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I consigli dei Serpenti per l’estate 2018 – Pierluigi Lucadei

Pierluigi Lucadei, l’autore della nostra rubrica Musica per camaleonti, consiglia:

Matteo B. Bianchi – Yoko Ono. Dichiarazioni d’amore per una donna circondata d’odio (add, 2018)
Perché non odiare Yoko. È possibile amare la musa più vituperata della storia del rock: anzi, se si conosce la sua vita e il suo percorso artistico e musicale, amarla diventa quasi necessario. Artista provocatoria e ostinatamente anticonvenzionale, dal 1968 al fianco di John Lennon, Yoko Ono ha visto rivalutare la sua opera soltanto in tarda età. Oggi ha ottantacinque anni e la sua figura è circondata dal mito ma per decenni ad accompagnarla c’è stato solamente l’odio più becero: Matteo B. Bianchi ci spiega perché nell’ultimo volume dell’apprezzabile collana Incendi di add editore.

Michael Imperioli – Il profumo bruciò i suoi occhi (Neri Pozza, 2018)
Educazione reediana. Noto come attore, soprattutto per il ruolo di Christopher Moltisanti nella serie “I Soprano”, Michael Imperioli si dimostra anche abile narratore con il suo primo romanzo, che racconta la formazione del giovane Matthew nella torrida estate del 1976 a New York. Dopo la perdita del padre e del nonno, il ragazzo si trasferisce con la madre dal Queens alla zona più rock di Manhattan. A prenderlo in simpatia c’è uno strano individuo magro, ossigenato e vestito di nero che vive nello stesso palazzo e che, in realtà, è un’autentica leggenda: Lou Reed.

Phillipp Winkler – Hool (trad. di Riccardo Cravero, 66th and 2nd, 2018)
Sporchi e (ultra)violenti. Altro romanzo d’esordio, stavolta di un giovane scrittore tedesco, Hool racconta il lato oscuro della Bundesliga e del suo tifo. Ambientato nella grigia Hannover, racconta la storia di Heiko, figlio di padre alcolizzato e abbandonato dalla moglie quando i figli erano ancora piccoli, cresciuto subendo la fascinazione di uno zio teppista. Un libro da non perdere per chiunque abbia sperimentato l’amore cieco, senza compromessi, per una squadra di calcio. Un libro dal ritmo inarrestabile, certamente ultraviolento e sconcertante, scritto con un linguaggio che ricicla slang da hooligan e slogan da rapper, ma con un’anima fatta di pulsante poesia suburbana.

Alessandro Leogrande – La frontiera (Feltrinelli, 2015)
Strumentario per l’intelligenza. Questa è l’estate della retorica leghista del “chiudiamo i porti” e di un razzismo sempre più pericoloso. Forse non c’è un momento migliore per (ri)scoprire Alessandro Leogrande, scomparso improvvisamente lo scorso anno a soli 40 anni, e studiarne le tante storie attraversate da berriere, mentali e fisiche. Le pagine de “La frontiera” sono uno strumentario giornalistico-letterario quanto mai utile per chi ha voglia di scavare più nel profondo il concetto di migrazione e per chi non ha paura di fare i conti con una verità troppo poco raccontata. «Da qualche parte nel futuro, i nostri discendenti si chiederanno come abbiamo potuto lasciare che tutto ciò accadesse».

 

INDILIBR(A)I – I consigli di lettura della libreria Risvolti

INDILIBR(A)I – Rubrica dedicata ai librai e ai lettori indipendenti

Libreria Risvolti
Via Sestio Calvino, 73-75 00174 – Roma
Tel./Fax. 0689537244
e-mail:info@libreriarisvolti.it

Dai librai Barbara Facchini e Alessandro Fratini di Risvolti gli ultimi consigli di lettura.

La fortezza di Jennifer Egan  (traduzione di Martina Testa, minimum fax, 2014)
Jennifer Egan conferma il suo grande talento. A Danny, il protagonista, viene proposto da un cugino che non vede da anni, di aiutarlo a ristrutturare un castello medievale in Europa per farne un hotel di lusso. Le intricate gallerie sotterranee, i bizzarri personaggi che abitano il castello e delle strane visioni metteranno alla prova la fragile psicologia di Danny….e se invece il protagonista fosse Ray che scrive la storia di Danny mentre è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza? Romanzo gotico o psicologico? Semplicemente un raffinato gioco letterario con il quale la Egan ci esorta a usare la nostra mente, a non lasciare sopita la nostra fantasia e a non lasciarci soggiogare dalla tecnologia.

indice_medio_di_felicitàIndice medio di felicità di David Machado (traduzione di Romana Petri, Neri Pozza, 2015)
Terzo romanzo pubblicato in Italia del giovane scrittore portoghese, Indice medio di felicità racconta delle vite in crisi di tre amici in un paese in profonda crisi, il Portogallo. Racconta della loro idea di mettere su un sito dove ci si possano scambiare offerte di aiuto. Racconta di fallimenti, di giovani allo sbando, di disoccupazione. Ma soprattutto racconta dell’indice di felicità che ogni individuo crede di aver raggiunto o che vorrebbe raggiungere. Intenso, drammatico, a tratti esilarante. «Ho pensato: Siamo invincibili. Purchè continuiamo a crederci, siamo invincibili e possono accadere cose incredibili».

La verità capovolta di Jennifer duBois (traduzione di Silvia Pareschi, Mondadori, 2015)
Già nel suo precedente romanzo Storia parziale delle cause perse  Jennifer duBois aveva dato dimostrazione di grande bravura nell’approfondire l’animo umano. In La verità capovolta queste capacità si confermano. Si parte da un omicidio e da un arresto, ma in tutto il romanzo non conta tanto arrivare alla verità su chi abbia o meno commesso il fatto, quanto tutto ciò che una vicenda del genere può provocare nelle persone coinvolte, nella loro vita, azioni, pensieri, emozioni. Ben scritto (e ben tradotto) e decisamente piacevole da leggere.

