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Istanbul Istanbul – Burhan Sönmez

Stiamo leggendo Istanbul Istanbul dello scrittore turco Burhan Sönmez (traduzione di Anna Valerio, nottetempo, 2016).

Quattro uomini, dieci giorni e dieci storie: un dottore, un barbiere, uno studente e un rivoluzionario si ritrovano a condividere una cella angusta nei sotterranei della prigione di Istanbul. Tenendosi uno stretto all’altro per lenire il freddo, mentre attendono il proprio turno di essere prelevati e condotti nella sala delle torture, riscoprono la bellezza e il potere della parola.

Guardai il muro di fronte. C’erano graffi, lettere incise e macchie di sangue. L’intonaco si era scrostato ed era caduto per terra. Chissà quando erano stati scritti quei graffiti. “Onore umano” diceva un messaggio; “Un giorno sicuramente!” diceva un altro, e poi: “Perché il dolore?” “Perché il dolore?” Quelli che arrivavano qui pensavano spesso a questo. Quando il dolore divideva il mondo nello stesso modo in cui divideva la mente, le persone pensavano a questo luogo come al logo del dolore e alla Istanbul di sopra come al luogo del non dolore. Era l’epoca dei miraggi. Il miglior modo per nascondere una bugia era dirne un’altra. Il modo per nascondere il dolore nella città era creare dolore nei sotterranei. Le persone che erano chiuse in queste celle fredde sentivano la mancanza della confusione, delle strade di fuori. Quelli che erano in città, lontano dalle celle, provavano piacere nel dormire nei propri letti caldi. Istanbul era piena di persone asfissiate dall’infelicità che la mattina andavano al lavoro strisciando come lumache. Mentre fuori sui muri delle case crescevano radici che si appoggiavano ai muri delle celle sotterranee, gli abitanti di quelle case si aggrappavano a una falsa felicità. Era l’unico modo in cui Istanbul potesse reggersi in piedi.
“Controllo!” la voce della guardia risuonò per tutto il corridoi. Che cos’era? Si era aperto il cancello di ferro? “Tutti fuori! Tutti sulla porta!”
Non avevo la minima idea di che cosa stessero facendo. Batterono sulle grate. Aprirono le porte delle celle a una a una. Avanzando nel corridoio arrivarono fino a me. Tolsero il chiavistello e illuminarono la cella. Mi bruciarono gli occhi e il mal di testa si fece più forte. “Alzati! Vieni alla porta!” La guardia mi lasciò e andò alla cella successiva. Il rumore delle porte che si aprivano continuava.
Mi alzai e uscii. Tutti si erano messi in fila in corridoio. Gli uomini, la cui barba era tutt’uno con i capelli, e le donne con i volti tumefatti si guardarono. La guardia arrivò fino in fondo al corridoio, tornò indietro e aprì la cella di fronte alla mia. Mentre la porta si schiudeva, la ragazza che era dentro si alzò. Era Zinê Sevda, quand’è che era rientrata nella sua cella? L’avevano riportata dentro quando ero svenuto per la crisi? Era uscita e stava di fronte a me. Si vedeva che non dormiva da molto tempo. Non solo il volto e il collo, ma anche le dita erano gonfie. Una goccia di sangue le colava dal labbro inferiore. Pulì il sangue con la mano. “Avanti, dai!” Guardammo i carcerieri che urlavano all’inizio del corridoio. Erano in molti. Avevano in mano bastoni e catene. Si erano tirati su le maniche, ci guardavano ridendo. “Ecco il vostro protettore, il vostro angelo custode!” Stavano trascinando qualcuno per i piedi attraverso il cancello di ferro. Lo lasciarono all’inizio del corridoio. Indossava solo un paio di mutande nere. Riconobbi il corpo imponente del vecchio Küheylan. Giaceva come un cadavere portato a riva dalla corrente. Era tutto insanguinato. I capelli bianchi erano macchiati di rosso. Lo avevano ucciso e quella era la sua tomba? Il corridoio fu attraversato da un mormorio. Si sentirono voci spaventate. Qualcuno mormorò “Bastardi”. Qualcun altro ripeté “Bastardi”. La guardia se ne accorse e venne verso di noi furiosa. Chiese chi aveva parlato e urlò per ottenere una risposta. Corse su e giù colpendo col bastone delle persone a caso. Denti rotti e schizzi di sangue sporcarono il corridoio.
Due carcerieri presero Küheylan sotto le braccia e cercarono di alzarlo. “Dai stupido, cammina”. Küheylan era vivo. I suoi lamenti riecheggiarono nel corridoio raggiungendo anche i prigionieri più lontani, mentre noi aspettavamo immobili in silenzio. “Dai, idiota!”. Küheylan mosse una mano e la tese in avanti come brancolando nello spazio vuoto. La testa reclinata, il collo grosso e le spalle larghe facevano pensare a un animale. Produsse un lamento che solo un animale ferito poteva emettere. La saliva gli colava dalla bocca. Le parole che mormorava erano un verso incomprensibile. Quella creatura che si lamentava, chi era? Appoggiò un piede per terra e trascinò l’altro. I carcerieri lo lasciarono e lui si resse su un piede solo. Aspettò un po’. Respirò. Tirò avanti il piede che era rimasto indietro e lo portò di fianco all’altro. Alzò la testa. Il suo volto non assomigliava a un volto umano. Aveva le labbra gonfie e la lingua penzoloni. Le sopracciglia erano rotte e gli occhi chiusi pieni di sangue. Dalle ferite sul petto usciva del pus.
“Guardate bene!” disse uno dei carcerieri. “Guardate da vicino il nostro lavoro! Chi può sfuggire alla nostra giustizia?”

