a eludere la questione per un po’ finché, davanti alla stazione, davanti ai binari, Nard Shala mi ha chiesto senza mezzi termini: «A ke qi gja?». A quel punto tutti si sono zittiti per ascoltare. Mi ha preso un leggero panico ma poi, dissimulando il peso della verginità, ho fatto il mio dovere: ho raccontato di quante me ne ero scopate, come me l’ero scopate, dove le avevo scopate, quante in una volta; ho raccontato di come le ragazze italiane facevano bene i pompini, e gli ho detto che andavano pazze per il cazzo albanese.
Serio in faccia, Nard Shala si è avvicinato ed è rimasto a guardarmi fisso. Io ero lì pronto a confessare, a chiedere perdono, solo che lui continuava a non dire niente. A un certo punto mi ha dato una bella pacca sulla spalla, orgoglioso di me. Dopo quella volta in Albania ci sono ritornato solo in un paio di occasioni, e solo perché la mia presenza era obbligatoria.

Nel frattempo ci eravamo trasferiti a Belluno, rinnovando la mia condizione di nuovo, estraneo, diverso. Nel 2009 mi sono diplomato come perito meccanico e mi sono iscritto alla facoltà di fisica a Milano; dopo due mesi mi sono trasferito a filosofia, e dopo altri due mesi ho lasciato definitivamente gli studi. Ho girovagato per i centri sociali insieme a un mio amico d’infanzia che avevo ritrovato a Milano, facendo grandiosi progetti mentre eravamo strafatti e continuando a sperperare i soldi dei miei, che non sapevano che avevo mollato gli studi.

Un giorno mi sono svegliato alle tre del mattino su una panchina di un parco mai visto prima, e così ho deciso di ritornare a Belluno. Il mio rientro è coinciso con un momento di difficoltà economiche dei miei, e il mio ritorno è stato interpretato come un gesto per non gravare sulla famiglia, con conseguenti sensi di colpa dei miei. Quando mi chiedevano se il motivo era proprio quello io rispondevo di no, ma ciò non faceva altro che aumentare la nobiltà del mio gesto. E così ho cominciato a lavorare, collezionando le più disparate occupazioni: muratore, addetto alle pulizie industriali, operaio manutentore, lavapiatti, magazziniere, lavacessi, archivista, guardia notturna eccetera. Ma sto cercando di smettere. Nel frattempo mi sono trasferito a Padova e sono riuscito a convincere quelli di Oblique Studio che sono uno scrittore, e loro mi hanno aiutato a convincere quelli di Racconti Edizioni che ho scritto un libro.

*Elvis Malaj è nato a Malësi e Madhe (Albania) nel 1990. A quindici anni si è trasferito ad Alessandria con la famiglia. Oggi vive e lavora a Padova. Ha partecipato al concorso 8X8 nel 2013 con il racconto Mrika; il racconto L’incidente è stato selezionato per la Rassegna stampa di Oblique (giugno 2015); il racconto Il televisore è stato pubblicato sul numero #4 di effePeriodico di altre narratività. Ha appena terminato il suo primo romanzo Il mare è rotondo, come si legge sul sito di Oblique Studio che lo rappresenta. Nel frattempo è uscita la raccolta di racconti Dal tuo terrazzo si vede casa mia per Racconti edizioni.

Leggi l’intervista all’autore

Le parole chiave di effe – Intervista a Carlotta Colarieti

di Emanuela D’Alessio

Con Carlotta Colarieti, editor e curatrice di effe – Periodico di Altre Narratività, abbiamo fatto il punto su un progetto editoriale che in cinque anni si è inserito a pieno titolo nel mondo delle riviste letterarie. Le parole chiave sono: la ricerca di voci inedite da affiancare  a voci già note, l’abbinamento tra racconto e illustrazione, la pubblicazione cartacea senza ristampe, la distribuzione diretta, il rapporto personale con i librai.
effe è un progetto auto-sussistente che riesce a finanziare ogni nuova uscita con le vendite del numero precedente.

Tra gli autori comparsi nei sette numeri di effe ci sono: Paolo Cognetti, Luca Ricci, Enrico Macioci, Athos Zontini, Riccardo Gazzaniga, Paolo Zardi, Vins Gallico, Demetrio Paolin.
Tra quelli che invece hanno scritto su effe da esordienti e poi sono arrivati alla pubblicazione ci sono: Luciano Funetta, Elisa Casseri, Gianni Agostinelli, Elvis Malaj e Alessandra Minervini.

Il numero #effe8 è in preparazione. Il tema scelto è Disobbedienza.

