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La cucina color zafferano – Yasmin Crowther

UNA STAGIONE DA LEGGERE Rubrica dedicata alle stagioni nei libri, perché ogni storia ha la sua stagione.

di Elena Refraschini

AUTUNNO – La cucina color zafferano –  Yasmin Crowther

Acquistati i biglietti, andammo a passeggiare in Bond Street, le vetrine tutte luci e agrifogli. Nel viavai di gente lo presi sottobraccio. “Vuoi che ti porti qualcosa?”
Lui fece un cenno di diniego, poi ci ripensò. “Un po’ di terra color zafferano?”
Stavamo là, sotto il cielo grigio di Londra, in mezzo alle torri e ai parchi. Il fiume correva verso il mare e intorno a noi le foglie d’autunno si impigliavano nel vento e volavano via volteggiando dai rami.

Londra, autunno: la serenità di Maryam è squarciata da due eventi indipendenti ma contemporanei. La sorella muore nella lontana Teheran, mentre la figlia Sarah subisce un’interruzione di gravidanza. Sono questi eventi a spingere la protagonista ad aprire la porta del passato, in un viaggio doloroso ma necessario che la porterà a Mazareh, nel piccolo paese natio sulle montagne dell’Iran, per riacciuffare i brandelli di un’esistenza segnata dal dolore. Dolore e vergogna per un peccato mai commesso, per il rigetto da parte della piccola comunità, la fuga verso una terra straniera. Un viaggio di riconciliazione dalle tinte autunnali: quelle dei parchi e delle strade londinesi, quelle dei paesaggi brulli e spietati dell’Iran rurale. Due paesaggi, due luoghi dell’anima che Maryam dovrà cercare di conciliare.

12193433_1038241006220083_2379482804753427124_nYasmin Crowther, autrice di La cucina color zafferano (Penguin, 2006; Guanda, 2006), è figlia di madre iraniana e padre inglese. È parte di entrambi i paesi, ma da nessuno dei due si sente completamente compresa. È anche per questo che ha scritto The Saffron Kitchen, il suo primo romanzo: per raccontare quanto possa essere difficile, ma allo stesso tempo fondamentale, creare un ponte tra due culture.

La cucina color zafferano
Yasmin Crowther
Guanda, 2006
pp. 256, €14.50

 

Foto: Simon Cocks

I consigli di Barbara Facchini e Alessandro Fratini
– Libreria Risvolti

INDILIBR(A)I – Rubrica dedicata ai librai e ai lettori indipendenti

Libreria Risvolti
Via Sestio Calvino, 73-75 00174 – Roma
Tel./Fax. 0689537244
e-mail:info@libreriarisvolti.it

C’è ancora posto in valigia? Perché dalla libreria Risvolti arrivano nuovi consigli.

Prendimi, Lisa Gardner (trad. di Daniele Petruccioli), Marcos y Marcos, 2015
Charlene Rosalind Carter Grant aspetta il suo assassino, lo fa da un anno, allenandosi a sparare, a tirar pugni e a correre perché le sue due migliori amiche sono già state uccise lo stesso giorno a un anno di distanza e ora è arrivato il suo turno.
Il sergente investigativo D. D. Warren si ritroverà a dover dare la caccia all’ipotetico assassino di Charlene e, allo stesso tempo, a un killer che giustizia i pedofili di Boston.
Il nuovo thriller di Lisa Gardner, come i precedenti, è un meccanismo perfetto, è impossibile staccare gli occhi dal libro.

Una spola di filo blu, Anne Tyler (trad. di L. Pignatti), Guanda, 2015
Ogni famiglia ha i suoi segreti, anche i Whitshank hanno i loro, hanno una storia e un modo di ricordarla e raccontarla. Anne Tyler ci accompagna, con la grande scrittura che la caratterizza, nella vita di questa famiglia, attraverso i Whitshank di oggi e quelli del passato, una famiglia molto unita (tavolate domenicali, vacanze tutti insieme ogni anno) ma pur sempre soggetta a quegli scricchiolii cui la vita vera ci sottopone.
Personaggi reali, irosi, simpatici, lunatici si muovono in una grande e solida casa di Baltimora, ma le grandi case, come le grandi famiglie, hanno bisogno di continue cure e attenzioni, altrimenti gli scricchiolii aumentano.