A_con_ZetaA con zeta di Hakan Günday (traduzione di Fulvio Bertuccelli, Marcos y Marcos, 2015)
Due storie, due anime, due vite, Derdâ e Derda, lei e lui, A con Zeta. Il primo romanzo tradotto in Italia di Akan Günday (scrittore turco trentottenne, ha scritto ad oggi otto romanzi), è cinico, triste e bellissimo; con una scrittura tagliente, narra le difficili vite dei due protagonisti destinati a incontrarsi solo alla fine del romanzo e dal quel momento saranno l’una per l’altro inizio e fine. «Solo A e Z. Appena due lettere, ma contengono l’intero alfabeto. Ci sono… decine di migliaia di parole e centinaia di migliaia di frasi scritte con quest’alfabeto. Persino le parole che vorrei dirti e che non riesco a scrivere sono contenute tra queste due lettere. Una è il principio e l’altra è la fine. Eppure, è come se fossero state create l’una per l’altra, per essere accostate e lette insieme.».

Vita in famiglia di Akhil Sharma (traduzione di Anna Nadotti, Einaudi, 2015)
Akhil Sharma ha impiegato dodici anni e buttato nel cestino circa settemila pagine prima di far venire alla luce questo potente romanzo autobiografico. La storia della famiglia Mishra emigrata dall’India verso gli Stati Uniti alla fine degli anni ‘70 narrata dal piccolo Ajay; dalle meraviglie dell’eldorado d’America dove si trovano catapultati i Mishra alla dura realtà dell’incidente occorso al primogenito, Birju, che stravolge completamente la vita famigliare. Con una prosa asciutta lo scrittore ci guida nel quotidiano di Ajay mostrandoci che forse l’unica speranza di sopravvivere a questo calvario è imparare a scriverne. Vivamente consigliato!

I consigli dei Serpenti per l’estate 2014

Anche noi andiamo in vacanza e ci rivedremo a settembre. Anche noi abbiamo qualche libro da consigliare. Buone letture!

I consigli di Anna Castellari

Orecchiette Christmas stori di Raffaello Ferrante (Round Midnight edizioni, 2013).
Ok, non è una storia estiva. Come suggerisce il titolo, è ambientato il giorno di Natale. E infatti questo volume è uscito a dicembre 2013. È un viaggio dal sapore pulp nell’Italietta medio-bassa, i protagonisti sono tutti sporchi, brutti, cattivi ma soprattutto annoiati da una vita di provincia che sta loro sempre più stretta, gravitano attorno alla Sala Bingo Omero che è a Bari ma potrebbe essere a Pordenone o a Cinisello Balsamo. La bassezza di ambizioni dei protagonisti li porta a compiere azioni squallide, in un crescendo di drammi psicologici tra droga, prostituzione e alcolismo à la Bukovski (è allo scrittore americano che spesso in questo libro Ferrante strizza l’occhio). Lascia un sapore amaro, questa storia che sa di Puglia ma che ritrae impietosamente i vizi e nessuna virtù dei personaggi, tranne dell’unico che, schifato da tutti gli altri non riesce però ad andarsene mai da quel posto come in fondo dovrebbe fare; Ferrante li descrive attraverso una scrittura rapida, incisiva, secca, incalzante. Adatta a una lettura estiva (apparentemente) poco impegnativa.

munchbeforemunchMunch before Munch di Giorgia Marras (Tuss edizioni, 2014).
Chi era Edvard Munch prima di diventare l’artista norvegese che tutti conosciamo? Giorgia Marras, illustratrice ligure, ne ha fatto un ritratto tutto a fumetti, azzurro, bianco e nero. Ne è uscito un romanzo a fumetti, pubblicato quest’anno come primo titolo della casa editrice Tuss, che trae il suo nome dall’inchiostro di china. Questo libro affascina perché Marras, oltre a mettere in gioco la propria penna in maniera personale e riconoscibile, non tralascia dettagli storici che ha esaminato grazie alla produzione scritta del pittore, quali diari e pensieri annotati occasionalmente. Che mostrano un giovane Munch alle prese con le difficoltà della vita professionale, tra lutti e il desiderio di dedicarsi all’arte: un ritratto senza filtri, attuale ed estremamente umano. Non manca uno studio dei paesaggi, punto preminente della pittura nordica.

Cadorna non è una fermata di Alessandra Giordano (solo in ePub/-mobi, Baccarinboox, 2013).
Una serie di racconti, che fanno commuovere o riflettere, ambientati ciascuno in una fermata della metropolitana “rossa” milanese. Perché, se come dice il titolo, Cadorna non è (solo) una fermata, ma un non luogo in cui si intrecciano storie, nascono amori, nascondono complotti, disvelano paure, questo volume (in solo formato eBook) è un invito a riflettere sulla figura dell’homo contemporaneus, quel milanese – ma anche quel romano, quel parigino, quel londinese – che si perde il senso del viaggiare inseguendo soltanto una meta. Già pubblicato anni fa per i tipi di Viennepierre, questo libro, che raccoglie anche testimonianze di milanesi eccellenti di ogni tipo, da don Colmegna a Sergio Escobar, passando per Giulio Iacchetti, Vivian Lamarque e altri, tenta di dare uno sguardo tra il sociologico e il divertente agli abitanti di una città che si vuole multietnica ed europea ma che, forse, si sta perdendo sempre più.

I consigli di Emanuela D’Alessio

Stalin+Bianca di Iacopo Barison (Tunué, 2014) è una delicata storia d’amore in un mondo congelato, dove non ci sono più gli arcobaleni e il presente è un continuo instabile movimento, un viaggio dalla meta imprecisata attraverso gli occhi senza luce di Bianca e la rabbia fuori controllo di Stalin. Sono loro i due adolescenti protagonisti del romanzo di Barison e scelgono la fuga per scoprire la forza dell’amore. La voce del giovanissimo autore è interessante e lancia un grido di dolore cui si dovrebbe prestare attenzione.

slocumSolo, intorno al mondo di Joshua Slocum (traduzione di Amilcare Carpi de Resmini, Nutrimenti, 2014), un diario di viaggio, di navigazione in solitaria a bordo dello Spray, una piccola barca a vela in disuso rimessa a nuovo dal mitico Joshua Slocum che per primo, dal 1895 al 1897, navigò per quarantaseimila miglia attorno al mondo. Mitico perché quando si avventurò nell’impresa aveva già cinquant’anni, perché è riuscito con abilità, determinazione e coraggio a superare le innumerevoli tempeste e avversità senza mai vantarsene, perché la sua non è stata solo un’eccellente prova di sopravvivenza, ma soprattutto un’occasione per sconfiggere la solitudine e trasformarla in una straordinaria opportunità di conoscenza interiore. Bella l’introduzione di Björn Larsson scritta espressamente per questa nuova edizione.

