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INDILIBR(A)I – I consigli di lettura della libreria Risvolti

INDILIBR(A)I – Rubrica dedicata ai librai e ai lettori indipendenti

Libreria Risvolti
Via Sestio Calvino, 73-75 00174 – Roma
Tel./Fax. 0689537244
e-mail:info@libreriarisvolti.it

Dai librai Barbara Facchini e Alessandro Fratini di Risvolti gli ultimi consigli di lettura.

La fortezza di Jennifer Egan  (traduzione di Martina Testa, minimum fax, 2014)
Jennifer Egan conferma il suo grande talento. A Danny, il protagonista, viene proposto da un cugino che non vede da anni, di aiutarlo a ristrutturare un castello medievale in Europa per farne un hotel di lusso. Le intricate gallerie sotterranee, i bizzarri personaggi che abitano il castello e delle strane visioni metteranno alla prova la fragile psicologia di Danny….e se invece il protagonista fosse Ray che scrive la storia di Danny mentre è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza? Romanzo gotico o psicologico? Semplicemente un raffinato gioco letterario con il quale la Egan ci esorta a usare la nostra mente, a non lasciare sopita la nostra fantasia e a non lasciarci soggiogare dalla tecnologia.

indice_medio_di_felicitàIndice medio di felicità di David Machado (traduzione di Romana Petri, Neri Pozza, 2015)
Terzo romanzo pubblicato in Italia del giovane scrittore portoghese, Indice medio di felicità racconta delle vite in crisi di tre amici in un paese in profonda crisi, il Portogallo. Racconta della loro idea di mettere su un sito dove ci si possano scambiare offerte di aiuto. Racconta di fallimenti, di giovani allo sbando, di disoccupazione. Ma soprattutto racconta dell’indice di felicità che ogni individuo crede di aver raggiunto o che vorrebbe raggiungere. Intenso, drammatico, a tratti esilarante. «Ho pensato: Siamo invincibili. Purchè continuiamo a crederci, siamo invincibili e possono accadere cose incredibili».

La verità capovolta di Jennifer duBois (traduzione di Silvia Pareschi, Mondadori, 2015)
Già nel suo precedente romanzo Storia parziale delle cause perse  Jennifer duBois aveva dato dimostrazione di grande bravura nell’approfondire l’animo umano. In La verità capovolta queste capacità si confermano. Si parte da un omicidio e da un arresto, ma in tutto il romanzo non conta tanto arrivare alla verità su chi abbia o meno commesso il fatto, quanto tutto ciò che una vicenda del genere può provocare nelle persone coinvolte, nella loro vita, azioni, pensieri, emozioni. Ben scritto (e ben tradotto) e decisamente piacevole da leggere.

A_con_ZetaA con zeta di Hakan Günday (traduzione di Fulvio Bertuccelli, Marcos y Marcos, 2015)
Due storie, due anime, due vite, Derdâ e Derda, lei e lui, A con Zeta. Il primo romanzo tradotto in Italia di Akan Günday (scrittore turco trentottenne, ha scritto ad oggi otto romanzi), è cinico, triste e bellissimo; con una scrittura tagliente, narra le difficili vite dei due protagonisti destinati a incontrarsi solo alla fine del romanzo e dal quel momento saranno l’una per l’altro inizio e fine. «Solo A e Z. Appena due lettere, ma contengono l’intero alfabeto. Ci sono… decine di migliaia di parole e centinaia di migliaia di frasi scritte con quest’alfabeto. Persino le parole che vorrei dirti e che non riesco a scrivere sono contenute tra queste due lettere. Una è il principio e l’altra è la fine. Eppure, è come se fossero state create l’una per l’altra, per essere accostate e lette insieme.».

Vita in famiglia di Akhil Sharma (traduzione di Anna Nadotti, Einaudi, 2015)
Akhil Sharma ha impiegato dodici anni e buttato nel cestino circa settemila pagine prima di far venire alla luce questo potente romanzo autobiografico. La storia della famiglia Mishra emigrata dall’India verso gli Stati Uniti alla fine degli anni ‘70 narrata dal piccolo Ajay; dalle meraviglie dell’eldorado d’America dove si trovano catapultati i Mishra alla dura realtà dell’incidente occorso al primogenito, Birju, che stravolge completamente la vita famigliare. Con una prosa asciutta lo scrittore ci guida nel quotidiano di Ajay mostrandoci che forse l’unica speranza di sopravvivere a questo calvario è imparare a scriverne. Vivamente consigliato!

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Lorena Bruno (marzo 2015)

comodino_coverIL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Lorena Bruno

Il problema del comodino di chi ama leggere è lo spazio. Se poi quello in questione è il comodino di una donna, oltre alle pile di libri si potrebbero trovare creme idratanti e altri oggetti del genere: con un po’ di immaginazione si può avere un’idea di come stia messo (male) il mio comodino.