istanbul-istanbulbKüheylan stava percorrendo il cammino più lungo della sua vita, quando Zinê Sevda, che mi stava in piedi di fronte, strinse i pugni. Sbatté le palpebre come una bambina e uscì dalla fila. Fece due passi in avanti verso il centro del corridoio. Si fermò di fronte a Küheylan dritta come un albero. Fra di loro c’erano cinque, sei metri. Tutti si girarono a guardare Zinê Sevda, mentre i carcerieri si guardavano tra loro. Si sentiva solo il sangue di Küheylan che gocciolava sul cemento.
“Che cosa sta facendo?”
“Capo, quella è la ragazza che hanno portato dalle montagne”.
Zinê Sevda si asciugò la fronte e le guance con la mano e si sistemò i capelli. Sotto gli sguardi curiosi, si chinò. Si inginocchiò davanti a Küheylan come una statua di marmo. Aprì le braccia. Aspettò di poter abbracciare quel corpo ferito che stava venendo verso di lei. Aveva le piante dei piedi martoriate e il collo era pieno di bruciature di sigaretta. Non era una sirena uscita dal mare che al tramonto su una roccia cantava una canzone, era una persona ferita. Küheylan riusciva a vederla? Con gli occhi ricoperti di sangue, riusciva a distinguere una ragazza inginocchiata di fronte a lui con le braccia aperte?
“Alzati, puttana!”
Zinê Sevda ignorò i carcerieri. Questa volta si asciugò con la lingua il sangue nero che le colava dal labbro. Aprì ancora di più le braccia.
“Tirate su questa puttana!”
Dall’ingresso del corridoio si avvicinò un carceriere, che cominciò a sventolare il manganello. Si fermò davanti a Zinê Sevda. Buttò per terra la sigaretta che aveva in bocca e la schiacciò con la punta della scarpa. Mentre premeva la scarpa sul cemento guardò Zinê Sevda. Fece un ghigno, si intravidero i denti gialli. Fece un passo indietro e le diede un calcio nella pancia. Zinê Sevda volò via come un pezzo di legno e sbatté contro la porta della cella. Per un po’ non si mosse. Si strinse la pancia con le mani e piano piano si alzò. Si inginocchiò di nuovo. Guardò Küheylan. Fra di loro c’era un vuoto immenso.
Con il piede il carceriere lanciò la sigaretta in un angolo. Chinandosi, si avvicinò al volto di Zinê Sevda e, non vedendo reazioni, si rialzò. Aveva ancora il ghigno sulla faccia. Fece girare fra le mani il manganello come un giocattolo e poi lo alzò in aria. Era proprio davanti a me. Con un movimento afferrai la sua mano sollevata in aria. Il manganello rimase sospeso nel vuoto. Ci ritrovammo faccia a faccia. Figlio di cagna! Mi conosceva? Conosceva la canzone del coltello d’acciao? Mi pulsavano le tempie. Mentre tutti tremavano immobili sul nudo cemento, la mia faccia bruciava come fuoco. Un martello mi batteva nella testa. Cercò di liberare la mano spingendomi via. Quando si accorse che non aveva abbastanza forza, si mise a urlare.

burhansonmezBurhan Sönmez è nato ad Ankara nel 1965. È un insegnante di letteratura all’Università Odtü di Ankara e un avvocato specializzato in diritti umani. Vive tra Cambridge e Istanbul, dove è tornato dopo un periodo di esilio. Ha partecipato ai moti di piazza Taksim dei quali è stato tra i protagonisti e narratori. Ha sperimentato sulla propria pelle la violenza delle forze di sicurezza turche. In seguito a uno scontro fisico restò gravemente ferito. È stato curato in Inghilterra con il sostegno della fondazione Freedom from torture – Medical Foundation for the Care of Victims of Torture. «Confinato a letto per molti mesi – ha raccontato –, le uniche cose che potevo fare erano guardare la televisione e scrivere appunti su qualsiasi cosa immaginassi. Appunti che poi si sono aggrovigliati in storie. Ho realizzato che avrei dovuto scrivere, e ho iniziato a credere alle cose belle che possono scaturire da un brutto incidente».
L’intervista a Burhan Sönmez di Gabriele Santoro su minima&moralia.

Gabriele Di Fronzo e il desiderio di svanire

di Emanuela D’Alessio

grandeanimaleDopo aver letto Il grande animale, l’esordio del torinese Gabriele Di Fronzo (nottetempo, 2016), ecco l’intervista all’autore, che scrive «per ossessione e mania», che definisce la sua opera «un’ipotesi di cuore che sopravvive alla perdita senza fuggirne».