L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio di Haruki Murakami (traduzione di Antonella Pastore, Einaudi, 2014). Questo è il consiglio di lettura che do a me. Perché è stato annunciato come un viaggio alla ricerca di sé stessi, e di questi viaggi non se ne fanno mai abbastanza. E poi perché Haruki Murakami è l’unico scrittore giapponese che riesce a trattenermi tra le pagine con un misto di stupore, commozione e ammirazione.

 I consigli di Rossella Gaudenzi

Il teatro di Sabbath di Philip Roth (traduzione di Stefania Bertola, Einaudi, 2006). Qualche mese fa ho avuto l’occasione di ascoltare la scrittrice Chiara Gamberale raccontare i romanzi d’amore che hanno segnato in qualche modo la sua vita. Senza negare di aver appuntato i titoli che mancano nella mia libreria, ho focalizzato l’attenzione su questo romanzo di Roth, che ho appena comprato e mi accingo a leggere. Innanzitutto ho nostalgia della prosa e delle storie di Philip Roth; aggiungo che la già seducente arte del burattinaio che qui aderisce alla figura controversa – come potrebbe essere altrimenti? – di Sabbath ha avuto la meglio sugli altri titoli. Il sessantaquattrenne burattinaio ebreo Morris “Mickey” Sabbath perde l’amante Drenka e ripercorre a ritroso le tappe amorali e scabrose della propria esistenza. Sarcasmo e stordimento, queste le aspettative.

volandRomanzo naturale di Georgi Gospodinov (traduzione di Daniela Di Sora e Irina Stoilova, Voland, 2007). Prima dell’assegnazione del Premio Strega Europeo 2014 (poi vinto dallo spagnolo Marcos Giralt Torrente con Il tempo della vita, Elliot, 2014) ho sfogliato le prime pagine di un autore a me ancora sconosciuto, il giovane e celebre scrittore bulgaro Georgi Gospodinov, entrato nella cinquina dei finalisti con Fisica della malinconia (a cura di Giuseppe dell’Agata, Voland, 2013). Romanzo naturale, suo primo romanzo tradotto da Voland, non smentisce le attese: eleganza, ricercatezza, colori sfumati, giochi di parole in equilibrio tra il tangibile e il nonsense. Ironia (sinonimo di acume). Un piccolo gioiello letterario, come un abito fresco che non dovrebbe mancare nella valigia per l’estate.

I consigli di Sabina Terziani

D’estate, per approfondire lo spaesamento e la distanza, anche dal luogo già distante in cui mi trovo, aggiungo sempre una narrazione di viaggio alla pila di libri che mi porto in vacanza. Quest’anno porterò con me Un altro viaggio in Etiopia di Vincenzo Latronico (con fotografie di Armin Linke, Quodlibet Humboldt, 2013). La terra che è stata l’altrove definitivo di Rimbaud, teatro di una sgangherata farsa fascista e, oggi, obiettivo di conquista cinese fa da sfondo a un viaggio in cui Latronico, tra le altre cose, cerca di ritrovare certi ricordi famigliari insieme a un fotografo che esprime in modo sublime il silenzio e, qui, l’immobilità perlacea di certi paesaggi velati dall’afa.

destino_coattoDestino coatto di Goliarda Sapienza (Einaudi, 2011). Niente a che vedere con L’arte della gioia, il romanzo-caso letterario che qualche anno fa ha riportato Sapienza sulla scena europea. In questo smilzo libretto troverete situazioni, narrazioni in poche righe, teatrini della crudeltà che ricordano i Delitti esemplari di Max Aub. Un po’di rinfrescante cattiveria, di ironica disperazione, di comica psicosi.

A proposito di psicosi imbozzolata nelle persone cosiddette normali, se vi è piaciuta l’aria che tira in Carnage di Yasmina Reza/Roman Polanski, La cena di Herman Koch (traduzione di G.Testa, Neri Pozza/Beat, 2010) è il vostro romanzo. Una molla che si carica pagina dopo pagina fino alla rivelazione finale. Molta violenza, la famiglia perfetta, l’amore di un padre per il figlio. Delirio.

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Fabrizia Conti (giugno 2014)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Fabrizia Conti

Fabrizia Conti, 26 anni il primo gennaio, molisana (con abbondanti tracce di Salento nel sangue), vive da poco a Bruxelles. Con il racconto La balena arrugginita è arrivata in finale all’edizione 2014 di 8×8 ottenendo il migliore successo di pubblico social. Da grande vuole scrivere e aprire una piccola libreria in una città di mare. Prima di arrivare a 8×8 aveva partecipato al Campiello Giovani di qualche anno fa entrando nella cinquina, e pubblicato alcuni racconti.

Ecco che cosa c’è sul suo comodino.

Il giovane Holden, J.D. Salinger (Einaudi). Quando mi sono trasferita nella mia stanzetta belga, in bilico su un numero indefinito di rampe di scale, ho deciso di portare con me un solo libro. La scelta non è stata difficile: ne ho conservato uno per tanti anni, come un vino da invecchiare, la copertina bianca severa. Ho stappato qui Il giovane Holden, e lo sto leggendo con una lentezza estrema, per paura che il signor Caulfield mi lasci da sola, nella mia nuova città, a chiedermi dove vanno le anatre quando il lago gela.

La terra del sacerdote, Paolo Piccirillo (Neri Pozza). Lo staff di Oblique, a Torino, mi ha regalato due borse piene di libri. Tra questi  La terra del sacerdote, che desideravo da un po’. Ho iniziato a leggere, e per ora: tantissima ammirazione e anche un po’ di invidia. E come se non bastasse, non insinua l’inesistenza del Molise, e anzi, scrive “Capracotta” senza timore alcuno. Grazie.

Stalin+Bianca, Iacopo Barison (Tunuè). Anche  Stalin+Bianca  viene dritto da Torino. Sono una che si fa fregare facile facile, è vero, ma con un titolo, un incipit «Vorrei aggiungere che lo stadio è completamente vuoto» e una copertina del genere, come resistere?

