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Perché scrivo? Roland Barthes

PERCHÉ SCRIVO? – La rubrica dedicata ai perché della scrittura

Roland Barthes

A cent’anni dalla nascita dell’intellettuale francese Roland Barthes proponiamo brevi frammenti delle sue riflessioni sulla scrittura, estratti dallo speciale Barthes 100 a cura di doppiozero.

Ciò che spinge qualcuno a scrivere non può essere definito, non dal diretto interessato almeno, dato che c’è in gioco il suo inconscio…Ho un’immagina­zio­ne utopica, e spesso, quando scrivo, anche se non mi riferisco espressamente a un’utopia, ed esercito per esempio un’attività critica su certe nozioni, lo faccio sempre attraverso l’immagine interiore di un’utopia: sia essa un’utopia sociale o un’utopia affettiva. (Intervista uscita con il titolo Sur l’astrologie, in «Astrologiques», luglio 1976). 

La scrittura, insomma, non è altro che una screpolatura. Si tratta di dividere, di solcare, di rendere discontinua una materia piana, foglio, pelle, distesa di argilla, muro. (Variazioni sulla scrittura).

Scrivere è rimettersi agli altri perché chiudano essi stessi la nostra parola, e la scrittura non è che una proposta di cui non conosciamo mai la risposta (Saggi critici).

Un romanzo non si definisce per il suo oggetto ma per l’abbandono della serietà. Sopprimere, correggere una parola, sorvegliare un’eufonia o una figura, trovare un neologismo, per me partecipano di un sapere ghiotto del linguaggio, di un piacere propriamente romanzesco. Ma le due operazioni di scrittura che mi procurano il piacere più acuto sono, primo, iniziare, secondo, terminare. In fondo, ho optato (provvisoriamente) a favore della scrittura discontinua proprio per moltiplicare a me stesso questo piacere. (Intervista uscita su «Le Monde», 27 settembre 1973. A cura di Jean-Louis de Rambures).

Perché scrivo? Dany Lafferière

PERCHÉ SCRIVO? – La rubrica dedicata ai perché della scrittura

Dany Lafferière

Non saprei dire con esattezza come sono diventato scrittore, né quando, né perché. In realtà non saprei dire granché di questa passione che dà forma alla mia vita da più di quarant’anni. Sono propenso a credere che, se sei uno scrittore, lo sei ancor prima di cominciare a scrivere. E a partire dal momento in cui accetti questa condizione devi comportarti da scrittore, camminare come uno scrittore, dormire come uno scrittore per poter poi sognare come uno scrittore. Se risalgo la corrente di questo lungo fiume di inchiostro fino alla sorgente, mi accorgo che tutto ha avuto inizio dalla lettura dell’alfabeto sul volto di mia nonna (nel fittissimo intrigo delle sue rughe).

Mia nonna mi ha insegnato ad avere una visione prospettica. Mi ero accorto che guardava sempre verso l’orizzonte. Penso che uno scrittore debba avere uno sguardo di insieme, credo che debba essere in grado di  capire l’ultima essenza dei suoi personaggi pur senza sapere bene che cosa li muove.

Estratto da Tra le macerie del terremoto cercando fiori e urla di zombie, «TTL» del 13 giugno 2015

Dany Lafferière, nato a Port-au-Prince nel 1953, sarà ospite giovedì 18 giugno a «Letterature», il Festival Internazionale di Roma (Piazza del Campidoglio, ore 21).

Dany Lafferière vive a Montréal dal 1976 ed è cittadino canadese. Dal dicembre 2014 è il primo autore haitiano a far parte dell’Accademia di Francia. È a Montréal che ha cominciato a scrivere e lì ha pubblicato nel 1985 un primo romanzo dal titolo provocatorio: Come far l’amore con un negro senza stancarsi.
Dany Laferrière è fiero di essere il simbolo dell’amore di Haiti per la letteratura. «Vorrei sempre far sapere al mondo che Haiti è un paese in cui la gente si appassiona per la lettura, come dice bene quella lettera ricevuta da un giovane haitiano e che ho introdotto nel mio libro L’énigme du retour, e che diceva: “Dite alla gente che ogni volta che mandano un sacco di riso, mandino anche un sacco di libri, perché in Haiti non mangiamo per vivere, mangiamo per leggere”. Gli haitiani sono pazzi: mettono la lettura prima del cibo! Del resto ecco il problema: la cultura è stata messa troppo prima dell’agricoltura! Eppure è questo che fa che un paese abbia un’anima».
Tornato ad Haiti nel gennaio 2010 per partecipare a un festival, viene sorpreso dal terribile terremoto che ha devastato l’isola. Da questa esperienza ha scritto Tutto si muove intorno a me (traduzione di G.G. Greco e F.Scala), 66thand2nd, 2015.
In libreria dal 19 giugno per Nottetempo, Il paese senza cappello (traduzione di C. Poli).