Più gentile della solitudine, Yiyun Li (trad. di Laura Noulian), Einaudi, 2015
A vent’anni di distanza Boyang cerca di mettersi in contatto con le amiche d’infanzia Ruyu e Moran, che ormai vivono in America, per comunicare loro la morte di Shoai. Questo episodio rievocherà nei protagonisti l’infanzia condivisa nella Pechino degli anni ’80, in particolare l’estate del 1989, a pochi giorni dagli scontri di piazza Tienanmen, e un segreto che dalla fine di quell’estate in poi ha portato solo solitudine nelle loro vite. Una solitudine radicata, divenuta indispensabile ma che ognuno di loro dopo vent’anni deciderà di superare. Yiyun Li’, con uno sguardo intimo e una scrittura tagliente, ci accompagna nelle vite dei protagonisti, senza giudicarli ma semplicemente seguendo con noi l’evolversi dei loro pensieri ed emozioni.

Un terribile amore, Catherine Dunne (trad. A. Arduini), Guanda, 2015
Per il suo ultimo, bellissimo romanzo, Catherine Dunne pare abbia preso ispirazione da un personaggio della mitologia greca, Clitennestra (la bellissima e vendicativa moglie di Agamennone); il romanzo infatti richiama molto la tragedia greca sia nello svolgimento sia nell’ambientazione. La scrittrice irlandese costruisce una trama intricata dove ogni azione dei personaggi ha una sua causa e un suo effetto. Le protagoniste hanno due personalità molto diverse tra loro e anche in questo caso la Dunne conferma la bravura nel delineare fisicamente e psicologicamente i personaggi.
Due donne, Calista e Pilar, la storia di una l’inverso dell’altra: Calista cercherà nell’amore per Alexandros la propria indipendenza, Pilar a causa di un amore clandestino quasi la perderà. Entrambe toccheranno il fondo, ma si rialzeranno più forti, determinate e vendicative. Le due donne quasi non interagiscono, ma si sfiorano, sono comunque presenti l’una nella vita dell’altra senza saperlo. Entrambe troveranno la forza di lottare per la propria vita, entrambe perderanno qualcosa di molto importante. Ve lo consigliamo.

Foto: Simon Cocks

I consigli dei Serpenti per l’estate 2015 (2): Dino Buzzati, Patrizia Rinaldi, John Updike

di Rossella Gaudenzi

orsi

La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Dino Buzzati, Mondadori junior, 1977
Credo avessi otto anni quando dalla biblioteca della scuola elementare ho scelto di leggere, come primo libro da prendere in prestito nella mia vita, La famosa invasione degli orsi in Sicilia. Ad attrarmi, oltre al ridondante titolo, sono state tutte quelle immagini, fitte e colorate figurine di orsi e uomini, che all’epoca non immaginavo fossero opera dello scrittore. Ho un ricordo vago e fosco di quella prima lettura, perché comparivano personaggi feroci, come il Gatto Mammone, cattivi, come il Granduca tiranno della Sicilia, in un testo in cui la distinzione tra buoni e cattivi è netta, i cattivi, e quindi il male abbondano: non solo tra le righe ma anche in quelle illustrazioni di guerre tra uomini e orsi con morti ammazzati nella neve, imbrattata di rosso sangue.
«Regnava in quell’epoca il Granduca di cui ne dovremo sentir tante: secco che pareva una festuca villano brutto e tracotante. Ma chi può mai voler bene al Gran Duca crudelissimo tiran?»
Appena questo libro mi è capitato a tiro, tra gli scaffali di una libreria, ho solo dovuto assecondare l’istinto di acquistarlo. E ora quello di ripercorrerne le pagine.
Mi attende un compito di una certa importanza: capire, a fine rilettura se è un libro per ragazzi (età consigliata dagli 11 anni in su) o che solletica meglio il mondo immaginifico degli adulti.

coverMa già prima di giugno, Patrizia Rinaldi, e/o, 2015
Estate chiama, a gran voce, mare. Da qualche giorno ho chiuso le pagine del libro Ma già prima di giugno della partenopea Patrizia Rinaldi che ha accantonato la letteratura per ragazzi – con Federico il pazzo (Sinnos 2014) ha vinto il premio Leggimi Forte 2015 ed è stata finalista al Premio Andersen 2015 – per dedicarsi alla scrittura di questo felice romanzo, dove il Golfo di Napoli è protagonista tanto quanto le figure femminili che lo animano.
Due differenti registri per narrare una saga familiare: in prima persona per voce dell’ormai anziana e malata Ena; in terza persona per sprigionare la forte personalità di Maria Antonia, madre di Ena, tra le drammatiche vicissitudini della Grande Guerra.

«Renato aveva imparato ad abbassare la voce e a usare parole più gentili del loro contenuto. Spiegò quindi all’avvocato in bella forma e con tono sommesso che il diritto all’eredità legittima, in questo caso dell’unica figlia del tenente morto, sfuggiva alle intenzioni testamentarie. La nonna avrebbe potuto lasciare persino tutto a una gatta e non ci sarebbe stato niente di male, tuttavia la gatta avrebbe dovuto cedere a Lucia la parte legittima che spettava a lei per legge e non per volontà della nonna.
Concluse:
“Osservi con attenzione le carte, converrà di certo che l’accordo è più favorevole a voi che a noi”.
Mentre l’avvocato studiava le carte e gli occhiali scivolavano per il sudore, Renato perse tempo ad allacciare le fettucce di dita della cartella.
Maria Antonia gli parlò a bassa voce, come quando erano piccoli sostituì le vocali con una sola – i – . Il loro modo bambino di usare un codice cifrato.
“Ci pii, si il gitti ì ni ziccili, il discirsi fili miglii (Che poi se il gatto è una zoccola il discorso fila meglio)”.
Renato alzò davanti alla faccia in palmi di pelle della cartella e rise.
Il riso diventò un ghigno. L’avvocato tossì per richiamare l’attenzione e poi disse che sì, che forse era conveniente per tutti un accordo».

Corri, coniglio, John Updike, Guanda, 2003
Lo scrittore della mia estate è il compianto John Updike, secondo John Cheever «il più brillante e versatile autore della sua generazione» che ho conosciuto qualche anno fa attraverso la lettura di Villaggi (Guanda 2007), talmente adatta come lettura estiva che recentemente ne ho sentito la nostalgia. Pronto per essere sballottato e seguire i miei spostamenti estivi, il suo caposaldo Corri, coniglio scritto nel 1960. «A poco più di quarant’anni dalla sua pubblicazione Corri, coniglio viene ormai riconosciuto come un testo fondamentale, si sarebbe tentati di dire canonico, nella letteratura degli Stati Uniti del Novecento, un classico moderno che peraltro non va collocato sullo scaffale, ma sollecita di continuo una rilettura, provoca nuovi stimoli… Nasceva con Harry Angstrom, detto Coniglio, un significativo esemplare americano di uomo senza qualità».

Perchè scrivo? Jhumpa Lahiri

PERCHÉ SCRIVO? – La rubrica dedicata ai perché della scrittura

Jhumpa Lahiri

«Perché scrivo? Per indagare il mistero dell’esistenza. Per tollerare me stessa. Per avvicinare tutto ciò che si trova al di fuori di me.
Se voglio capire quello che mi colpisce, quello che mi confonde, quello che mi angoscia, in breve, tutto ciò che mi fa reagire, devo metterlo in parole. La scrittura è il mio unico modo per assorbire e per sistemare la vita. Altrimenti mi sgomenterebbe, mi sconvolgerebbe troppo.
Ciò che passa senza esser messo in parole, senza esser trasformato e, in un certo senso, purificato dal crogiuolo dello scrivere, non significa nulla per me. Solo le parole che durano mi sembrano reali. Hanno un potere, un valore superiore a noi.
Visto che io provo a decifrare tutto tramite la scrittura, forse scrivere in italiano è semplicemente il mio modo per apprendere la lingua nel modo più profondo, più stimolante.
Fin da ragazza appartengo soltanto alle mie parole. Non ho un paese, una cultura precisa. Se non scrivessi, se non lavorassi alle parole, non mi sentirei presente sulla terra.
Cosa significa una parola? E una vita? Mi pare, alla fine, la stessa cosa. Come una parola può avere tante dimensioni, tante sfumature, una tale complessità, così una persona, una vita. La lingua è lo specchio, la metafora principale. Perché in fondo il significato di una parola, così come quello di una persona, è qualcosa di smisurato, di ineffabile».

 «Scrivo per rompere il muro, per esprimermi in modo puro. Quando scrivo non c’entra il mio aspetto, il mio nome. […] Sono invisibile. Divento le mie parole, e le parole diventano me.»

 «Scrivo per sentirmi sola. Fin da ragazzina è stato un modo di ritirarmi, di ritrovarmi».

Estratti da interviste. .Jhumpa Lahiri, nata a Londra da genitori di Calcutta e cresciuta a Rhode Island, nel 2000 ha vinto il premio Pulitzer con L’interprete dei malanni (pubblicato in Italia da Marcos y Marcos e poi da Guanda). Nel 2003 esce il romanzo L’omonimo che la regista indiana Mira Nair ha portato sul grande schermo. Firma di punta del New Yorker e  dopo essere stata in lizza al Booker Price con il recente romanzo La moglie, Jhumpa Lahiri ha deciso di fare una scelta radicale: venire a vivere per qualche anno in Italia, misurandosi con una lingua amatissima, diversa dalla propria. Ha pubblicato il suo primo libro in italiano In altre parole (Guanda, 2015).

Sabato 28 marzo Jhumpa Lahiri sarà ospite della libreria Pagina 348, in Viale Cesare Pavese 348, a Roma.

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Raccontare il mondo attraverso il viaggio (3) – India

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Da oggi fino al 28 settembre è in programma a Roma la settima edizione del Festival della Letteratura di Viaggio.

Il nostro viaggio letterario prosegue. Dopo Africa e Cina, arriviamo in India con un breve estratto da L’odore dell’India (Guanda, 1990) che Pier Paolo Pasolini scrisse nel 1961 dopo il suo primo viaggio nel sub-continente indiano.

