di Emanuela D’Alessio
Dopo la recensione di L’estate del cane bambino (66thand2nd, 2014), l’esordio letterario di Mario Pistacchio e Laura Toffanello, ecco l’intervista completa agli autori.
Lui pugliese di Cerignola, lei piemotese di Torino, entrambi finalisti al premio Solinas storie per il cinema nel 2010. Partiamo da qui per svelare qualcosa in più su Mario Pistacchio e Laura Toffanello?
In realtà non c’è molto da aggiungere, scriviamo insieme, siamo una coppia, ci siamo incontrati a Torino quasi dieci anni fa e non ci siamo più lasciati.
Soffermandoci un poco sul perché si decida di diventare scrittori, secondo voi quali sono o dovrebbero essere gli ingredienti indispensabili per compiere questa scelta?
Non la vanità, non i soldi, non il servilismo, non l’affermazione di se stessi e nemmeno la ricerca del potere, per piccolo che sia, o di un posto nel mondo, per quanto angusto possa essere. La scrittura è solo un mezzo come un altro, quello che importa è il fine. Per che cosa scrivi? Per sollazzare il tuo ego, per obbedire al mercato, per mantenere lo status quo oppure per inseguire la tua idea di giustizia, per la gente, per la rivolta, per dare voce a chi una voce non ce l’ha? E poi, di cosa scrivi? Da quale punto di vista? Da quello dei salotti, o da quello del marciapiede? La nostra idea di letteratura è quella cosa che Ernesto Sabato definiva “il risveglio dell’uomo che va verso il patibolo”, e scrivere non è altro che far vincere, almeno per una volta, chi perde.
Da una parte ci sono le scuole di scrittura a costi anche elevati, dall’altra ci sono i forzati del self publishing a costo zero. Sono manifestazioni, a mio parere, di una medesima ossessione: voler fare a tutti i costi lo scrittore. Se tutti gli “scrittori” italiani leggessero almeno un libro l’anno, le cifre sull’andamento del mercato editoriale schizzerebbero ai vertici della classifica. A parte la provocazione, che cosa ne pensate?
Scrivere è tirarsi fuori le budella dalla pancia, non è una cosa che si insegna o si misura in denaro sonante. Ha a che fare con la vita, con il punto di vista sul mondo. Non è uno specchio nel quale sorridere a noi stessi e al nostro piccolo tornaconto personale, ma una carriola di mattoni da portare in cima a una montagna. Lo scrittore è figlio di Prometeo, è colui che deve rubare il fuoco per portarlo sulla terra, deve illuminare e incendiare la notte senza curarsi di quanto sarà lunga e dolorosa la punizione degli dei. Tutto il resto non conta.
Il vostro essere scrittori è la conseguenza di una necessità o di una casualità?
Entrambe le cose. O forse, ancora meglio, è un atto di volontà. E la volontà insieme al coraggio e allo stile sono le uniche cose che contano. Perché non si insegnano. La volontà è l’arma dei poveri, degli emarginati, di chiunque ha conosciuto almeno una volta la resa, la sconfitta, l’umiliazione. Quando ti calpestano, quando ti sbattono una porta in faccia, non ti resta che la volontà.
Il vostro esordio a quattro mani, con il romanzo L’estate del cane bambino, è arrivato “solo” un anno fa, nel 2014, anche se l’idea risale a diversi anni prima. Possiamo parlare un po’ della genesi del libro? E, soprattutto, perché aveteoptato per una scrittura di coppia?
Come dicevamo prima, non c’è stata nessuna scelta, perché siamo una coppia e scriviamo così, prendere o lasciare. L’estate del cane bambino lo abbiamo scritto in quattro anni, la scrittura ha bisogno di tempo e di verità.
Inevitabile la domanda su come è stata organizzata la scrittura: vi siete suddivisi personaggi e situazioni oppure tutto è stato condiviso e scritto congiuntamente? Uno ha scritto e l’altro ha effettuato la revisione? Insomma, le consuete dinamiche di coppia si sono riverberate nella stesura del romanzo?
Noi scriviamo in due, ma siamo uno solo. Abbiamo rinunciato a noi stessi e a salire sul piedistallo perché è la storia quello che conta. Dovevamo raccontarla in due, e in due l’abbiamo raccontata. Certo, poi esiste anche un nostro metodo di lavoro, un mestiere fatto di tentativi e prove e altri tentativi ancora, ma non è una ricetta, è solo una cosa che va bene per noi. E che custodiamo gelosamente.
Franco Basaglia
La storia è ben strutturata nel tempo e nello spazio e si presta a molteplici livelli di lettura. È una storia sull’arretratezza culturale ed economica dell’Italia rurale e arcaica degli anni Sessanta. Omertà e violenza, ignoranza e intolleranza sembrano le caratteristiche dominanti degli abitanti di Brondolo, grigi e silenziosi, induriti dalla terra e incapaci di esprimere sentimenti. È una storia sull’amicizia e sulla sua trasformazione, una storia sulla perdita dell’innocenza e dei sogni, sull’ineluttabilità e la possibilità di riscatto, sulla menzogna e la forza della verità. È una storia, infine, di terribili abusi e violenze di un padre sui propri figli. Nonostante sia tutto questo, leggendo L’Estate del cane bambino si resta quasi sempre in bilico tra finzione e realtà, immersi in un’atmosfera di leggende d’altri tempi, tra cani neri e uomini con le corna. Qual è la vostra interpretazione?