Perché scrivo? Patrick Modiano

PERCHÉ SCRIVO? – La rubrica dedicata ai perché della scrittura

Patrick Modiano

Che strana attività solitaria la scrittura. Quando butti giù le prime pagine di un romanzo attraversi momenti di sconforto. Ogni giorno hai l’impressione di sbagliare strada. Ed è davvero grande la tentazione di tornare indietro e seguire un altro percorso. Non bisogna cedere alla tentazione ma rimanere sempre sulla stessa via. È un po’ come essere al volante di un’auto in una notte invernale, e percorrere una strada ghiacciata senza nessuna visibilità. Non hai scelta, non puoi fare dietrofront, devi andare avanti ripetendoti che prima o poi la strada si farà più sicura e la nebbia si dissolverà.

Quando stai per terminare un libro, ti sembra che questo cominci a staccarsi da te e respiri già un’aria di libertà, come gli scolari subito prima delle vacanze estive. Sono distratti e rumorosi, e non ascoltano più il professore. Direi addirittura che nel momento in cui scrivi gli ultimi paragrafi, il libro ti manifesta una certa ostilità nella sua fretta di liberarsi di te. E non appena hai tracciato l’ultima parola, ti lascia. È finita, non ha più bisogno di te, ti ha già dimenticato. D’ora in poi saranno i lettori che gli riveleranno la sua vera natura. In quel momento provi un grande vuoto e la sensazione di essere stato abbandonato. E anche una specie di insoddisfazione dovuta al legame tra te e il libro, legame spezzato troppo in fretta. L’insoddisfazione e il senso di incompiutezza ti spingono a scrivere il libro seguente per ristabilire l’equilibrio, senza riuscirci mai. Man mano che passano gli anni, i libri si susseguono e i lettori parleranno di un’«opera». Ma tu avrai la percezione che si sia trattato solo di una lunga fuga in avanti.

Quando ero piccolo ho cominciato scrivendo poesie, e forse grazie a questo ho capito meglio una riflessione letta da qualche parte: «I prosatori si fanno con i cattivi poeti». Inoltre, parlando di musica, il romanziere deve spesso trasporre persone, paesaggi, strade su una partitura musicale dove ritornano gli stessi temi melodici da un libro all’altro, una partitura musicale che tuttavia gli sembrerà imperfetta. Il romanziere rimpiangerà di non essere stato un musicista puro e di non avere composto I Notturni di Chopin.

Quel che aggrava il mio caso è questo fantasticare prima di iniziare a scrivere qualsiasi cosa, che è per me necessario prima passare all’atto. Sono come quelle persone che si trovano sul bordo di una piscina e attendono ore prima di immergersi: scrivere, per me, è qualcosa di sgradevole, per cui sono obbligato a sognare molto prima di cominciare a farlo, e devo trovare dei modi per rendere gradevole questo lavoro abbastanza lungo e difficile. Devo trovare un forte stimolo. Adesso ho capito, d’altronde, la ragione dell’alcolismo di molti grandi scrittori: credo si tatti di una perpetua bassa tensione e l’alcool funziona come un grande eccitante, anche quando si è finito di scrivere.

Estratto dal discorso di accettazione del Premio Nobel per la Letteratura, tenuto da Patrick Modiano il 7 dicembre 2014.

Dello scrittore francese Patrick Modiano, che il 30 luglio compirà settant’anni, è appena uscito per Einaudi il nuovo romanzo Perché tu non ti perda nel quartiere (traduzione di Irene Babboni).
Nel 2014 l’Accademia svedese gli ha assegnato il Nobel per la letteratura con la seguente motivazione: «Per l’arte della memoria con la quale ha evocato i destini umani più inafferrabili e svelato la vita reale durante l’Occupazione».

Qui la nostra recensione di Fiori di rovina (Lantana, 2012).

