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Otto anni di editoria indipendente – Leonardo G. Luccone

«Ho iniziato a lavorare in editoria nel 1998 perché un’amica di un amico aveva sentito dire che mi piaceva leggere. Le serviva un volontario – o un gonzo – che correggesse le bozze di un testo periferico e noiosissimo».

 «Per fortuna i libri buoni restituiscono ogni cosa, con gli interessi».

In attesa del secondo appuntamento con Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti, il nostro “quaderno” con le migliori interviste a editori e autori realizzate dal 2011 a oggi, proponiamo uno stralcio di Laboratori di periferia, l’introduzione di Leonardo G. Luccone, Oblique Studio.

«Non ho avuto maestri, e un po’ mi dispiace. Non ho avuto maestri perché noi romani non ne avevamo. Se escludiamo Astrolabio, e/o, Theoria e pochi altri l’editoria romana che vediamo oggi è nata tutta insieme nel fulgore spaesato degli anni Novanta. Eravamo una banda di giovanotti che colavano entusiasmo. Pochi mezzi, poca pianificazione, ma tanta voglia di buttarsi nel fitto dell’inesplorato. Dal 2007 o giù di lì la quantità di editori romani attivi equipara – solo in numero! – quelli milanesi. Il fatto è che non abbiamo imparato a capitalizzare, a stilare un conto economico come si deve, a miscelare follia, creatività e impostazione, e questo continua a essere il nostro difetto più grave. La spinta degli anni Novanta è andata via via scemando».

«C’era coraggio, talento. Dov’è finito quello spirito? Credo che le nuove, promettenti case editrici siano nate industrializzate nel modo sbagliato: vedo il pericolo e il trauma di una ricerca in pantofole, con la sensazione che si stia tutti a inseguire la parte più corrosa della grande editoria. Scimmiottiamo. Gli editori romani non si parlano, non fanno blocco, non aprono fronti di crescita comuni. Non abbiamo imparato dalla storia di questa città dispersiva e sprecona».

«Esattamente otto anni fa nasceva Via dei Serpenti, un osservatorio che sotto la guida di Emanuela D’Alessio si è dato il compito di studiare il flusso energetico di questa baraonda di editori. Via dei Serpenti indaga senza voltarsi davanti alle contraddizioni, alle varianti sbiadite di un passato dietro l’angolo. Il loro lavoro è lì, on line, dovete andarlo a vedere. Sono stati tra i primi a cogliere certe derive o a battezzare scrittori incisivi come Malaj, Bartolomei, Funetta. Via dei Serpenti è la fotografia di una disillusione. Via dei Serpenti è lì a ricordarci che l’editoria è una magia insana che si prende tutto, ma proprio tutto».

Leonardo G. Luccone, nella poliedrica veste di editor, agente letterario, scrittore, traduttore, editore, sarà tra i protagonisti, con Luciano Funetta e Vanni Santoni, dell’incontro “Quando l’editore incontra l’autore: TUNUÉ, organizzato da Via dei Serpenti.

Mercoledì 9 ottobre, libreria Tomo, Roma
Ingresso gratuito!

 

Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
A cura di Emanuela D’Alessio, Rossella Gaudenzi e Sabina Terziani
Edito da Via dei Serpenti, settembre 2019
Introduzione di Leonardo G. Luccone
Progetto grafico di Cristina Barone

Il libro è disponibile alla libreria Tomo, a offerta libera.
Per sfogliarlo si veda qui

 

Otto anni nei boschi narrativi #1 Ade Zeno

In attesa di sfogliare il “quaderno” che stiamo realizzando per raccogliere le nostre interviste più belle, in otto anni di letture e passeggiate con editori e autori indipendenti, ecco qualche assaggio.

Titolo?
Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti
Editore?
Via dei Serpenti
Uscita?
Settembre 2019

Ade Zeno

Ade Zeno, scrittore torinese, ha esordito nel 2009 con il romanzo Argomenti per l’inferno per No Reply. Nel gennaio 2020 uscirà per Bollati Boringhieri il suo nuovo romanzo, L’incanto del pesce luna.
La sua prima intervista a Via dei Serpenti è dell’ottobre 2017.
Qui uno stralcio della nuova, aprile 2019.

Perché scrivere sotto pseudonimo
Diciamo che ho sempre avuto il sospetto di non esistere, o più esattamente di non esistere ancora. Dal dubitare di esistere all’inventare mondi possibili usando uno pseudonimo il passo è breve, se non altro per coerenza.

Il ruolo tra editor e scrittore
Il primo a seguire i miei lavori, quando ero ancora un pischello alla ricerca della propria voce, è stato Raul Montanari. Raul è stato il primo a degnarmi di attenzione dedicandomi tempo e pazienza, una ventata di ossigeno. Conservo ancora alcuni vecchi dattiloscritti pieni di sue annotazioni, punti esclamativi, parolacce. Trovare un maestro del suo calibro che ti segue all’inizio del percorso è un privilegio concesso a pochi, gli devo eterna riconoscenza, anche perché si occupò di me sapendo bene che, gratitudine a parte, non avrebbe ottenuto nulla in cambio.
La collaborazione con Leonardo Luccone è un discorso più complesso perché da un paio d’anni, oltre a essere il mio primo lettore, è anche il mio agente. Mi fido totalmente del suo sguardo e della sua professionalità.

I temi salienti del discorso narrativo
Ho alcune passioni e molte ossessioni. Inutile dire che ad animare il mio immaginario narrativo sono soprattutto le ultime. In genere i temi su cui mi arrovello morbosamente sono sempre gli stessi: morte, menomazione fisica, oblio, attrazione verso tutto ciò che è mostruoso. Roba allegra, insomma.

Progetti futuri
Il passato appartiene ai morti, il futuro è dei posteri. Verso questi ultimi nutro una strana forma di ansiosa nostalgia. Sul presente non ho molte cose da dire, a parte il fatto che nel complesso mi ha sempre fatto orrore. Mi sto anche dedicando alla drammaturgia, un antico amore messo da parte per troppo tempo. Scrivere dialoghi e didascalie mi fa stare bene, vai a capire perché. Il testo è pronto, un regista bravissimo ci sta già lavorando, probabilmente andrà in scena il prossimo anno. Si intitola Le ultime ore dell’umanità.

L’incanto del pesce luna
Solo Andrea Bajani lo ha voluto fin da subito per la collana che sta curando, e penso che un editore come Bollati Boringhieri sia perfetto per un libro del genere.