Dalla stringatissima biografia disponibile apprendiamo solo che sei nato a Torino nel 1984, che collabori con L’Indice dei libri e hai pubblicato racconti su Nuovi Argomenti e Linus. Inevitabile quindi la curiosità di conoscere qualche dettaglio in più, soprattutto dopo aver letto il tuo stupefacente romanzo di esordio. Chi è Gabriele Di Fronzo?
Lì dove nella quarta di copertina c’è quella manciata di informazioni che come consuetudine editoriale dà conto di data di nascita, luogo di nascita ed eventualmente di residenza, pubblicazioni precedenti, premi chissà, io al mio primo perciò unico romanzo avrei voluto cavarmela con una nota ancora più svelta: “Gabriele Di Fronzo è nato nel 1984 a Torino”. Assolvendo, dunque, il dovere che di solito spetta a queste biografie mignon che, affianco o meno a una fotografia, geolocalizzano e danno un’età allo scrittore. È stato l’ufficio stampa della casa editrice che, nella prima telefonata incorsa tra noi, mi suggerì di accludere altri due o tre aspetti personali. Così ho fatto, allungandola un briciolo. Per me, però, resta il fatto che si possa fare a meno di una biografia: io in una quarta di copertina non cerco nulla che non sia il nome e il cognome dell’autore, se mai nel girare il libro me lo fossi dimenticato dopo averlo letto in copertina. Aldo Busi, che esordì più di trent’anni fa e al momento è autore di un gran bel numero di romanzi e vincitore di parecchi premi e collaboratore di diverse testate giornalistiche, nella sua nota biografica riporta solo questo, “Aldo Busi è nato nel 1948 a Montichiari (BS), dove mantiene la residenza fiscale”. Niente più di così. Il resto talvolta è ridondanza egotica, accessorio spesso vezzoso, in un paratesto che per me non ha pressoché importanza.

Che cosa c’è all’origine della tua scrittura: vocazione, urgenza o casualità?
L’ossessione e la mania.

Il tuo esordio con nottetempo è stato casuale o voluto? Come è nato il rapporto con l’editore e che cosa significa esordire con una piccola casa editrice?
Nottetempo ha un catalogo meraviglioso cui corrisponde una professionalità di chi lavora dedita ai libri con serietà e convinzione. Hanno dato, sin qui e fin dall’inizio, la miglior ospitalità che potessi auspicarmi per il romanzo. Sono stato sopportato durante la fase che ha preceduto la pubblicazione e supportato ora che il libro è stato licenziato. Poi, tra gli autori hanno i francesi che apprezzo di più, Jean-Philppe Toussaint, Christian Oster, Tanguy Viel: mi sento davvero sotto un buon tetto e in così buona compagnia.

difronzo«Il grande animale è una piccola storia gotica. Vi innamorerete di Francesco Colloneve e ne avrete paura» avverte Michela Murgia. Tu come descriveresti la tua opera?
Un’ipotesi di cuore che sopravvive alla perdita senza fuggirne.

Penso che il tuo romanzo sia stupefacente per una serie di ragioni, innanzitutto per la scelta del protagonista e voce narrante: Francesco Colloneve è un tassidermista, un imbalsamatore di animali, che svolge il suo lavoro con una meticolosità e precisione allarmanti. Un mestiere che suscita generalmente inquietudine o pura repulsione. Perché questa scelta?
Emily Post con il suo Etiquette in Society, in Business, in Politics, and at Home codificò e pubblicò un galateo che insegnava a comportarsi pubblicamente. Era il 1922 e lei mise per iscritto istruzioni per tutto quello che allora era indispensabile per ben comportarsi nel consorzio umano: quali le posate adatte a questo o quell’altro cibo, i vestiti idonei a questa o quell’altra cerimonia, come ci si dovesse salutare a seconda del legame che intercorreva tra gli individui in questione, persino dove sedersi ai funerali e cosa portare da bere e da mangiare alla vedova del defunto, una volta a casa dopo la funzione. Un gentile breviario su come tenere un portamento onorevole in società, questo delineò la Post. Il mio tassidermista, più modestamente, ha inventato un galateo comportamentale privato per il lutto, così da sapere cosa fare per fare cosa quando la mancanza, la condizione più indissolubilmente triste con cui un individuo troppo spesso deve confrontarsi, incide verticalmente nella sua esistenza. Ho scelto di fargli adoperare bisturi e succhielli e di mettergli le mani nei corpi cavi degli animali morti, perché avevo l’intenzione di inscenare un operare che si irradiasse al di là del mero esercizio artigianale, ma che potesse rivelarsi come il correlativo oggettivo per ciò che desideravo raccontare. Questo concetto T.S Eliot lo definì come “una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un’emozione particolare”. Il protagonista di questa storia di abbandono avrebbe dunque vantato una natura ibrida, mezzana tra la vita e la morte, tra presenza e scomparsa.

Un’altra ragione (dell’aggettivo stupefacente) è l’assoluta originalità con cui hai deciso di affrontare temi fin troppo ricorrenti in letteratura: il rapporto tra padre e figlio, tra la vita e la morte, soprattutto l’elaborazione del lutto, della perdita e dell’assenza irreversibile. Francesco Colloneve elabora dolorosamente questi temi, per giungere a quale conclusione?
Il suo è un tentativo, nient’altro che un tentativo, di dare una soluzione individuale a un problema di carattere generale. E questa è anche la definizione di nevrosi che dà Carl Gustav Jung. E certamente lo è dell’opera cui si dedica in fine Francesco Colloneve che con compulsioni rituali esige di neutralizzare la sua ossessione. Che ci riesca o meno non credo ci debba interessare, per quanto dando ascolto a Jung la nevrosi è un tentativo in fin dei conti inutile. L’incompiutezza, infatti, è un aspetto troppo pervasivo nelle faccende umane per ritenerla dirimente.

gdf «La sera che mia madre andò via, in televisione insistevo per vedere i cartoni animati, ma sul secondo canale c’era un film western». In tutto il libro questo è l’unico fugace riferimento alla madre di Colloneve. Perché quest’assenza clamorosa?
La madre è chiamata in scena, nelle sue sembianze di assenza calcificata, in quattro, cinque occasioni. Sempre associata a un tempo oramai senza rimedio. La sua figura grava sulla casa in cui i due uomini vivono, più di quanto non farebbe se fosse lì presente. La sua mancanza ha dapprima forgiato il marito e poi ha modellato il carattere del figlio. È l’invisibile che decreta la vita degli esseri umani: è l’ordito trasparente che lega l’individuo alle sue decisioni, quelle esercitate per sé e quelle valide per altri; è l’assenza “più acuta presenza” di Attilio Bertolucci; è il desiderio di svanire. La madre è l’avvenuta scoperta che la parte considerevole di ciò che importuna la nostra vita non si lascerà vedere mai più.

Protagonisti incombenti del libro sono comunque gli animali, di tutte le razze e dimensioni. Gatti, tartarughe, talpe, cani, pesci rossi, molluschi. Tutti morti, ovviamente, e per i quali i loro padroni desiderano una non-vita da imbalsamati. Oppure evocati per descrivere un essere umano (il padre di Colloneve aveva «le orecchie che si facevano largo sulle guance e si innerivano come quelle di un elefante vecchio, il naso era di scimmia, le braccia screziate cascavano come manto di ermellino». Un’altra prospettiva da cui scrutare il genere umano?
Gli animali sono creature che il protagonista vezzeggia con le sue cure. Per loro ha solo delicatezza e rispetto, a proposito di sé dice di non conoscere un’altra persona che sia consacrata come lui a loro. E sono le lettere dell’alfabeto che usa per comporre le parole con cui definire ogni aspetto della vita gli si para davanti. In latino la parola metodo significa “strada per passare nel mezzo”: qui l’animale rappresenta il metodo per conoscere l’uomo e le sue paure, l’animale è il solo sentiero attraverso cui raggiungere la profondità umana.

Francesco Colloneve quando si trasferisce dal padre per accudirlo e accompagnarlo nel suo rapido declino verso la morte, porta con sé tutti i ferri del mestiere e un solo animale da imbalsamare: un serpente. Inevitabile per me ricordare un altro esordio, Dalle rovine di Luciano Funetta, in cui i serpenti assumono ruoli e significati complessi. Perché hai scelto il serpente, simbolo di infamia nell’immaginario comune, per accompagnare la metamorfosi reale e metaforica della tua storia?
Lascio al lettore le metafore, non mi va di accompagnarlo, penso non patisca la necessità dell’autore in questo momento.

gdf_1A risaltare nel romanzo c’è poi la tua scrittura, netta e precisa; c’è una cifra stilistica inconsueta, evocativa (penso all’«abbrivo» di manzoniana memoria, alla «forra» di Gozzano), ma anche ricca di termini che non trovano ospitalità nei dizionari («pacciamare le erbacce», «smucchiando», «bubbolo qualcosa con me stesso»). Da dove viene questa voce?
Senza questa voce il romanzo non sarebbe esistito. È da questa sorgente che prende inizio e acquisisce forma la storia. Termini inconsueti ancora più che desueti, espressioni che connotano il protagonista quasi quanto i movimenti delle sue mani e la peculiare indole con cui si accompagna, la morfologia della frase, il lessico, le spigolosità di certe espressioni: tutto dovrebbe accordarsi con il vortice di azioni ed elucubrazioni con cui Francesco Colloneve si tiene vivo. Ogni paragrafo è un gorgo in cui egli precipita. Ciascuna parola è una voragine carnivora.