Illustrazione di Alessandra De Cristofaro

Nel viaggio tra le riviste letterarie indipendenti, compiuto da Il Libraio nei mesi scorsi, una tappa è dedicata anche a effe, il semestrale di narrativa inedita illustrata di cui sei editor e curatrice. Proviamo a definire rivista letteraria? E qual è lo stato di salute di cui godono attualmente le riviste letterarie in generale?
Il compito di una rivista letteraria dovrebbe essere quello di sondare gli umori della scena narrativa contemporanea garantendo contenuti inediti – racconti di autori emergenti affiancati da nomi noti, nel caso specifico di effe – a cui i lettori, e talvolta anche gli addetti ai lavori, non sono ancora giunti.
A rendere unico il ruolo delle riviste letterarie che danno spazio agli esordienti è proprio la loro funzione di primo filtro e di raccordo tra le diverse figure che ruotano intorno alle storie: l’autore inedito, che ha la possibilità di confrontarsi con una redazione, con tutto ciò che questo comporta (sofferenza compresa); il lettore, che si ritrova tra le mani materiale narrativo impossibile da reperire altrove, perché in gran parte costituito da firme ancora non pubblicate; l’addetto ai lavori, che può interessarsi a una rosa di voci nuove e sempre diverse con la garanzia di una prima e durissima selezione.
Attualmente le riviste letterarie in Italia sembrano andare alla grande, godendo anche di una certa crescente considerazione tra gli editori. Il prezzo di questa condizione è il fatto che le riviste letterarie che hanno reali legami con il mondo editoriale sono relativamente poche, e che in passato, tra gli altri, anche progetti molto validi hanno ceduto al peso della fatica e dei costi, non sempre sostenibili.

effe, costola della storica rivista online Flanerí, è rigorosamente su carta. Perché questa scelta apparentemente in controtendenza?
Ora come ora gli aspiranti autori – e non solo loro – hanno la possibilità di accedere facilmente a un pubblico di lettori senza dover passare per la mediazione di qualcuno. Ovviamente si tratta di una condizione vantaggiosa solo in apparenza: quando tutti hanno visibilità, nessuno ce l’ha veramente.
La percezione della mancanza di un filtro che stabilisca la qualità di ciò che viene pubblicato online fa sì che anche quelle realtà che si occupano di scouting e di narrativa con uno sguardo professionale fatichino a conquistare l’attenzione dei lettori, persino di quelli più attenti, che ogni giorno si trovano di fronte a infinite possibilità di lettura, ma con lo stesso identico tempo da dedicargli.
Per noi la scelta della carta va di pari passo con i suoi limiti: pubblicare su carta significa affrontare un investimento in termini economici, dover programmare tutto con molto anticipo e occuparsi della distribuzione in libreria, tutte cose che impegnano tempo e persone a vari livelli. Ed è per questo che pubblicare autori esordienti su carta equivale a legittimarli: scommettere a ogni uscita su un numero ridotto di voci che nessuno conosce ma che devono rispondere a un livello qualitativo alto, in grado di reggere il confronto con gli autori noti che pubblicano su effe i loro racconti inediti.

A cinque anni dalla prima uscita, con sette numeri all’attivo e un altro in preparazione, possiamo trarre un bilancio e fornire qualche numero. Ad esempio, quanti racconti sono stati pubblicati, quante copie della rivista sono state vendute, quanti librai hanno recepito la rivista mettendola in vendita nella loro libreria, quanto costa tutta l’operazione?
Su effe sono passati 62 racconti e altrettanti autori, molti di più – circa un centinaio – gli autori provenienti dallo scouting della redazione che poi hanno pubblicato i loro racconti nella sezione di narrativa inedita di Flanerí. Abbiamo quasi terminato le copie degli scorsi numeri, molte sono state vendute tramite lo shop online di 42Linee, lo studio editoriale che si occupa della redazione del volume e per il quale molti di noi lavorano, moltissime altre tramite le circa quaranta librerie indipendenti nelle quali siamo distribuiti. Fare un preventivo sarebbe impossibile: i costi variano a seconda della foliazione di ogni singolo numero. Dopo cinque anni
però, possiamo affermare che effe è un progetto auto-sussistente che riesce a finanziare ogni nuova uscita con le vendite del numero precedente.

Illustrazione di Daniela Tieni, effe #3

Le caratteristiche più evidenti di questo originale progetto editoriale sono l’abbinamento racconto-illustrazione (che fa venire in mente la rivista WATT, ideata da Leonardo Luccone e Maurizio Ceccato), l’individuazione di un tema per ogni numero, l’accostamento tra esordienti sconosciuti e scrittori già affermati. Se ce ne sono altre ti prego di aggiungerle, provando anche a spiegarne il perché.
Un altro aspetto al quale teniamo moltissimo è il rapporto con i librai, ogni uscita è a tiratura limitata, non sono previste ristampe e le copie, dal quarto numero in poi, sono tutte numerate. Inutile dire che il nostro lavoro non servirebbe a nulla se non avessimo librerie di qualità alle quali appoggiarci. Ci avvaliamo di una distribuzione diretta, il che significa che siamo noi stessi a gestire i rapporti con i librai e le libraie. Non è solo una questione di praticità: parlare con chi ha un contatto diretto con i lettori, ascoltare quello che hanno da dire, scegliersi a vicenda, muoversi con gli autori in giro per l’Italia, sono iniziative fondamentali per l’identità del progetto, la cui indipendenza passa anche da queste scelte.

Soffermiamoci sugli aspetti organizzativi e operativi. Quante persone sono coinvolte nel progetto e quali sono i ruoli identificati.
Oltre a me, la redazione è composta da Dario De Cristofaro, direttore editoriale e editor, Francesco Scarcella, editor, Alessandra De Cristofaro, art editor, Giulia Zavagna, redattrice e traduttrice per effe #7 e la nostra new entry Silvia Bellucci, ufficio stampa.