 Foto di Jaime González

Foto di Jaime González

Perché scrivo? Abraham B. Yehoshua

PERCHÉ SCRIVO? – La rubrica dedicata ai perché della scrittura

Abraham B. Yehoshua

Il mio desiderio di scrivere ha avuto due origini, la prima sono state le storie che mio padre mi raccontava quando ero piccolo. Il libro Cuore, di De Amicis, ha avuto un’influenza fondamentale su di me, e forse ha anche a che fare con l’amicizia che provo per l’Italia. Non so che cosa pensino gli italiani di De Amicis e quale sia il suo posto nella coscienza letteraria del Paese, ma per me, e non solo per me, averlo sentito raccontare da bambino rappresenta un’esperienza indimenticabile.

La letteratura ha un potere straordinario, ci prende e ci trasporta in una realtà del tutto diversa, immaginaria, e riesce a farci reagire come se vivessimo personalmente le vicende che leggiamo; niente altro ha una forza simile. Possiamo venire a sapere che c’è stata una disgrazia in un certo luogo, possiamo vedere alla televisione i corpi che vengono estratti dalle macerie, ma difficilmente piangeremo; il telespettatore rimarrà scosso, ma non piangerà mai davanti allo schermo. Invece un racconto riesce a toccarci profondamente, in quanto si rivolge a noi in modo diretto, personale. Fin da bambino sono rimasto impressionato dalla forza della suggestione e dell’identificazione, che ritengo le chiavi dell’arte.

Il secondo elemento che ha suscitato in me il desiderio di fare lo scrittore si trova nei brevi pezzi umoristici che scrivevo a scuola o nei movimenti giovanili, più o meno una volta ogni dieci o quindici giorni, nei quali collegavo le nostre realtà particolari con realtà universali. Li leggevo poi ad alta voce, e mi rendevo subito conto che il legame fra l’immaginario, l’assurdo, e ciò che era noto a tutti – fatti avvenuti in classe o nel movimento – toccava il pubblico con una forza particolare, che mi incoraggiò a scrivere.

Il potere della suggestione letteraria e il legame fra il quotidiano e la fantasia sono stati alla base della mia scrittura, e questo vale ancora oggi. Il più grande complimento che possa farmi qualcuno che ha letto un mio libro non è dirmi che l’ha trovato bello o interessante, ma che ha pianto.

Ho cominciato a scrivere perché volevo raccontare biografie che non fossero la mia. La scrittura è uno strumento per inventare esperienze e vite che io non ho mai vissuto. Nel mei libri ci sono solo pochissime tracce della mia autobiografia. E poi scrivo perché voglio l’identificazione del lettore con i personaggi, voglio conquistare l’empatia di chi legge.

Estratti da interviste ad Abraham B. Yehoshua del 2003 e 2014.

Abraham B. Yehoshua, scrittore e drammaturgo, è nato a Gerusalemme nel 1936, vive e lavora ad Haifa. Insieme a David Grossman e Amos Oz è considerato tra gli autori israeliani contemporanei più importanti nel panorama letterario israeliano. Tra i suoi romanzi ricordiamo L’amante, Cinque stagioni, Il signor Mani, Ritorno dall’India e Un divorzio tardivo (tutti pubblicati da Einaudi).

Perché scrivo? Jorge Luis Borges

PERCHÉ SCRIVO? – La rubrica dedicata ai perché della scrittura

Jorge Luis Borges

Si legge quello che piace leggere ma non si scrive quello che si vorrebbe scrivere bensì quello che si è capaci di scrivere…

Che cosa significa per me essere uno scrittore? Semplicemente essere fedele alla mia immaginazione. Quando scrivo qualcosa ci penso non in termini di fedeltà ai fatti (il fatto è solo una rete di circostanze e di casualità) ma in termini di fedeltà a qualcosa di più profondo. Quando scrivo un racconto lo faccio perché in qualche modo ci credo, non come chi crede semplicemente nella storia, ma come chi crede in un sogno o in un’idea…

Quando scrivo, cerco di essere leale col sogno, non con le circostanze… Tento semplicemente di comunicare qual è il sogno e se è un sogno offuscato  non provo ad abbellirlo, e neppure a capirlo..

… Se dovessi dare un consiglio agli scrittori (e non credo ne abbiano bisogno perché ognuno deve scoprire le cose da sé) direi semplicemente questo: che lavorino il meno possibile alle loro opere. Non credo che cincischiare serva a qualcosa. Viene il momento in cui si scopre quello che si può fare, in cui si trova la propria voce naturale, il proprio ritmo…

… Quando scrivo non penso al lettore (perché il lettore è un personaggio immaginario) e neppure a me stesso (forse io stesso sono un personaggio immaginario) ma penso a quello che cerco di comunicare e faccio del mio meglio per non rovinarlo.Quando ero giovane credevo nell’espressione… Volevo esprimere tutto… Adesso sono arrivato alla conclusione (che può sembrare triste) che non credo più nell’espressione: credo solo nell’allusione.