Lo sguardo impuro, Pier Paolo Giannubilo (Meridiano Zero). Lui invece viene dalla Piola, la bella libreria italiana di Bruxelles. Parla di uno scandalo in un liceo di una provincia terremotata – la mia – ma lo leggerei anche se trattasse della produzione di ciabatte nel romagnolo, perché mi fido ciecamente di Pier Paolo. È lui che, a sedici anni, mi ha fatto correre in libreria a cercare Philip Roth, Anne Sexton, Agota Kristof. Consiglio anche Corpi estranei, bellissimo.

Qui gli altri comodini.

Il comodino di Fabrizia Conti

Le interviste di Via dei Serpenti: Francesco Formaggi

di Emanuela D’Alessio

Francesco Formaggi è nato nel 1980 in provincia di Frosinone. Laureato in Filosofia estetica, ha svolto numerosi mestieri: è stato cameriere, commesso e operatore in un call center. Con Birignao (embrione de Il casale) ha vinto il premio creatività della Scuola Holden. Collabora con Nuovi Argomenti.

Il casale, suo libro di esordio pubblicato da Neri Pozza nel 2013, è una storia dai toni ironici e grotteschi che vira progressivamente verso il thriller, cupo e inquietante. L’ambientazione, in apparenza tranquilla e rassicurante come può essere quella di un casale di campagna in estate, si trasforma rapidamente in un luogo colmo di segreti e menzogne, in un gioco tra verità e finzione dove nulla è ciò che appare. Al centro della storia c’è Francesco, un ragazzo di città annoiato e oppresso che controvoglia si appresta, senza speranza, senza disperazione, a trascorrere una vacanza con la fidanzata Giulia nel casale della zia Ester. La ragazza è graziosa, minuta e gentile, ma ha qualcosa di strano, eccessivo, «un alluce enorme,gonfio, tozzo, quasi brutale, sormontato da un alone giallastro che è senza dubbio l’abbozzo di un callo». La scoperta dell’alluce deforme è l’incipit di un incubo nel quale Francesco sprofonda lentamente, popolato da personaggi stravaganti, cadaveri di animali orrendamente mutilati, eventi inspiegabili fino alla misteriosa scomparsa di Franco, il marito di Ester. Un incubo fatale dal quale Francesco non riuscirà a risvegliarsi. L’ineluttabilità del male sembra essere il tema della storia di Formaggi, abile nel mantenere costanti il ritmo della narrazione e la tensione necessari per arrivare in fondo, quando tutti i nodi si sciolgono. «Nessun male si compie di proposito, finché non ti ritrovi a farlo».  Ma il male, ci dice l’autore, «è una cosa con cui tutti noi dobbiamo fare i conti, perché è stupido pensare che ci venga tolto dal battesimo, ma più stupido ancora è pensare che ce l’abbiamo incorporato dalla nascita, perché ciò che c’è di malvagio e perverso nell’uomo è soprattutto l’incapacità, o l’indifferenza, di reagire al caos, alla spinta verso l’annichilimento, verso la distruzione».

Dovendo scrivere la tua biografia, che cosa diresti di Francesco Formaggi?
Con questa domanda mi fai venire in mente l’incipit de Il giovane Holden: «Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne».
Non è che non abbia voglia di raccontarmi, ma la mia biografia ha poco o niente a che fare con il romanzo e in genere con la mia narrativa. Sono due mondi diversi, e poiché appartengo a quella razza di scrittori che crede ancora che la cosa più importante sia l’opera, che uno scrittore dovrebbe essere giudicato esclusivamente per quello che narra, perché è lì che riversa tutto il suo impegno e la sua creatività, non trovo particolarmente importante il racconto della mia vita. Forse, a questo proposito, soltanto la mia origine può suscitare interesse, perché è sedimentata nel mio modo di scrivere, e parlo del fatto che sono nato e cresciuto in un paese molto piccolo e molto isolato di duemila abitanti che si chiama Sgurgola, in Ciociaria, a qualche chilometro di curve che dalla valle del fiume Sacco salgono verso la montagna. Ecco, se la mia scrittura ha una tendenza e se questa tendenza è quella di chiudere, di serrare, di concentrare tutta l’azione della storia in ambienti claustrofobici, forse dipende dalle mie origini e dalla mia infanzia di paese “schifa”, come direbbe Holden. Vorrei aggiungere un’altra cosa, è doveroso: non odio gli animali, sia detto chiaramente. Non li amo neanche, ma odiarli al punto da spennarli o bruciarli o appenderli no, non l’ho mai fatto e non lo farei mai.

