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Consigli di lettura indipendenti #5

Ai protagonisti di Otto anni di editoria indipendente. Le interviste di Via dei Serpenti , la nostra novità editoriale del 2019abbiamo rivolto una nuova domanda:

Se ti trovassi nella necessità di regalare un libro, soltanto uno, quale sceglieresti e perché?

Ecco le risposte degli scrittori Laura Toffanello e Mario Pistacchio.

Foto di Maria Cristina Tenagli

Laura Toffanello
Scegliere un solo libro è come essere monogami. Monogamia-monotonia-monomania: vuol dire, in pratica, essere dei virtuosi su una corda sola. Perciò occorre un totale atto di fede. Un assoluto atto di fede, unito a una buona dose di romanticismo.
E se, una volta nominato quel libro, tutti gli altri del mondo scomparissero? Se ogni volume in carta stampata si trasformasse in lui, il prescelto, come accade, mutato l’oggetto del desiderio, nel racconto Sulla nera terra di Philip K. Dick?
Chi sa di cosa sto parlando capirà che sto prendendo la questione molto seriamente.
Dunque dovrebbe essere un libro che non tramonta mai, che anche dopo cinquanta o cento anni conservi la stessa forza dirompente. Magnetico, ipnotico. Lirico. Vertiginoso. Maestoso. Gigante.
E le parole, con cui parla, carnali ed essudanti, orchidee.
E ogni volta che lo apri, dovrebbe farti sentire non la stessa, ma la medesima emozione della prima volta.
Raccontare della morte e della vita, della ribellione alla condizione umana, perché non esiste altro più straziante.
Per questo dico Morte a credito di Luis-Ferdinand Céline, (edito da Garzanti nella classica traduzione di Giorgio Caproni nel 1964).
«La porta dell’inferno nell’orecchio è un atomino da nulla. Se lo si sposta d’un quarto di capello… se lo si smuove soltanto d’un micron, se vi si guarda attraverso è finita! Ce n’è quanto basta! si resta dannati per sempre! Sei pronto? Non lo sei? Siete in grado? Mica è gratuito crepare. Bisogna presentare alla dama un bel sudario tutto ricamato di storie».

Mario Pistacchio
Epitaffi greci di Werner Peek (traduzione e commento di Franco Mosino, Bompiani). È la Spoon River del mondo ellenico, una monumentale successione di epigrafi sepolcrali che in una manciata di righe raccontano cosa resta della vita, di tante vite e forse di ognuna, di fronte all’imperturbabilità del tempo che scolora e cancella, scivolando dolcemente nell’oscurità e nell’oblio. Soldati, medici, genitori, figli, navigatori strappati alla vita con violenza, recisi con dolcezza, rimpianti, amati, osannati, dimenticati, affidati alla pietra, scavati e scolpiti, a volte anonimi, spesso comuni, per lo più umani nell’istinto di voltarsi a guardare cosa resta alle spalle, quanto rimane dopo l’ultimo giro di giostra, prima che il sipario scenda a celare la tragedia, la farsa, il paradosso grottesco, l’epica solitudine dell’ultimo respiro.
L’epitaffio come resto della vita, sedimento ultimo ora che consunte e mute sono ormai anche le ceneri, è racconto del vano, poesia dell’affanno, compianto serenamente olimpico, stoica sopportazione, feroce rivolta, monito per il viandante, il pellegrino, lo sperso, il cercatore. Sei giunto infine, dice bonario, questa era la tua meta fin da quando nascesti al mondo. Valeva la pena, domanda ancora, rincorrere i giorni? Era giusto sprecare il tempo? Hai amato abbastanza? Cosa lasci adesso che è il tuo turno? Tutti i morti sorridono? O il sorriso è il ghigno involontario dei tessuti che smagriscono e si tirano assottigliandosi, rigida, illeggibile pergamena su ossa calcinate?
La scrittura vince il tempo, lo spazio, la vita stessa, si erge a simulacro facendosi scultura, lettera dopo lettera si incunea nella roccia iscrivendo i non più vivi al libro dell’eternità che tutto pialla. Naufraghi e naufragi, senilità e adolescenze, avventurieri e ragazze da marito, carne crocifissa, imputridita, verminosa, tutti iscritti alla grande corsa all’immortalità.
Un‘eternità sottratta ai poeti anonimi che quei versi composero raccontando quanto c’era da sapere e ricordare di quelle vite, ne fecero capolavori in miniatura di rigore, economia narrativa, equità, equilibrio, tenerezza, strofe di ballate che nessuno canterà, salutando ognuno con un arrivederci a presto, sull’altra sponda so che mi aspetterai, sarai lì per mostrarmi la strada, sarò lì per farmi prendere per mano. Torneremo insieme sposa mia, padre venerabile, figlio prediletto. Promesse eterne, lunghe il tempo di una canzone la cui melodia è affidata al vento.