Estratto da L’invenzione della poesia – Le lezioni americane, Mondadori, 2001.

Perché scrivo? Antonio Moresco

PERCHÉ SCRIVO? – La rubrica dedicata ai perché della scrittura

Antonio Moresco

Perché uno scrive? Sembra osceno che uno scriva per dire a delle altre persone “ecco, io ti riconfermo la tua immagine illusoria del mondo e sulla base di questa cosa cerco la complicità al ribasso, con te lettore…”, mi sembra vergognoso, ignobile, lo scrittore collabora col male se fa un a cosa di questo genere! E allora il fatto di sfondare, di oltrepassare, ma anche di traboccamento torna nelle cose che scrivo. È l’unico modo per far sì che attraverso la cruna della letteratura possa passare qualcosa di grosso.

Quello che abbiamo detto come specie umana è tutto il dicibile? Ma è una cosa che fa ridere! E allora io perché scrivo? Devo scrivere per riconfermare le persone nella loro paurosa idea del mondo, oppure devo accettare anche il dramma, la lacerazione di andare verso qualcosa che mi oltrepassa e che magari mi porta alla catastrofe? Se no non me ne sarebbe fregato niente di scrivere, non avrei scritto niente… Insomma, io ho avuto una grande ribellione nei confronti di questa maniera di leggere il mondo e di questa funzione dello scrittore che diventa un piccolo, povero cane da guardia dell’esistente, o meglio della convenzione dell’esistente, e non son riuscito a starci dentro.

Per me scrivere… io non mi sento una figura sociale, “lo scrittore” non è come “il professore”, “il preside”, “il bidello”. Il mio scrivere addirittura è fuori e contro la società. Sta in una dimensione diversa, dove siamo noi tutti anche se non sappiamo di esserci. A me interessa scrivere in questa maniera, io non mi sento uno a cui è stato dato il permesso di scrivere. Per me lo scrittore è la figura di un ribelle, un ribelle a “trecentosessanta gradi”.

Certe volte qualcuno mi chiede a quale tipo di lettore io mi rivolga. Io non penso a nessun tipo di lettore, non perché mi ritenga in qualche modo migliore di lui per poterlo disprezzare, ma perché se io penso a un pubblico, cercando il minimo comune denominatore, in realtà mi comporto come l’editore che in questo modo crea un’idea mistificante delle potenzialità presenti in ogni singolo lettore. Allora si diventa cinici e io non lo sono e non posso diventarlo, uno scrittore non può essere cinico.

Estratti da interviste ad Antonio Moresco (Café Boheme, 2014; Gabriele Bacci, UniInfoNews, 2015; Oscar Alicicco, Oblique Studio, 2010).

Antonio Moresco è nato a Mantova nel 1947 e vive a Milano. La sua “storia” di scrittore è contrassegnata dall’attesa di pubblicare. A quarantasei anni ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti Clandestinità per Bollati Boringhieri. Ha impiegato più di trent’anni per scrivere i tre romanzi Gli esordi, Canti del CaosGli increati (oggi tutti pubblicati da Mondadori). È stato uno dei pionieri del web letterario – sua l’idea di Nazione Indiana prima e de Il Primo Amore poi. La sua vita è stata segnata dalla lotta (a livello politico con una lunghissima militanza nella sinistra extraparlamentare, a livello letterario contro Calvino e Pasolini, e poi lotta contro un mondo editoriale che per molti anni non ha riconosciuto la sua voce). Dopo una lunga gavetta ha finalmente conquistato il riconoscimento: è autore Mondadori, è stato ospite della televisione, è seguito da moltissimi giovani.

Il nome di Antonio Moresco comparirà  nei manuali di letteratura dei nostri figli secondo il sondaggio realizzato dalla rivista  «Orlando Esplorazioni»  dedicato ai “venerati maestri” della generazione di scrittori che oggi hanno tra 50 e 70 anni. I curatori Paolo Di Paolo e Giacomo Raccis hanno interpellato critici e lettori esperti tra i 20 e i 40 anni chiedendo loro di rispondere con tre nomi alla domanda: chi, tra i 50-60enni di oggi, continueremo a leggere in futuro?