Passando ad altri argomenti, come deve essere la tua libreria ideale?
Giorgio Manganelli la definisce come “molte cose, strane, inquietanti cose; è un circo, una balera, una cerimonia, un incantesimo, una magheria, un viaggio per la terra, un viaggio al centro della terra, un viaggio per i cieli; è il silenzio, ed è una moltitudine di voci; è sussurro ed è urlo; è favola, è chiacchiera, è discorso delle cose ultime, è memoria, è riso, è profezia, soprattutto, è un infinito labirinto”. Io dico che è insaziabile, non solo cannibale, e i criteri con cui esclude questo o quell’altro libro sono ubbie di giornata.

Che tipo di lettore sei?
Ho esigenze che variano come stagioni, ma le oscillazioni tra un periodo e un altro sono delicate, vibrazioni minime che non portano a gravi sconvolgimenti, un sismografo farebbe difficoltà a riconoscerle. Magari mi infatuo di un autore e allora divento un completista, fin quando mi vien fatto di pensare che forse è meglio non esaurisca la sua opera altrimenti poi, una volta che quello sarà successo, rimarrò deluso da non avere più niente di quello scrittore. Curiosità e resistenza, vaglio e disciplina. Ma prevale l’aggancio tra un libro e l’altro, sentimentale, imprevisto, inaudito, oppure ovvio, facile e imprescindibile.

Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
Scogliera di Olivier Adam, Il libro delle meraviglie di Flegonte di Tralle, Un mondo perduto e ritrovato di Alekasandr Lurija, Ossa, cervelli, mummie e capelli di Antonio Castronuovo, Il grande evento di Peter Handke, Atlante di un uomo irrequieto di Christoph Ransmayr.

Il grande animale – Gabriele Di Fronzo

di Emanuela D’Alessio

grandeanimale«La sera che mia madre andò via, in televisione insistevo per vedere i cartoni animati, ma sul secondo canale c’era un film western».
È da questa frase, più o meno a metà dello stupefacente esordio del torinese Gabriele Di Fronzo, classe 1984, che vorrei iniziare per evidenziare lo sfuggente riferimento alla madre di Francesco Colloneve, protagonista e voce narrante de Il grande animale.
Mi è sembrata un’assenza eclatante, forse perché siamo abituati a ritenere la figura materna il perno sul quale, nostro malgrado, tutti ci avvitiamo, o forse perché è prevalso l’inconscio risentimento femminile per una storia dove la figura materna è solo effimera comparsa in una scena tutta al maschile, perché i protagonisti sono un figlio con l’anima cicatrizzata e un padre che l’improvvisa malattia ha reso fragile e vulnerabile, trasformandolo da iracondo carnefice a vittima spaurita.
Ma in questa latitanza dell’universo femminile (perché Colloneve vive isolato e rinchiuso e non mostra interesse alcuno per relazioni di qualsiasi tipo) ho trovato un’altra storia, sotterranea e inespressa, da cui ricavare un’ulteriore chiave di lettura.
È così che si procede leggendo Il grande animale, per deduzioni, in un presente pietrificato dall’annullamento delle emozioni ma disseminato di frammenti che, ricomposti, restituiscono le rappresentazione di un passato tutt’altro che indolore e con il quale si è costretti comunque a fare i conti.
Si tratta proprio di frammenti, perché è questa la cifra stilistica di Gabriele Di Fronzo, concentrato con estrema cura a sottrarre, svuotare, eliminare l’inessenziale, come lo è Colloneve con i suoi animali. Quasi a suggerirci che lo scrittore, come l’imbalsamatore, hanno in fondo lo stesso obiettivo: fissare nel tempo ciò che altrimenti scomparirebbe per sempre.
Francesco Colloneve, che di mestiere fa il tassidermista, si prodiga nel descrivere minuziosamente le fasi del suo lavoro, unica ragione di vita, indugiando nella rappresentazione asettica e chirurgica di corpi sventrati e svuotati, di pelli raschiate, di cavità lubrificate, per realizzare il sogno o l’illusione di fermare per l’eternità il trapasso della vita. Allo stesso modo descrive la manciata di giorni trascorsi ad accudire il padre malato, assecondando le intemperanze di una mente che sta svanendo, fino al disbrigo delle pratiche che ogni morte richiede.
Tutto avviene con un’anestesia emotiva sconcertante, ma dalla quale trapelano i segni indelebili di un dolore che si è insinuato inesorabile, provocato dall’assenza della madre e da un padre autoritario e anaffettivo, insensato nelle infinite crudeltà con le quali ha cresciuto il figlio.
«La collera con cui si scatenava su di me, la sua vastità, il tono roco che assumeva quando mi veniva addosso, il fracasso delle sue mani prima ancora di riceverle in faccia, la sua rabbia per accelerare le cose, perché andassi alla velocità che lui voleva corretta, nel legarmi le scarpe come nel crescere, mi rimproverava perché ero lento quando lui mi avrebbe desiderato rapido, esigeva che fossi lesto a sparecchiare e a capire come ci si dovesse comportare a scuola o a casa quando c’era un ospite».
Nefandezze subite per una vita intera che Colloneve non ha voluto o potuto rimuovere, «la mia testa tristemente piena di certi momenti, che io ricordi così dettagliatamente non è normale, avrei dovuto lasciarmi indietro queste cose, avrebbero dovuto essere già scomparse e altre avrebbero dovuto prendere il loro posto, invece come per lui anche per me c’era da sarchiarle, uno avvalendosi dell’aiuto delle mani dell’altro». Crudeltà che, al contrario, rievoca con spietata precisione, nel tentativo di recuperare, di fronte a un uomo «così ammaccato, rovistato dai malanni» un po’ di compassione e pietà, per diminuirne le colpe e convincersi che quelle forme di possesso non fossero poi granché.
Non è scontato il risultato, perché Colloneve non sembra scegliere tra odio e pietà, ma Gabriele Di Fronzo ha comunque trovato, con la sua voce inconsueta e priva di retorica, un’efficace e originale chiave di interpretazione dell’universale tema che accompagna l’umana esistenza: l’inesauribile lotta che un figlio ingaggia con il proprio padre, per liberarsi dal giogo e poi imparare a vivere l’irreversibilità della perdita.
Francesco Colloneve, mi piace pensare, porta a termine la sua lotta senza vendetta e comunque vittorioso. Ma la sua è una vittoria senza enfasi e soddisfazione, restano solo una grande stanchezza e un sollievo: «niente più spoglie che possano stormire e chiamare il mio nome quando sarà la notte».