Quali sono i criteri di selezione dei racconti che decidete di pubblicare?
Di un autore ci interessa prima di tutto la cifra, non deve rispondere a caratteristiche prestabilite ma deve possedere un tono deciso e personale. Ovviamente in una rivista che si occupa di short stories anche la costruzione del racconto è fondamentale ma tutti gli autori sono seguiti da un editor prima della pubblicazione e tutti i racconti vengono editati. In generale posso dire che discutiamo molto prima di arrivare alla formazione definitiva di ogni singolo numero.

Illustrazione di Irene Rinaldi del racconto di Gianni Agostinelli, effe #2

La rivista pubblica racconti italiani ma anche di scrittori esteri. Come funziona lo scouting a livello internazionale?
effe si occupa narrativa italiana e così continuerà a fare in futuro. In occasione dello scorso numero, effe #7, abbiamo deciso di sperimentare guardando all’estero, per farlo ci siamo rivolti a otto traduttori, grazie all’aiuto di Giulia Zavagna – editor e traduttrice per Edizioni Sur e membro della redazione – li abbiamo interrogati riguardo alla loro personale visione di ciò che manca, eppure meriterebbe di essere letto anche qui. Il risultato sono otto racconti di autori assolutamente inediti in Italia da Brasile, Francia, Islanda, Repubblica Ceca, Stati Uniti, Sudafrica, Turchia e Uruguay. Tutti illustrati da artisti dei rispettivi paesi.

La considerazione che la forma racconto in Italia goda di pessima salute sembra esser sempre più contraddetta dai fatti. Registriamo un vivace fermento di progetti editoriali incentrati esclusivamente sul racconto. Penso al caso più eclatante della casa editrice Racconti edizioni che, tra l’altro, ha appena pubblicato il suo primo autore italiano Elvis Malaj (un suo racconto è uscito proprio su effe). Che cosa ne pensi e che cosa puoi dirci di Elvis Malaj?
I ragazzi di Racconti edizioni hanno capito che la forma racconto può incontrare il favore del pubblico, soprattutto se svincolata dall’eterna competizione con il romanzo, e noi non possiamo che essere d’accordo con loro. Siamo orgogliosi ogni volta che un autore arriva alla pubblicazione dopo essere stato letto per la prima volta su effe, è capitato in passato e speriamo che continui a capitare in futuro.

Che cosa c’è da leggere sui comodini di effe in questo momento, cominciando dal tuo e da quelli degli altri redattori che vorranno rispondere?
Sul mio comodino c’è Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura (minimumfax), su quello di Dario De Cristofaro c’è Walter Siti con Bruciare Tutto (Rizzoli). Giulia Zavagna sta leggendo Lincoln nel Bardo di George Saunders (Feltrinelli), Francesco Scarcella L’ombra dell’ombra di Paco Ignacio Taibo II (la Nuova frontiera) e Silvia Bellucci Mio padre la rivoluzione di Davide Orecchio (minimum fax). Sul comodino di Alessandra De Cristofaro c’è Il mestiere di scrivere di Raymond Carver (Einaudi).

Carlotta Colarieti è nata a Roma, dove vive e lavora. È redattrice editoriale e editor dello studio editoriale 42Linee e curatrice dell’antologia periodica effe – Periodico di Altre Narratività.

 

RACCONTI ITALIANI #1 – Intervista a Ade Zeno

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo
Racconti italiani è il titolo del libro di John Cheever, pubblicato da Fandango nel 2009 (traduzione di Leonardo G. Luccone), che raccoglie i racconti scritti in Italia dal celebre scrittore americano.  La nuova rubrica ospita racconti italiani e le interviste agli autori. Scegliamo testi già pubblicati e che ci sono piaciuti.

di Emanuela D’Alessio

L’autore del racconto La città dei bambini fantasma si chiama Ade Zeno. Torino è la sua città, «ci sono nato, ci vivo, quasi certamente sarà qui che morirò». Scrive forse per egoismo, noia, «al limite per disperazione», ma il suo lavoro è cerimoniere al Tempio Crematorio di Torino, «un lavoro molto delicato» che ti costringe ad assorbire il dolore altrui.
Ha fondato la rivista letteraria Atti Impuri e con il collettivo Sparajurij ha fatto «cose pazzesche per quindici anni».
Ha sempre amato Il piccolo principe di Antoine Saint-Exupéry (da cui trae ispirazione La città dei bambini fantasma). Tra i fondamentali ci sono Kafka e Borges, di quest’ultimo deve leggere almeno una frase ogni giorno. Però il suo prediletto è Roberto Bolaño e il libro più grande, assicura, lo ha scritto Miguel de Cervantes.

Ade Zeno

Sei nato a Torino, hai pubblicato due romanzi e numerosi racconti, hai fondato la rivista letteraria Atti impuri, lavori come cerimoniere al Tempio Crematorio di Torino. Cominciamo da qui, da questo lavoro inusuale, ma anche un lavoro come un altro. Come si diventa cerimoniere di un cimitero? Per concorso, per chiamata diretta, per caso o per rincorrere un desiderio?
È andata più o meno così: dopo anni di lavoro all’Università come borsista e assegnista di ricerca, un bel giorno sono finiti i fondi e tanti saluti a una carriera accademica peraltro mai desiderata. A due passi dal baratro salta fuori questo caro amico, da tempo impiegato alla Società per la Cremazione di Torino, che deve trasferirsi all’estero per motivi personali e ha bisogno di trovare un sostituto. Il mio curriculum è piuttosto in linea con il profilo richiesto perché durante l’iter universitario, fra le mille altre cose, mi sono occupato di tanatologia. Il colloquio con il direttore del tempio va bene (fra l’altro scopro che è un lettore accanito, quindi passiamo il tempo a parlare di libri), inizio il percorso di formazione e vengo assunto. Insomma, così su due piedi risponderei che si diventa cerimonieri per chiamata diretta.

Quali sono le mansioni di un “cerimoniere” e qual è il rapporto, nel caso ci fosse, con la tua scrittura?
Per rispondere in modo esaustivo dovrei impiegare almeno un paio d’ore. Molto schematicamente: un cerimoniere deve occuparsi di organizzare e presiedere quotidianamente una certa quantità di funerali laici. Al Tempio Crematorio di Torino succede in media fra le dieci e le venti volte al giorno. I luttuanti arrivano lì, nella Sala del Commiato, per accompagnare il defunto prima della cremazione, e chiedono di poter tributare l’ultimo saluto. Ci si raccoglie intorno al feretro e si ha la libertà di scegliere come commemorarlo. Alcuni scelgono il silenzio, altri la musica, altri ancora letture (poesie, salmi, lettere e così via). Il mio compito è quello di fare in modo che questo momento assuma un senso e soprattutto una forma, nella maggior parte dei casi scegliendo io stesso i testi più adeguati alla situazione. È un lavoro molto delicato che ti costringe a un confronto costante con l’altrui dolore. Un dolore che assorbi e amministri anche se non è il tuo. Un paio di giorni dopo il funerale presiedo la funzione di consegna dell’urna cineraria, altro momento delicatissimo in cui i parenti del morto devono confrontarsi con la trasformazione del corpo: un trauma terribile. Raccontato così sembra complesso. In realtà lo è molto di più. Per rispondere alla seconda domanda, non so dire quale rapporto ci sia tra il mio mestiere e la scrittura. Sicuramente l’ambiente in cui lavoro somiglia molto a uno scrigno pieno di storie. Basta fare una passeggiata fra loculi e cellari per rendersi conto dell’enorme quantità di narrazioni che si nascondono dietro quelle migliaia di lapidi. Ogni foto, ogni iscrizione racconta qualcosa. Nell’ultimo anno ho lavorato su un romanzo ambientato proprio lì. Non so cosa ne farò, qualcuno lo sta leggendo, magari uscirà, magari no.

La tua scrittura è una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
Si scrive per egoismo, per noia. Al limite per disperazione. Ma soprattutto perché a fare i bombaroli si dà molto più nell’occhio.

Soffermiamoci sul tuo racconto La città dei bambini fantasma, una storia colma di metafore, una fiaba dalle tinte fosche, un’ambientazione dai confini remoti e indistinti. Ci vogliono tredici settimane per raggiungere la Città nera seguendo le istruzioni di un mercante di Tunisi, di contrabbandieri algerini, di una tenutaria di Aleppo, di un predone berbero. Un luogo dove si perde l’anima e si assumono «le sembianze di fanciulli gracili e biondi», dove si rabbrividisce. Il risultato è stupefacente, per un racconto da diecimila battute. Ci aiuti a decrittare un testo così essenziale e denso al tempo stesso?
L’idea di fondo è partita dalla storia di Saint-Exupéry, o meglio dalla fine della sua storia, quell’ultimo volo da cui non è mai più tornato.  Ho sempre amato Il piccolo principe: un libro lunare, terribile, profondamente inquieto, che parla di solitudine e termina con un suicidio. Quel bambino biondo apparso dal nulla continua a turbarmi, certe pagine mi commuovono ancora oggi, a distanza di oltre trent’anni dalla prima lettura. Diciamo che con la storia dei bambini fantasma ho provato a giocare con quest’atmosfera sospesa infilandoci dentro alcune fra le mie tante ossessioni. La perdita della memoria, per esempio, o il desiderio di oblio, giusto per spolverare le più evidenti. Non ho impiegato molto a tirar giù la prima stesura. Con Leonardo Luccone ho poi lavorato di fino eliminando i fronzoli linguistici, i miei tanti, insopportabili, tic letterarieggianti. Lui mi dice taglia qui, taglia lì, togli tutta questa inutile merda. È un editor severissimo, non gli sfugge mezza virgola. Se la versione definitiva del racconto mi piace abbastanza, è solo merito suo.

Hai all’attivo due romanzi e numerosi racconti. Hai pubblicato con due piccoli editori e dopo svariati rifiuti. Che cosa dovrebbe cambiare, se c’è qualcosa da cambiare, nel viaggio di un manoscritto verso la libreria passando per un editore? E mi riferisco volutamente soltanto alla categoria “libro cartaceo”.
Devo essere onesto, non so proprio rispondere a questa domanda. Io scrivo, leggo, ogni tanto mi imbatto nelle infinite discussioni sui destini del libro e sulle difficoltà dell’editoria, ma lo faccio da turista, vale a dire in modo vergognosamente superficiale. In rete spopolano analisti molto più bravi di me a individuare criticità e possibili soluzioni. È vero, i miei manoscritti hanno collezionato – e quasi certamente continueranno a collezionare – quantità esorbitanti di rifiuti. All’inizio ci restavo male, ora mi limito a sorridere con malinconia. Però gli editori fanno il loro mestiere, io mi occupo di altro. Certo, a libro uscito ti piacerebbe che lo leggessero in tanti, e non è assolutamente il mio caso. Ho il sospetto di aver venduto pochissimo. Ma No Reply e Il Maestrale non avevano uffici di stampa potenti, e poi si sa che nel giro di pochi mesi un libro sparisce dagli scaffali, ammesso che riesca ad arrivarci. La quantità di novità è enorme, emergere dal ginepraio un terno all’otto. Senza contare il fatto che magari hai scritto un libro poco interessante, e allora è soltanto colpa tua.

Hai fondato insieme al collettivo Sparajurij la rivista letteraria Atti impuri, dal 2010 anche in versione cartacea. Qual è il suo stato di salute attualmente e delle riviste letterarie in generale?
Quella di Atti impuri è stata un’esperienza bella, addirittura esaltante. Ai tempi la situazione delle riviste cartacee era un po’ in stallo, c’erano molti blog, molti siti, ma mi sembrava importante tornare a proporre qualcosa di più libresco. Quando ero ragazzetto ne esistevano a bizzeffe, ricordo con particolare affetto Addictions, faceva cose bellissime. La dirigeva Leonardo Pelo, un pazzo entusiasta, che fra l’altro è stato il mio primo editore, praticamente l’unico a credere in quello che scrivevo. Tornando a noi, alla base c’era l’idea di creare un luogo fisico in cui convergessero le voci più impure della narrativa e della poesia contemporanea, esordienti e non. Una sorta di mappatura dello stato di salute della forma racconto e della ricerca linguistica in generale. Abbiamo pubblicato inediti di autori diversissimi fra loro, anche da un punto di vista generazionale, ma tutti di massimo livello. Fra gli stranieri William Cliff, Herberto Helder, Durs Grünbein, John Giorno. Il mio grande orgoglio è stato quello di pubblicare la prima traduzione assoluta di alcune poesie dell’Estridentismo messicano. Mi sembra che negli ultimi anni siano spuntate fuori molte altre riviste degne di nota, anche se tra mille difficoltà. Per quanto riguarda la nostra, però, credo che il suo ciclo sia ormai concluso. Non abbiamo più tempo né energie da dedicare a un progetto tanto ambizioso. Ma è fisiologico, niente di male. Nel nostro piccolo abbiamo fatto un buon lavoro, ne sono convinto.

Qual è o dovrebbe essere il ruolo delle riviste letterarie: palestre di scrittura, trampolini di lancio per esordienti, luoghi culturali alternativi, rifugio per disillusi?
Direi le prime tre. I disillusi possono rifugiarsi un po’ ovunque, non mi preoccuperei troppo per loro.

La forma racconto in Italia non sembra godere di particolare successo.  Eppure nemmeno un anno fa è nata a Roma una casa editrice (Racconti edizioni) che ha puntato tutto sui racconti e sta andando molto bene. I due giovani editori sono un’eccezione inspiegabile o hanno semplicemente smascherato un pregiudizio infondato?
Sono felicissimo del fatto che un progetto del genere sia in circolazione e stia avendo fortuna. Credo si tratti comunque di un successo circoscritto, non molto competitivo rispetto ai cosiddetti grandi numeri. Quindi no, non penso che abbiano smascherato un pregiudizio infondato, almeno non ancora; però stanno lavorando nella giusta direzione, spero con tutto il cuore che riescano ad andare avanti. Da lettore sono particolarmente grato alla forma breve o brevissima. Comprimere mondi nel minor spazio possibile, giocarsi il tutto per tutto in un solo gesto potenzialmente perfetto: è un azzardo che mi affascina anche come scrittore. Pensa a Charms, al Manganelli di Centuria, a Örkény, a Wilcock, oppure a quel libriccino di Thomas Bernhard, perfido e delizioso, EreignisseLa lotteria di Shirley Jackson è un vero gioiello, bisognerebbe impararlo a memoria. Potrei continuare a lungo. Lʼanno scorso ho letto una raccolta incredibile, Il paradiso degli animali, opera prima di David James Poissant. Lo hanno pubblicato i ragazzi di NN, bravissimi anche loro a scovare diamanti.

Torino appare sempre di più fucina letteraria, con l’indiscusso Salone del Libro che ha retto alla sfida milanese, con il Premio Calvino e la scuola Holden da dove escono di tanto in tanto voci interessanti, con scrittori (torinesi di nascita o adozione) che arrivano all’esordio in libreria senza sfigurare. Qua è la tua visione, particolare e globale, della città?
Torino è la mia città, ci sono nato, ci vivo, quasi certamente sarà qui che morirò. Mi piace parlarne male, ma non riesco a immaginare un luogo geografico in cui preferirei risiedere. Forse quando sarò abbastanza vecchio e arreso mi trasferirò in una località di mare molto appartata, possibilmente abitata da indigeni che non parlino la mia lingua. Ma ci penserò più avanti. La mia formazione umana e letteraria si è consolidata qui, i legami più sinceri sono tutti torinesi. Non sono un tipo mondano, né frequento salotti, che in genere mi mettono molto a disagio. Insomma tendo a starmene per i fatti miei. Il Salone del Libro è un evento importante, sono felice che esista, ma ci passo sempre solo di sfuggita, giusto per ritrovare qualche vecchio amico. Nel complesso tutta quella confusione mi agita terribilmente. Stesso discorso per quanto riguarda il Premio Calvino e la Holden: è un bene che esistano, ma a me non cambiano nulla. Però è vero che negli ultimi anni questa città si è configurata sempre più come luogo in fermento: incontri, serate, laboratori, slam, ce n’è per tutti i gusti. Se fossi meno orso me ne starei sempre in giro. Però posso dirti che, per quanto riguarda il mio percorso da scribacchino, l’esperienza più importante è stata collettiva. Parlo dell’incontro con il gruppo Sparajurij: un manipolo di ragazzetti boriosi e disincantati con cui ho condiviso oltre quindici anni di cose pazzesche germinate negli angusti corridoi dell’Università per poi dilagare ovunque. Auguro a chiunque la fortuna di poter sguazzare in un contesto del genere.

Scrittori e libri non possono fare a meno delle librerie, l’anello più debole della filiera editoriale. La Torino libraria è altrettanto vitale come quella letteraria? E qual è la tua libreria ideale?
Direi di sì. Torino è popolata di piccole, spesso meravigliose, librerie indipendenti. Luoghi abitati da esseri eroici e paradossali con cui puoi passare ore a parlare di libri senza annoiarti mai. La mia libreria ideale è esattamente così: un posto tranquillo, illuminato bene, portato avanti da pazzi furiosi e appassionati. Arrivi lì con un titolo da ordinare e ne esci con tre di cui ignoravi l’esistenza.

Prima di scrivere si deve (o dovrebbe) leggere. Quali sono stati e sono i tuoi percorsi di lettore?
Non sono un grafomane, sono piuttosto pigro, quindi scrivere è per me motivo di grande frustrazione. Insomma, preferisco aver scritto. In compenso credo di essere un buon lettore. Credo che un elenco ragionato del mio percorso personale risulterebbe noioso, ma posso mettere sul piatto alcune presenze per me fondamentali.  Kafka, senza dubbio, ogni sua parola è un piccolo miracolo. E poi Borges, di cui devo leggere almeno una frase al giorno. Non importa quale, basta aprire un volume a caso, trovo sempre qualcosa che mi fa stare bene. L’altra sera mi sono imbattuto in quella prosa fantasmagorica, Una oración, che termina così: “Voglio morire del tutto; voglio morire con questo compagno, il mio corpo”. Da sette o otto anni sono molto amico anche di Roberto Bolaño. Il libro più grande, però, lo ha scritto Cervantes. Invidio chiunque si trovi nella felice condizione di non averlo ancora letto e di avere la possibilità di farlo.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Qualche settimana fa mi sono imbattuto in un autore neozelandese che non avevo mai sentito nominare, Maurice Shadbolt. Il libro si intitola Le acque della luna, edito da Feltrinelli nel 1962 e fuori catalogo da tempo. Con una rispolverata alla traduzione andrebbe assolutamente ristampato, sono quasi tutti racconti notevoli. Adesso invece sto leggendo Antoine Volodine, Terminus Radioso, dopo aver amato moltissimo Angeli minori e Scrittori. Anche a lui voglio abbastanza bene. Ma meno che a Bolaño. Ragionando in termini affettivi, Roberto è in assoluto il mio prediletto.

Leggi il racconto La città dei bambini fantasma

RACCONTI ITALIANI #1 – La città dei bambini fantasma

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo
Racconti italiani è il titolo del libro di John Cheever, pubblicato da Fandango nel 2009 (traduzione di Leonardo G. Luccone), che raccoglie i racconti scritti in Italia dal celebre scrittore americano.  La nuova rubrica ospita racconti italiani e le interviste agli autori. Scegliamo testi già pubblicati e che ci sono piaciuti.

La città dei bambini fantasma di Ade Zeno, è comparso su Retabloid (luglio 2017), la rassegna stampa realizzata da Oblique studio.  Ringraziamo Leonardo G. Luccone per la gentile concessione.

di Ade Zeno *

Poi, a una certa ora, nella Città nera fa buio e cielo e terra tornano a fondersi in uno. All’alba, invece, il labirinto cambia aspetto, la luce si riprende tutto e bagna gli angoli, il viottolo, le mura di terra bianca. Allora anche il nome muta forma: poche sillabe sussurrate dagli autisti delle corriere dirette a nord o dalle guardie di frontiera mentre spulciano i passaporti scuotendo la testa. Al viandante testardo verrà esposto con garbo un dettagliato elenco di svantaggi: tragitto troppo lungo, vie tortuose, predoni appostati ovunque. Per non parlare della destinazione in sé: un garbuglio di rovine abitato da malaria e bestie affamate. Niente alberghi, non un ospedale, acqua potabile a singhiozzi, batteri ignoti pronti a farsi beffe di anticorpi impreparati.
Nessuno sarà disposto a indicarvi la strada per la Città nera. A meno che non abbiate con voi parecchio denaro. Oppure un amico pazzo.
Delle due, per quanto mi riguarda, la seconda.

Si chiamava Antoine, e la sua prima vita ebbe termine lì. Aveva soldi, follia, e una voce ostinata che gli ronzava nella testa. Parti, vai, ripeteva di continuo. Vola fino alla città in cui ogni cosa di perde. Non tornare più.
Era un pilota provetto, nessuno conosceva quei cieli meglio di lui.
Già dal giorno dopo, alcuni cronisti avrebbero parlato di incidente, altri di un abbattimento nemico che lo aveva fatto sparire nell’oceano. Il suo corpo, invece, stava affondando altrove, qui: nella città in cui per incanto si torna a essere ciò che siamo stati e ancora saremo. Girandole, spettri. Disorientati bambini fantasma.
Non eravamo amici, io e Antoine. A unirci, semmai, un legame più simile a una corrispondenza formale, uno scambio fra estranei talmente affini da riconoscersi al primo sguardo. Nobile lui, senza radici io, ci eravamo incrociati nel cuore di un’Europa martoriata dalla stessa guerra di cui non avrebbe visto la fine. Era brutto, pingue, elegante. Aveva una moglie e decine di amanti. Poi, di notte, mentre il resto del mondo sognava o moriva in trincea, riempiva i suoi quaderni di mappe e appunti. Fino al giorno in cui si decide a parlarne con qualcuno, prima che tutto svanisse nel nulla.
Non è esatto dire che me ne parlò: la confidenza – chiamiamola così – fu in realtà affidata a tre cartoline postali, scritte a distanza di alcune settimane l’una dall’altra. Mi raggiunsero per miracolo solo due anni dopo la fine della guerra.
Non sarò così irresponsabile da rivelarne il contenuto: altro, dopo di me, potrebbero commettere l’errore di spingersi fino alla Città nera, e questo non deve accadere. Basti riferire che i tre messaggi contenevano, nell’ordine: una confessione; una dichiarazione di intenti; una disperata richiesta d’aiuto. La prima mi disorientò. La seconda mi fece sorridere. La terza, invece, mi impose di preparare i bagagli e partire.

***

Nella Città fantasma l’aria ha il sapore della polvere e al calare del sole niente sembra avere suono e nulla pare vero, neanche il vento caldo che smalta gli occhi, nemmeno le gole dei gatti randagi che spostano le tegole lassù, fra le migliaia di tetti appoggiati su case senza padrone. Le notti sono un lungo intervallo in cui i respiri tremano e si fa largo il silenzio. Percorrere i marciapiedi che costeggiano le strade centrali – un budello di vie strette e fetide – è l’unico modo per non essere visti. Al vostro fianco, nascoste fra le ombre, si sposteranno anche le sagome esitanti dei superstiti, quell’esercito disarmato di bambini allo sbando.

La confessione di Antoine riguardava un delitto (tanto grave quanto non verificabile) di cui si riteneva responsabile a tal punto da meritare una condanna esemplare. Nella seconda cartolina, più articolata della precedente ma meno lucida, riportava notizie di un luogo in cui sarebbe stato possibile espiare peccati ignominiosi, una città governata da poteri segreti in grado di purificare gli uomini. Il terzo messaggio, infine, proveniva da lì, e lo sa solo il diavolo come sia riuscito a spedirlo. A quanto scriveva, era arrivato pochi giorni prima, ma già si trovava a due passi dal baratro. Insieme alla cartolina, nella busta senza affrancatura che mi tremava fra le mai, trovai la mappa con le indicazioni, oltre alla supplica di correre a prenderlo. Avrebbe potuto rivolgersi a un padre, a un fratello, alla più invaghita fra le amanti. Invece aveva scelto me, un intimo sconosciuto con il cuore spento.
Tornato dal fronte avevo trovato il vuoto: padre e madre sepolti sotto i bombardamenti, due fratelli dispersi nelle Ardenne, e una promessa sposa scappata con un ricco mercante russo. Questo Antoine non poteva saperlo, eppure qualcosa doveva averlo convinto che tristezza e oblio fossero scritti da sempre nel mio destino. Solo a te posso chiederlo, intimava un corsivo sbavato. Soltanto tu puoi riuscirci.

