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Libri in carcere

di Emanuela D’Alessio

il-canto-del-crepuscolo«Più tardi, quella sera, gli uomini della camerata di James, tranne James stesso e Stevens, si spostano in un’altra camerata della stessa baracca per giocare a carte. Come sempre, i due se ne stanno sdraiati sulle brande, a lanciarsi in grandi chiacchierate per poi chiudersi in prolungati silenzi. È bizzarro parlare con qualcuno senza vederlo, ma James ci ha fatto l’abitudine e anzi trova rassicurante la voce profonda di Stevens che sale fino a lui dalla branda di sotto, dove l’amico è steso, appoggiato su un gomito a leggere uno dei suoi infiniti romanzi. La Croce Rossa ha inviato un altro rifornimento di libri e i prigionieri hanno attrezzato una biblioteca per i prestiti. Stevens se ne serve tutti i giorni e nonostante ormai siano arrivati a qualche migliaio di volumi, James non si stupirebbe se l’amico riuscisse a leggerli tutti entro Natale».
James e Stevens, due ufficiali inglesi fatti prigionieri dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, sono diventati amici e trascorrono le loro giornate da reclusi adottando ciascuno la propria resistenza alla comune assenza di libertà e di futuro. James si scopre scrupoloso e ossessivo osservatore di una famiglia di codirossi (uccelli dalla coda striata di rosso), Stevens legge un libro dopo l’altro, trascorrendo gran parte del tempo sdraiato sulla branda e in silenzio.

La guerra e i suoi orrori rimangono sullo sfondo in Il canto del crepuscolo, l’ultimo romanzo di Helen Humphreys, uscito per Fandango/Playground nel 2015 con la copertina di Maurizio Ceccato e la traduzione di Fabio Viola. La scrittrice canadese ha voluto privilegiare un’altra angolazione da cui osservare il carattere umano e le sue infinite modalità di reazione e di adattamento ai grandi traumi dell’esistenza. Una di queste è proprio la lettura. I libri salvano la vita, o per lo meno aiutano a renderla meno insopportabile e penosa. Viene da sorridere al pensiero che in un campo di concentramento tedesco durante la seconda guerra mondiale esistesse una biblioteca a disposizione dei prigionieri.

dentroÈ comunque una suggestione e ne richiama un’altra, quella che propone Sandro Bonvissuto in Dentro, una raccolta di tre racconti pubblicati nel 2012 per Einaudi. Nel primo, Il giardino delle arance amare, cronaca di un periodo di vita in carcere di un uomo senza identità e colpa, leggiamo: «La biblioteca stava al piano di sotto. Era una stanza con delle mensole vuote, una scrivania, pure quella vuota di ogni cosa. E una sedia. In certi giorni stabiliti, che nessuno aveva mai capito bene quali fossero, era previsto che venisse un volontario per distribuire i libri ai detenuti. Una volta, durante l’ora d’aria, mi capitò di trovare quella stanza aperta. Allora decisi di entrare per prendere un libro in prestito. Dentro c’era l’incaricato seduto alla scrivania. Forse aspettava qualcuno, o forse aspettava solamente che finisse il suo turno, per tornare a essere involontario. Mi guardai intorno cercando i libri. Sugli scaffali però c’era un solo volume. La cosa mi parve assurda, ma poi mi vennero in mente altre cose che avevo visto lì dentro molto più assurde di quella e decisi di dire all’incaricato che desideravo un libro in lettura. Quello rispose che andava bene. Allora chiesi quali libri fosse possibile avere in prestito. L’incaricato si alzò dalla scrivania; rispose che avrebbe controllato. Scorse con lo sguardo tutta la libreria come se fosse piena. E lo fece lentamente, quasi si stesse impegnando davvero a leggere i titoli sugli scaffali. Poi si girò verso di me e, costernato, disse che purtroppo era disponibile un solo libro: il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes Saavedra. Era stato donato all’istituto di pena da un ex direttore. Risposi che avrei preso quello. Lui accolse le mie parole con una punta di stupore, come se con la mia scelta avessi ignorato l’esistenza di molte altre possibilità. Chiesi allora se fossero disponibili altri libri che magari non erano lì al momento. Rispose che ci sarebbero anche stati, ma erano andati in prestito e purtroppo non avevano più fatto ritorno. Mi venne da ridere. Gli dissi che comunque avrebbero potuto anche comprarne di nuovi, ma lui replicò che non c’erano soldi a sufficienza, e i pochi a disposizione dell’amministrazione dovevano essere usati per acquistare cose più importanti per i detenuti. Feci presente che i libri dovevano essere cose molto importanti per i detenuti; se non fosse stato così, li avrebbero di certo restituiti. Perché al mondo non c’è nessuno in grado di stabilire se una cosa ha valore o meno meglio di un carcerato».

Da una biblioteca con migliaia di volumi ai tempi della seconda guerra mondiale a quella con un solo libro disponibile in un carcere contemporaneo, da Helen Humpreys a Sandro Bonvissuto il salto sarebbe vertiginoso a volerlo compiere, ma l’intento non è confrontare i due autori e le loro scritture, bensì cogliere questo comune riferimento alla funzione “terapeutica” dei libri.
Leggere per anestetizzare l’orrore della guerra e la paura della morte, leggere per ingaggiare una sfida con il tempo quando diventa improvvisamente vuoto e privo di scopo, leggere per curare la mente e lenire l’anima.

Bonvissuto_DionisiIn carcere si legge? «Dipende dalle situazioni – aveva risposto Sandro Bonvissuto durante l’incontro di Cosa si fa con un libro? del 16 gennaio – esistono carceri modello dove sono previsti percorsi di lettura e altri penitenziari dove il concetto di detenzione è fermo a qualche secolo fa».
L’associazione Antigone, che da oltre trent’anni segue la realtà carceraria italiana, redige un rapporto annuale sulle condizioni di detenzione in Italia, una fotografia abbastanza puntuale e rappresentativa dei 205 istituti di pena presenti sul territorio. Solo per fare un esempio: nel Lazio ci sono quindici penitenziari, soltanto quattro hanno una biblioteca e l’unica a risultare funzionante e rifornita regolarmente di libri (oltre 8.000 volumi) è quella del carcere femminile di Rebibbia, a Roma.

Di certo non è questa la sede per affrontare un tema abbastanza complicato come la realtà carceraria italiana, con tutte le sue drammatiche carenze e criticità. A fronte di spazi sovraffollati e condizioni di vivibilità molto spesso disumane e folli, il problema della lettura in carcere può risultare anacronistico, se non del tutto incomprensibile.
Ma si era partiti da una suggestione letteraria e, per una volta, perché non iniziare dall’immaginazione per approdare alla realtà e provare a comprenderla?