La nostra intervista a Gabriele Di Fronzo.

Nota sull’autore
Gabriele Di Fronzo è nato a Torino nel 1984. Collabora con L’Indice dei Libri del Mese. Ha pubblicato racconti su Nuovi Argomenti e Linus.

Il grande animale
Gabriele Di Fronzo
nottetempo, 2016
pp. 161, € 12,00

Cosa leggiamo a Natale. I consigli di Federica Antonacci


Riceviamo e pubblichiamo volentieri i consigli di Federica Antonacci, collaboratrice de L’orma editore. Federica ha una laurea in Lettere e un Master in comunicazione. È web content editor con altre aspirazioni: i libri, come si fanno, come si traducono, come si scrivono, e perché. Il suo motore è l’inadeguatezza: colmare i vuoti di conoscenza leggendo, studiando, scrivendo, camminando.

Gli-anni-Gli anni di Annie Ernaux (L’orma editore, 2015)
Una storia individuale dentro la storia collettiva, una “autobiografia impersonale”, nella definizione della stessa autrice. Una scrittura asciutta, misurata, che nella traduzione di Lorenzo Flabbi non è snaturata e mantiene l’equilibrio perfetto delle parole esatte. Gli anni è uscito in Francia nel 2008, alla fine di un percorso personale di vita e scrittura che a partire da un singolare modo di fare autobiografia porta Ernaux a realizzare una biografia collettiva, unica nel suo genere, ed emozionante. Il nastro che si snoda parte dagli anni Quaranta e dall’immediato dopoguerra e arriva al 2006, delineando con precisa asciuttezza i cambiamenti della persona e della società. Attraverso i tòpoi ripetuti della descrizione delle fotografie di lei (che la ritraggono nelle epoche – di storia e di vita – più diverse), e dei pranzi di famiglia dei giorni festivi (che delineano i mutamenti della composizione anagrafica e familiare e parallelamente il mutare dei costumi e lo svolgere degli eventi) vengono scandite la Storia e la storia, appunto: personale e collettiva, come un inscindibile racconto carico di vita.
A vederla sulla foto, una bella ragazza solida, non si sospetterebbe mai che la sua più grande paura sia la follia. Per salvaguardarsene, almeno per il momento, non le viene in mente altro che la scrittura, forse un uomo. Ha iniziato un romanzo in cui si alternano le immagini del passato e quelle del presente, i sogni notturni e le fantasticherie sul futuro, il tutto in un “io” che è il doppio dissaldato di se stessa. È sicura di non avere nessuna “personalità”.

invenzione_della_madreL’invenzione della madre di Marco Peano (minimum fax, 2015)
Non è il dolore, non è la perdita, il fulcro de L’invenzione della madre (esordio di Marco Peano e Libro dell’Anno di Fahrenheit – Radio 3), ma la strada che si percorre attraverso essi. Un prima, un durante, un dopo, e la costruzione di sé e dell’essere amato che si sta perdendo. I tanti livelli di questo libro (il singolo, la famiglia, la relazione madre/figlio, la malattia, l’emancipazione e la costruzione di sé) si sfaccettano nelle micro-narrazioni di cui il libro è composto ma delineano un unicum il cui cuore è proprio l’invenzione. Di un tempo nuovo che è quello della malattia, di una madre nuova, che era sana, è malata e mancherà ma mai del tutto, di un nuovo sé, quello del protagonista, che nel dolore si era acquietato usandolo da rifugio e rallentatore del tempo. Accettazione e invenzione, dunque, come un nuovo motore di vita che non perde nulla dell’evento tangibile della perdita, ma anzi ne fa pietra angolare e lente di ingrandimento dentro di sé.
«Gli ci vorrà un po’ per accettare, vittima dei pregiudizi e forse anche di una certa formazione cattolica, che quelli sulla sofferenza che tarda ad arrivare, sul senso di colpa, in realtà sono falsi problemi. Non c’è altro da fare se non provare quello che c’è da provare, e lo spazio per i sogni, per il dolore e per le lacrime – tutte queste cose arriveranno».