In questo periodo accanto alle creme tengo Gli elisir del diavolo di E.T.A. Hoffmann nella bellissima edizione L’Orma editore, 2013 (traduzione di Luca Crescenzi),  un volume scuro dalla copertina in carta Fedrigoni materica provvista di bandelle con segnalibri staccabili molto eleganti. Gli appassionati sapranno di quale tipo di carta stiamo parlando, ma i neofiti, come me, possono trovare queste informazioni alla fine del volume, in un piccolo paragrafetto (il cosiddetto “finito di stampare”) che specifica inoltre che la carta su cui si legge il romanzo è invece la Lecta coral book; all’interno le testatine presenti in tutte le pagine sono molto curate, con un carattere particolare che si addice al periodo storico cui appartiene il romanzo e al suo genere letterario. Bastano questi elementi per capire che l’edizione in questione è stata curata nei minimi particolari ed è per questo preziosa a suo modo. Mi ha catturata una domenica a Campo dei Fiori, dove è stato bruciato Giordano Bruno e sotto la sua statua c’è una libreria dal nome che ha molto a che fare con il fuoco, Fahrenheit 451.
Il romanzo di Hoffmann narra la storia di un ragazzo che cresce in convento perché il padre ha voluto espiare le sue colpe abbandonando ogni bene materiale e abbracciando la vita monastica. Medardus, il protagonista, vuole a sua volta vivere da uomo di chiesa e diventa anche un abile predicatore. La sua posizione lo porta a conoscenza del fatto che nel suo convento c’è una preziosa reliquia, una bottiglia di elisir che il diavolo aveva offerto a Sant’Antonio per tentarlo nel deserto. Narrato in prima persona, lo stile aderisce pienamente al romanticismo dalle tinte fosche e trascina nelle avventure di Medardus. Non ho ancora finito di leggerlo, ma mi sembra che riconduca al filone letterario in cui il diavolo governa le azioni umane e mi ha ricordato per questo – e non per altro – Il Maestro e Margherita di Bulgakov.

L’altro volume sul mio comodino ha un titolo che per tanto tempo mi ha attratta e respinta allo stesso tempo. L’inconfondibile tristezza della torta al limone di Aimee Bender, pubblicato da minimum fax nel 2011 (traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan), occhieggiava dagli scaffali delle librerie senza che mi decidessi a comprarlo, finché un’addetta ai lavori non me lo ha consigliato caldamente. Sulla copertina c’è una fetta di torta molto invitante che ha un’ombra umana, infatti si tratta della storia di una ragazzina che scopre di avere un dono: nelle pietanze sente con chiarezza il sapore delle emozioni di chi le ha preparate. In questo modo impara a conoscere la sua famiglia senza filtro, scoprendone tutte le problematiche mangiando ciò che prepara la madre. Mi incuriosiva questo insieme di realismo nel racconto dei drammi di una famiglia americana come tante altre e l’elemento fantastico del dono della protagonista, che non fa che rendere ancora più reale il ritratto dei personaggi.

Il terzo volume sul comodino è Anima di Wajdi Mouawad, uno degli ultimi libri pubblicati da Fazi. Sulla copertina c’è un gigantesco serpente dai colori molto belli. Sono ormai a metà di questo romanzo insolito, dove i fatti sono narrati da un animale diverso per ogni capitolo. Un cane, un gatto, una zanzara, un ragno, un corvo e tantissime altre specie raccontano la storia di un uomo che trova sua moglie barbaramente uccisa e decide di inseguire il suo assassino per guardarlo in faccia. Lo stile, di volta in volta diverso, sembra assecondare il modo di pensare che può avere questo o quell’animale, ora molto schematico ora molto poetico e descrittivo. Tutti questi animali, nella molteplicità del loro sguardo, restituiscono una visione d’insieme insolita, soprattutto perché sentono gli uomini per come sono davvero, ne percepiscono l’aura.

L’ultimo è un libro del 1988 che ho trovato in una libreria dell’usato, in cui non è difficile trovare piccoli tesori. Il mestiere dell’editore di Valentino Bompiani, edizione Longanesi è una vera e propria galleria di brevi ritratti degli uomini più importanti che hanno fatto la storia dell’editoria italiana, in uno stile piano e godibile, raccontati da un eccellente editore. Aneddoti, citazioni, testimonianze. Da Le Monnier a Zanichelli, da Treves a Hoepli, da Rizzoli a Mondadori, le radici del mondo editoriale di oggi, che da quegli uomini e da quei valori è molto distante.

Qui gli altri comodini.

Il comodino di Lorena Bruno

Il comodino di Lorena Bruno

L’uomo di Kiev – Bernard Malamud

di Emanuela D’Alessio

La sofferenza non porta alla salvezza

In questi ultimi mesi l’attenzione si è concentrata su Bernard Malamud, lo scrittore ebreo americano di origini russe di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. Per celebrare la ricorrenza è uscito anche il primo volume dei Meridiani Mondadori dedicato alla sua opera dal 1952 al 1966, Romanzi e racconti.
Fino a oggi avevo letto molto su Malamud e nulla di Malamud, interiorizzando commenti altrui e facendo mie affermazioni del tipo: «Il grande romanzo americano è stato fatto anche da Saul Bellow, Philip Roth e Bernard Malamud», oppure «senza Kafka, non solo Bernard Malamud non avrebbe scritto L’uomo di Kiev, ma il pubblico non sarebbe stato in grado di leggerlo», come ha scritto di recente Francesco Longo su Europa.
Ma la conoscenza della letteratura, come della storia o della filosofia, non può prescindere dalle “fonti” e dalla loro elaborazione. Soltanto dopo si dovrebbe esprimere un’opinione e, se si vuole, confrontarla con le altre, per scoprirne la sostanziale coincidenza ma anche l’eventuale diversità.
È con questo spirito che mi accingo a parlare di L’uomo di Kiev (The Fixer), pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1968 e oggi riproposto da minimum fax. Con questo romanzo, ispirato a un fatto realmente accaduto nella Russia zarista e antisemita del 1911, Malamud vinse il Pulitzer e il National Book Award.

L’incipit non lascia scampo, in un paio di pagine si è già dentro l’orrore e la tragedia dell’essere ebrei in Europa, cent’anni fa (come oggi, del resto, tornando per un istante all’attualità con il violento attacco antisemita a Bruxelles dei giorni scorsi), quando Yakov Bok pensò che fosse successo «qualcosa di brutto», si spaventò alla notizia che avevano trovato il cadavere di un bambino cristiano, accoltellato brutalmente e completamente dissanguato, e che le Centurie Nere (l’organizzazione russa di fanatici antisemiti) accusavano gli ebrei del delitto. Yakov Bok era ebreo, lavorava nella fabbrica di mattoni di un esponente delle Centurie Nere e abitava sotto falso nome in un quartiere dove gli ebrei non potevano abitare. Yakov Bok sarà accusato, ingiustamente, dell’omicidio.
È questo il terribile accadimento da cui Malamud prende il via, facendoci subito ricordare, se ce ne fossimo dimenticati, che Hitler non è stato né il primo né l’unico a concepire l’insana e feroce idea di annientare milioni di individui per il solo fatto di essere ebrei.
Malamud ha scelto un episodio minore realmente accaduto nella Kiev del primo ‘900, quello dell’ebreo ucraino Mendel Beilis accusato di aver ucciso un bambino a scopi rituali e poi assolto al processo, per parlare dell’abisso di ferocia e orrore in cui gli uomini riescono a seppellire le loro esistenze. Perché la persecuzione degli ebrei è stata un susseguirsi di umiliazioni, violenze e assassini, di cui l’Olocausto è solo l’espressione più eclatante, per dimensioni e follia.
Nel romanzo il malcapitato si chiama Yakov Bok, un ebreo piegato da una vita miserabile, abbandonato dalla moglie, un uomo solo che decide di avventurarsi lontano dal suo villaggio verso il mondo dei gentili. È il desiderio di una seconda opportunità, di sottrarsi al proprio destino, inteso non come fato ma come condizione esistenziale, la prima colpa di Yakov.
«La verità è che sono un uomo pieno di desideri che non soddisferò mai, non qui almeno. È ora che me ne vada e tenti la fortuna. Posto nuovo, vita nuova, come si dice. Tutto quello che ho ottenuto in questo disgraziato paese è una vita da mendicante. Adesso voglio provare Kiev. Se riesco a vivere decentemente, va bene. Sennò, farò sacrifici, risparmierò e andrò ad Amsterdam a prendere una nave per l’America. Per farla breve, io non ho quasi niente, però ho dei progetti».
Ma la colpa più grande, una colpa universale da cui non ci si può sottrarre, è l’essere ebreo, perché nessun ebreo è innocente, perché un ebreo non è mai libero. «Se vivi soffri – dice Yakov – ma certi soffrono di più, ecco che cosa significa essere ebreo».

Bernard Malamud

Chi vive nel dolore, tanto più se è ingiusto (ma esiste un dolore giusto?), dovrebbe infine beneficiare della pietà per trovare un po’ di sollievo e anche un senso alla propria sofferenza. Ma per Malamud non esiste pietà tra gli uomini, incapaci di sollevarsi dalla perenne e feroce lotta per la sopravvivenza, non c’è possibilità di sfuggire alla banalità del male e chi ci prova viene immediatamente annientato. Non esiste nemmeno la misericordia di Dio, che sia quello dei cristiani o Yahweh, «quello che spunta dalle nubi, dai cicloni, dai cespugli in fiamme e parla», o il Dio di Spinoza, che è idea eterna e infinita come la si scopre nella Natura. Di qualunque Dio si parli, lui non dice niente, «se sei un’idea, che cosa puoi dire?». Ognuno deve trovare Dio, nella propria mente o nelle parole altrui, ma Yakov Bok non ci riesce, lui non è un filosofo né un credente, non gli resta che soffrire. Nessuno soffre per lui e lui non soffre per nessuno all’infuori di sé stesso. Per lui Dio è un fallimento completo.
Sconfitta della religione, dunque, ma anche sconfitta della giustizia. Yakov Bok è infatti accusato, senza un atto di accusa formale, di aver commesso un brutale e odioso delitto al quale è estraneo; viene imprigionato per due anni, sottoposto alle più atroci umiliazioni e torture mentre i suoi carcerieri si affannano nella ricerca di prove inesistenti, deviate, grottesche, in attesa di un processo che non sarà mai celebrato.

È vero, non si può non pensare a Kafka e al suo Il Processo assistendo alla disgrazia di Yakov, alla meticolosa quanto ripugnante negazione della verità, all’irreversibile disfatta della ragione, al capovolgimento dei ruoli tra colpevole e innocente. Ma mi viene in mente anche Friedrich Dürrenmatt che sulla giustizia ha riflettuto da sempre, arrivando alla medesima conclusione: col venire meno di una fede, l’idea di giustizia si trasforma in crudeltà e fanatismo. I personaggi di Dürrenmatt sono giustizieri e riformatori del mondo, sostenitori di fedi contrapposte, personaggi grotteschi ma alla fine capaci di sedurre un’umanità alla ricerca disperata di un senso. «Lui non ha cercato di definire cosa fosse la giustizia ideale, ma di dimostrare come la presunzione umana di realizzarla trasformasse gli uomini in belve feroci», come si legge nella prefazione di Eugenio Bernardi a I dinosauri e la legge dello scrittore svizzero.

Yakov Bok, per tornare all’Uomo di Kiev, è lasciato solo con la sua sofferenza e la sua colpa di sangue. Nelle pagine dedicate alla lunga e terribile prigionia, le più intense e dalle quali emerge tutto il virtuosismo di Malamud, troviamo un’altra storia ancora, quella di un uomo che lotta contro l’infinita solitudine, contro lo scorrere del tempo che diventa eterno nell’immobilità dell’attesa, un’attesa popolata da attimi di speranza e giorni di disperazione, da momenti di lucida riflessione e di follia visionaria. Yakov, incarcerato, affamato, degradato, incatenato, perde la libertà, tranne quella di esistere, ma scopre di non essere più l’uomo che era stato.
«Una cosa ho imparato, pensò Yakov. Non esiste un uomo impolitico, specialmente se è ebreo. Non puoi essere l’uno senza l’altro. Non puoi restare con le mani in mano di fronte alla tua distruzione. Dopo un poco pensò: dove non c’è lotta per la libertà, non c’è libertà. Che cosa dice Spinoza? Se lo stato agisce in maniera incompatibile con la natura umana, il male minore è distruggerlo».
La sofferenza per Malamud, dunque, non porta alla salvezza, ma resta una condizione necessaria alla via della conoscenza. È questa l’unica speranza cui gli uomini non dovrebbero mai rinunciare.

Bernard Malamud, L’uomo di Kiev
Traduzione di Ida Omboni
Prefazione di Alessandro Piperno
minimum fax, 2014
pp. 405, € 14,50

Di Bernard Malamud abbiamo letto Prima gli idioti (minimum fax, 2012) e Il barile magico (minimum fax ,2011)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Anna Lucia Nicosia (aprile 2014)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Anna Lucia Nicosia

Anna Lucia Nicosia è romana di nascita, siciliana di indole, sarda per passione, piemontese d’adozione. Nella vita ha scelto di occuparsi di comunicazione, ma forse i Savoia hanno scelto per lei, mettendola fin dall’infanzia nella difficile situazione di conciliare in un’unica immaginaria lingua fantasma, che alcuni si divertono a chiamare italiano, le varie anime di famiglia, dialetti, mentalità, storia e costumi. Scrive in realtà perché non ama parlare. Per lo stesso motivo, adora ascoltare e osservare tutto e tutti. Tenta inutilmente da anni di non fare più politica. Ha aspettato impaziente per anni che i suoi figli crescessero per potere fare grandi cose, ma poi si è accorta che le grandi cose le aveva già fatte ed erano proprio loro. Fin da piccolissima frequenta tutte le librerie di Roma, grazie a un papà poco comunicativo, ma molto lettore e collezionista compulsivo di carta stampata. Arrivata alla soglia dei cinquanta e dopo tanto peregrinare, ha trovato il suo porto sicuro e non poteva che essere una libreria. Storica, piccola e specializzata nel mare, ci ha trovato dentro tutto quello che le serve per essere felice: amore, lavoro, divertimento e qualche soddisfazione.

Il mio comodino è come una tavola imbandita. Ospita più portate. Ognuna ha il suo perché. Non possono mancare libri che stuzzicano l’appetito, libri che è bene leggere per crescere, libri che si divorano per gola, libri che ti riempiono quando hai tanta fame, libri che fanno scoprire nuovi sapori, libri consolatori per il fine serata. Ce ne deve essere uno di ogni tipo sul mio comodino, pena una strisciante insoddisfazione che non tarda a trasformarsi in insonnia.
Rabbrividiranno i più, ma i libri del mio comodino subiscono una drastica selezione anche in base al formato e al peso. Oltre una certa taglia infatti passano ad essere libri da divano, più su esistono i libri da colazione, e infine i libri da studio, è una questione pratica legata alla loro godibilità nelle diverse situazioni. I libri da comodino devono consentire il massimo confort in qualsiasi posizione si decida di leggerli: sdraiati a pancia in su, su un fianco, seduti, con un cuscino oppure due, indispensabile poterli tenere con una mano sola, per poterli fare scivolare senza gravi conseguenze quando il sonno prende il sopravvento. Quindi leggerezza e maneggevolezza sono indispensabili.

Il mio comodino di oggi prevede nove portate.

Per crescere, ottimi Simboli al potere di Gustavo Zagrelbesky (Einaudi, 2012) e Lezioni americane di Italo Calvino (Garzanti, 1998). Se è vero, e per me lo è, che non si può non comunicare e non si può non fare politica, direi che questi due piccoli libri fanno parte del mio pacchetto sopravvivenza.

Per gola non rinuncio alla narrazione naturale e delicata di Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo (Einaudi, 2013). La nostra piccola Italia quotidiana vista con gli occhi della mia generazione. Libro facile e di compagnia.

Se però la fame è seria, c’è bisogno di cibi sostanziosi. Il posto se lo contendono in quattro al momento.  Ballando a notte fonda di Andre Dubus (traduzione di Nicola Manuppelli, Mattioli 1885, 1996), racconti conosciuti grazie a una splendida presentazione ascoltata alla Libreria Fahrenheit di Campo dei Fiori, e strettamente connesso a quest’ultimo Le undici solitudini di Richard Yates (traduzione di Maria Lucioni, minimum fax, 2006) che inserirei anche fra i nuovi sapori.

Strascico dell’otto marzo appena passato Foxfire di Joyce Carol Oates (CDE, 1993), da poco trasposto al cinema per la seconda volta, e per la seconda volta con poco successo. Il libro ha una narrazione densa, dialoghi minuziosi. Ci vuole impegno e costanza per immergersi nella storia, ma una volta entrati è difficile sganciarsi. Un mondo femminile molto poco convenzionale, per nulla frivolo, fotografato in modo spietato, nelle sue durezze, sofferenze e intricati rapporti di forza e d’amore.

Chi ti credi di essere di Alice Munro (traduzione di Susanna Basso, Einaudi, 2012) è sul comodino prima di tutto perché me lo ha regalato mia figlia, e quindi è entrato fra i miei preferiti un po’ da raccomandato. Chi ti credi di essere? però non ha tardato a farsi amare per i suoi meriti. Sempre nel mondo femminile, a tinte decise, ma se la Oates ha dipinto a olio, la Munro usa tempere leggere per raccontare le sue storie. Direi che potremmo inserirlo anche fra gli aperitivi rinforzati.

I dolcetti finali sono lì ad aspettarmi fedeli ormai da anni. Sono un po’ come le preghierine della sera. Sempre le stesse, ma ogni sera con un significato diverso. Vista con granello di sabbia di Wislava Szymborska (a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, 1998), e Poesie d’amore di Nazim Hikmet (Mondadori, 2002). Ho provato a sostituirli, ma senza successo. Del resto sarebbe come cercare un degno sostituto della cioccolata fondente. Lo sanno tutti che è impossibile.

Infine, Biografia intima di Edward Hopper di Gain Levin (traduzione di Irene Inserra e Marcella Mancini, Johan & Levi, 1995). La biografia di Hopper se ne sta lì appoggiata da tempo immemorabile. Fa parte dei libri da colazione, ed è stata divorata e digerita da alcuni anni. Ma mi ricorda il bello, il silenzio, la solitudine e l’emozione di una mostra romana goduta con una rara intensità. Insomma Hopper l’ho nominato senatore a vita e la sua presenza deve essere garantita in ogni stanza della casa e senza limiti di tempo.

Qui gli altri comodini.

Il comodino di Anna Lucia Nicosia

Le interviste dei Serpenti: Vanni Santoni e Gregorio Magini – Scrittura Industriale Collettiva (SIC)

di Assunta Martinese

Vanni Santoni e Gregorio Magini sono gli ideatori della Scrittura Industriale Collettiva (SIC), un metodo che struttura e suddivide il lavoro di più autori nella realizzazione di opere letterarie collaborative.
Dopo sei racconti “preparatori”  pubblicati on line, ad aprile 2013 minimum fax ha pubblicato il primo romanzo SIC, In territorio nemico, ambientato negli anni della Resistenza, al quale hanno collaborato 115 persone.

Qualcuno ha detto che nelle scritture collettive o collaborative si verifica un moltiplicarsi delle responsabilità: tanto di quelle verso i coautori quanto di quelle nei confronti dei lettori. Nel vostro caso, per la natura particolare del romanzo, si aggiunge a questo la responsabilità nei confronti di quanti si sono offerti di condividere con voi esperienze anche molto tragiche. Qualcuno vi ha chiesto qualche “garanzia” nei confronti del risultato del lavoro? Le vostre fonti si “fidavano” di voi?
Il fenomeno più simile al “moltiplicarsi delle responsabilità” che tu citi (ma chi l’ha detto? vorremmo saperlo a questo punto!) [Guglielmo Pispisa, nel saggio «Gli altri, gli stessi. L’identità al tempo dell’autore collettivo» ndr] che abbiamo incontrato è il fatto che nella scrittura collettiva, tendenzialmente, le decisioni si devono prendere coscientemente, perché devono essere comunicate e, spesso, giustificate. Non ci si può affidare all’ispirazione.

Tuttavia, dal punto di vista psicologico, quello che abbiamo verificato noi è una diminuzione delle responsabilità, o almeno del peso della responsabilità. Gli scrittori scrivono e basta, a selezionare il materiale ci pensano i compositori. Non si devono giudicare da soli, non devono correggersi, censurarsi, ricominciare, e così via. D’altro canto i compositori fanno “quello che possono” con il materiale che hanno a disposizione. È più facile selezionare la frase migliore fra N frasi che si hanno a disposizione, che selezionarne una sapendo che se ne potrebbero scrivere infinite diverse.