Ultimamente si è scatenato il fenomeno del self-publishing. Perché secondo te si sta affermando questa presunzione di poter fare meglio e subito rispetto al tradizionale percorso in casa editrice?
Il fenomeno è vasto e complesso, e lo dico non perché voglia tirarmi fuori dalla discussione, tutt’altro, ma perché ormai è chiaro che ha una base culturale – direi un sostrato – così ampia (abbraccia tutte le manifestazioni artistiche, il canto, il ballo, il cinema, la musica e non solo quelle) che sarebbe quasi inutile limitare il discorso ai libri, sarebbe come accendere una torcia portatile di notte con l’idea di illuminare uno stadio intero. È pur vero che non abbiamo altre fonti di illuminazione qui, e allora nel cono di luce che la piccola torcia proietta sul gesto dell’autopubblicazione io vedo innanzitutto la paura di confrontarsi col mondo, poi un istinto di masturbazione, l’illusione di fama, e infine una ingovernabile vanità, che è il desiderio di essere apprezzati. Quindi penso: se il giovane autore che si autopubblica non avesse paura del confronto col mondo, e quindi di ricevere una batosta, o peggio ancora un apprezzamento che lo spingerebbe a dover fare ancora meglio, non si riterrebbe così infallibile come scrittore da credere che la sua opera sia perfetta. Spenderebbe invece le sue energie e il suo tempo a proporla agli editori, a cercare il modo di migliorarla, anziché credere che sia così compiuta e definitiva da poter essere sigillata dentro la forma immodificabile del libro stampato. Penso: se il giovane autore che si autopubblica non fosse interessato soprattutto alla fama incredibilmente illusoria che può dare la pubblicazione di un libro, allora non avrebbe alcuna difficoltà ad aspettare mesi o anni la risposta di un editore, e non esiterebbe a gettare nel cestino la sua opera, se non è buona, per crearne un’altra che sia degna di pubblicazione. Penso: questo vale anche per la vanità. Naturalmente esistono realtà in cui l’autopubblicazione è tutt’altro che paura del confronto e masturbazione, ma nasce invece come esigenza di rifiuto di un ordine costituito, sterile e miope. Tuttavia, se mi guardo intorno, la maggior parte degli autori autopubblicati sono masturbatori: se la cantano e se la suonano e se la ballano da soli, come si dice dalle mie parti.
Sono dell’idea che ognuno debba fare ciò che vuole, e anche se ho sempre provato una naturale diffidenza verso i musicisti banchieri, i pittori postini, i preti puttanieri o le puttane monache (ma questa è una mia limitazione personale, è chiaro) credo che sia altrettanto sciocco e miope sostenere che le cose si debbano fare in un modo anziché in un altro. Pure sono certo di una cosa: gli autori che decidono di autopubblicarsi perdono una grande occasione di miglioramento, di trasformazione e quindi di crescita, sia come scrittori sia come persone, rischiando così di vedere sfumato il proprio sogno. Ciò che invece dovrebbe esserci, dentro quel cono di luce, se ci limitiamo a parlare di libri, quindi di letteratura – ma non c’è e non lascia alcuna traccia di sé nel gesto dell’autopubblicazione – è il desiderio di creare un’opera letteraria e la consapevolezza dello sforzo e del lavoro necessari per realizzarla. E qui si apre un altro tema che per me confina e anzi spesso si sovrappone a quello dell’autopubblicazione, e riguarda il motivo per cui in Italia si fa fatica a considerare la scrittura come una professione.
Fin dai primi anni di scuola superiore siamo immersi nella percezione che la letteratura appartenga a un altro mondo, al mondo dei morti, che gli scrittori siano tali perché possiedono capacità sovrannaturali. Il pensiero di derivazione romantica che lo scrittore abbia capacità non umane o che tragga la sua creatività da forze sovrannaturali (questo è il concetto di “ispirazione”) è ancora ben presente nella nostra cultura, anche se viene camuffato (l’x factor?). Me ne rendo conto ogni volta che mi capita di parlare di letteratura con i ragazzi delle superiori. Quando dico ad esempio che Pirandello o Calvino, alla loro età, probabilmente scrivevano molto peggio di come scrivono loro adesso, mi guardano come se fossi pazzo. Dall’altra parte, invece, chi non crede che la letteratura si possa fare solo per investitura divina, è convinto che sia una cosa da niente, quindi non pecca di ingenuità filo cattolica ma di indifferenza, perché crede che sia sufficiente utilizzare un programma di scrittura (magari uno di quelli che decidono tutto al posto tuo) e riempire di parole un paio di cento pagine per creare un’opera di letteratura e aspirare alla pubblicazione. Anzi, poiché è convinto che le case editrici sono tutte uguali nella loro mediocrità, tanto vale pubblicarsi da solo, e visto che scrivono tutti perché non dovrei farlo anche io e diventare anche famoso? Per concludere con una metafora, dico che autopubblicarsi è come avere una gran voglia di fare sesso ma, non riuscendo a rimorchiare le ragazze, ci si deve accontentare di masturbarsi.

Francesco Formaggi

Hai esordito direttamente con una grande casa editrice come Neri Pozza. Come è avvenuto l’incontro?
Come i cowboy nei film western, lancio una corda col cappio al di sopra della tua domanda e mi aggancio alla risposta precedente. La prima versione de Il casale, che in un certo qual modo è il primo libro che ho scritto e anche il primo che sono riuscito a pubblicare, l’ho portata a termine nel 2007, e a quei tempi si chiamava Birignao. Poiché ero un masturbatore e avevo paura di confrontarmi con la realtà, e probabilmente mi credevo più bravo di quanto non fossi, ho fatto qualche misero tentativo di contatto con un paio di case editrici, invano. Poi ho creduto che quel libro non avesse futuro e mi sono messo a scriverne un altro. Volevo pubblicare, certo, vedere il mio libro tra gli scaffali delle librerie, ma più di ogni altra cosa volevo scrivere, volevo tenere vivo e rendere perpetuo nella mia vita il gesto della scrittura che è immaginazione disposta alla creazione di storie. A quei tempi esisteva da poco il sito ilmiolibro.it, e poiché mi sembrava una cosa carina averci tra le mani il mio romanzo in forma di libro di carta, ho deciso di farmelo stampare. Una copia, poco meno di dieci euro. Dopo un paio di settimane mi è arrivata la busta a casa. È stata una bella sensazione avere il romanzo lì in una forma concreta e palpabile, sfogliarlo e annusarlo. Ma era solo una finzione, come stringere un bambolotto di gomma al posto di un figlio vero, ne ero consapevole, e non ho mai smesso di desiderare una pubblicazione reale. Poi però è accaduto che ilmiolibro.it ha indetto un concorso in collaborazione con la Scuola Holden e la Feltrinelli e ho deciso di partecipare. Fortunatamente bastava mettere in vetrina sul sito il proprio libro e fare un clic. Se avessi dovuto incartarlo e spedirlo, probabilmente non avrei partecipato al concorso. Si chiamava ilmioesordio.it, era la prima edizione, nel 2010, e il vincitore sarebbe stato pubblicato in settemila copie dall’editore Feltrinelli. Insomma, valeva la pena provare. Non ho vinto, ma la Scuola Holden mi ha dato il premio creatività (che era un po’ come il premio della critica al festival di Sanremo) grazie al quale mi hanno invitato a partecipare a Esor-dire con un racconto inedito, dove la mia attuale agente letteraria, che era seduta in prima fila, folgorata dalla mia sfavillante pettinatura ha pensato che valesse la pena propormi di entrare nella sua squadra di autori.

Fabio Stassi

E così ho cominciato a collaborare con l’agenzia, ho riscritto integralmente il romanzo, migliorandolo. Dopo un anno di lavoro, dopo vari interventi di editing, quando il romanzo era finalmente arrivato al massimo della sua forma, lo abbiamo proposto a Neri Pozza e Neri Pozza, che aveva deciso di aprirsi alla narrativa italiana, ha detto che era buono e l’ha acquisito. Da quel momento, era la fine del 2012, è iniziato un altro lavoro sul testo, ossia il lavoro di editing con la casa editrice, e dopo un altro anno il libro è uscito in libreria. Insomma: molto tempo, molti dubbi, molte incertezze, molti tentativi, molte strade senza uscita, molte epifanie, ma soprattutto molto, moltissimo lavoro. Adesso mi sembra che siano passati cento anni, e non riesco più a rileggere il libro: mi sembra che a scriverlo sia stata la mia versione da poppante, ma è una percezione distorta che credo abbiano un po’ tutti guardando a ciò che hanno realizzato.