Giorgio Manganelli, Viola Papetti, Lettere senza risposta (nottetempo, 2015)
Un epistolario intimo e privato regala un ritratto meravigliosamente umano e al contempo eclettico e magniloquente del grande Manganelli, negli scambi con la donna che a lungo sarà la sua amante e con cui condivideva un sodalizio anche professionale, Viola Papetti. Dalla postazione privilegiata della vicinanza estrema degli amanti, dalla conoscenza profonda che derivava dalla comunione intellettuale ed erotica, emerge un Manganelli che non smette mai di essere sé, uomo appassionato e vero, anche fragile nei momenti dell’assenza, uomo di lettere che lo è anche quando l’oggetto della scrittura è oggetto di passione.
«Quanto sto bene stretto a te, con te, su di te, dentro di te: guaina, fodero, rilegatura, discesa, labirinto, adito. Mi piaci perché hai un corpo penetrabile e cedevole, un corpo che ama essere attraversato, inchiodato, dilatato, tormentato, illanguidito; e mi piace quel corpo perché è tuo, lo porti come un modo per consentire l’accesso a te, a quel fulvo calore che ora ha avuto ragione dell’inveterato gelo della tua pelle. Ti scrivo e ti desidero, vorrei che ti arrivasse, che ti disturbasse gli ozi madrileni il desiderio, il puro e crudo desiderio di averti, di progettare un incontro, di fantasticare nuovi abbracci, di sentire in me e in te, il languore della saliva, del sudore, l’indulgenza e il furore delle mucose, della rosa cedevole e della rosa penetrativa. Se tu mi pensi, come spero, il tuo pensarmi ti dirà che io ti penso, e che anche desiderarti è un’arguzia, un gioco, un travestimento del pensarti. Ti penserò finché non ti sentirò, di nuovo, gemere. A presto. Ti bacio. Giorgio».

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Elena Refraschini (marzo 2015)

comodino_coverIL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Elena Refraschini 

Il mio comodino è, in questo periodo, un comodino “geografico”.

Il primo libro in lettura è I demoni del deserto del giornalista di origine iraniana Bijan Zarmandili (Nottetempo 2011): la storia delicata e struggente di Agha Soltani e la nipote, due sopravvissuti al terremoto di Bam che nel 2003 ha quasi completamente raso al suolo la città patrimonio dell’Unesco e ucciso un terzo della popolazione. Avevo scoperto questo titolo in occasione del Salone di Torino, pochi mesi prima del tanto atteso viaggio in Iran. Allora non potevo sapere che di lì a poco avrei conosciuto Elahe, unica sopravvissuta della sua famiglia al tragico evento. Ora, non posso non leggere questo romanzo come un’accorata ode alla forza, alla resilienza e al coraggio degli iraniani.

Probabilmente mi sono persa di Sara Salar (tradotto da J. Nassir) è l’ultimo romanzo della casa editrice Ponte33, a noi molto cara (tra l’altro incontreremo l’editrice Bianca Maria Filippini il 9 aprile in occasione del sesto appuntamento di Cosa si fa con un libro?). Pubblicato in patria nel 2009 e giunto alla ventiquattresima ristampa, ha riscosso un enorme successo di pubblico: solo allora la censura è intervenuta, bloccandone la circolazione. La protagonista si è trasferita a Tehran dalla lontana provincia del Baluchistan, dove viveva una vita dal grande rigore morale; da studentessa a Tehran si trova persa, ha tradito la famiglia, la migliore amica, sé stessa. La particolarità di questo romanzo è la scrittura tormentata, frammentata: mi piace la definizione di Bianca Maria Filippini, che l’ha chiamata “cubista”.

L’élégance du hérisson di Muriel Barbery è il bestseller Gallimard del 2006, pubblicato in Italia da e/o. Non posso dire molto altro su questo titolo, dato che il mio francese molto arrugginito mi consente di leggere non più di tre pagine a sera. Mi ha portata a riflettere, però, su quanto sia bello leggere in un’altra lingua, soprattutto quando si era convinti di ricordarsi quattro parole.

Il quarto libro è un divertente ed erudito saggio dello scrittore Graham Robb, del quale avevo apprezzato anni fa la biografia dedicata a Rimbaud pubblicata da Carocci. È un vero peccato che questo The Discovery of France non sia (ancora) stato tradotto in italiano: è il risultato di più di 20.000 km percorsi in bicicletta (e quattro anni di studio in biblioteca) per capire che cosa significa, oggi, essere francesi.

Qui gli altri comodini.