Immagino che molti tra coloro i quali vi hanno fornito gli aneddoti che stanno alla base di In territorio nemico siano persone ormai anziane. Come hanno reagito alla pubblicazione della loro storia? In fondo è molto raro che una storia privata e “comune” venga fermata in un libro, deve fare un certo effetto.
In realtà le storie realmente accadute da cui è tratto il romanzo sono perlopiù così ibridate e riscritte che crediamo sia difficile per i protagonisti originali riconoscersi direttamente. Detto questo, girano per Facebook fotografie di veri, originali, ormai novantenni membri dell’equipaggio della Corvetta Gabbiano che mostrano In territorio nemico sorridendo. Devono essere contenti che si parli di loro.

Sulla copertina di In territorio nemico, al posto dell’autore, è riportata la dicitura Scrittura Industriale Collettiva. Con tale denominazione si intende tanto il metodo di scrittura quanto la comunità degli scriventi che applica tale metodo, e nessuna delle due accezioni si avvicina al significato di “autore”. In sintesi, in copertina viene indicato soltanto in che modo il romanzo è stato scritto e rimanda ad altra sede (in questo caso, in calce al romanzo) la specificazione riguardo a chi l’abbia scritto. In un panorama come quello da voi auspicato, in cui il metodo SIC diventa una “prassi comune” nella scrittura di opere letterarie, sarà lecito continuare a riportare in copertina soltanto il nome del metodo e di una generica ‘comunità di scrittori’ o si renderà necessaria qualche ulteriore specificazione in merito a chi ha scritto il libro?
No, non ci sembra affatto necessario. A meno che il sistema di scrittura non si diffondesse a tal punto da far emergere la necessità di distinguere diversi gruppi. Potrebbero a quel punto assumere dei nomi come le band musicali, oppure portare il nome di un compositore particolarmente famoso o carismatico. Non vediamo l’ora.

Un processo di scrittura così frammentato rende complesso individuare quali degli elementi siano frutto della volontà degli scrittori, quali della volontà degli autori e quali delle dinamiche intrinseche del metodo. In quale luogo dobbiamo cercare l’intenzionalità autoriale, quell’istanza che ci porta a distinguere un autore da uno scrivente?
Il testo è impacchettato in un libro, e si presenta come un romanzo. Di conseguenza il lettore non può fare a meno di ipotizzare l’intenzionalità. Il fatto che il lettore non sia in grado, per il modo in cui il testo è stato costruito, di identificare con sicurezza la fonte di questa intenzionalità, secondo noi, contribuisce ad accrescere la polisemia del testo. Un filologo potrebbe forse ricondurre questo o quel tratto a questa o quella figura o momento del processo di produzione. Ma è tutto senso; per chi è disposto ad accettare l’incertezza, non può che essere una ricchezza.

Nel metodo SIC i compositori si “limitano”  a selezionare e raccordare il materiale scritto dagli autori. Tuttavia, se la fase di selezione comprende un numero così grande di schede, il materiale disponibile per la ricombinazione assume un volume rilevante (pur non arrivando, ovviamente, all’insieme infinito di possibilità a cui attinge un autore singolo e privo di vincoli). La figura del compositore non si discosta allora dal ruolo di editor per assomigliare a quella di un “autore depotenziato”, che può attingere materiale narrativo da un insieme finito invece che infinito?
Sì. Più precisamente, il compositore è una parte di autore. Gli scrittori SIC sono altre parti, che assolvono a differenti funzioni autoriali. Nel complesso, almeno nelle nostre intenzioni, si ha un “autore” (una specie di autore Frankenstein) nel pieno delle sue funzioni.

Vanni Santoni e Gregorio Magini

Gregorio Magini e Vanni Santoni

In In territorio nemico la scrittura collettiva è legata alla storia collettiva popolare da un nesso di quasi consustanzialità: così come l’esperienza storica è molteplice e corale, anche il racconto è la sintesi di un coro di voci disparate. Credete possibili altre esperienze in cui il metodo, la forma e la tensione etica di un racconto si accordino in modo così perfetto?
Abbiamo sempre detto che il metodo SIC non è monolitico: deve essere adattato all’opera che si vuole produrre. Dev’essere il metodo che si adatta alla tensione etica. Non si deve pensare di inventare un metodo valevole per qualsiasi uso, e di andare poi a cercare il tema più forte, appassionante, eticamente condivisibile su cui applicarlo.