Ade Zeno è nato a Torino nel 1979. Ha esordito nel 2009 con il romanzo Argomenti per l’inferno per No Reply, finalista al Premio Tondelli. Ha anche scritto e diretto alcuni cortometraggi premiati in molti festival e un radiodramma, L’attimo più breve, andato in onda su Rai Radio3 nel 2012 in diretta dal Teatro Filodrammatici di Milano. Nel 2010 ha fondato, insieme al collettivo Sparajurij, la rivista letteraria internazionale Atti impuri. Il suo ultimo libro, L’angelo esposto, è uscito per Il Maestrale nel 2015. Da anni lavora come cerimoniere presso il Tempio Crematorio di Torino. Pronto per la pubblicazione il suo nuovo romanzo, L’incanto del pesce luna. È rappresentato da Oblique di Leonardo Luccone.

RACCONTI ITALIANI #3 – Intervista a Laura Fusconi, una voce che arriva dal passato

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

di Emanuela D’Alessio

Laura Fusconi, piacentina, ha 28 anni, lavora come grafica e appena può scappa in campagna per leggere e disegnare. Scrive storie per piacere. «Ci sono storie ovunque, alcune sono così belle che è un peccato vadano perse». Per scrivere ci vogliono pazienza e umiltà, ma più di ogni altra cosa «prepararsi a sputare sangue». A settembre uscirà il suo primo romanzo, Volo di paglia,  nato da una fotografia di sua madre del 1981,  «lei bella come il sole al castello di Boffalora, dove aveva affittato una stanza per l’estate». La “voce” di Laura Fusconi arriva dalla sua infanzia, dalle letture di Roald Dahl, dal suo film preferito Novecento, dalle fotografie della nonna.

Sei nata a Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, pochissimi anni fa, dopo gli studi classici ti sei dedicata alla grafica e alla scrittura, passando dalla scuola Holden di Torino. Hai scritto qualche racconto ma sei subito arrivata al romanzo, di cui aspettiamo l’uscita a settembre. Ebbene, che cosa fai in attesa di trovare il tuo primo libro in libreria?
In realtà continuo la mia vita di sempre: lavoro come grafica nel reparto creativo di un’azienda di Lodi e nei weekend scappo in campagna, a Verdeto, dove posso leggere, disegnare con gli acquerelli e farmi viziare dalla cucina di mio padre.
Certo, il pensiero del libro in uscita rende belle anche le giornate con trentasette gradi passate sui binari ad aspettare treni in ritardo.

Raccontare storie è, per te, una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
Raccontare storie per me è un piacere: mi diverto a inventare situazioni e personaggi, a scrivere dialoghi e a cacciare qua e là dettagli, pezzi di frasi e di persone che mi hanno colpito. Ci sono storie ovunque, alcune sono così belle che è un peccato vadano perse. Mi piace fermarle sulla carta. Avere l’impressione di riuscire in qualche modo a trattenerle.

Hai frequentato la celebre scuola Holden che, nel tuo caso, sembra aver determinato ottimi risultati. Devo quindi ricredermi sull’effettiva utilità delle scuole di scrittura?
I due anni della scuola Holden sono stati un tempo mio in cui ho potuto chiedermi se scrivere era davvero quello che volevo fare. Il confronto quotidiano con tanti ragazzi di talento ha rappresentato per me uno stimolo e un’occasione fondamentale per riflettere. Lì ho incontrato Leonardo Luccone, che mi ha subito colpito per la sua sensibilità e il suo gusto in ambito letterario.
Per quanto riguarda le scuole di scrittura in generale, credo che possano rappresentare una palestra significativa: certo non insegnano propriamente a scrivere, ma letture, incontri, discussioni, analisi ed esercizi aiutano a focalizzarsi meglio sulla scrittura e a trovare la propria voce. Il rischio da scongiurare è quello dell’appiattimento e dell’omologazione, perché l’originalità e l’anticonformismo non sempre vengono premiati.

Da una parte ci sono le scuole di scrittura con costi di iscrizione anche elevati, dall’altra i forzati del self publishing, sempre più numerosi e incoraggiati dalla prospettiva di celebrità a costo zero e senza intermediari. In mezzo ci sono gli agenti letterari, ad esempio Oblique Studio che ti rappresenta, e in un angolo le centinaia di manoscritti nelle case editrici con l’unica prospettiva di prendere polvere. Che cosa c’è di giusto e sbagliato, necessario e superfluo in questo scenario?
Non mi ritengo la persona adatta per dire cosa c’è di giusto o di sbagliato in tutto questo: sono l’ultima arrivata. Nel mio piccolo, parlando della mia esperienza, penso che le parole chiave siano pazienza e umiltà. La pazienza perché il tutto e subito non esiste, e l’umiltà per non credere che quello che hai scritto sia da Nobel e tu un genio incompreso perché al 99% non lo sei. Penso sia sbagliato voler pubblicare a tutti i costi senza confrontarsi: puoi piangere finché vuoi, ma è fondamentale ascoltare le critiche, tutte, tornare e ritornare testa china sul proprio lavoro, lasciare da parte presunzione e arroganza che non portano a niente, trovare un buon agente, cercare di pubblicare su riviste, online e soprattutto cartacee e, più di ogni altra cosa, prepararsi a sputare sangue.

Soffermiamoci sul tuo racconto Le bambole non muoiono, una storia dai toni fiabeschi che, come tutte le favole, si nutre di mistero e magia, sempre in bilico tra realtà e fantasia, con un finale che lascia un brivido di inquietudine. Il tuo sguardo contemporaneo si sofferma sugli echi del passato per restituire voce a chi non è più. Uno sguardo profondo e intenso che suscita sorpresa e incanto. Da dove arriva questo sguardo?
Arriva dalla mia infanzia, dai miei genitori, dalle domeniche passate nella casa delle zie di mia madre, dai libri di Roald Dahl che leggevo da piccola, dalle storie che inventavo per terrorizzare mia sorella e da quelle che raccontava mio fratello non facendomi dormire la notte. Arriva da Novecento di Bertolucci che è il mio film preferito, dalle foto che mia nonna tirava fuori da una scatola di latta che teneva sopra l’armadio.

I tuoi racconti sono comparsi, oltre che sulle rassegne di Oblique, su alcune riviste letterarie. Qual è o dovrebbe essere il ruolo delle riviste letterarie nel mondo (ristretto) dell’editoria: palestre di scrittura, trampolini di lancio, luoghi culturali alternativi, rifugio per disillusi?
Le riviste letterarie sono un’occasione per chi vuole scrivere, una tappa fondamentale nel percorso di un autore dato che rappresentano il primo momento di confronto con l’editoria e il pubblico. Leggerle è piacere per la cura, l’attenzione ai dettagli e alla qualità che le caratterizzano.

Non parleremo ovviamente del tuo romanzo, Volo di paglia, perché lo faremo quando lo avrò letto. Però posso chiederti di raccontare rapidamente la sua gestazione, che mi sembra sia stata abbastanza lunga, e ancor prima, la sua idea originaria e l’incontro con Leonardo Luccone.
Del romanzo posso solo dire che è stato un lavoro lungo e bellissimo, non si arriva mai alla fine: ancora adesso non ci credo; forse quando lo vedrò in libreria incomincerò finalmente a realizzare. L’idea originaria è una fotografia di mia madre: 1981, lei bella come il sole al castello di Boffalora, dove aveva affittato una stanza per l’estate.

Scrittori e libri non possono fare a meno delle librerie, che restano sempre l’anello più debole della filiera editoriale. Confesso di non sapere affatto se Piacenza sia o meno una città viva sul piano culturale e letterario. Né conosco il contesto librario piacentino. Puoi fornire tu qualche indicazione?
La mia città ospita da sempre festival culturali di caratura nazionale: il mio preferito era Carovane, che ha portato in Italia scrittori come Luis Sepúlveda e Paco Ignazio Taibo II.
Lì, da ragazzina, avevo incontrato Bianca Pitzorno: era stata un’emozione farmi fare la dedica su Ascolta il mio cuore, quando ancora mi stavano antipatiche tutte le bambine che si chiamavano Sveva ed ero sicurissima che avrei chiamato mia figlia Prisca. Ora il posto di Carovane è stato preso dal festival blues Dal Mississippi al Po, che alla letteratura ha aggiunto la musica. In città ci sono tre librerie indipendenti (Fahrenheit, Bookbank, Romagnosi) che costituiscono importanti punti di aggregazione.

Come dovrebbe essere la tua libreria ideale e ti è capitato di entrarci almeno una volta?
Una via di mezzo tra Shakespeare and Company a Parigi, Strand a New York e City Lights a San Francisco: un posto pieno di divani e corridoi stretti, dove puoi passare ore a vagare tra gli scaffali e a parlare coi librai e con altri lettori.

Che tipo di lettrice sei (ordinata, compulsiva?) e qual è stato fino ad ora il tuo percorso di lettura?
Leggo molto, da sempre, di tutto. Quando trovo uno scrittore che mi è affine divento compulsiva e leggo tutto quello che trovo di suo. I primi che mi vengono in mente sono Cesare Pavese, Haruki Murakami, Irène Némirovsky, Kent Haruf, Alice Munro, Marilynne Robinson ed Elizabeth Strout. A proposito, non smette di emozionarmi il pensiero che il mio Volo di paglia uscirà proprio nella stessa collana dei romanzi Olive Kitteridge, I ragazzi Burgess, Resta con me, Amy e Isabelle.

Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
In questo momento La famiglia Aubrey di Rebecca West. In pianta stabile La luna e i falò di Cesare Pavese, Il fucile da caccia di Inoue Yasushi, La banda dei brocchi di Jonathan Coe e tutto il teatro di Sarah Kane.

 

 

RACCONTI ITALIANI #3 – Le bambole non muoiono

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

Le bambole non muoiono di Laura Fusconi è uscito sulla Rassegna di Oblique (febbraio 2016). Ringraziamo Leonardo G. Luccone per la gentile concessione.

di Laura Fusconi*

Il buio davanti a noi mi è familiare. Erano anni che non scendevo qua sotto e ci metto un po’ a trovare l’interruttore, come se nel tempo fosse scivolato più in basso. Matilde si lamenta e mi stringe più forte la mano. Io accarezzo la polvere.
Quando la luce investe la stanza, i miei occhi fanno fatica ad abituarsi e per un attimo mi sembra tutto sbiadito, un limbo di oggetti usati troppo o non usati mai. C’è qualcosa di inquietante nel modo in cui sono ammassati gli scatoloni e i sacchi di vestiti smessi, con i nomi delle stagioni scritti a pennarello su nastri di scotch. L’armadio, la cassapanca e la credenza sembrano guardarci con rassegnazione: mobili vecchi, ma ancora in buono stato, che è un peccato buttare per cui li si lascia qui, dove possono essere dimenticati senza sensi di colpa.
«Aiutami a cercare i piatti azzurri della nonna» dico a Matilde.
Lei mi lascia la mano e senza dir nulla raggiunge un cavallino a dondolo abbandonato in un angolo. Era il mio. I suoi occhi dipinti, neri e tondi, mi paiono tristi ora, ma forse è per via delle ombre che tagliano la stanza.
Mi avvicino al comò – troppo austera per il salotto di una casa moderna – e apro il primo cassetto: maglioni di lana con fantasie fuori moda. L’odore di vecchio mi pizzica le narici.
Nel secondo trovo foulard di seta e vestiti di carnevale. Sorrido nel vedere quello di Arlecchino, il mio preferito. Lo tiro fuori con delicatezza e scopro che manca il secondo bottone e che una manica è scucita. Mi chiedo se possa andare bene a Matilde e mi volto per mostrarglielo, ma le parole mi muoiono in gola.
Matilde è seduta per terra e tiene in grembo la teca con la treccia di Delfina. La guarda stupita, sfiorando il coperchio di vetro.
Mi avvicino e le tolgo la teca dalle mani.
«E questa dove l’hai trovata?»
Indica il ripiano basso del mobiletto vicino al cavallo a dondolo. Ero certa si trovasse da un’altra parte.
«è la treccia di una bambola» dico in fretta, per rispondere al suo sguardo interrogativo.
«Ma è morta» dice lei.
«Le bambole non muoiono.»
«No, la treccia. è morta.»
Rimango in silenzio.
«Sono capelli, come i tuoi» dico poi.
«I miei sono più biondi.»
«I tuoi sono bellissimi.»
Matilde mi guarda e io non so più cosa dire. Ho il vestito da Arlecchino in una mano e la teca nell’altra.

Era il nostro segreto più bello, quello che nonno Ezio ci raccontava ogni volta che mamma e papà uscivano. Non appena la porta si chiudeva, io e mio fratello ci precipitavamo in sala, davanti alla poltrona verde dove sedeva sempre il nonno. Si toglieva gli occhiali con un sorriso compiaciuto e ci squadrava come per valutare se fossimo all’altezza. Poi si chinava verso di noi e ci chiedeva, abbassando la voce: «Siv sicur?».

Delfina era la sorella della mia bisnonna, settima di dieci figli cresciuti come animali selvatici, scuri e magri da far spavento, con i denti storti e le mani consumate.
«Guardì i me occ» diceva sempre nonno Ezio. «A i enn i medesim occ ad me mèr. I medesim occ ch’ a gh’emma tutt’ in famiglia. I occ ch’a gh’avi anca viètar
Delfina era la sola ad avere gli occhi blu e i capelli biondi, motivo d’orgoglio per i genitori che la esibivano come un gioiello e cercavano di vestirla meglio che potevano. Dicevano che era il fiore della famiglia.
La maestra non la rimproverava mai, neanche quando non sapeva le risposte o sbagliava le operazioni alla lavagna. Si era arrabbiata con lei solo la volta in cui aveva rovesciato l’inchiostro del calamaio: stringendo nel pugno il vasetto, Delfina aveva alzato la mano, come per prendere parola, poi se l’era versato sui capelli senza dire nulla.
I compagni di scuola la guardavano con stizza e i fratelli, sulla via di casa, acceleravano il passo e la lasciavano indietro. Non parlava quasi mai.

Isolotto Maggi (Piacenza)

Piacenza, con i suoi lunghi viali alberati, si attraversava in venti minuti, fino al Po.
D’estate il fiume si animava: sull’isolotto Maggi andavano a fare il bagno con costumi castigatissimi le signorine e i signorini di buona famiglia, mentre in certe anse i figli dei braccianti lasciavano i vestiti sull’erba e sguazzavano nudi, inseguendo rane e pesci gatto.
Ma nei mesi autunnali, quando la luce cambiava con la stessa rapidità della corrente e le ombre lunghe dei pioppi scendevano sull’argine come fantasmi, il Po si faceva gonfio e muto, e la nebbia, una nebbia compatta che si alzava lenta dall’acqua, sembrava cancellare il passato. La gente si chiudeva in casa e lungo il fiume non si vedevano più pescatori, né carrettieri o lavandaie. Soltanto il prete di Borgotrebbia, ogni tanto, si spingeva più a ovest dell’argine fino alla chiesa sconsacrata degli appestati, per togliere le croci rovesciate e cancellare i pentacoli che qualche fanatico disegnava davanti al vecchio altare.
Non lontano dalla chiesa si poteva scorgere una cascina tra gli alberi, con le persiane scrostate e i muri cadenti. Ci abitava la Corca, una vecchia incattivita dalla solitudine che usciva solo per andare a raccogliere erbe e radici lungo il fiume. La gente evitava di passare per quel tratto dell’argine. Faceva il malocchio, dicevano. Qualcuno le vide camminare insieme, la Corca e Delfina, due sagome nere nella nebbia. E videro anche che Delfina la aiutava a trascinare il suo sacco.
«At gh’è da stè luntan da cla vecia lé» le dicevano.
Ma Delfina tornava tardi la sera e spesso spariva per ore senza dire a nessuno dove andava. Diventò ancora più silenziosa, i suoi occhi si fecero sfuggenti e quando rientrava in casa aveva le mani fredde e addosso l’odore del fiume.
«A t’er cu la Corca? Cus at ga vè a fè da lé?»
Delfina taceva e la gente iniziò a parlare. Dapprima voci isolate, poi sempre più insistenti. Se Delfina se ne stava sempre per conto suo, aveva un segreto da nascondere. Se la pioggia rovinava il raccolto, era colpa di Delfina. Se moriva un cane o un bambino, era sicuramente colpa di Delfina.
«Fiöla dal dieul» iniziarono a chiamarla.
I bambini più piccoli le lanciavano sassi quando camminava per strada e scappavano se lei si fermava a fissarli.
Il prete disse di averla sentita invocare il maligno nella chiesa degli appestati e la maestra smise di chiamarla alla lavagna.
Persino i fratelli e i genitori iniziarono a poco a poco a guardarla con una certa soggezione e a non farle più domande se tardava a rientrare.
Era una sera di ottobre, quando il prete trovò il corpicino bianco di Delfina gonfio d’acqua tra le canne del fiume. Radunò la gente in piazza e poi andarono alla cascina della Corca con vanghe e bastoni, ma la vecchia non era là, né da nessun’altra parte. Il fuoco del camino era ancora acceso.
Parteciparono in tanti al funerale, più per curiosità che per altro. Soltanto i bambini più piccoli rimasero fuori nella piazzola a giocare a Mondo. Al cimitero, invece, non andò quasi nessuno, forse per via del freddo, forse perché ognuno voleva dire la sua davanti a un bicchiere di vino.
La seppellirono in fretta, ansiosi di dimenticarsi di lei. Ma prima di chiudere la bara, la madre tagliò con un coltello la sua treccia.