Il casale è un romanzo dai toni ironici e grotteschi che vira progressivamente verso il thriller, cupo e inquietante. Era questo il romanzo che volevi scrivere e perché?
Quando penso alla storia compositiva de Il casalemi viene sempre in mente questa immagine: una spiaggia deserta all’ora del tramonto, il mare calmo lambisce la sabbia, alle spalle una parete di roccia. A un certo punto arriva un bambino col suo secchiello e le sue formine che si mette a costruire un castello di sabbia. Quando il sole affonda nell’acqua e il cielo si fa scuro, il bambino prende le sue cose e se ne va. Il giorno dopo torna, ed è sorpreso di trovare il suo castello ancora in piedi, sebbene mezzo distrutto dalle onde. Così lo raddrizza, rafforza le fondamenta, aggiunge qualche guglia, delinea qualche finestra, finché non arriva sera. Tornando a casa vede che il mare è mosso ed è convinto che nella notte le onde spazzeranno via tutto, ma non se ne preoccupa. Il giorno dopo però il suo castello è ancora lì, e lui continua a costruirlo, lo fa più grosso e robusto, scava un fossato di protezione tutto attorno e poi arriva sera, e torna a casa, e il giorno dopo continua a costruire, e il giorno dopo ancora. Una mattina, mentre impasta la sabbia, un’onda alta due metri lo sommerge e quando l’acqua si ritira il castello è quasi distrutto. Però il bambino lo rimette a posto e continua il suo lavoro, che è un gioco, è un divertimento, perché i bambini giocano finché c’è divertimento. Nel corso dell’estate arrivano altre due onde giganti che per poco non distruggono il castello, ma il bambino riparte sempre da lì, da ciò che rimane, e ristruttura, e continua a costruire. Finché una sera una donna a passeggio sulla battigia nota il castello, si ferma a guardarlo, si avvicina, chiede al bambino se lo ha fatto lui, il bambino risponde di sì, e la donna dice che è molto bello, che le piacerebbe portare altre persone a guardarlo. È una costruzione alta ormai, e solida, anche se fatta di sabbia, e potrebbero starci dentro dieci uomini in piedi. Il giorno dopo un signore amico della donna dice al bambino che comprerebbe volentieri il suo castello. Quando il bambino gli chiede come si chiama, il signore risponde Neri Pozza. Ecco, credo che non ci sia niente da aggiungere a questa storiella, tranne il fatto che le onde giganti, che per ben tre volte hanno rischiato di distruggere il castello, costringendo il bambino a ricostruirlo quasi da zero, altro non sono che le critiche più puntuali di amici scrittori, Fabio Stassi prima di tutti, e poi l’editing della mia editor e dell’agenzia, e le ondate successive di riscritture e revisioni con la casa editrice.

«Poi lo vedo, prepotente, eccessivo: l’alluce storto che prorompe sopra la morbidezza affusolata di quei piedi come un urlo barbarico quando tutto intorno è silenzio. È un alluce enorme, gonfio, tozzo, quasi brutale, sormontato da un alone giallastro che è senza dubbio l’abbozzo di un callo». Un dettaglio di per sé irrilevante ma per Francesco, il protagonista della storia, assume un significato nefasto. L’alluce deforme della fidanzata Giulia è l’incipit di una progressiva precipitazione degli eventi. Una stortura estetica come metafora delle storture dell’animo?
Direi più una stortura estetica come incrinatura nell’involucro immacolato della forma dietro il quale, una volta sgretolato, compare l’animo umano nei suoi aspetti più storti e distorti e nefasti.

I vari personaggi della storia non sono quello che appaiono, nascondono una personalità spesso opposta a quella inizialmente percepita, insospettabile e inquietante. Tra tutti colpisce la figura di Clara, la cameriera dal passato incerto e scorretto che scrive messaggi in versi allo stralunato Francesco. Chi è Clara?
Nel mondo reale Clara potrebbe dirsi una bipolare, nel senso che è scissa in due personalità che convivono in quel corpo pieno di appetiti ma secco come uno scheletro. Quindi è spaventata a morte solo perché ha rotto una brocca di Ester, ma non ha paura di arrampicarsi di notte sugli alberi per spiarla; è intimidita come una bambina mentre porta a tavola i piatti, ma di notte non si vergogna di farsi pagare il sesso da un ragazzotto che lancia sassi alla sua finestra. Scrive rime smielate su foglietti di carta, ma quando incontra Francesco di notte si esprime come una punkabbestia. Odia il custode perché la schiavizza, ma è gelosa fino alla rabbia quando scopre che va con un’altra donna. Non le frega niente di Franco, ma vuole scoprire che cosa gli è successo. Insomma, è una matassa di contraddizioni. E poi è una incredibile bugiarda. Forse l’unica tra tutti che riesce a salvarsi, forse.

Uno alla volta, a eccezione del protagonista, gli attori svaniscono, se ne perdono le tracce, lasciando incompiuto lo sforzo iniziale di inquadrarli nel contesto. Ti sono sfuggiti di mano o è stata una scelta narrativa?
È stata una conseguenza di progressive scelte narrative nel corso della composizione. È un po’ come quando stai su un sentiero di montagna e sai che devi raggiungere il rifugio lì in alto (o lì in basso), e cammini fiducioso e sereno seguendo il sentiero, anche se non sei certo che ti porti a destinazione. Dopo un po’ però ti fermi, ti guardi intorno, e in una apertura tra le foglie lo vedi, il rifugio. Sta lì, poco più in alto (o in basso), e sai che è lì che devi arrivare, prima che faccia buio, ma ti accorgi che il sentiero battuto su cui stai camminando porta da un’altra parte, e allora decidi di tagliare dritto tra gli arbusti e cammini aprendoti la strada a colpi d’accetta, sempre tenendo gli occhi puntati sul rifugio, senza mai perderlo di vista. Ecco, mi è successo un po’ la stessa cosa, a un certo punto mi sono accorto che il sentiero battuto e comodo e conosciuto della narrazione in cui si dovevano chiudere tutte le linee narrative aperte e portare ogni personaggio al proprio compimento, mi avrebbe allontanato dalla meta che invece vedevo chiara davanti a me. Così ho deciso di tagliare dritto e di arrivarci direttamente attraverso la boscaglia, senza badare alle braccia piene di graffi, ai rovi che mi martoriavano le caviglie.

Francesco, il protagonista, è l’unico di cui non si perdono le tracce, ce ne descrivi i pensieri, l’aspetto, i vestiti, gli stati d’animo, con una precisione quasi morbosa, ossessiva. Francesco è ossessionato dai dettagli, anche i più irrilevanti e più si rende conto di quello che sta accadendo, più resta imprigionato in questa consapevolezza che si rivelerà letale. Perché questo annichilimento della volontà, questo rifiuto alla reazione/azione?
Annichilimento (direi volontario) della volontà, quindi debolezza scambiata ciecamente per impossibilità strutturale, o imposta, di qualsiasi slancio vitale; quindi passività, pigrizia, sottomissione al pregiudizio, pretesa di privilegi senza alcuno sforzo per guadagnarsi diritti, e poi mancanza di reattività, che è la faccia nascosta del narcisismo. Pare anche a te o sono pazzo a leggere questo elenco di pochezze come l’anamnesi esistenziale degli ultimi venti anni in Italia?

«Rimasi a guardare la pista d’erba sulla quale ci eravamo rotolati, la sagoma che i nostri corpi avevano lasciato in mezzo al campo come un calco in memoria dell’estasi, e mi venne in mente che la mia vita era così – la mia vita, la mia persona tutta – una sagoma, un calco. Nient’altro che il calco vuoto di ciò che avrei potuto fare e dire ma non avevo mai fatto e detto perché ero sempre stato in attesa di trasformazioni mai compiute». È sempre Francesco a parlare, consapevole e immobile. L’idea che l’uomo sia artefice del proprio destino sembra dunque confermata, al negativo. Che cosa ne pensi?
Penso che la parola destino sia buona e positiva e utile se la si considera nella accezione di “destinazione”, di “direzione verso”; se invece la si intende come una predeterminazione, quindi come un susseguirsi di eventi imposti dall’alto, dal di fuori, allora credo sia una parola vuota, inutile, anzi dannosa, perché non c’è alcuna divinità sopra di noi a calare gabbie sulla nostra esistenza. Detto questo, penso che la passività esistenziale sia il risultato finale di una dialettica in cui uno dei due elementi necessari è l’“azione” che potremmo chiamare frenante, ovvero che non spinge in avanti ma assomiglia invece al gesto “attivo” del piede di schiacciare il freno, non perché altrimenti si andrebbe a sbattere, ma per paura delle strade sconosciute.

«Nessun male si compie di proposito, finché non ti ritrovi a farlo». Questa frase sembra riassumere il significato del tuo libro: il male è ineluttabile e sebbene se ne avverta la presenza e la minaccia, non si riesce ad annientarlo. È di questo che hai voluto scrivere?
Direi di sì, ma non mi premeva più di tanto sostenere che è impossibile annientarlo, il male – che non è necessariamente sterminio e omicidio e rogo, e non è neanche inferno e punizione e satana o tutte quelle idiozie cattoliche, ma potrebbe considerarsi semplicemente come un istinto di annichilimento, quindi anche l’indifferenza è “male” – non mi premeva, dicevo, sostenere che è impossibile annientarlo, quanto evidenziare la sua presenza, rendere manifesto il fatto che il male è qualcosa con la lettera minuscola, e può assumere varie forme. È una cosa con cui tutti noi dobbiamo fare i conti, perché è stupido pensare che ci venga tolto dal battesimo, ma più stupido ancora è pensare che ce l’abbiamo incorporato dalla nascita, perché ciò che c’è di malvagio e perverso nell’uomo è soprattutto l’incapacità, o l’indifferenza, di reagire al caos, alla spinta verso l’annichilimento, verso la distruzione.

Sempre a proposito del male, Hanna Arendt diceva che bisogna capirlo per avere gli strumenti per combatterlo. Primo Levi, pensando ad Auschwitz, sosteneva al contrario che il male non va capito, perché così facendo si finirebbe per giustificarlo. Ho semplificato ovviamente, ma tu che cosa ne pensi?
Penso che evitare di capire il male (come pure il bene, come ogni altra cosa) per paura di giustificarlo e quindi in qualche modo di diventarne complici sia un’idiozia, e non sapevo che lo avesse detto Primo Levi. Capire non è certo identificarsi, ma anzi è il primo passo, necessario, verso un distacco. Quindi sono d’accordo con Hanna Arendt, ma mi viene in mente anche questo: capire le cose in modo esclusivamente razionale è solo parte di una comprensione più globale, ed è ciò che cercano di fare i filosofi: costruiscono i loro discorsi razionali sulla realtà, e non a caso per secoli la filosofia è stata quasi esclusivamente gnoseologia. C’è però tutta un’altra parte di esistenza che ha a che fare con una forma di conoscenza che è un sentire e parla la lingua delle sensazioni, delle emozioni, delle pulsioni, dei sentimenti, dei sogni. A mio avviso è la nuvola dalla quale la letteratura fa cadere la sua pioggia salvifica sul mondo e sugli uomini. Questo però, mentre scrivevo Il casale, non lo sapevo ancora; c’è da considerare che a quei tempi, seppure con un istinto di ribellione, avevo appena terminato i miei studi di filosofia all’università.

Il protagonista del romanzo si chiama Francesco come te. Omonimia casuale o identificazione?
Casuale, direi. Forse in tutto il libro il nome di Francesco viene pronunciato tre volte, e siccome in fase di composizione era una cosa a cui proprio non pensavo, è rimasto così: sarebbe stato più complicato cambiarlo. Però avevo in mente i romanzi di Gombrowicz, soprattutto Pornografia, e lì il suo protagonista si chiama Witold, come l’autore, e non posso negare che mi piacesse l’idea di avere con lui un’assonanza, anche se così piccola e banale.