L’estate del cane bambino: l’ultima estate da bambini (2)

di Emanuela D’Alessio

Dopo la recensione di L’estate del cane bambino (66thand2nd, 2014), l’esordio letterario di Mario Pistacchio e Laura Toffanello, ecco l’intervista completa agli autori.

Lui pugliese di Cerignola, lei piemotese di Torino, entrambi finalisti al premio Solinas storie per il cinema nel 2010. Partiamo da qui per svelare qualcosa in più su Mario Pistacchio e Laura Toffanello?
In realtà non c’è molto da aggiungere, scriviamo insieme, siamo una coppia, ci siamo incontrati a Torino quasi dieci anni fa e non ci siamo più lasciati.

Soffermandoci un poco sul perché si decida di diventare scrittori, secondo voi quali sono o dovrebbero essere gli ingredienti indispensabili per compiere questa scelta?
Non la vanità, non i soldi, non il servilismo, non l’affermazione di se stessi e nemmeno la ricerca del potere, per piccolo che sia, o di un posto nel mondo, per quanto angusto possa essere. La scrittura è solo un mezzo come un altro, quello che importa è il fine. Per che cosa scrivi? Per sollazzare il tuo ego, per obbedire al mercato, per mantenere lo status quo oppure per inseguire la tua idea di giustizia, per la gente, per la rivolta, per dare voce a chi una voce non ce l’ha? E poi, di cosa scrivi? Da quale punto di vista? Da quello dei salotti, o da quello del marciapiede? La nostra idea di letteratura è quella cosa che Ernesto Sabato definiva “il risveglio dell’uomo che va verso il patibolo”, e scrivere non è altro che far vincere, almeno per una volta, chi perde.

Da una parte ci sono le scuole di scrittura a costi anche elevati, dall’altra ci sono i forzati del self publishing a costo zero. Sono manifestazioni, a mio parere, di una medesima ossessione: voler fare a tutti i costi lo scrittore. Se tutti gli “scrittori” italiani leggessero almeno un libro l’anno, le cifre sull’andamento del mercato editoriale schizzerebbero ai vertici della classifica. A parte la provocazione, che cosa ne pensate?
Scrivere è tirarsi fuori le budella dalla pancia, non è una cosa che si insegna o si misura in denaro sonante. Ha a che fare con la vita, con il punto di vista sul mondo. Non è uno specchio nel quale sorridere a noi stessi e al nostro piccolo tornaconto personale, ma una carriola di mattoni da portare in cima a una montagna. Lo scrittore è figlio di Prometeo, è colui che deve rubare il fuoco per portarlo sulla terra, deve illuminare e incendiare la notte senza curarsi di quanto sarà lunga e dolorosa la punizione degli dei. Tutto il resto non conta.

Il vostro essere scrittori è la conseguenza di una necessità o di una casualità?
Entrambe le cose. O forse, ancora meglio, è un atto di volontà. E la volontà insieme al coraggio e allo stile sono le uniche cose che contano. Perché non si insegnano. La volontà è l’arma dei poveri, degli emarginati, di chiunque ha conosciuto almeno una volta la resa, la sconfitta, l’umiliazione. Quando ti calpestano, quando ti sbattono una porta in faccia, non ti resta che la volontà.