 «Benares. Niente di nuovo: le vie del centro sono grandi vie di mercati, coi negozietti affastellati sotto le case sbilenche con le logge di legno, e la solita folla affamata, sporca e svestita. Naturalmente, le vacche. […] L’aria è fredda, come da noi nelle notti primaverili umide. Uno sgradevole senso di gelo si appiccica a tutto il corpo, e dà alle cose, già cupe, nuova cupezza: tutto si dilata e risuona con più disperato rigore.
Infiliamo una strada circondata da muretti, abitacoli, recinti, forse pareti di magazzini, che si fa sempre più stretta e scura.
È gremita di poveri essere seminudi, nella solita sordida danza dell’andare e venire: ne siamo circondati e pressati da tutte le pasolini-lodoredellindiaparti. Sul selciato luccicante di chissà che atroci umori, sono distese file di corpi: è tardi, e molti dormono ormai, lì per terra, ai margini della strada. Ognuno al suo posto, dove la sera si accuccia; spesso sono intere famiglie avvolte negli stessi stracci. Sono lebbrosi, ciechi per tracoma, affetti dal morbo di Cochin che dilata mostruosamente le membra: tutti pazienti di fronte al male, e smaniosi di fronte alle necessità immediate. Poi la strada discende, e sbocca sulla riva, tutta selciata, coi lastroni anch’essi fetidamente lucidi; una foresta di tristi ombrelloni e di panche, riempite di fedeli che si apprestano a passare lì la notte, e un ammasso informe di imbarcazioni che si intravedono appena: dietro, il cieco luccichio del Gange. […] Scendiamo dalla barca traballante, e tra le chiglie di altre barche, ci inerpichiamo tra la polvere e i calcinacci, lungo un muraglione che pare sopravvissuto a un terremoto: raggiungiamo così lo spiazzo, sopra il muraglione lungo una sordida scalinata, dove due roghi stanno bruciando.
Intorno ai roghi vediamo accucciati molti indiani, coi loro soliti stracci. Nessuno piange, nessuno è triste, nessuno si dà da fare per attizzare il fuoco: tutti pare aspettino soltanto che il rogo finisca, senza impazienza, senza il minimo sentimento di dolore, o pena, o curiosità. Camminiamo tra loro, che, sempre così tranquilli, gentili e indifferenti, ci lasciano passare, fino accanto al rogo. Non si distingue nulla, solo del legname ben ordinato e legato, in mezzo a cui è stretto il morto: ma tutto è ardente, e le membra non si distinguono dai piccoli tronchi. Non c’è nessun odore, se non quello, delicato, del fuoco».

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IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Emanuela D’Alessio (marzo 2014)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Emanuela D’Alessio

Barack Obama, durante lo shopping natalizio, ha comprato due libri: uno era La moglie di Jhumpa Lahiri. Anche io l’ho acquistato (per regalarlo a mia madre). Chissà se Obama lo ha letto. Io lo sto leggendo ma temo che non avrò modo di confrontarmi con il presidente americano! Jhumpa Lahiri, premio Pulitzer nel 2000, di origine bengalese ma cresciuta negli Stati Uniti, si è trasferita da un anno a Roma, perché ama la lingua italiana. E io amo la sua scrittura, elegante, intensa, dolente. Ho letto i suoi tre libri precedenti (pubblicati da Guanda): L’interprete dei malanni, L’omonimo e Una nuova terra. Tutti incentrati sul grande tema della doppia identità, sul conflitto profondo tra la cultura di origine e quella di arrivo, sul desiderio di abbandonare il paese della nascita (l’India) e sull’impossibilità di trovare una nuova terra (gli Stati Uniti). Storie di esilio e di perdita, di amori delusi o negati, di conflitti famigliari. Storie quotidiane di chi vive con smarrimento la nuova esperienza di emigrante, di chi lotta contro la diversità di un paese lontano ed estraneo, di chi dall’India non se ne è mai andato. Anche La moglie (Guanda, 2013. Trad. di Maria Federica Oddera) ripropone questo affresco, arricchito da una contestualizzazione storica. Ci si trova a Calcutta, infatti, negli anni dell’indipendenza indiana, delle prime sommosse guidate dal partito maoista alla fine degli anni Sessanta. I due fratelli Subhash e Udayan sono uniti da un legame indissolubile, nonostante la loro diversità. Subhash è silenzioso e riflessivo, Udayan è ribelle ed esuberante. Subhash decide di andare negli Stati Uniti per intraprendere una tranquilla carriera universitaria, Udayan diventa un militante maoista e prosegue la sua ribellione scegliendo di sposarsi per amore, contravvenendo alle tradizioni famigliari e culturali. Due percorsi diversi destinati a ricongiungersi quando Udayan viene ucciso dalla polizia e Subhash decide di tornare a Calcutta. Sto ancora leggendo, procedo lentamente come il ritmo della narrazione. Perché Lahiri non ha fretta, non travolge né incalza, scende piano in profondità. È il suo modo di scrivere. «Ho iniziato il libro sedici anni fa – racconta in un’intervista su Il Fatto Quotidiano del 13 gennaio 2014 – con la scena madre, in cui Udayan viene ucciso. È la prima cosa che ho scritto. Poi non sono più riuscita ad andare avanti. Sembrava una porta chiusa. Quindi ho messo le pagine in un armadio. Ho pubblicato gli altri tre e dopo dieci anni l’ho ripreso». Per Jhumpa Lahiri il processo di scrittura è un lavoro lungo, che richiede tutto il tempo necessario. «Non riesco a capire senza scrivere. Ho in mente una cosa, un’idea vaga, poi prendo qualche appunto o scrivo un paragrafo o descrivo una cosa: un viso, una vista, un sentimento, un’emozione. Poi però ci vuole un motore. Capisco che è giusto quando c’è un movimento, quando la storia si svolge. Allora è chiaro: se c’è un movimento che posso seguire, c’è un’energia, c’è qualcosa di inevitabile».