La treccia rimase sul ripiano della credenza per giorni finché il padre non rientrò una sera con un grosso barattolo di vetro dal coperchio rosso, dentro cui la conservarono. Una volta alla settimana la madre cambiava i fiocchi della treccia e poi, insieme ai figli, andava a lasciare un fiore selvatico sulla tomba di Delfina. Sceglieva sempre fiori bianchi.
Il padre morì pochi anni dopo a Caporetto e la spagnola del ’19 si portò via la madre e i figli sopravvissuti alla guerra. Risparmiò solo la maggiore, la mia bisnonna Aurora, che a neanche vent’anni si trovò senza nessuno al mondo. Si guadagnava da vivere come camiciaia nella sartoria di via Sopramuro. Fu proprio lì che conobbe il mio bisnonno: era una mattina di aprile e lui si aggirava con una mappa della città, chiedendo ai passanti come raggiungere piazza Duomo. Non appena la mia bisnonna lo vide scoppiò a ridere. Non rideva quasi mai la mia bisnonna, e non seppe spiegare, neanche negli anni a venire, cosa avesse suscitato quella risata, se i pantaloni a quadretti o l’aria spaesata di lui.
Il mio bisnonno si chiamava Ernesto e veniva da Forlì: faceva il cantoniere ed era appena stato trasferito a Piacenza. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo. Il nonno diceva che era un bel tipo, d’un allegria contagiosa.
Quando, dopo il matrimonio, la mia bisnonna andò a vivere a Sant’Antonio, nella casa cantoniera rossa sul ciglio della provinciale, portò con sé il barattolo della treccia. Ernesto non si stancava mai di ascoltare la storia di Delfina.
Accompagnava la mia bisnonna al cimitero di Borgotrebbia e mentre lei pregava sulle tombe dei genitori e dei fratelli, lui rimaneva muto davanti a quella di Delfina.
Passeggiavano spesso sull’argine e lui, ogni volta, insisteva per arrivare fino alla cascina della Corca, anche se il sole era già calato.
Buttò il barattolo e fece costruire una teca per la treccia. Si divertiva quando veniva gente in casa: «Cla là a l’é me cugnè» diceva, in perfetto dialetto piacentino, indicando la teca in bella vista sulla credenza della cucina. Si beava delle espressioni stupite dei suoi ospiti. Nei momenti di intimità, capitava che chiamasse la mia bisnonna «Streghetta».
Lei morì dando alla luce mio nonno, un esserino rosso e grinzoso, con un sacco di capelli neri in testa e due occhi blu che in un paio di settimane divennero scuri come pozzi.
«Me pèr m’ l’ ha mei dit, ma l’aris vurì ch’ i me occ i rastesan bleu
Crebbe con la storia di Delfina e con la teca di vetro sul ripiano della credenza. La treccia della zia era tutto quello che lo teneva legato a sua madre.
Sposò mia nonna, una donna piccolina che insegnava alla scuola elementare Giuseppe Mazzini, ed ebbero una sola figlia. Ma fin da bambina, mia madre, piangeva ogni volta che sentiva nominare Delfina e si tappava le orecchie con le mani.
Quando mio nonno, ormai vedovo, si trasferì a casa nostra, portò con sé la treccia. Mia madre fu irremovibile, ci raccontò lui. «Puoi venire a stare da noi solo se ti liberi di quella cosa orrenda» gli aveva detto. «E non ti azzardare a farne parola con i bambini.»
Il nonno nascose la teca in cantina e giurò di averla buttata.

«Un dé v’ la farò ved» ci diceva. La curiosità ci divorava e ci teneva svegli la notte a immaginare gli incantesimi che la Corca insegnava a Delfina.
Ogni volta, alla fine del racconto, il nonno si incupiva: era inconcepibile per lui che una bambina di neanche dieci anni fosse stata uccisa solo perché aveva gli occhi blu e se ne stava per conto suo. Ma io e mio fratello smettevamo di ascoltare le sue congetture, a quel punto.
Poi un pomeriggio ci portò in cantina e ci mostrò la treccia. Era il giorno del mio undicesimo compleanno.

Matilde mi prende la mano, mi dice che vuole tornare di sopra perché c’è puzza e non le piace stare qua sotto. Vuole che le legga le avventure di Ciccio e Tommasone. Appoggio la teca su uno scaffale in alto e mi chino per prendere in braccio Matilde.
«Menne» le dico, mentre usciamo dalla cantina. «Facciamo che la treccia della bambola è il nostro segreto? Non lo devi dire a nessuno che l’hai vista.»
«Neanche a papà e a mamma?»
«No, sarà il segreto tuo e della zia. Promesso?»

Siamo coricate sul divano, mi formicola una gamba, ma non oso muovermi. Il libro di Ciccio e Tommasone è aperto sul pavimento. Matilde ha la testa sulla mia pancia, credo si sia addormentata. La accarezzo piano, il suo respiro è tranquillo. Mi sembra così fragile. Quando era più piccola non volevo tenerla in braccio perché avevo paura di romperla. Mio fratello rideva. «Hai venticinque anni e non sai tenere in braccio una bambina.»

Quando morì mio nonno non piansi. Ero arrabbiata perché ci aveva lasciato così, da un giorno all’altro, senza nemmeno salutarci. Io e mio fratello smettemmo di parlare di Delfina, nascondemmo la treccia in una parte buia del nostro cuore, dove gettammo alla rinfusa anche la nostra infanzia e gli occhiali del nonno, senza farne più parola. Ricordo che lo sognavo spesso la notte. Erano sogni muti, vedevo lui e Delfina lungo il fiume che si tenevano per mano, nipote e zia, lui il vecchio che per me era sempre stato, lei una bambina bellissima con un vestitino bianco. Ma quando provavo a chiamarli non mi sentivano, e se iniziavo a correre loro scomparivano tra gli alberi. Allora mi sedevo per terra e restavo a guardare le increspature dell’acqua e i gorghi in cui si rincorrevano gli anni, dove l’età non contava nulla e tutto era inconsistenza e ripetizione. Mi sporgevo oltre la riva e volevo buttarmi, chiudere gli occhi e abbandonarmi al fiume che mi chiamava con la voce del nonno, ma qualcosa me lo impediva e potevo solo guardare il mio riflesso che tremava sull’acqua. Nel fiume iniziavano a scorrere capelli biondi e io ci immergevo le mani. Non ero spaventata. Mi solleticavano le dita. Solo dopo mi rendevo conto che tra quei capelli c’erano anche i miei, e non erano neri, ma bianchi, più bianchi di quelli del nonno. Mi sporgevo di nuovo e il mio riflesso era scomparso. Lasciavo impronte vuote sull’acqua.
Mi svegliavo in lacrime, con la pelle umida e le mani gelate.