Il vostro esordio a quattro mani, con il romanzo L’estate del cane bambino, è arrivato “solo” un anno fa, nel 2014, anche se l’idea risale a diversi anni prima. Possiamo parlare un po’ della genesi del libro? E, soprattutto, perché aveteoptato per una scrittura di coppia?
Come dicevamo prima, non c’è stata nessuna scelta, perché siamo una coppia e scriviamo così, prendere o lasciare. L’estate del cane bambino lo abbiamo scritto in quattro anni, la scrittura ha bisogno di tempo e di verità.

Inevitabile la domanda su come è stata organizzata la scrittura: vi siete suddivisi personaggi e situazioni oppure tutto è stato condiviso e scritto congiuntamente? Uno ha scritto e l’altro ha effettuato la revisione? Insomma, le consuete dinamiche di coppia si sono riverberate nella stesura del romanzo?
Noi scriviamo in due, ma siamo uno solo. Abbiamo rinunciato a noi stessi e a salire sul piedistallo perché è la storia quello che conta. Dovevamo raccontarla in due, e in due l’abbiamo raccontata. Certo, poi esiste anche un nostro metodo di lavoro, un mestiere fatto di tentativi e prove e altri tentativi ancora, ma non è una ricetta, è solo una cosa che va bene per noi. E che custodiamo gelosamente.

Franco Basaglia

Franco Basaglia

La storia è ben strutturata nel tempo e nello spazio e si presta a molteplici livelli di lettura. È una storia sull’arretratezza culturale ed economica dell’Italia rurale e arcaica degli anni Sessanta. Omertà e violenza, ignoranza e intolleranza sembrano le caratteristiche dominanti degli abitanti di Brondolo, grigi e silenziosi, induriti dalla terra e incapaci di esprimere sentimenti. È una storia sull’amicizia e sulla sua trasformazione, una storia sulla perdita dell’innocenza e dei sogni, sull’ineluttabilità e la possibilità di riscatto, sulla menzogna e la forza della verità. È una storia, infine, di terribili abusi e violenze di un padre sui propri figli. Nonostante sia tutto questo, leggendo L’Estate del cane bambino si resta quasi sempre in bilico tra finzione e realtà, immersi in un’atmosfera di leggende d’altri tempi, tra cani neri e uomini con le corna. Qual è la vostra interpretazione?
L’interpretazione non spetta allo scrittore, ognuno può leggere quello che vuole. Per esempio che non c’è giustizia a questo mondo per i deboli e gli indifesi, siano bambini o cani. Oppure che là fuori è ancora pieno di ghetti, di prigioni, di posti che annullano la vita e cancellano l’identità, nei quali si entra e forse non si esce più. Che ogni uomo è una storia e ci sono storie troppo dure per riuscire a raccontarle, eppure sono proprio quelle le storie vere, quelle che hanno lo splendore dei naufragi e il coraggio dei naufraghi. Franco Basaglia ha scardinato i cancelli dei manicomi, cancellando un sistema fatto di oppressione, ignoranza e violenza, ma il drago non è morto, rinasce sotto altre forme tutte le volte. Il diavolo cammina in mezzo a noi, anche nel giardino più curato.

Nel libro è forte la contrapposizione tra adulti e bambini, con i primi a rappresentare il male in tutte le sue manifestazioni e i secondi a tentare di sfuggirlo e contrastarlo, in attesa di diventare loro stessi adulti. L’unico adulto “buono” sembra essere Cestilio, il nonno di Vittorio (la voce narrante) con due guerre e la resistenza partigiana alle spalle. Solo i nonni, quindi, per di più partigiani, sono i buoni in questa storia?
Quella tra i bambini e gli adulti è una lotta di classe, combattuta sul rifiuto dell’omologazione, delle regole, del perbenismo, di una morale fatta di paure e giaculatorie in latino ripetute senza neanche sapere cosa significano. I bambini sono ribelli, individualisti, liberi, tutt’altro che estranei al male. È inutile illudersi, il male è dentro di noi, come le ossessioni. Ogni giorno dobbiamo farci i conti. È la filosofia degli Alcolisti Anonimi, riconoscere i propri errori, i propri limiti, chiedere la forza ai compagni e a dio. Nonno Cestilio è uno che questa cosa la sapeva bene.

Alexandre Dumas

Alexandre Dumas

Tra le pagine scorre una storia parallela, quella del Conte di Montecristo, lettura assegnata a Vittorio per le vacanze estive. Perché scegliere proprio il libro di Dumas?
Il conte di Montecristo è l’esempio perfetto di quello che ci interessa fare. È letteratura popolare, parla dritto alle persone, racconta l’uomo e il suo tempo in tranci grossi, come la tragedia greca: vendetta, empietà, bramosia, sofferenza, ingiustizia, punizione e colpa, fortuna e sfortuna, amore, odio, crudeltà. E il perdono. E la pace, finché dura.

Si può realmente guarire dalle ferite profonde dell’esistenza? Sembrerebbe di sì, dal modo con cui avete deciso di chiudere il libro. Lo pensate realmente o è stata una scelta un po’ opportunistica (passatemi il termine) per compensare almeno un poco la montagna di dolore che avete scalato per oltre duecento pagine?
Le ferite non guariscono mai del tutto. La pelle delle cicatrici è più nuova e giovane, meno avvezza al sole che brucia, o al freddo. Ma il sangue ha smesso di scorrere, e alla fine questa è l’unica cosa che conta, l’unica forma di guarigione che ci è permesso inseguire. Così come non c’è stata compiacenza di fronte all’orrore, allo stesso modo non c’è opportunismo nell’epilogo, perché nessuno restituirà mai a Vittorio e ai suoi amici quello che è stato loro tolto, eppure sono lì, con la cicatrice che forse fa male per l’umidità e intanto ricorda ad ognuno di loro chi sono e quanta strada hanno percorso. Essere insieme alla fine di tutto non è opportunismo, è speranza, l’atto di volontà supremo.

Con L’estate del cane bambino siete stati candidati al Premio Strega 2015. A parte il risultato scontato sul quale non vi chiedo alcun commento, quali effetti ha avuto per voi questa partecipazione, nel bene o nel male?
È stata un’esperienza. Ringraziamo Antonella Sabrina Florio, Luca Nicolini e il nostro editore per aver creduto in questo libro.

Cambiamo rapidamente argomento. Come deve essere la vostra libreria ideale?
Vista da fuori, deve darci la sensazione che dentro troveremo un amico. E una volta entrati, mantenere la parola.

Che tipo di lettori siete? Ad esempio, leggete un libro alla volta e arrivate sempre alla fine, anche se il libro non piace?
Leggiamo un libro alla volta, con avidità e meraviglia, rallentando quando restano poche pagine per farlo durare di più.

Il libro che dovete ancora leggere e quello che non avreste mai voluto leggere?
La montagna incantata e It ; la riduzione di Moby Dick, da bambini, una vita fa.

Immancabile la domanda sul futuro. Che cosa avete in programma? Sempre un’opera a quattro mani?
Certo, siamo una coppia, no?

Che cosa c’è da leggere sui vostri comodini in questo momento?
La biografia di Robert Johnson scritta da Peter Guralnick, Shotgun Lovesongs di Nickolas Butler, le poesie di Bukowski e Kavafis, e Caccia alle donne di James Ellroy.

La recensione di L’estate del cane bambino.

(Foto: Roma.Corriere.it)

L’estate del cane bambino: l’ultima estate da bambini (1)

copertinadi Emanuela D’Alessio

L’estate del titolo è quella del 1961 e tutto si svolge a Brondolo (sono andata a controllare che non fosse un nome di fantasia!) sul Brenta, vicino Chioggia. Ci troviamo nella provincia veneta di cinquant’anni fa, ma sembra essere precipitati in un medioevo morale e culturale, indifferente agli attacchi del tempo e della Storia. Mi sono ripetuta spesso, tra una pagina e l’altra, che in fondo stavo leggendo una storia di fantasia anche se tremendamente realistica. Eppure non faccio fatica a credere che di luoghi come Brondolo, a prescindere dalle vicende del romanzo, sia piena l’Italia, ancora oggi.

L’estate del cane bambino, l’esordio letterario di Mario Pistacchio e Laura Toffanello, «scriviamo insieme, siamo una coppia, ci siamo incontrati a Torino quasi dieci anni fa e non ci siamo più lasciati», è una storia intrisa di emozioni dense, tenute a bada sotto una coltre di silenzio o liberate in modo violento e primitivo. Una storia di dolore e vendetta, di colpe taciute e mai rimosse, di speranze interrotte e sogni infranti, una storia sull’ineluttabilità della perdita.

«Menego aveva quattordici anni, io, Michele e Ercole dodici, Stalino quasi, e il cane nero chissà. Era l’estate del 1961. Il nostro mondo di allora era fatto di morti che resuscitavano per uccidere pescatori ingrati, di velieri portatori di peste, topi e vampiri, di nuvole combattenti e cavalieri inesistenti. Era un tempo in cui le leggende erano vere, e se qualcuno ci avesse detto che non era possibile che un bambino si trasformasse in cane, ci saremmo stretti nelle spalle, infischiandocene».

In queste poche righe di introduzione c’è il succo del racconto di Vittorio Boscolo, voce narrante e protagonista, insieme ai suoi amici, di quell’estate del 1961 in cui andarono perdute molte cose, prime fra tutte l’innocenza e la libertà dei sogni.
Nel 1961 gli autori non erano ancora nati, Mario Pistacchio è di Cerignola e Laura Toffanello di Torino. Perché quindi una storia con questi riferimenti temporali e spaziali?
«Perché cercavamo l’istante limite, quello che separa la banalità dall’irreparabile. È in quel momento che il sistema si rivela per quello che è e va in crisi, abbassa la guardia, mostra il suo lato più vulnerabile. Ed è esattamente lì che bisogna colpirlo».

Toffanello_PistacchioE cercando quell’istante Pistacchio e Toffanello hanno scritto una storia sull’arretratezza culturale ed economica dell’Italia rurale e arcaica degli anni Sessanta. Omertà e violenza, ignoranza e intolleranza sembrano le caratteristiche dominanti degli abitanti di Brondolo, grigi e silenziosi, induriti dalla terra e incapaci di esprimere sentimenti. È anche una storia sull’amicizia e sulla sua trasformazione, sulla perdita dell’innocenza e dei sogni, sull’ineluttabilità e la possibilità di riscatto, sulla menzogna e la forza della verità. È una storia, infine, di terribili abusi e violenze di un padre sui figli.
Nonostante sia tutto questo, il libro di Pistacchio e Toffanello è anche una fiaba, ma di quelle nerissime dove il lieto fine non è scontato. Leggendo L’estate del cane bambino si resta quasi sempre in bilico tra mistero, magia e realtà, immersi in un’atmosfera di leggende d’altri tempi, tra cani neri e uomini con le corna.

Di interpretazioni se ne possono trovare molte altre perché, come dicono gli autori, «ognuno può leggere quello che vuole. Per esempio che non c’è giustizia a questo mondo per i deboli e gli indifesi, siano bambini o cani. Oppure che là fuori è ancora pieno di ghetti, di prigioni, di posti che annullano la vita e cancellano l’identità, nei quali si entra e forse non si esce più. Che ogni uomo è una storia e ci sono storie troppo dure per riuscire a raccontarle, eppure sono proprio quelle le storie vere, quelle che hanno lo splendore dei naufragi e il coraggio dei naufraghi. Franco Basaglia ha scardinato i cancelli dei manicomi, cancellando un sistema fatto di oppressione, ignoranza e violenza, ma il drago non è morto, rinasce sotto altre forme tutte le volte. Il diavolo cammina in mezzo a noi, anche nel giardino più curato».

cover_estate

Ho chiuso il libro di Pistacchio e Toffanello con il cuore gonfio e la mente in affanno, tentando di ricordare quando e come mi fossi trasformata mio malgrado in adulta. Non mi è venuto in mente nulla di preciso, quindi, ho pensato con sollievo, si può diventare adulti anche senza accorgersene e per questo essere in salvo.

L’estate del cane bambino
Mario Pistacchio e Laura Toffanello
66thand2nd, 2014
pp. 218, € 16