Archivi tag: fuori tempo

Zoo col semaforo – Paolo Piccirillo

FUORI TEMPO – Proseguiamo il nostro approfondimento su Paolo Piccirillo. Dopo il commento sulla copertina di Zoo col semaforo, il suo libro di esordio, ecco la recensione.

Recensione di Rossella Gaudenzi

«Il dolore non si sceglie o si conosce prima, arriva quando vuole. E si fanno tante cose nella sof­ferenza: si man­gia, si beve, si piange, si spera, si pensa. Ma in realtà non si fa nulla. Tranne questo: obbe­dire al dolore stesso».

Il pit bull non ha nome. Nella provincia di Caserta, dove i nomi onorano la tradizione nei secoli e per sbizzarrirsi si ricorre ad appellativi truculenti, Carmine è o Schiattamuort’, Salvatore è o Rugnus’ ma il pit bull, cardine dell’opera prima di Paolo Piccirillo Zoo col semaforo, resta dall’inizio alla fine solamente il pit bull. Non solo. Il cane non ha zampe ma ha gambe, non ha muso ma ha faccia.
Le esistenze grame di Slator l’albanese, ribattezzato in Italia Salvatore e del vedovo settantenne Carmine sono destinate a incontrarsi. Salvatore o Rugnus’ e Carmine o Schiattamuort’; il primo che vende animali per conto di un negoziante di Napoli, il secondo che trascina la vita tra un’oculata gestione di campi da calcetto e il rituale di raccattare carcasse animali su un tratto della tangenziale Aversa-Napoli. A fare da collante il pit bull, quello di Salvatore, che in una domenica di mercato, in assenza del padrone, azzanna inspiegabilmente un ragazzetto. La vendetta del paese è spietata: «Il pit bull ha una gamba stritolata dagli pneumatici di Carigliòn, ma cerca lo stesso di scappare verso la campagna. Anche stavolta lo raggiungono facilmente. Con i caschi gli menano il muso e gli occhi, con la catena infieriscono sulla schiena e le zampe, e il cric fa quello che vuole, colpisce lo stomaco, il collo, la pancia, il punto in cui la coda si lega al resto del corpo. Per farsi due risate uno di loro lo colpisce pure in mezzo alle gambe. A forza di calci, facendolo rotolare, lo rispediscono verso la strada, e così, coperti dalla stazza dell’A3 di Sandruccio ferma con le quattro frecce accese, possono finirlo senza essere visti. Il cane è in fin di vita. I quattro uomini, i due caschi, il cric, la macchina, i motorini e la catena però decidono che può bastare. L’uomo di merda deve morire così, come a un cane».
È Carmine o Schiattamuort’, che ha perso il figlio azzannato da un pit bull venti anni prima e che per rendere meno indegna la sua lapide ogni sera libera la tangenziale dalle carcasse, Carmine o Schiattamuort’ trova il cane in fin di vita. Lascia passare una notte, torna sul luogo dell’accaduto, trova il pit bull miracolosamente vivo e o Schiattamuort’ dopo anni e anni la morte la mette all’angolo e decide di prendersi cura dell’animale.
Zoo col semaforo è un romanzo saturo di una sofferenza ancestrale e totale. Quel che accade nella vita di Salvatore e Carmine risveglia un mondo sommerso fatto di ricordi dolorosi, ai quali si sopravvive a fatica, fatto di violenze fisiche e verbali, di morti, di soprusi. Paolo Piccirillo riesce però a creare una pausa di sospensione quasi necessaria intervallando a queste vicende di giungla umana brevi racconti che brillano per lirismo e delicatezza. Lascia questi poveri diavoli al loro destino e si sofferma su altre storie di vita e di morte, questa volta poetiche, questa volta di animali. Un’anatra alla prima migrazione decide di fermarsi, vivere e morire in un acquitrino accanto agli sfasciacarrozze, mangiando ortiche ed erbacce piene di smog: «Ma l’anatra pneumatica era felice così. Era giunta a destinazione». Una cagna si ammala di gravidanza isterica attaccandosi morbosamente a un cucciolo di peluche: «Lei ogni mattina lava il suo pupazzo, il pelo finto è pulito e assomiglia, sempre di più, al pelo di un cane». Un polipo esce dal suo acquario rimasto inavvedutamente aperto e inizia un breve viaggio verso la spiaggia, nel tentativo di raggiungere l’acqua del mare: «Si alza dalla panchina. Vede il polipo morto e si ricorda a malapena di lui. Ha un mal di testa tremendo, e senza pensarci più di tanto lo spinge leggermente con il piede, nel mare».
L’esordio narrativo del giovanissimo Paolo Piccirillo è sorprendente. La lingua è utilizzata con sapienza in un gioco continuo tra il discorso diretto e l’indiretto, tra il dialetto e la lingua italiana; la sua inventiva è conturbante e commovente.
Zoo col semaforo, uscito nel 2010 per Nutrimenti, è stato appena ripubblicato per BEAT, Biblioteca  Editori Associati di Tascabili.

Nota sull’autore
Paolo Piccirillo è nato nel 1987 a Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, ed è uno dei più promettenti talenti letterari della sua generazione. Dopo aver studiato Filosofia a Firenze si è trasferito a Roma, dove ha cominciato a studiare sceneggiatura cinematografica. Viene selezionato per partecipare al XIII corso di perfezionamento per sceneggiatori Script/Rai. Contemporaneamente pubblica il suo primo romanzo, Zoo col semaforo (Nutrimenti, 2010), entrando nella lista dei migliori scrittori italiani under 40 stilata da «Il sole 24 ore». Nel 2009 ha partecipato alla prima edizione di 8×8, il concorso letterario di Oblique, con il racconto Anatra pneumatica riproposto in Zoo col semaforo.  Il 2013 è l’anno del suo secondo romanzo, La terra del sacerdote (Neri Pozza).

Per approfondire:
Leggi la recensione su Il Mattino
Leggi la recensione su Stilos

La nostra intervista a Paolo Piccirillo

Zoo col semaforo, Paolo Piccirillo
BEAT, 2013
pp. 126, euro 9

Recensione in progress: Rossella Gaudenzi sta leggendo Zoo col semaforo di Paolo Piccirillo (Nutrimenti)

Un nuovo aggiornamento della rubrica  FUORI TEMPO con la recensione in progress di Zoo col semaforo di Paolo Piccirillo, pubblicato nel 2010 da Nutrimenti. Dopo la copertina, proseguiamo il nostro approfondimento sul talentuoso scrittore casertano.

«Il cane è in posizione d’attacco. Le sue unghie vibrano sull’asfalto. Trema di rabbia, ringhia.
Dopo il primo urlo della madre del ragazzino, un urlo gracchiante e profondo, nel mercato c’è il gelo, nessuno che tira il fiato. Come se tutti, di colpo, cercassero tra le bancarelle una qualsiasi forma di vita per quel bambino, senza badare a spese.
Dopo il secondo urlo già si pensa al cane. Una vecchia grida di rompergli i denti subito.
Il pit bull si piscia addosso. Aspetta che escano le ultime gocce.
Le pietre, le pietre. Tutti cercano una pietra qualunque da buttare in faccia al pit bull.
Però il cane scappa via, apre in due la folla. