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Un libro si scrive. La parola allo scrittore Paolo Di Paolo (2)

COSA SI FA CON UN LIBRO? Prima edizione Roma

di Lorena Bruno

Il ciclo di incontri Cosa si fa con un libro? dedicato ai protagonisti della filiera libro, si è concluso il 7 maggio con lo scrittore Paolo Di Paolo.

Prima di lui abbiamo incontrato il libraio Marco Guerra di Pagina 348, l’artigiano dell’editoria Leonardo Luccone di Oblique, l’art director e graphic designer Maurizio Ceccato di Ifix, lo scrittore Davide Orecchio e l’editrice di Ponte33 Bianca Maria Filippini.

Li ringraziamo tutti per avere accettato con entusiasmo di partecipare. Un grazie lo rivolgiamo anche a Claudio Bocci, presidente di Altrevie, che ha voluto inserire la nostra iniziativa nel fitto programma dell’associazione, mettendo a disposizione la propria sede di Via Caffaro 10. E ringraziamo in particolare il pubblico di assidui e attenti ascoltatori che si è avvicendato da un incontro all’altro.

Paolo Di Paolo, prezioso interlocutore della serata, è un giovane autore poliedrico. Ha esordito nel 2004 a soli vent’anni con la raccolta di racconti Nuovi cieli, nuove carte (Empirìa), ha curato libri di interviste come Un piccolo grande Novecento (Manni) con Antonio Debenedetti, ha scritto romanzi come Mandami tanta vita (Feltrinelli), finalista al Premio Strega 2013, ha scritto per il teatro e la televisione e collabora come critico letterario con note testate italiane. Con lui abbiamo indagato il tema della scrittura, l’importanza della lettura e della sua promozione,  il ruolo del Premio Strega, il rapporto con gli editori.

Perché si scrive? «È una delle domande più preoccupanti, cui comunque si è tenuti a rispondere. Bisogna essere consapevoli del perché si scrive. Io lo faccio perché sin da piccolo scrivere era l’attività in cui mi sentivo più a mio agio. Certo, il fatto che venga istintivo scrivere non vuol dire essere scrittori. Si può scrivere solo per sé stessi – la scrittura ha un ruolo terapeutico – ma io non ho mai scritto solo per me. Da piccolo scrivevo per far ridere la mia maestra, ad esempio; avevo uno stile divertente che poi è scivolato verso uno più pensoso. Aspetto una reazione da chi mi legge, cerco di immaginare le persone che spenderanno giorni o qualche ora per leggermi. La mia scrittura è interlocuzione, se non ci fosse un ritorno non scriverei. E poi attraverso la scrittura cerco delle risposte o pongo delle domande che possono restano aperte. Tutto comincia da una domanda, prima ancora di iniziare a scrivere. Ammiro chi sa creare storie, io sono sempre partito da un’esperienza vissuta in prima persona».

Racconti, sceneggiature, romanzi: la motivazione è sempre stata la stessa? «C’è anche una motivazione “alimentare”, non si può vivere di narrativa. Non ho un secondo lavoro, ed è una cosa importante, ma non mi scalda scrivere per la televisione o per i giornali. Se scrivo un articolo posso farlo in treno, in mezzo alla gente, ma se devo scrivere narrativa ho bisogno di un grande silenzio. Ho sempre scritto in seguito a un input, che fosse un tema, una commissione o una domanda… Faccio molta fatica a rileggere quello che ho scritto, ci sarebbero troppe cose da cambiare, correggere o censurare.  Mi viene in mente una frase di Rilke: «Bisognerebbe scrivere un libro solo, alla fine della vita».

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Quali sono le domande all’origine dei tuoi libri? «Per esempio quale rapporto c’è tra la nostra vita privata e quella pubblica, cioè tra quello che siamo intimamente e il periodo in cui viviamo. Quanto può influire su di noi un determinato momento storico? Ognuno è il risultato di questo rapporto, di cui però è difficile individuare che cosa abbia inciso in particolare. Sono queste le domande all’origine di Mandami tanta vita, che parla di Piero Gobetti. La sua è stata certamente un’esperienza intellettuale senza precedenti, se pensiamo che tra i 17 e i 24 anni, tra la fine della Prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo fondò e diresse tre riviste che diedero un apporto culturale importantissimo per quegli anni».

L’editoria è in crisi, ma non sembra esserci una crisi dello scrittore. Quali possono essere le motivazioni di chi sceglie il self publishing ? «Bisogna comprendere l’esigenza di scrivere e il suo valore terapeutico, senza liquidare queste cose con disprezzo. In questo periodo c’è uno scollamento tra la lettura e la scrittura. Tutti pensano di saper scrivere, ma quella senza lettura è una scrittura cieca, vacua. Lo scrittore consapevole è l’unico che può sopravvivere al tempo e che può diventare insostituibile. Tra l’altro per chi scrive e si autopubblica si alimenta un meccanismo d’illusione: si evita la mediazione della casa editrice, ma a fare così si diventa presto una goccia nel mare. Ciò che resta è la riconoscibilità dello stile di un autore e per raggiungere questo obiettivo bisogna avere consapevolezza, che deriva solo dalla lettura. Subissato dalle proposte, succede anche che l’editore monitori la rete per vedere se c’è un libro che abbia già attirato attenzione, si monitora una reazione che è di per sé una prova importante».

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La lettura è in crisi quindi bisogna promuovere la lettura? «Non si leggono molti libri, ma è anche vero che non se ne sono mai letti tanti. L’accesso alla cultura è maggiore rispetto a trent’anni fa, ma bisogna cambiare la promozione della lettura. Ho partecipato a #ioleggoperché, non volevo sottrarmi a un’iniziativa che promuovesse la lettura, ma credo sia importante cosa si legge, non il perché. È più coinvolgente parlare dei testi che ci appassionano, come ho avuto modo di sperimentare andando a parlare di libri nelle scuole, che parlare di quanto sia bello leggere in astratto».

Cosa si può fare per risolvere il problema e incentivare la lettura nel modo giusto? «Bisognerebbe capire perché molti non leggono e se questo sia un problema. A mio avviso sì, come anche ritenere che il romanzo sia l’unica lettura possibile. Bisogna tutelare la bibliodiversità: leggere romanzi è importante, ma anche leggere la saggistica lo è. Foster Wallace diceva: «È bello mangiare caramelle, ma se mangi solo quelle finirai per morire». La lettura coincide con l’informazione e con l’esercizio della propria lingua. A volte a chi non legge mancano le parole per far valere le proprie idee. In una classe mi è capitato di parlarne e i ragazzi erano sostanzialmente d’accordo sul fatto che a volte non riuscissero ad affermare la propria opinione perché non sapevano come esprimerla al meglio. Allora ho detto: «Non riuscirete a far valere il vostro pensiero senza la lettura». Ho molto rispetto per il mestiere degli insegnanti, non sopporto che gli si attribuisca tutta la colpa delle lacune del sistema scolastico, ma credo che molti di loro abbiano bisogno di un contatto più fresco con la letteratura contemporanea, a volte sembra che tutto si sia fermato a Calvino.

Da quali narrazioni nasce il tuo amore per la narrazione? «In un libro cerco la forza del racconto e una lingua che sia unica, che sia propria solo di quell’autore. Mi hanno sicuramente influenzato i testi di Giacomo Leopardi prosatore, in particolare gli appunti su alcuni argomenti di cui avrebbe voluto scrivere, in una lingua lirica ed evocativa e una vaghezza tutta leopardiana. Anche Antonio Tabucchi, a cominciare dal suo Sostiene Pereira, mi ha influenzato molto. È stato importantissimo lavorare con lui».

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Premio Strega: dalla tua esperienza di finalista nel 2013 a oggi, con la candidatura molto discussa di Elena Ferrante, c’è stata un’evoluzione? «Su Elena Ferrante ho detto abbastanza, non amo la sua tetralogia, preferisco i suoi primi romanzi come I giorni dell’abbandono. Rispetto chi la stima come autrice, ma non sono d’accordo sulla sua invisibilità, mi sembra un’operazione di marketing. Quanto al premio Strega, ho detto più volte che il fatto di aver pubblicato con Feltrinelli mi ha permesso di essere finalista. Quando nacque il Premio con Maria Bellonci e Guido Alberti nel 1947, le intenzioni erano pure, disinteressate. Dagli anni ’90 in poi è cambiato tutto radicalmente. Bisogna comunque riconoscere che Tullio De Mauro ha reso il sistema di votazione più trasparente. Poi non c’è dubbio: lo Strega serve a vendere e a dare visibilità anche ad autori che altrimenti non ne avrebbero così tanta».

Hai pubblicato con piccoli editori (Empirìa, Perrone) e grandi (Feltrinelli, Bompiani). Com’è il tuo rapporto con gli editori? «Le case editrici minori garantiscono un rapporto più diretto con l’autore, elastico, mentre quelle maggiori hanno un rapporto più rigido, a tratti algido. Per me è fondamentale avere un rapporto umano con l’editor. Lavoro molto bene con Alberto Rollo, direttore letterario di Feltrinelli. È una persona straordinaria. Non ha mai cambiato una singola riga, ma mi dà sempre suggerimenti e spunti di riflessione importantissimi. L’editor deve rispettare la creatività sapendo come guidarla nel modo giusto, deve saper porre questioni senza risolverle in prima persona».

Un libro si scrive. La parola allo scrittore Paolo Di Paolo (1)

COSA SI FA CON UN LIBRO? Prima edizione Roma

Cosa si fa con un libro? Un libro si scrive. La parola allo scrittore.
Giovedì 7 maggio, alle 21 – Paolo Di Paolo

Paolo Di Paolo,  scrittore romano scoperto da Dacia Maraini, a 32 anni vanta una produzione letteraria già cospicua. Dopo l’esordio nel 2004 con la raccolta di racconti Nuovi cieli, nuove carte (Empirìa, finalista al Premio Italo Calvino per l’inedito 2003), ha pubblicato i romanzi Raccontami la notte in cui sono nato (Perrone, 2008), Dove eravate tutti (Feltrinelli, 2011), vincitore dei premi Mondello e Superpremio Vittorini e finalista Premio Zocca Giovani. Con Mandami tanta vita (Feltrinelli, 2013) è stato finalista al Premio Strega 2013 e vincitore dei premi Salerno Libro d’Europa e Fiesole. Alterna la sua attività di narratore con quella di giornalista, saggista e critico letterario, ha scritto per il teatro e per la televisione.

«Ho sognato che avrei scritto fin da ragazzino. Mi sono appassionato prima alle storie a fumetti (amavo disegnare), poi al giornalismo, poi è arrivata la scrittura narrativa e saggistica. Certo il segnale del Calvino mi ha spinto a proseguire; magari senza quell’incoraggiamento ci avrei messo meno tenacia».

Paolo Di Paolo si è cimentato anche con i libri per bambini. Nel 2014 è uscito La mucca volante (Bompiani) di cui ha curato anche le illustrazioni.

«Ho pensato di scrivere questo libro all’età di sette-otto anni. È veramente quel che considero il mio primo libro perché, se torno a me stesso bambino e al sogno di scrittore, so che immaginavo, magari sull’agenda di mio padre, uno spazio bianco su cui campeggiasse la scritta La mucca volante, il mio nome e una mucca disegnata».

Qui la nostra intervista integrale Le domande dell’infanzia narrate da Paolo Di Paolo.

Vi aspettiamo giovedì 7 maggio alle 21 per proseguire la conversazione.locandina_7mag

Un libro si pubblica. La parola all’editore Ponte33 (2)

COSA SI FA CON UN LIBRO? prima edzione Roma

di Rossella Gaudenzi

Molto interessante il quinto appuntamento di Cosa si fa con un libro?, giovedì 9 aprile nella sede di Altrevie, con Bianca Maria Filippini, docente di letteratura persiana  e fondatrice con Felicetta Ferraro della casa editrice Ponte33, piccola realtà editoriale dedicata alla narrativa in lingua persiana.

«L’Iran è un paese dipinto da sempre in bianco e nero, colmo di grandi contrasti. Ma non è così, perché è una terra multiforme, variegata, ricca di sfumature. Nel mondo occidentale sono conosciuti gli autori iraniani della diaspora, quelli che sono andati via dall’Iran e dall’esterno hanno scritto memoriali, hanno semplificato la realtà e creato una dicotomia, dividendo il mondo in “buoni e cattivi”».

La  scelta di Ponte33 è stata quella, invece, di dare voce agli iraniani che vivono in Iran, svelando altro dietro gli stereotipi e sotto il chador, per raccontare un Iran sconosciuto e più occidentalizzato di quanto si immagini. Un paese in fermento dal punto di vista culturale, dove non esiste in pratica analfabetismo, dove le università sono frequentate da un numero elevato di donne. A Tehran ci sono 12 chilometri di librerie, un vero e proprio paradiso per gli appassionati, con un’offerta vastissima e un elevato  numero di pubblicazioni.Il settore editoriale in Iran è molto attivo, nel 2012 sono stati pubblicati 60.000 titoli, anche se si tratta in molti casi di ristampe. Ma oltre ad autori iraniani, che sono tanti e sopratutto donne, ci sono molti autori occidentali tradotti. In Iran non c’è, infatti, una regolamentazione dei diritti di autore, con la conseguente possibilità di traduzione libera. «Ma noi consultiamo sempre gli editori e siamo stati in pratica i primi a porci il problema» ha evidenziato Bianca Maria Filippini.

Bianca Maria Filippini

Bianca Maria Filippini

Qual è il compito di un editore? Per la Filippini è la scelta del libro, innanzitutto. «Talvolta dettata da fattori più o meno casuali: ad esempio la prima pubblicazione di Ponte33 nel 2009, Come un uccello in volo di Fariba Vafi (che ha venduto 2000 copie), è stata scelta grazie al suggerimento di un’amica traduttrice iraniana, figura che fungeva da “ponte” tra Iran e Italia». E lo stesso nome della casa editrice vuole essere un’interpretazione di questo ruolo. «Il nome Ponte33 fa riferimento al persiano Si-o-se pol, ponte molto particolare della città Isfahan dalle trentatré arcate sotto le quali si riuniscono soprattutto giovani per chiacchierano, cantare, leggere. È un luogo dove trascorrere ore serene come tanti altri posti; l’Iran è un paese ben più vivace di quanto l’immaginario comune possa pensare, molto meno cupo di come sia normalmente percepito da fuori».

«Dal 2010 a oggi abbiamo pubblicato sette libri, e non avendo una vera e propria programmazione editoriale lo consideriamo un successo. Io e Felicetta ci occupiamo di tutto, dalla scelta dei libri, alla traduzione (anche se attualmente usufruiamo della collaborazione di traduttori esterni), alla revisione fino alla distribuzione. Andiamo direttamente nelle librerie, dopo aver creato un rapporto diretto con i librai. Fortunatamente godiamo dell’attenzione della stampa e questo ci apre molte porte».

Come è presente Ponte33 nelle librerie? «Una presenza tutto sommato soddisfacente, tenendo conto che si fonda sul “porta a porta”. A Roma abbiamo ottimi rapporti, ad esempio con le librerie Arcadia, Altroquando, Minimum fax, Fanucci. Purtroppo nel sud Italia, a parte casi isolati a Napoli, Lecce, in Sicilia, i librai risultano decisamente più reticenti. Il nord-est, soprattutto in Veneto e in Friuli, si è rivelato particolarmente ricettivo. Paradossalmente Firenze, sebbene sia la nostra vera terra di origine, dove vive e opera Felicetta e dove è nata la casa editrice, appare più “sonnecchiosa”. Con le librerie di catena, invece, i rapporti sono discontinui e sinceramente incomprensibili».

Che cosa significa tradurre dal persiano? «Il persiano è una lingua indoeuropea con alfabeto arabo. Le difficoltà maggiori che si incontrano nella traduzione sono di tipo paratattico: molte coordinate e poche subordinate, il che comporta un grande lavoro per non rendere la lingua sciatta e fredda. Esistono due registri, lo scritto e il parlato, quindi lingua letteraria e non. Alcuni romanzi contemporanei trascrivono il registro parlato. Il nostro ultimo romanzo pubblicato, Non ti preoccupare di Mahsa Mohebali, ha richiesto uno slang giovanile, quindi un duro lavoro per il traduttore G. Longhi. In Italia, in realtà, siamo noi gli unici traduttori dal persiano».

Che cosa sta leggendo Bianca Maria Filippini? Sul suo comodino ci sono Il cardellino di Donna Tartt (Rizzoli, 2014), definito un po’ ostico; L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di Oliver Sacks (Adelphi, 2001); I demoni del deserto, dello scrittore e giornalista di origini iraniane, ma da considerare rigorosamente italiano, Bijan Zarmandili (Nottetempo, 2011).

Il ciclo di incontri Cosa si fa con un libro? si concluderà giovedì 7 maggio con lo scrittore Paolo Di Paolo e l’editore Giulio Perrone nella veste di “lettore” con la sua esperienza della scuola di lettura Orlando.

Un libro si pubblica. La parola all’editore Ponte33 (1)

COSA SI FA CON UN LIBRO? prima edizione Roma

Cosa si fa con un libro? Un libro si pubblica. La parola all’editore.
Giovedì 9 aprile, alle 21 – Bianca Maria Filippini di Ponte33

La piccola casa editrice Ponte33 , fondata nel 2008 da Bianca Maria Filippini e Felicetta Ferraro, ha vinto il Premio Nazionale per la Traduzione 2013.

In attesa di conoscere questa sera Bianca Maria Filippini riproponiamo la nostra intervista alla giovane docente di letteratura persiana.

locandina_9apr_web«Nel nostro caso è stato premiato il coraggio della scelta editoriale, volersi dedicare alla letteratura in lingua persiana, scelta mirata, con quel che comporta e le difficoltà del caso. Punto forte è stato il tentativo di svelare l’essenza di un Paese, il ricomporre un puzzle dell’Iran che sfugge ai più, in quanto le informazioni che abbiamo sono poche e solo di un certo tipo, con risultato sempre fosco».

«La motivazione forte nella creazione della casa editrice è stata quella di dare visibilità a traduzioni che sarebbero altrimenti rimaste nel mondo degli iranisti e forse non avrebbero neppure avuto quell’accoglienza che invece stanno avendo».

 

Un libro si scrive. La parola allo scrittore Davide Orecchio (2)

locandina_6feb_web (1)COSA SI FA CON UN LIBRO? prima edizione Roma

di Lorena Bruno

Il perché della scrittura, i molti modi di scrivere, il rapporto con i lettori, il ruolo dei librai.
Di questo e molto altro si è parlato al quarto appuntamento di Cosa si fa con un libro?, venerdì 6 febbraio nella sede di Altrevie, con lo scrittore Davide Orecchio, autore di Città distrutte. Sei biografie infedeli, felice esordio nel 2012 per Gaffi, e di Stati di grazia, pubblicato nel 2014 per il Saggiatore.

Davide Orecchio è giornalista con una formazione da storico, dopo l’università ha proseguito lo studio con un dottorato, ma non ama molto parlare della sua biografia, cui confessa ironicamente di stare ancora lavorando.

Perché si scrive? Per due ragioni, spiega Orecchio, la prima è raccontare la verità, dire come sono andate le cose senza che i fatti possano essere travisati; la seconda è per raccontare come potrebbe andare diversamente. «Io preferisco la seconda. Costruire possibili storie alternative è uno dei motivi per cui si scrive e si legge, è uno degli aspetti più importanti che rendono la letteratura vitale». Tutto questo riconduce al suo primo libro Città distrutte, scritto tra il 2006 e il 2008. «È stato istintivo per me, ero al mio esordio e non avevo ancora piena consapevolezza del rapporto tra letteratura e storia, alcuni miei racconti erano stati pubblicati su riviste letterarie e puntavo a farne una raccolta». Lo affascina partire da storie vere e sviluppare ipotesi su cosa sarebbe potuto accadere e non è accaduto, definendo questo espediente controfattualità.  La sua formazione incide molto sul suo approccio alla scrittura, l’uso delle fonti e degli strumenti dello storico non gli impediscono di combinare quest’attitudine con l’invenzione letteraria, costruendo biografie fittizie. Una modalità che gli è congenuiale, confessa.
Una delle biografie di Città distrutte è quella di un sindacalista realmente esistito, Nicola Crapsi, nato nel 1899 nel piccolo paese di Santa Croce di Magliano in Molise. Ancora oggi considerato una personalità di prestigio, il primo maggio di ogni anno il suo ritratto viene portato in processione per le vie del paese, rivestendo una ricorrenza laica di uan ritualità tipicamente religliosa. Gli fu commissionato di scrivere la biografia di Crapsi, un’agiografia, come la definisce lui stesso, che non riuscì a portare a termine per il tenore sostanzialmente affettivo delle testimonianze raccolte a Santa Croce, dunque non specificamente storiche: «Ero riuscito a ricostruire lo scheletro della sua attività politica, ma la carne, la sostanza non c’era e non ho potuto portare a termine il lavoro».
Tornando però sul perchè della scrittura, Orecchio fornisce un’altra risposta ancora, forse quella definitiva: «Scrivere mi rende felice e penso che mi venga bene farlo».

Che tipo di scrittore è Davide Orecchio? Non è uno scrittore a tempo pieno, perché lui non vive della sua scrittura. «Il momento in cui mi viene meglio scrivere è la notte, l’ora estrema in cui misurarsi con la scrittura, quando intorno c’è silenzio, quando gli altri non ci sono più». Scrive al computer, ma ormai usa spesso il tablet, anche di giorno, per annotarsi un’idea, un pensiero, per rimanere sempre concentrato sul progetto che sta seguendo.
Non scrive pensando ai possibili lettori, piuttosto a un lettore che gli somigli: «Commetto l’errore di sovrapporre il lettore a me, scrivo quello che mi piace leggere, non sempre sono lucido in quest’attenzione ai lettori. Mi piacciono molto le scritture avanguardiste, uso dei codici diversi da quelli che un lettore potrebbe aspettarsi: l’importante è fornire gli strumenti per far comprendere il proprio codice».

Si scrive per pubblicare? «La scrittura è una forma di espressione di sé che prescinde dalla lettura; l’ambizione alla pubblicazione, solleticata anche da strumenti di self publishing, è una forma di emancipazione. La scrittura è un diritto di tutti, pubblicazione a parte». Perché la pubblicazione di un libro è tutt’altra cosa. Per Città distrutte ci sono voluti quattordici rifiuti prima di trovare l’editore giusto. Per la stesura di Stati di grazia sono trascorsi dieci anni. «La pubblicazione non è un passo da fare nell’immediato, per me. E può anche succedere che non arrivi mai». Come nel caso di un testo sulla morte della madre, iniziato il giorno dopo il suo funerale. «Scriverne è stato fondamentale per me, catartico, ma mentre lo scrivevo non ho mai pensato alla sua possibile pubblicazione».
Davide Orecchio preferisce comunque la fase della scrittura, quando tutto è ancora possibile, a quella della pubblicazione e dell’attesa delle recensioni. Lui, poi, non crede molto nell’autopromozione e nelle presentazioni, preferendo ritenere che un libro acquisisca una vita autonoma, indipendente dal suo autore, una volta pubblicato.

Esiste davvero la possibilità che i personaggi di una storia prendano il sopravvento sul loro autore? «Quand’ero un giovane lettore dibattevo se il grande scrittore è quello che viene travolto dalla storia o quello che riesce a governarla. Io credo nell’esistenza di una scrittura potente, capace di far saltare tutti gli espedienti possibili e che in questo modo si possa perdere anche il controllo sui personaggi».

altrevieNon è mancato, inoltre, un richiamo alle librerie indipendenti anche per la presenza tra il pubblico del libraio Marco Guerra, protagonista del primo incontro di Cosa si fa con un libro?. Il gruppo di lettura di Pagina 348 si è misurato con Stati di grazia, e il risultato è stato incoraggiante. La libreria ideale per Orecchio «è quella in cui si trovano i libri e un libraio con cui poter interloquire»

Che cosa sta leggendo Davide Orecchio? Sul suo comodino c’è Dizionario degli esseri umani fantastici e artificiali di Vincenzo Tagliasco, da cui lui ricava infinita ispirazione.

Ci rivediamo venerdì 6 marzo con Massimiliano Borelli per parlare di come si pubblica un libro dal punto di vista dell’editor e del redattore.

Un libro si scrive. La parola allo scrittore Davide Orecchio (1)

locandina_6feb_web (1)COSA SI FA CON UN LIBRO? prima edizione Roma

Cosa si fa con un libro? Un libro si scrive. La parola allo scrittore.
Venerdì 6 febbraio, alle 21 – Davide Orecchio

Davide Orecchio, classe 1969, ha esordito nel 2012 con Città distrutte. Sei biografie infedeli (Gaffi),  premio Monello e Supermondello, premio Volponi e finalista al premio Napoli. Nel 2014 ha pubblicato Stati di grazia (il Saggiatore).

«Per quanto riguarda la scrittura “per la carta” — e parlo soprattutto di Stati di grazia, ma anche del mio primo romanzo — il problema (di pensare al lettore) non me lo pongo. Cerco di restare più concentrato sul tentativo estenuante di tirar fuori una cosa bella. E sono convinto che se si lavora bene su questo aspetto, sulla ricerca del bello, allora la possibilità di coinvolgere il lettore aumenta. Però ti ripeto, mentre scrivevo non mi chiedevo cosa avrebbe potuto chiedersi il lettore durante la lettura, se ne avrebbe contestato la complessità o, al contrario, apprezzato la musicalità».

«Stati di grazia è la mia risposta alla Storia. C’è dentro così tanto di quello che amo e odio e dell’uomo che sono diventato, e della mia condizione di orfanezza di beni collettivi, giustizia, uguaglianza, che non riesco a mettere a fuoco un personaggio, una vicenda, una singola scintilla che mi abbia messo in movimento. Quello che vedo, dal principio del libro fatica e adesso che è libro risultato, è un coro. Una rete di storie. Relazioni. Ognuna sostiene l’altra come accadeva un tempo, quando l’unione faceva la forza.

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«È stata una contrannaturale digestione di vita. Succede secondo natura che si evacui lo scarto, la materia schifosa non nutriente. A me è capitato (di tentare) l’opposto. Ho incontrato gli sfridi e ho ipotizzato: posso aggiustarvi, pulirvi, rimettervi al mondo? Voglio digerirvi spiritualmente; disobbedire alla masticazione, allo stomaco, all’intestino. Voglio che rinasciate, rinascere assieme. Non credo in Dio, eppure vi pesco: memorie, aborti, libri bislacchi, brandelli, una ragazza ferita, un bambino che muore, un maestro che non insegna, una moglie che non ama, un’operaia emigrante poeta, un bracciante, la bellezza di una donna Quechua e di un monte in Sicilia, una miniera, una piantagione, un tipografo con l’inchiostro negli occhi, un elastico di viaggi tra Sicilia, Argentina e la mia città di nascita e vita – Roma».