Sto per chiudere gli occhi quando Matilde ha un piccolo sussulto e poi, lentamente, si volta verso di me.
«Come si chiamava la bambola?» chiede
.La guancia schiacciata le deforma l’espressione assorta.
«Delfina» le dico.
Lei ride.
«Come l’animale?»
«Come l’animale.»
Ci pensa un po’ su.
«E dov’è adesso?»
«è andata via perché nessuno voleva giocare con lei.»
«E perché le avete tagliato i capelli?»
Sto per risponderle qualcosa, ma suona il campanello.
Lei scatta in piedi e corre al citofono, come fa ogni volta che è qui.
«Chi è?» la sento chiedere con la sua vocetta squillante.
Resto a guardare il soffitto.
Dopo qualche secondo ricompare in salotto stropicciandosi le mani.
«Credevo che era il mio papà, ma invece era Delfina» dice, evitando il mio sguardo.
Mi alzo a sedere.
«Come?»
Si tira giù le maniche della felpa fino a coprirsi le dita.
«Ha detto che rivuole i suoi capelli.»
Sento bussare alla porta. Dalla cadenza dei colpi riconosco mio fratello.
Guardo Matilde, lei guarda me, con gli occhi di chi si aspetta qualcosa.
Mi chino verso di lei.
«Andiamo ad aprirle?» le sussurro all’orecchio.
Lei si illumina in un sorriso di vittoria.
«Sì» dice convinta.
Ci incamminiamo verso la porta tenendoci per mano. Non ricordo se sono stata io a prendere la sua o lei a prendere la mia, ma per un attimo mi sembra di provare una sensazione che non mi è nuova, e la mano di mio fratello è piccola e sudata nella mia e la voce di nonno Ezio non è falsata da quindici anni di silenzio, ma la sento chiara e nitida quando, prima di spingere piano la porta della cantina e addentrarsi nel buio, si volta verso di noi e ci chiede, con gli occhi che brillano quanto i nostri: «Siv sicur?».

*Laura Fusconi è nata a Piacenza nel 1990. Dopo il liceo classico e una laurea in Graphic Design&Art Direction alla Naba, si è diplomata nel 2015 al college di scrittura della Scuola Holden. I suoi racconti sono usciti su «retabloid», «effe», «verde rivista», «achab». Il 30 agosto 2018 uscirà per Fazi Volo di paglia, il suo primo romanzo.

RACCONTI ITALIANI #2 Intervista a Elvis Malaj, un cantastorie che diventa scrittore

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

*L’immagine di copertina è un’illustrazione di Alessandro Ripane

di Emanuela D’Alessio

Elvis Malaj, albanese di nascita, vive in Italia (attualmente a Padova) da quando aveva quindici anni. La sua “voce” è come l’acciottolìo di pietre che scivolano giù da un pendio, è una voce che non prende mai fiato, che rimbalza da una parola all’altra. E nonostante l’intercalare da “carrettiere” (chissà se lo fa apposta per scandalizzare o gli viene naturale), noi non smettiamo di ascoltare.
Elvis Malaj ha ventisette anni, ha imparato l’italiano guardando la tv, è diventato lettore leggendo in italiano, ma il suo è un italiano «sporco, spurio, meticcio», perché pur avendo tradito la lingua di origine «un immigrato in fin dei conti è uno che pensa a sé stesso», non è riuscito ad assorbire fino in fondo quella nuova.
A Bajze, dove è nato, non esiste nemmeno una libreria, non ha mai letto un libro o parlato di libri con gli amici, perché era «roba da froci».
Non sente di avere qualcosa di importante da dire, ma semplicemente di avere delle storie. «Sono un cantastorie, scrittore mi hanno fatto diventare quelli di Oblique». Quelli di Oblique sono Leonardo Luccone ed Elvira Grassi che a loro volta hanno convinto gli editori di Racconti Edizioni a pubblicare la raccolta di racconti Dal tuo terrazzo si vede casa mia.
«Penso che i ragazzi di Racconti siano dei pazzi. Poi, tenendo conto che neanche io sono uno tanto a posto, c’è il rischio che venga fuori qualcosa di buono».
Qualcosa di buono è già venuto fuori, visto che Elvis Malaj è il primo autore italiano della casa editrice romana specializzata in short stories, fino a oggi rigorosamente internazionali. Ha ultimato il suo primo romanzo Il mare è rotondo, in cerca di editore.

Elvis Malaj

Sei nato in Albania e vivi a Padova, dopo essere passato da Alessandria e Belluno. Nel racconto Il lupo della steppa (nel tuo libro Dal tuo terrazzo si vede casa mia) alla domanda «come ti trovi in Italia?» il protagonista Çoban risponde: «Trovarsi bene o meno in un posto non dipende dal posto, dipende da te. Ovunque vai ti porti sempre dietro qualcosa che alla fine rende ogni posto uguale a un altro. Potrei anche rispondere alla sua domanda, ma non significherebbe niente. Tradirei semplicemente la mia capacità di trovarmi bene o male in Italia». Che cosa ti sei portato dietro fin qui, in Italia?
Ce l’hai presente quell’idea romantica del ricominciare? Andare alla stazione, salire su treno e partire, andare lontano, non importa dove, in una nuova città, una nuova vita, lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare. Magari addirittura in un altro paese, imparare una lingua nuova, costruirti una vita tutta da capo, come piace a te, senza ripetere gli errori fatti. Abbandonare una vita logora e stantia in direzione di qualcosa di nuovo, ributtarsi nella mischia e cercare di cogliere l’occasione, avere il coraggio di salire su quel cazzo di treno perché la vita è solo tua e puoi farne quello che vuoi (la senti, la senti l’eccitazione?). Ecco, per me questa cosa non ha mai funzionato. Non solo quando ho cambiato città, ma anche quando ho cambiato paese. Tutte le volte che ho ricominciato non ho mai veramente ricominciato. La mia vita è un copione che continua a ripetersi, magari i luoghi e le persone sono diversi ma il copione rimane sempre lo stesso. Cambiando paese non ho cambiato un bel niente. Secondo me la risposta di Çoban significa questo. E allora come si fa a ricominciare? Ricominciando da sé stessi. Ma come? Non lo so, non me l’hanno ancora insegnato. Che cosa mi sono portato dietro fin qui? Non so rispondere.

Ti sei convinto e hai convinto di essere uno scrittore e nel frattempo hai accumulato le occupazioni più disparate. Dici che stai cercando di smettere, di lavorare?
Quello che sto cercando di smettere non è di lavorare, ma di continuare a fare lavori di merda. Tutti i lavori che ho fatto finora, a parte scrivere, sono tali. Quindi, cercare di farla finita con lavori che non mi soddisfano non è mica un’idea malvagia. Solo che sappiamo bene che per arrivare al punto in cui uno scrittore possa vivere di sola scrittura ce ne vuole. Porca puttana, ho sbagliato mestiere.