Il comodino di Elena Refraschini

Il comodino di Elena Refraschini

INDILIBR(A)I – I consigli per l’estate di Risvolti

INDILIBR(A)I – Rubrica dedicata ai librai e ai lettori indipendenti

Libreria Risvolti
Via Sestio Calvino, 73-75 00174 – Roma
Tel./Fax. 0689537244
e-mail:info@libreriarisvolti.it

In attesa che arrivi l’estate, i librai Barbara Facchini e Alessandro Fratini di Risvolti consigliano un bel po’ di libri!

libro-3d2Il lungo sguardo di Elizabeth Jane Howard (traduzione di Manuela Francescon, Fazi, 2014).
Romanzo del 1956, mai tradotto fino a oggi in Italia, è un preziosissimo regalo per il quale ringraziamo la casa editrice Fazi. La storia di un matrimonio, raccontata dalla “matrigna” di Martin Amis, a ritroso dal 1950 fino al primo incontro con il Kingsley Amis nel 1926. Vediamo con gli occhi dei protagonisti, specialmente quelli splendidi di Antonia, come sono arrivati al loro presente; seguiamo le loro paure e insicurezze, le finte certezze, gli inganni, i silenzi, i momenti felici e quelli tristi. La scrittrice, scomparsa a ottantanove anni nel gennaio 2014, mette a nudo la coppia con una scrittura semplice ma che incanta e cattura. Personalmente poche volte ho letto un romanzo tanto bello e sincero.

Piccola osteria senza parole di Massimo Cuomo (e/o, 2014).
Il secondo romanzo di Massimo Cuomo è una spassosa storia di amicizia e d’amore ambientata in un piccolo paese al confine tra il Veneto e il Friuli, ricco di personaggi bizzarri e adorabili.  «La brezza fresca sale dal fiume, il gusto del pesce gli punge la lingua e un rivolo di soddisfazione gli fluisce nell’anima: per come sente di aver comunque già trovato qualcosa, tutto sommato, in quel posto dimenticato da Dio che si chiama Scovazze Storie e paesaggi, sapori e odori, persino degli amici, forse, sebbene sia complicato da percepire, piuttosto difficile da interpretare. “Bronse cuerte” le definirebbero qui: braci sotto la cenere. Come le parole nascoste dentro questa gente silenziosa».

Roderick Duddle di Michele Mari (Einaudi, 2014).
Il nuovo romanzo di Michele Mari è un affascinante e molto ben riuscito omaggio alla letteratura d’avventura propria di Charles Dickens e Robert Louis Stevenson. Il protagonista è un orfano, cresciuto in un bordello, che affronta tutta una serie di peripezie per poter arrivare ad un lieto fine…vi ricorda qualcuno? Grazie a grandi personaggi ed infinite avventure, Michele Mari fa rivivere il romanzo e l’arte figurativa propri del settecento e dell’ottocento, disseminando qua e là riferimenti letterari che vi divertirete volta per volta a scoprire e a indovinare.

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Giorni di spasimato amore di Romana Petri (Longanesi, 2014).
Romana Petri con questo piccolo romanzo ci regala una perla. Una tenera, malinconica storia d’amore, sullo sfondo di una Posillipo dal mare placido e scintillante; con grazia e delicatezza racconta la struggente storia di Antonio innamorato pazzamente di Lucia, della loro separazione forzata e dell’ostinazione di lui nel non abbandonare la speranza di poter vivere col suo amore.

Ovunque, proteggici di Elisa Ruotolo (nottetempo, 2014).
Tra le letture interessanti del catalogo nottetempo ce n’è una che spicca in questo periodo perché, presentata da Dacia Maraini e Marcello Fois, è stata selezionata nella dozzina del premio Strega 2014. Il romanzo di Elisa Ruotolo, sinceramente, interessante è dir poco. È la storia della famiglia Girosa raccontata dall’ormai cinquantenne Lorenzo che un giorno qualsiasi inizia a ricevere strane lettere che lo costringono a fare i conti col passato. La storia si snoda attraverso le stanze di Villa Girosa che rispecchiano le vite di coloro che le occupano, ora luminose ora cupe e piene di ragnatele. La scrittura che ci accompagna mantiene l’incanto del racconto che di solito fanno i nonni; i personaggi, l’ambientazione, i riti e miti di un tempo che noi non ricordiamo se non per sentito dire.

Toccata e fuga di Lisa Gardner (traduzione di Daniele Petruccioli, Marcos y Marcos, 2014).
Il terzo romanzo della Gardner racconta di un’intera famiglia (padre, madre e figlia adolescente) rapita, della loro prigionia e degli investigatori che fanno di tutto per ritrovarli, prima che sia troppo tardi. Nello spazio angusto nel quale sono rinchiusi i Denbe dovranno fare i conti con i segreti che mai si sarebbero rivelati e che potrebbero avvantaggiare i loro rapitori. Classico thriller mozzafiato, non si riesce a smettere di leggerlo: veloce, incalzante, pieno di suspense e colpi di scena.

Condominio R39 di Fabio Deotto (Einaudi, 2014).
Un’altra bella sorpresa nel panorama dei nuovi scrittori italiani. Un buon romanzo d’esordio con un meccanismo ben congegnato. Thriller gotico condito da personaggi finemente delineati con psicologie complesse che si risolvono man mano che si risolve il mistero.