di Assunta Martinese
Vanni Santoni e Gregorio Magini sono gli ideatori della Scrittura Industriale Collettiva (SIC), un metodo che struttura e suddivide il lavoro di più autori nella realizzazione di opere letterarie collaborative.
Dopo sei racconti “preparatori” pubblicati on line, ad aprile 2013 minimum fax ha pubblicato il primo romanzo SIC, In territorio nemico, ambientato negli anni della Resistenza, al quale hanno collaborato 115 persone.
Qualcuno ha detto che nelle scritture collettive o collaborative si verifica un moltiplicarsi delle responsabilità: tanto di quelle verso i coautori quanto di quelle nei confronti dei lettori. Nel vostro caso, per la natura particolare del romanzo, si aggiunge a questo la responsabilità nei confronti di quanti si sono offerti di condividere con voi esperienze anche molto tragiche. Qualcuno vi ha chiesto qualche “garanzia” nei confronti del risultato del lavoro? Le vostre fonti si “fidavano” di voi?
Il fenomeno più simile al “moltiplicarsi delle responsabilità” che tu citi (ma chi l’ha detto? vorremmo saperlo a questo punto!) [Guglielmo Pispisa, nel saggio «Gli altri, gli stessi. L’identità al tempo dell’autore collettivo» ndr] che abbiamo incontrato è il fatto che nella scrittura collettiva, tendenzialmente, le decisioni si devono prendere coscientemente, perché devono essere comunicate e, spesso, giustificate. Non ci si può affidare all’ispirazione.
Tuttavia, dal punto di vista psicologico, quello che abbiamo verificato noi è una diminuzione delle responsabilità, o almeno del peso della responsabilità. Gli scrittori scrivono e basta, a selezionare il materiale ci pensano i compositori. Non si devono giudicare da soli, non devono correggersi, censurarsi, ricominciare, e così via. D’altro canto i compositori fanno “quello che possono” con il materiale che hanno a disposizione. È più facile selezionare la frase migliore fra N frasi che si hanno a disposizione, che selezionarne una sapendo che se ne potrebbero scrivere infinite diverse.
Immagino che molti tra coloro i quali vi hanno fornito gli aneddoti che stanno alla base di In territorio nemico siano persone ormai anziane. Come hanno reagito alla pubblicazione della loro storia? In fondo è molto raro che una storia privata e “comune” venga fermata in un libro, deve fare un certo effetto.
In realtà le storie realmente accadute da cui è tratto il romanzo sono perlopiù così ibridate e riscritte che crediamo sia difficile per i protagonisti originali riconoscersi direttamente. Detto questo, girano per Facebook fotografie di veri, originali, ormai novantenni membri dell’equipaggio della Corvetta Gabbiano che mostrano In territorio nemico sorridendo. Devono essere contenti che si parli di loro.
Sulla copertina di In territorio nemico, al posto dell’autore, è riportata la dicitura Scrittura Industriale Collettiva. Con tale denominazione si intende tanto il metodo di scrittura quanto la comunità degli scriventi che applica tale metodo, e nessuna delle due accezioni si avvicina al significato di “autore”. In sintesi, in copertina viene indicato soltanto in che modo il romanzo è stato scritto e rimanda ad altra sede (in questo caso, in calce al romanzo) la specificazione riguardo a chi l’abbia scritto. In un panorama come quello da voi auspicato, in cui il metodo SIC diventa una “prassi comune” nella scrittura di opere letterarie, sarà lecito continuare a riportare in copertina soltanto il nome del metodo e di una generica ‘comunità di scrittori’ o si renderà necessaria qualche ulteriore specificazione in merito a chi ha scritto il libro?
No, non ci sembra affatto necessario. A meno che il sistema di scrittura non si diffondesse a tal punto da far emergere la necessità di distinguere diversi gruppi. Potrebbero a quel punto assumere dei nomi come le band musicali, oppure portare il nome di un compositore particolarmente famoso o carismatico. Non vediamo l’ora.
Un processo di scrittura così frammentato rende complesso individuare quali degli elementi siano frutto della volontà degli scrittori, quali della volontà degli autori e quali delle dinamiche intrinseche del metodo. In quale luogo dobbiamo cercare l’intenzionalità autoriale, quell’istanza che ci porta a distinguere un autore da uno scrivente?
Il testo è impacchettato in un libro, e si presenta come un romanzo. Di conseguenza il lettore non può fare a meno di ipotizzare l’intenzionalità. Il fatto che il lettore non sia in grado, per il modo in cui il testo è stato costruito, di identificare con sicurezza la fonte di questa intenzionalità, secondo noi, contribuisce ad accrescere la polisemia del testo. Un filologo potrebbe forse ricondurre questo o quel tratto a questa o quella figura o momento del processo di produzione. Ma è tutto senso; per chi è disposto ad accettare l’incertezza, non può che essere una ricchezza.
Nel metodo SIC i compositori si “limitano” a selezionare e raccordare il materiale scritto dagli autori. Tuttavia, se la fase di selezione comprende un numero così grande di schede, il materiale disponibile per la ricombinazione assume un volume rilevante (pur non arrivando, ovviamente, all’insieme infinito di possibilità a cui attinge un autore singolo e privo di vincoli). La figura del compositore non si discosta allora dal ruolo di editor per assomigliare a quella di un “autore depotenziato”, che può attingere materiale narrativo da un insieme finito invece che infinito?
Sì. Più precisamente, il compositore è una parte di autore. Gli scrittori SIC sono altre parti, che assolvono a differenti funzioni autoriali. Nel complesso, almeno nelle nostre intenzioni, si ha un “autore” (una specie di autore Frankenstein) nel pieno delle sue funzioni.