Che cos’è per te la scrittura? Necessità, vocazione, catarsi?
È sempre stata un desiderio, fortissimo, il desiderio di comporre pagine e di vederle compiute, di percepire la compiutezza di un pensiero, di una immagine, e passare il tempo a rincorrerla con le parole, girando e rigirando le frasi finché puoi dire a te stesso “ecco, l’ho presa”, oppure “più vicino di così non posso andare”; poi vedere i personaggi e la storia prendere forma, sentire l’emozione che monta quando percepisci che ciò che hai scritto ti appartiene profondamente. Scrivere è sempre stato un desiderio forte almeno quanto quello della lettura, che è invece un abbandonarsi, un immergersi nei personaggi e nelle atmosfere distanti, vivere in parallelo con esistenze differenti che però sembrano parlare con una voce così familiare. E poi è una realizzazione. Non so se domani continuerò a pensarla allo stesso modo, ma adesso posso dire con certezza che se qualche forma di vita aliena portasse sulla terra un dispositivo che paralizza nell’uomo la capacità di immaginare e di fantasticare e di scrivere e mi usasse come cavia dopo avermi rapito, molto probabilmente, una volta rilasciato dalla nave aliena in un campo di grano pieno di strani cerchi, non sarei più io, perché avrei perso il nucleo della mia identità, il cuore pulsante del mio stare al mondo.

Se è vero che prima di essere uno scrittore si è un lettore, quali sono i libri della tua vita?
Ti dico alcuni libri (mi limito ai romanzi) che in qualche modo hanno dato forma alla mia vita, in ordine cronologico. Terra di Stefano Benni: mi ha introdotto nel mondo della fantasia, lasciandomi addosso la certezza che, più che un mondo, sia un universo senza confini, in espansione. Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse: ha creato in me, mio malgrado, una scissione tra ascetismo e passionalità, formandoli nel globo del mio pensiero cosciente come due entità in antitesi che solo col tempo sono riuscito a far dialogare, ma comunque creando in me forme di pensiero che prima non c’erano. On the road di Jack Kerouac: mi ha spinto a intraprendere i primi viaggi della mia vita, mi ha spinto verso un’idea di fuga, di una vita che vada oltre, e ancora oggi, quando le cose vanno un po’ male, mi viene sempre in mente che potrei mettere una coperta nello zaino e incamminarmi, via, purché sia lontano. Opinioni di un clown di Heinrich Böll: mi ha svelato la natura dell’ipocrisia (ancora adesso è una delle cose che detesto di più e in cui sto più attento a non cadere) e la stupidità dell’orgoglio. I testamenti traditi di Milan Kundera: anche se non è un romanzo, mi ha insegnato cos’è il Romanzo, con la R maiuscola, e quindi ha costruito in me una base da cui ancora adesso prendono lo slancio tutti i miei salti per cercare, attraverso le cose che scrivo, di acchiappare qualcosa che assomigli anche solo un po’ alla Letteratura, con la L maiuscola. Infine Pornografia di Witold Gombrowicz. La mia esperienza di lettura con questo romanzo è stata la seguente: ho aperto una porta e, a una prima occhiata, ho trovato un luogo totalmente estraneo. Così ci sono entrato come si entra nei libri, con curiosità, e ho cominciato a camminare guardandomi attorno. A un certo punto, con infinito stupore, ho scoperto che era casa mia! Così ho imparato che se volevo conoscerla davvero, casa mia – il mio spazio interiore – dovevo gettare lo sguardo oltre gli alberi e andarla a cercare in luoghi distanti e sconosciuti dove solo avrei potuto, a un certo punto, magari voltandomi per sbaglio, riconoscerla.

Frequenti le librerie? Qual è la libreria ideale?
Sì, certo, la libreria è il posto dove voglio andare ogni volta che esco di casa per una passeggiata. È un po’ come uscire di casa per tornare a casa.
Mi chiedi qual è la libreria ideale. Mi viene in mente una immagine, che non so se sia abbastanza comprensibile, ma te la dico lo stesso: immagino me stesso davanti a una libreria immensa, e io sono vestito di viola, o di rosso, e sugli scaffali c’è un libro diverso per ognuno dei colori che esistono nel mondo, tranne uno, il viola, o il rosso, tranne il colore che ho addosso. Non so che cosa significa, forse niente, ma è suggestiva, soprattutto se ci metti uno sfondo bianco senza confini come lo spazio della realtà virtuale simulata per esercitarsi al combattimento nel film Matrix.

Che cosa diresti al Lettore Zero, quello che non ha mai letto un libro e ne va anche orgoglioso?
Di entrare in una libreria, anzi in una biblioteca, e prendere un libro a caso, seguendo solo il proprio sentire, e cominciare a leggerlo. Se è così vivo e fortunato da appassionarsi, allora certamente vedrà quel libro come l’inizio di una storia di cui troverà naturale seguire l’evoluzione, (come in una storia d’amore) perché in ogni libro ci sarà la mollica di pane che gli permetterà di trovare il libro successivo.

Cosa c’è da leggere o ci dovrebbe essere sul tuo comodino?
Da leggere (da finire di leggere) c’è 2666 di Bolano, poi Maus, il graphic novel di Spiegelman, poi Diario di una scrittrice di Virginia Woolf, poi Figli dello stesso padre di Romana Petri, per ultimo E poi siamo arrivati alla fine di Joshua Ferris.
Invece ci dovrebbero essere i classici italiani che non ho mai letto, Pavese, Ortese, Morante e anche i giganti di cui ho sempre letto poco e male, perché pieno di spavento per la mole delle opere: Tolstoj, Proust, Dostoevskij.

Quali sono i tuoi progetti per l’immediato futuro?
Lavoro intensamente al nuovo romanzo, che è molto diverso da Il casale. È scritto in una terza persona fortemente focalizzata, ha come protagonista un bambino molto piccolo e molto solo, è ambientato in un tempo e in un luogo senza tempo e senza luogo, perché appartengono in uguale misura all’immaginazione e alla realtà; tratta delle paure, del buio e del vuoto, dell’abbandono, della fragilità dei sentimenti, dell’interiorità dei bambini che è esplosione di immagini e fantasia, e di come per gli adulti sia facile sopprimerla, perché non la vedono, non la conoscono e non la vogliono e anzi la sentono come una minaccia. La lingua che ho cercato e, con molta fatica, spero di aver trovato è una lingua che potrebbe dirsi “sensoriale”, e tutto il romanzo può dirsi “un romanzo della sensibilità”. La storia, che è molto semplice e lineare e anche un po’ nera, la leggerete – spero che vogliate farlo – quando uscirà!