Il viaggio durò tredici settimane. Da un mercante di Tunisi venni a sapere che la Città si trovava duecento chilometri più a ovest rispetto alle mie carte. Alcuni contrabbandieri algerini giurarono sui propri figli che la direzione giusta era quella opposta. La tenutaria del più raffinato bordello di Aleppo pretese una cifra pari a nove notti d’amore per convincermi che avevo sbagliato strada un’altra volta. Eppure anche setacciando fra tante invenzioni qualche verità trova sempre il modo di affiorare. Seppi abbastanza presto che nella Città nera sarei morto subito se non mi fossi tatuato una stella a sette punte sul lato destro del collo. E che quello stesso marchio mi avrebbe fatto uccidere se mai lo avessi mostrato una volta uscito. La voce lenta e melodiosa di un predone berbero mi assicurò che in tutto il mondo non esistono guardie più feroci di quelle assoldate per vegliare sui bambini fantasma. Quando domandai a quell’uomo meno reticente di altri chi mai fossero i generali che comandavano le sentinelle della Città, la sua bocca si storpiò in un ghigno felino.
I maghi, confessò poi dopo lunghe trattative. Esseri immondi che si nutrono di disperazione succhiando da poveri folli disposti a barattare l’anima in cambio di illusioni. Solo se sei disperato verrai accolto nella Città, aveva continuato il berbero. Solitario e triste come un cane mangiato dalla sete.
Si chiamava Quabli, aveva ottant’anni. Mi fece giurare che se mai fossi tornato vivo dal viaggio non lo avrei cercato, né avrei detto a nessuno del nostro incontro. È a lui che devo le ultime, più importanti, indicazioni.
Prima di arrivare – mi disse – avrei fatto meglio a procurarmi un niquab di lino grezzo, l’unico modo per tentare di confondermi agli altri. Nessuno nella Città indossa abiti diversi da questo, se si escludono le guardie, coperte da tonache rosso rubino che si gonfiano sottovento come enormi gonne. Un taglio nel tessuto all’altezza del collo avrebbe esibito la stella a sette punte, il mio unico lasciapassare. Fu sempre il vecchio a indicarmi il nome di un tatuatore esperto: il risultato della visita in quella bottega di blatte e aghi roventi brilla ancora oggi sulla mia pelle scottata. Il consiglio più prezioso fu quello di varcare le mura al tramonto, quando le guardie si rilassano e i bambini fantasma cominciano a riversarsi nelle strade. Non tollerano la luce, il minimo abbaglio li porta a fuggire, a rintanarsi nei loro giacigli. Soltanto la magia delle ombre sembra ammorbidirli in una parvenza di conforto. Mentre gli aguzzini sorvegliano dall’alto coi fucili pronti a tirare, i bambini fantasma si aggirano ovunque senza meta. I più giovani – quelli arrivati da poco, anime in pena in cui ancora sopravvivono gli ultimi istinti – si nutrono di falene e scolopendre, cacciando lesti come pipistrelli. Un tempo erano stati uomini forti, forse belli, sicuramente ricchi. Esseri abituati a scrutare il mondo da prospettive superiori e a esercitare le più ambigue forme di potere. Fino al giorno in cui, chi per una ragione chi per l’altra, avevano scelto di liberarsi per sempre dai fardelli dello spirito. Ai maghi consegnavano tutto: oro, titoli, denaro. Quelli prosciugavano l’ultima stilla della loro miserevole anima. Nessuno – concluse il berbero – sapeva di preciso cosa venisse proposto in cambio. Indifferenti e spietati, padroneggiavano sortilegi in grado di cancellare nella mente ogni traccia di passato.
Per trovare Antoine impiegai ventisette giorni.

Marocco. Foto di Giuseppe Zanoni

***

La verità è che ero partito senza la speranza di rivederlo. Dopo due anni, i suoi messaggi appartenevano a un uomo che non esisteva più. Sapevo che Antoine era lì da qualche parte, ma riconoscerlo in quel formicaio di spettri sarebbe stato quasi impossibile. Ci misi poco a capirlo: una volta privati dell’anima, gli abitanti della Città nera mutavano lentamente forma assumendo, nel giro di pochi giorni, le sembianze di fanciulli gracili e biondi. Quando me ne resi conto, il sospetto di aver fallito divenne certezza, e fu quello il momento in cui compresi che non ero arrivato fin lì per salvare un amico, ma perché volevo perdermi anch’io, lasciarmi dimenticare. Diventare a mia volta un bambino fantasma.

Lo trovai rannicchiato in una pozza di escrementi e fango, respirava a malapena. Era solo un bambino, un cucciolo magro e ossuto, come tutti gli altri. Riconobbi il naso sottile, appena sporgente, delicatamente proteso all’insù. Inconfondibile, malgrado la mutazione: un’appendice di cartilagine e ossicini che fin dai tempi dell’asilo gli era costata quel soprannome buffo, Pique la lune.
Provai a chiamarlo, non ottenni risposta. Sussurrai il mio nome. I suoi occhi congelati non tradivano né paura né ansia, solo uno sbalordimento lontano. Avevo fame, sete, e temevo che una volta piegato su di lui non sarei più riuscito a rialzarmi. Vidi il rosso di una sentinella appostata tra i due comignoli del palazzo di fronte, il fucile in spalla, il volto invisibile puntato verso di noi. Avrebbe potuto spararci, non lo fece. Ancora adesso mi chiedo quale paura trattenne la sua mano.

Superammo le rovine della Città nera, nessuno si oppose alla nostra uscita. Non uno sparo, una parola gridata dall’alto. I bambini fantasma, spaventati, si spostavano al nostro passaggio. Abbandonato sulle mie spalle, il corpo di Antoine sussultava, mentre io sprofondavo nella sabbia aspettando a ogni passo il morso di un serpente. Di front a noi la notte accarezzava il mare di dune scure tenendo segreta la giusta direzione.
Quando spuntò l’alba mi fermai per salutare le ultime stelle. Il bambino dormiva, sentivo la sua bocca soffiare i lenti respiri del sonno. Piangendo, gli baciai un ginocchio, sapeva di sale.
Mi voltai ancora una volta. Il sole aveva già cominciato a colorare di arancione le nuvole e le rovine ormai lontane, e l’oceano di sabbia che ammutoliva custodendo i nostri ricordi, le nostre anime, tutto ciò che eravamo o che non saremmo mai stati.

* Ade Zeno è nato a Torino nel 1979. Ha pubblicato due libri Argomenti per l’inferno (NoReply, 2009) e L’angelo esposto (Il Maestrale, 2015), oltre a numerosi racconti sparsi su antologie e riviste. Fondatore, insieme al collettivo sparajurij, della rivista letteraria Atti impuri, ha lavorato anche per cinema e teatro. Da alcuni anni lavora come cerimoniere presso il Tempio Crematorio di Torino.

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