È stato inevitabile, nel frattempo, imbattermi in Il silenzio. Un racconto dalla montagna di Max Frisch (Del Vecchio, 2013. Trad. Paola Del Zoppo). In particolare dopo aver letto Camus e Frisch, tentativi di rivolta contro l’insensatezza dell’esistenza, il bell’articolo di Alessandra Melia sul sito dell’agenzia DIRE dedicato a questo racconto inedito dell’autore svizzero morto nel 1991. Non conoscevo Max Frisch e non amo affatto la montagna, ma queste due negazioni e l’analisi comparata dei temi di Frisch e di Albert Camus (suggerita nell’articolo) a proposito dell’insensatezza del vivere, della rivolta contro l’ordinaria esistenza, hanno reso irresistibile la curiosità. Ho iniziato a leggere Il silenzio, racconto giovanile scritto nel 1937 e ripudiato dall’autore. Frisch, come ho scoperto dalla postfazione al libro di Peter Von Matt,  ha avuto una vita ricca e intensa, ha cambiato più volte scenario (poeta, scrittore, giornalista, architetto, soldato). Era un grande viaggiatore e scalatore esperto, ha avuto amicizie stimolanti (tra cui quelle con Brecht, Dürrenmatt e Ingeborg Bachmann). La lettura si è rivelata illuminante, fin dalla citazione iniziale dello stesso Frisch: «Lo scetticismo è la levatrice di una solida illuminazione e della conoscenza…Un essere umano che sia scettico nei confronti di sé stesso è di un grado più umano». Rarefatto come l’aria che si respira ad alta quota, solitario come il mattino, fresco e morbido come un guanto di seta che accarezza il volto. Sono queste le immagini che affiorano tra le pagine dense e lievi, di una scrittura lenta e costante come il passo di chi sale verso una vetta. Il viandante solitario che decide di scalare la Cresta del Nord (sulle Albi bernesi) ci porta con sé e con la giovane Irene in un viaggio interiore alla ricerca di una vita straordinaria dove si immagina ci sia la felicità come premio finale. Unico traguardo per cui  valga la pena vivere, compiere un gesto estremo. «A un certo punto bisogna osare, grandi gesta o morte, perché una vita così lui non può e non vuole sopportarla». Sono molte le frasi che meriterebbero di essere riportate, ne aggiungo solo un’altra: «e se si fossero baciati, avrebbero saputo che quelli erano i primi e gli ultimi baci, e sarebbero stati baci come mai ce n’erano stati, parole come mai ce n’erano state, una felicità piena di addio che non avrebbe mai perso di significato, che non sarebbe mai sbiadita nella ripetizione, una notte che sarebbe esistita una volta sola e forse sarebbe per lei, per Irene, ancora di più, di più che un grande ricordo, forse il destino a cui è chiamata». Il libro si chiude con la Scatola nera del traduttore di Paola Del Zoppo.