Il periodo della Resistenza, per quanto tragico e ambiguo, rappresenta una ferita che ha in sé, almeno in parte, la cura; per quanto ci si dedichi ad analizzarne i lati oscuri, che pure non sono pochi, emergerà sempre una parte consolante, che sia essa ideologica, eroica oppure semplicemente umana, ed è questa la parte che più delle altre ci è stata tramandata dai racconti orali di chi l’ha vissuto. Anzi, sono proprio le parti più traumatiche a essere state espulse dal racconto, almeno da quello più spesso tramandato. In questo senso mi sembra che In territorio nemico sia un bel compendio di quello che è l’immaginario storico collettivo riguardante la Resistenza, oltre che un grande tributo all’auto-narrazione di un popolo, che si racconta con tutte le omissioni e le reticenze che sono intrinseche a un ricordo doloroso. Però, pur tenendo conto delle motivazioni etiche e politiche che vi hanno spinto a comporre una storia dalla quale il punto di vista fascista fosse programmaticamente assente, e pur condividendole, mi sembra che la mancanza di conflitto nel romanzo assuma una portata difficile da ignorare. Non ci sono fascisti buoni, non ci sono partigiani cattivi.
Abbiamo ignorato la possibilità, tutta opinabile, del resto, del “fascista buono”, perché ci interessava concentrarci su un problema etico, dal nostro punto di vista, ben più interessante. L’esistenza del fascista buono pone il problema dell’incertezza del punto di vista, della relatività della scelta. La sua inesistenza pone un problema che ci sta ben più a cuore: la difficoltà del senso, i tormenti e le sofferenze impliciti nella bontà di una scelta.

Un altro grande merito del romanzo, a mio parere, è quello di essere riuscito, proprio grazie al metodo di scrittura, a trattare un argomento irto di pericoli come quello della Resistenza italiana e di averlo animato con una tensione etica che sposta il romanzo al di fuori della fiction storica che siamo abituati a leggere: proprio mentre i testimoni e i protagonisti di quel periodo storico stanno venendo a mancare, ancorare l’invenzione di ‘chi non c’era’ all’aneddotica sul campo fornisce una sorta di legittimazione all’opera. E se il concetto di memoria collettiva legittima l’atto del racconto, la memoria individuale garantisce la coerenza della narrazione.  Uno degli aspetti più interessanti di In territorio nemico è sicuramente il rapporto in esso generato tra fiction e fact checking, tra invenzione e realtà e, in ultima analisi, tra storia e memoria. Vi è capitato di ricevere aneddoti palesemente in contrasto con i dati storici? Vi siete sbattuti molto per riportare a una versione uniforme i vari racconti, oppure essi erano in linea di massima concordi?
Ci siamo attenuti a un criterio di rigorosa corrispondenza con i fatti storici, per quanto riguarda lo sfondo. I personaggi invece sono sostanzialmente frutto d’invenzione. L’idea è che nel romanzo storico la “quota” di finzione debba essere rigidamente controllata. Il senso emerge dal contrasto tra il livello individuale non storicizzato (e quindi “inventabile”) e il livello collettivo, condiviso della storia.

A dispetto dalla particolarità del metodo, la forma del romanzo è estremamente tradizionale, e si discosta molto dalle forme sperimentali delle scritture collettive moderne. Pensate che un metodo progettato per essere un buon congegno per creare storie potrà essere spinto anche verso una ricerca più specificamente letteraria (stilistica, linguistica, formale, ecc.)?
Ci siamo affidati alle forme rodate del romanzo tradizionale per poter concentrare le energie inventive sulla sperimentazione del metodo stesso. Ma dal punto di vista teorico, nulla vieta di applicare il metodo a forme più sperimentali. Nei termini del metodo, si tratterebbe di lavorare di più su schede stilistiche, piuttosto che sulla classica definizione di personaggi e ambientazioni che abbiamo adottato per In territorio nemico.

Pensate che il metodo sia applicabile anche ad altri campi della scrittura? Magari sceneggiature?
Sì. Come detto, il metodo non si pone come un processo automaticamente “buono per tutto”. Si può adattare. Per esempio: nelle schede personaggio per una sceneggiatura, metteremmo meno attenzione sull’aspetto fisico, e più sul modo di parlare.

Ci sono in vista altri progetti per il metodo SIC? Voi avete in programma qualcosa? Si stanno formando nuovi gruppi?
Niente di nuovo ufficialmente. Non siamo interessati a fondare un brand. Il metodo è liberamente utilizzabile da chiunque, e qualcosa si sta muovendo sia per quanto riguarda nuove produzioni SIC che per quanto riguarda nuove sperimentazioni nel campo della formazione (operatori dell’educazione in scuole e università hanno mostrato molto interesse). Ma diamo tempo ai nuovi progetti di crescere.

Leggi l’intervista di Nicola La Gioia

In territorio nemico
minimum fax, 2013

pp. 308, € 15,00

Le interviste dei Serpenti: Paolo Cognetti

di Anna Castellari

Cognetti - Sofia si veste sempre di neroHo incontrato Paolo Cognetti, “ragazzo selvatico” come l’ha definito Marco Cassini, durante un incontro con quattro autori di minimum fax alla Grande Invasione, a Ivrea, organizzato dalla stessa casa editrice. Oggetto dell’appuntamento erano i personaggi nella narrazione e nella lettura dei quattro scrittori coinvolti. Così, è stato naturale parlare con lui di Sofia veste sempre di nero, la ragazzina ribelle amata e odiata da tutte le persone che la circondano, candidato al Premio Strega 2013, che ha letteralmente “stregato” anche moltissime ragazzine, alcune delle quali hanno tampinato l’autore per un autografo prima che lo intervistassi: e fa piacere vedere uno scrittore trattato come una rock star, soprattutto di questi tempi.