«Scrivere è il modo più accessibile di raccontare storie» hai spiegato in occasione della presentazione a Roma del tuo libro. Quindi raccontare storie, per te, è una conseguenza di cosa: vocazione, necessità, casualità?
È la soddisfazione di un bisogno naturale, fisiologico, come scopare o mangiare. Non sento di avere qualcosa di importante da dire. Ho semplicemente delle storie, sono appassionato di storie. Le vedo, sono tutt’intorno a me. Magari io e te ascoltiamo e vediamo la stessa cosa, però io sono capace di vederci una storia, per quanto inutile e banale possa essere l’oggetto della nostra osservazione. E mi piace raccontarla. Sono un cantastorie. Adesso sarò un po’ melenso, ma il sorriso che riesco a strappare alle persone quando leggo un mio racconto mi fa veramente godere.

Come sei riuscito a convincere «quelli di Oblique» che sei uno scrittore?
Con il racconto Mrika, che è stato scelto in una delle serate di 8×8 di qualche anno fa. La verità è che non li ho convinti. Sono stati loro che sono riusciti a scorgere in me uno scrittore. Ma ancora non lo ero, loro mi hanno fatto diventare scrittore.

Hai pubblicato Dal tuo terrazzo si vede casa mia con Racconti edizioni, la giovanissima e agguerrita casa editrice romana che ha iniziato con te a pubblicare anche autori italiani, rigorosamente di racconti. Un esordio importante, sia per te, sia per loro. Che cosa ne pensi?
Esordire con un esordiente, in un mercato come il nostro, con una raccolta di racconti, prendendo un albanese e spacciandolo per italiano. Penso che i ragazzi di Racconti siano dei pazzi, e mi fa veramente piacere che lo siano. Poi, tenendo conto che neanche io sono uno tanto a posto, c’è il rischio che venga fuori qualcosa di buono.

Quando sei arrivato in Italia avevi quindici anni e già conoscevi l’italiano abbastanza bene. La tua scrittura nasce direttamente in italiano? E, se è così, che cosa vuol dire esprimersi in una lingua diversa dalla propria?
La mia scrittura nasce in italiano perché sono diventato un lettore leggendo in italiano. Cosa vuol dire? Niente, fai diventare la nuova lingua la tua lingua. Sa di tradimento? Sì, un po’ lo è. Un immigrato, in fin dei conti, è uno che pensa a sé stesso. Ma a parte questo, non assorbi mai la nuova lingua fino in fondo, e non riesci a separarla del tutto dalla lingua madre. Quindi il tuo non è italiano, è il tuo italiano. Un italiano sporco, spurio, meticcio.

Sei tornato in Albania solo tre volte in circa dieci anni dalla tua partenza, eppure le tue storie raccontano quasi sempre del tuo paese, attraverso i personaggi, i luoghi della tua infanzia. Di che cosa si tratta? Nostalgia, elaborazione di un distacco, riconciliazione con le proprie origini?
Non si tratta di nessuna di queste cose. Come scrittore, penso di avere un buon rapporto con l’Albania, c’è un ottimo equilibrio tra dare e avere. E forse sono lo scrittore albanese più albanese che ci sia in circolazione. Come persona, invece, come figlio di quella terra, è un altro paio di maniche, in questo caso la storia è un po’ più complicata. Il rapporto padre-figlio non è mai stato semplice. Comunque sia, che ti piacciano o meno, i tuoi genitori rimangono sempre i tuoi genitori.

La mia conoscenza della letteratura albanese si limita a Ismail Kadare, ormai 81enne, uno dei pochi tradotti in Italia. Puoi citarne altri, provando a spiegarci il perché della scarsa diffusione oltreconfine delle loro opere?
Ti dico la verità, pure la mia conoscenza della letteratura albanese è limitata. Ma un paio di nomi te li faccio: Gazmend Kapllani, che ha scritto un romanzo sull’immigrazione, Breve diario di frontiera (i romanzi sull’immigrazione di solito non mi piacciono ma il suo mi è piaciuto), e Ornela Vorpsi, perché sa scrivere. Sul motivo della scarsa diffusione non ti so dire, bisognerebbe fare un’analisi come si deve. Ti posso dire però che gli scrittori albanesi in Francia vanno di più.

Scrittori e libri non possono fare a meno delle librerie, l’anello più debole della filiera editoriale. Lo è in Italia senza dubbio, ma qual è la situazione delle librerie in Albania?
In Albania non ne parliamo. Manca proprio la cultura e la coltura del libro e delle librerie tra i giovani. Non leggono. Quando ero in Albania neanche io leggevo, non ho mai parlato con un amico di libri, e a Bajze non c’era nemmeno una libreria. I libri venivano visti come roba da froci. Con i miei amici parlavo di cose importanti, parlavamo di fica, anche se poi nessuno di noi scopava. Mi auguro che in questi anni qualcosa sia cambiato.

Qual è la tua libreria ideale?
La mia libreria ideale è una libreria piena di persone.

Prima di scrivere si deve (o dovrebbe) leggere. Qual è stato ed è il tuo percorso di lettore?
Il mio periodo più intenso di lettore è stato quello iniziale, quando è scattata la fiamma, e ho letto autori di fine Ottocento-inizio Novecento, tipo Kafka, Svevo, Čechov, Schnitzler, Pirandello, Tozzi, Hesse eccetera. Invece quello attuale è un po’ a caso, leggo di tutto senza un nesso logico.

Che cosa c’è da leggere in questo momento sul tuo comodino?
Paolo Nori, Bassotuba non c’è.

Leggi L’autobiografia del personaggio che poi sarei io

RACCONTI ITALIANI #2 – L’autobiografia del personaggio che poi sarei io

RACCONTI ITALIANI – rubrica dedicata al racconto italiano contemporaneo

L’autobiografia del personaggio che poi sarei io di Elvis Malaj è uscito su Il Libraio (19 ottobre 2017). Ringraziamo Leonardo G. Luccone per la gentile concessione.

di Elvis Malaj*

Sono nato nel marzo del Novanta, un anno di grandi cambiamenti per l’Albania. Alle famiglie delle zone rurali vennero concessi una mucca e qualche pecora, il che significava che non avrei patito la fame toccata a mio fratello più grande. Mentre trascorrevo un’infanzia spensierata scarrozzando per la campagna in uno stato brado, l’Albania attraversava una fase confusa dove non era chiaro il confine tra legale e illegale. Bajze, dove sono nato, si trova in una posizione strategica, e così in poco tempo è diventata una cittadina fiorente grazie al contrabbando con il Montenegro. Gli albanesi stavano assaporando la democrazia, ma poi si è rivelata non essere la democrazia che credevano e sono rimasti delusi.