Sul comodino c’è anche una lettura interrotta. È Lionel Asbo di Martin Amis (Einaudi, 2013. Trad. di Federica Aceto), la storia di un criminale da quattro soldi, rozzo e pericoloso, orgoglioso della sua stupidità e della sua ignoranza. Il cognome Asbo è l’acronimo di Anti-Social Behaviour Order, il decreto degli anni Novanta con il quale Tony Blair intendeva fermare i comportamenti antisociali. Lionel diventa milionario vincendo una lotteria, ma i soldi non migliorano la sua vita, ne esaltano solo la follia, gli eccessi, la volgarità, la spietata indifferenza. Soldi, pornografia, alcol e droga sono gli ingredienti dominanti di questa satira brutale, feroce, disperata, a tratti divertente, della società contemporanea. Gli stessi che Amis aveva utilizzato per scrivere Money (Einaudi, 1999), e già allora aveva detto tutto al riguardo (almeno per me). Molto meglio i suoi precedenti L’informazione (Einaudi, 1996) e Il treno della notte (Einaudi, 1997).

Con Città aperta di Teju Cole (Einaudi, 2013. Trad. di Gioa Guerzoni) proseguo il mio percorso nella letteratura africana, rinnovato in questi ultimi mesi con la lettura di Un giorno scriverò di questo posto di Binyavanga Wainaina (66thand2nd, 2013. Trad. di Giovanni Garbellini) e La bellezza delle cose fragili di Taiye Selasi (Einaudi, 2013. Trad. di Federica Aceto). Teju Cole è nato in Nigeria nel 1975 e vive a Brooklyn. Con questo libro di esordio ha vinto, tra gli altri, il PEN/Hemingway Award.

Per continuare, invece, a esplorare il tema del viaggio ho scelto Vertigini di W.G. Sebald (Adelphi, 2003. Trad. di Ada Vigliani), passaggio inevitabile dopo aver letto l’estate scorsa Gli emigrati (Adelphi, 2007). Sebald è un maestro dell’errare, non solo tra luoghi antichi e vicini ma anche tra i grandi del passato e la folla anonima dell’oggi.

Infine John Cheever, Tredici racconti  (Fandango, 2011. Trad. di Leonardo G. Luccone) che apro quando ho bisogno di frammenti, brevi immersioni in quel «secondo mondo dentro questo mondo», per dirla con Fitzgerald. Quando Cheever morì nel 1982, il suo amico scrittore John Updike scrisse di lui: «Era impossibile stare con John Cheever per più di cinque minuti senza vedere qualche storia prendere forma: vecchi imbarazzi si intensificavano con straordinaria rapidità fino a diventare favole e, non appena Cheever faceva scorrere lo sguardo intorno a sé e strascicava poche e sorprendentemente concentrate parole con quella sua voce rapida e educata, ciò che ti circondava prendeva a pulsare con compassionevole magia» (dalla postfazione di George W. Hunt). Questi racconti, mai usciti prima in una raccolta, furono scritti tra il 1931 e il 1942 e offrono uno sguardo sui suoi anni di formazione. Cheever è stato un autodidatta, a diciotto anni fu espulso dal college per i suoi mediocri rendimenti. Come tanti altri all’epoca, Cheever rimase incantato dallo stile di Ernest Hemingway. Ecco un pezzo di Fall River, il primo racconto di questa raccolta: «La casa dove vivevamo si trovava sulla sommità di una rapida collina, il che ci permetteva di guardare in basso, verso le paludi salmastre e il grigiore del fiume che correva verso il mare. Era inverno, di neve neanche l’ombra, e per tutta la stagione le strade restavano polverose, il cielo pesante, e gli alberi avevano lasciato cadere a terra tutte le foglie. Ma il cielo rimase pesante e le strade polverose per altre tre settimane e, quando arrivò la primavera, della neve rimaneva solo un vago ricordo visto che ne era caduta così poca».

Qui gli altri comodini.