L’interpretazione non spetta allo scrittore, ognuno può leggere quello che vuole. Per esempio che non c’è giustizia a questo mondo per i deboli e gli indifesi, siano bambini o cani. Oppure che là fuori è ancora pieno di ghetti, di prigioni, di posti che annullano la vita e cancellano l’identità, nei quali si entra e forse non si esce più. Che ogni uomo è una storia e ci sono storie troppo dure per riuscire a raccontarle, eppure sono proprio quelle le storie vere, quelle che hanno lo splendore dei naufragi e il coraggio dei naufraghi. Franco Basaglia ha scardinato i cancelli dei manicomi, cancellando un sistema fatto di oppressione, ignoranza e violenza, ma il drago non è morto, rinasce sotto altre forme tutte le volte. Il diavolo cammina in mezzo a noi, anche nel giardino più curato.
Nel libro è forte la contrapposizione tra adulti e bambini, con i primi a rappresentare il male in tutte le sue manifestazioni e i secondi a tentare di sfuggirlo e contrastarlo, in attesa di diventare loro stessi adulti. L’unico adulto “buono” sembra essere Cestilio, il nonno di Vittorio (la voce narrante) con due guerre e la resistenza partigiana alle spalle. Solo i nonni, quindi, per di più partigiani, sono i buoni in questa storia?
Quella tra i bambini e gli adulti è una lotta di classe, combattuta sul rifiuto dell’omologazione, delle regole, del perbenismo, di una morale fatta di paure e giaculatorie in latino ripetute senza neanche sapere cosa significano. I bambini sono ribelli, individualisti, liberi, tutt’altro che estranei al male. È inutile illudersi, il male è dentro di noi, come le ossessioni. Ogni giorno dobbiamo farci i conti. È la filosofia degli Alcolisti Anonimi, riconoscere i propri errori, i propri limiti, chiedere la forza ai compagni e a dio. Nonno Cestilio è uno che questa cosa la sapeva bene.
Alexandre Dumas
Tra le pagine scorre una storia parallela, quella del Conte di Montecristo, lettura assegnata a Vittorio per le vacanze estive. Perché scegliere proprio il libro di Dumas?
Il conte di Montecristo è l’esempio perfetto di quello che ci interessa fare. È letteratura popolare, parla dritto alle persone, racconta l’uomo e il suo tempo in tranci grossi, come la tragedia greca: vendetta, empietà, bramosia, sofferenza, ingiustizia, punizione e colpa, fortuna e sfortuna, amore, odio, crudeltà. E il perdono. E la pace, finché dura.
Si può realmente guarire dalle ferite profonde dell’esistenza? Sembrerebbe di sì, dal modo con cui avete deciso di chiudere il libro. Lo pensate realmente o è stata una scelta un po’ opportunistica (passatemi il termine) per compensare almeno un poco la montagna di dolore che avete scalato per oltre duecento pagine?
Le ferite non guariscono mai del tutto. La pelle delle cicatrici è più nuova e giovane, meno avvezza al sole che brucia, o al freddo. Ma il sangue ha smesso di scorrere, e alla fine questa è l’unica cosa che conta, l’unica forma di guarigione che ci è permesso inseguire. Così come non c’è stata compiacenza di fronte all’orrore, allo stesso modo non c’è opportunismo nell’epilogo, perché nessuno restituirà mai a Vittorio e ai suoi amici quello che è stato loro tolto, eppure sono lì, con la cicatrice che forse fa male per l’umidità e intanto ricorda ad ognuno di loro chi sono e quanta strada hanno percorso. Essere insieme alla fine di tutto non è opportunismo, è speranza, l’atto di volontà supremo.
Con L’estate del cane bambino siete stati candidati al Premio Strega 2015. A parte il risultato scontato sul quale non vi chiedo alcun commento, quali effetti ha avuto per voi questa partecipazione, nel bene o nel male?
È stata un’esperienza. Ringraziamo Antonella Sabrina Florio, Luca Nicolini e il nostro editore per aver creduto in questo libro.
Cambiamo rapidamente argomento. Come deve essere la vostra libreria ideale?
Vista da fuori, deve darci la sensazione che dentro troveremo un amico. E una volta entrati, mantenere la parola.
Che tipo di lettori siete? Ad esempio, leggete un libro alla volta e arrivate sempre alla fine, anche se il libro non piace?
Leggiamo un libro alla volta, con avidità e meraviglia, rallentando quando restano poche pagine per farlo durare di più.
Il libro che dovete ancora leggere e quello che non avreste mai voluto leggere?
La montagna incantata e It ; la riduzione di Moby Dick, da bambini, una vita fa.
Immancabile la domanda sul futuro. Che cosa avete in programma? Sempre un’opera a quattro mani?
Certo, siamo una coppia, no?
Che cosa c’è da leggere sui vostri comodini in questo momento?
La biografia di Robert Johnson scritta da Peter Guralnick, Shotgun Lovesongs di Nickolas Butler, le poesie di Bukowski e Kavafis, e Caccia alle donne di James Ellroy.
La recensione di L’estate del cane bambino.
(Foto: Roma.Corriere.it)