Come mai, in Sofia veste sempre di nero, parti quasi sempre da un punto di vista femminile? Ti viene spontaneo, c’è un motivo particolare? Non è facile trovare un autore che fa questo.
È una domanda a cui ho dovuto rispondere spesso, alla quale ho anche dato risposte diverse, perché me lo chiedo spesso anch’io. Una risposta possibile è che ho sempre avuto tante amiche: sono cresciuto con mia madre e le sue amiche, i miei scrittori preferiti, per la maggior parte, sono scrittrici, c’è qualcosa nella sensibilità femminile che secondo me ha a che fare con un’attenzione al dettaglio, alla quotidianità, alle relazioni. Ovviamente, sto facendo delle divisioni un po’ semplicistiche. Ma secondo me, se esiste una sensibilità maschile, forse è più proiettata sul sé e sul mondo esterno come un’avventura, come un’affermazione di sé. Io sento questo, almeno, in tanti scrittori uomini. Mentre una sensibilità che amo tanto nelle scrittrici è questa: quella verso le relazioni. Credo che sia questa che mi appartenga, per cui ho sempre scritto in questo modo. Poi, dall’altra parte, c’è una paura ad affrontare il maschile, perché mi riguarda molto più da vicino, perché ci sono alcuni aspetti del maschile che per me sono critici, e su cui ho bisogno di interrogarmi con pazienza; ma penso che ci arriverò.

Invece, per quanto riguarda i luoghi di Sofia, ho notato che c’è una Milano quasi finta, nel senso che tu inventi dei luoghi, come Lagobello [il paese fittizio in cui Sofia è cresciuta, ndr], di cui, però, chi abita a Milano intuisce dove e che cosa sono: io l’ho interpretato come una specie di distacco dalla città, cioè un prendere le distanze dalla città per descriverla meglio; dall’altra parte Roma, invece, la vedo più reale, almeno, così mi è sembrato, forse perché non conosco Roma; o meglio, l’appartamento in cui vive Sofia, almeno per la mia esperienza, sembra essere “molto romano”. Ho indovinato?
In quel racconto Sofia non esce mai di casa. Ho vissuto a Roma e ho avuto questa sensazione: quella di non riuscire a entrarci, nel senso che c’era qualcosa che non riuscivo a condividere di quella città, non riuscivo a viverla veramente. Per questo è nata l’estraneità di Sofia verso la capitale, il suo viverla tutta da dentro l’appartamento. Lagobello, invece, era più il desiderio di allontanare la protagonista da Milano, per poi fargliela scoprire. Infatti, a un certo punto c’è quel racconto in cui Sofia scopre la città meneghina e se ne innamora, così come si innamora di un uomo, delle storie che sono avvenute nelle periferie di Milano. Quindi, era una fuga in un luogo finto. Lagobello, oltre a questo suo essere la parodia di molti posti dell’hinterland milanese, è anche un posto senza storia, costruito il giorno prima, ordinato da un catalogo. In questo modo, Sofia nel romanzo è cresciuta in un posto senza storia, per poi a vent’anni innamorarsi delle città, che sono quasi “troppo piene” di storia.

Infine, nella mia percezione di lettrice, c’è il fatto che Sofia, in realtà, è presente in prima persona soltanto in uno dei racconti di cui è composto il romanzo, e per il resto sono tutti gli altri personaggi a raccontare. Per questo, il lettore è costretto a cambiare continuamente punto di vista. Ma la protagonista, in tutto questo, comunque c’è.
Lei non è praticamente mai raccontata da dentro, ma è sempre guardata da fuori. Il senso è un po’ questo: io per primo ero ossessionato da questo personaggio. È nato, si è sviluppato, ma ci ho messo anni a scrivere il libro. Quand’è nato era abbastanza piatto: una ragazza ribelle, anoressica, arrabbiata; poi ha preso spessore dopo un po’ di tempo. Ma è sempre stata qualcosa di lontano da me, proprio come un’ossessione amorosa: io ora voglio raccontare questa persona, perché ne sono innamorato, perché la vorrei catturare, riuscire a darle le parole giuste per vivere. In realtà, io sono entrato molto più in empatia con tutti i personaggi che le gravitano intorno, mi sono immedesimato molto di più, volta per volta, con sua zia, con suo padre, il suo fidanzato, l’amico che l’ha incontrata, proprio perché per tutti loro Sofia era quello che era stata per me: un oggetto imprendibile, un oggetto da amare, da odiare.

E parlando di finali aperti: Sofia sta ancora influenzando la tua scrittura oggi?
Ho scritto altre cose su Sofia, sì. Subito dopo che è uscito il libro, infatti, mi mancava tantissimo. Adesso l’ho un po’ messa da parte. Ma continua certamente a vivere nella mia testa.

Vuoi anticipare qualcosa sui tuoi prossimi libri?
Sto cercando di affrontare questo aspetto del maschile di cui abbiamo parlato prima. Quindi, cambierò un po’ punto di vista come narratore.

Per approfondire:
il blog di Paolo Cognetti
il sito della Grande Invasione
il sito di minimum fax