Bajze, stazione

Quando siamo arrivati in Italia avevo quindici anni. La lingua la sapevo abbastanza e degli italiani sapevo che erano molto amichevoli. Tutto questo grazie alla tv. Già il primo giorno, mentre eravamo in treno verso Alessandria, un signore siciliano seduto di fianco si è mostrato molto gentile quando gli ho detto che ero albanese. Mi ha messo una mano sul ginocchio e poi l’ha fatta scivolare verso l’interno della coscia. Io l’ho lasciato fare, non sapevo ancora dell’esistenza dei gay. Un’altra cosa che sapevo degli italiani, cioè che sapevamo tutti, è che erano ricchi e che buttavano la roba ancora buona. Lì nel condominio mi vedevano spesso insieme a mio fratello fare su e giù per le scale con divani scassati e tv rotte.

Mia madre l’italiano non lo sapeva per niente. Le prime parole che ha imparato sono state «katro figli scola, no lavore». Era riuscita a scovare tutte le sedi della Caritas e associazioni simili di Alessandria. Una volta ho dovuto accompagnarla per fare da traduttore. Mentre mia madre mi dettava le parole da dire alla tipa, io mi guardavo intorno attonito; c’erano barboni, gente malmessa sul serio, una donna che parlava da sola, un uomo che fissava il vuoto in uno stato catatonico mentre un altro sembrava in crisi d’astinenza.
«Ushqim» mi diceva mia madre, ma ero talmente imbarazzato che non sapevo più l’italiano. Alla fine è riuscita a farsi capire da sola e la tipa ha detto che non distribuivano cibo da portare via, ma potevamo mangiare lì se volevamo.
Mia madre stava per chiederci: «Ragazzi, volete sedervi e mangiare?», ma si è girata verso i barboni e ha capito che non era il caso. Non sono mai stato così incazzato con mia madre come in quel momento.

In quel periodo stavo attraversando una fase critica, cominciata l’ultimo anno che ho passato in Albania, e con il trasferimento in Italia si è acuita. Mi sono isolato ancora di più, e ho preso a parlare sempre meno. La cosa è diventata preoccupante quando, ormai già al secondo semestre inoltrato, m’è scappato un commento nei confronti dell’insegnante d’inglese e lei c’è rimasta secca: «Ma allora tu parli?!». Ci ero rimasto male.

Io comunque facevo di tutto per sembrare un ragazzo normale, e ci tenevo ad esserlo. L’estate seguente l’ho passata chiuso in casa, le mie nevrosi, le mie fobie, i miei complessi, le mie paranoie eccetera hanno avuto un’impennata. La cosa mi ha procurato un bel po’ di seccature con i miei. Non sapevo come spiegargli quell’isolamento, né la mia paura del mondo. Poi è ricominciata la scuola e ho dovuto riprendere a uscire.

Il primo ritorno in Albania è stato tre anni dopo averla lasciata. Ero diventato quello che ritorna, e in Albania le persone che ritornano assurgono a una categoria speciale che gode di grande stima. Quello che ritorna tornava a raccontare la sua vita bellissima nel paese in cui era emigrato e infondeva agli altri la speranza di toccare con mano un giorno quelle meraviglie. La parte più importante di quei racconti, ovviamente, riguardava il sesso. Sono riuscito a eludere la questione per un po’ finché, davanti alla stazione, davanti ai binari, Nard Shala mi ha chiesto senza mezzi termini: «A ke qi gja?». A quel punto tutti si sono zittiti per ascoltare. Mi ha preso un leggero panico ma poi, dissimulando il peso della verginità, ho fatto il mio dovere: ho raccontato di quante me ne ero scopate, come me l’ero scopate, dove le avevo scopate, quante in una volta; ho raccontato di come le ragazze italiane facevano bene i pompini, e gli ho detto che andavano pazze per il cazzo albanese.
Serio in faccia, Nard Shala si è avvicinato ed è rimasto a guardarmi fisso. Io ero lì pronto a confessare, a chiedere perdono, solo che lui continuava a non dire niente. A un certo punto mi ha dato una bella pacca sulla spalla, orgoglioso di me. Dopo quella volta in Albania ci sono ritornato solo in un paio di occasioni, e solo perché la mia presenza era obbligatoria.

Nel frattempo ci eravamo trasferiti a Belluno, rinnovando la mia condizione di nuovo, estraneo, diverso. Nel 2009 mi sono diplomato come perito meccanico e mi sono iscritto alla facoltà di fisica a Milano; dopo due mesi mi sono trasferito a filosofia, e dopo altri due mesi ho lasciato definitivamente gli studi. Ho girovagato per i centri sociali insieme a un mio amico d’infanzia che avevo ritrovato a Milano, facendo grandiosi progetti mentre eravamo strafatti e continuando a sperperare i soldi dei miei, che non sapevano che avevo mollato gli studi.

Un giorno mi sono svegliato alle tre del mattino su una panchina di un parco mai visto prima, e così ho deciso di ritornare a Belluno. Il mio rientro è coinciso con un momento di difficoltà economiche dei miei, e il mio ritorno è stato interpretato come un gesto per non gravare sulla famiglia, con conseguenti sensi di colpa dei miei. Quando mi chiedevano se il motivo era proprio quello io rispondevo di no, ma ciò non faceva altro che aumentare la nobiltà del mio gesto. E così ho cominciato a lavorare, collezionando le più disparate occupazioni: muratore, addetto alle pulizie industriali, operaio manutentore, lavapiatti, magazziniere, lavacessi, archivista, guardia notturna eccetera. Ma sto cercando di smettere. Nel frattempo mi sono trasferito a Padova e sono riuscito a convincere quelli di Oblique Studio che sono uno scrittore, e loro mi hanno aiutato a convincere quelli di Racconti Edizioni che ho scritto un libro.

*Elvis Malaj è nato a Malësi e Madhe (Albania) nel 1990. A quindici anni si è trasferito ad Alessandria con la famiglia. Oggi vive e lavora a Padova. Ha partecipato al concorso 8X8 nel 2013 con il racconto Mrika; il racconto L’incidente è stato selezionato per la Rassegna stampa di Oblique (giugno 2015); il racconto Il televisore è stato pubblicato sul numero #4 di effePeriodico di altre narratività. Ha appena terminato il suo primo romanzo Il mare è rotondo, come si legge sul sito di Oblique Studio che lo rappresenta. Nel frattempo è uscita la raccolta di racconti Dal tuo terrazzo si vede casa mia per Racconti edizioni.

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