Gregorio Magini e Vanni Santoni
In In territorio nemico la scrittura collettiva è legata alla storia collettiva popolare da un nesso di quasi consustanzialità: così come l’esperienza storica è molteplice e corale, anche il racconto è la sintesi di un coro di voci disparate. Credete possibili altre esperienze in cui il metodo, la forma e la tensione etica di un racconto si accordino in modo così perfetto?
Abbiamo sempre detto che il metodo SIC non è monolitico: deve essere adattato all’opera che si vuole produrre. Dev’essere il metodo che si adatta alla tensione etica. Non si deve pensare di inventare un metodo valevole per qualsiasi uso, e di andare poi a cercare il tema più forte, appassionante, eticamente condivisibile su cui applicarlo.
Il periodo della Resistenza, per quanto tragico e ambiguo, rappresenta una ferita che ha in sé, almeno in parte, la cura; per quanto ci si dedichi ad analizzarne i lati oscuri, che pure non sono pochi, emergerà sempre una parte consolante, che sia essa ideologica, eroica oppure semplicemente umana, ed è questa la parte che più delle altre ci è stata tramandata dai racconti orali di chi l’ha vissuto. Anzi, sono proprio le parti più traumatiche a essere state espulse dal racconto, almeno da quello più spesso tramandato. In questo senso mi sembra che In territorio nemico sia un bel compendio di quello che è l’immaginario storico collettivo riguardante la Resistenza, oltre che un grande tributo all’auto-narrazione di un popolo, che si racconta con tutte le omissioni e le reticenze che sono intrinseche a un ricordo doloroso. Però, pur tenendo conto delle motivazioni etiche e politiche che vi hanno spinto a comporre una storia dalla quale il punto di vista fascista fosse programmaticamente assente, e pur condividendole, mi sembra che la mancanza di conflitto nel romanzo assuma una portata difficile da ignorare. Non ci sono fascisti buoni, non ci sono partigiani cattivi.
Abbiamo ignorato la possibilità, tutta opinabile, del resto, del “fascista buono”, perché ci interessava concentrarci su un problema etico, dal nostro punto di vista, ben più interessante. L’esistenza del fascista buono pone il problema dell’incertezza del punto di vista, della relatività della scelta. La sua inesistenza pone un problema che ci sta ben più a cuore: la difficoltà del senso, i tormenti e le sofferenze impliciti nella bontà di una scelta.
Un altro grande merito del romanzo, a mio parere, è quello di essere riuscito, proprio grazie al metodo di scrittura, a trattare un argomento irto di pericoli come quello della Resistenza italiana e di averlo animato con una tensione etica che sposta il romanzo al di fuori della fiction storica che siamo abituati a leggere: proprio mentre i testimoni e i protagonisti di quel periodo storico stanno venendo a mancare, ancorare l’invenzione di ‘chi non c’era’ all’aneddotica sul campo fornisce una sorta di legittimazione all’opera. E se il concetto di memoria collettiva legittima l’atto del racconto, la memoria individuale garantisce la coerenza della narrazione. Uno degli aspetti più interessanti di In territorio nemico è sicuramente il rapporto in esso generato tra fiction e fact checking, tra invenzione e realtà e, in ultima analisi, tra storia e memoria. Vi è capitato di ricevere aneddoti palesemente in contrasto con i dati storici? Vi siete sbattuti molto per riportare a una versione uniforme i vari racconti, oppure essi erano in linea di massima concordi?
Ci siamo attenuti a un criterio di rigorosa corrispondenza con i fatti storici, per quanto riguarda lo sfondo. I personaggi invece sono sostanzialmente frutto d’invenzione. L’idea è che nel romanzo storico la “quota” di finzione debba essere rigidamente controllata. Il senso emerge dal contrasto tra il livello individuale non storicizzato (e quindi “inventabile”) e il livello collettivo, condiviso della storia.
A dispetto dalla particolarità del metodo, la forma del romanzo è estremamente tradizionale, e si discosta molto dalle forme sperimentali delle scritture collettive moderne. Pensate che un metodo progettato per essere un buon congegno per creare storie potrà essere spinto anche verso una ricerca più specificamente letteraria (stilistica, linguistica, formale, ecc.)?
Ci siamo affidati alle forme rodate del romanzo tradizionale per poter concentrare le energie inventive sulla sperimentazione del metodo stesso. Ma dal punto di vista teorico, nulla vieta di applicare il metodo a forme più sperimentali. Nei termini del metodo, si tratterebbe di lavorare di più su schede stilistiche, piuttosto che sulla classica definizione di personaggi e ambientazioni che abbiamo adottato per In territorio nemico.
Pensate che il metodo sia applicabile anche ad altri campi della scrittura? Magari sceneggiature?
Sì. Come detto, il metodo non si pone come un processo automaticamente “buono per tutto”. Si può adattare. Per esempio: nelle schede personaggio per una sceneggiatura, metteremmo meno attenzione sull’aspetto fisico, e più sul modo di parlare.
Ci sono in vista altri progetti per il metodo SIC? Voi avete in programma qualcosa? Si stanno formando nuovi gruppi?
Niente di nuovo ufficialmente. Non siamo interessati a fondare un brand. Il metodo è liberamente utilizzabile da chiunque, e qualcosa si sta muovendo sia per quanto riguarda nuove produzioni SIC che per quanto riguarda nuove sperimentazioni nel campo della formazione (operatori dell’educazione in scuole e università hanno mostrato molto interesse). Ma diamo tempo ai nuovi progetti di crescere.
Leggi l’intervista di Nicola La Gioia
In territorio nemico
minimum fax, 2013
pp. 308, € 15,00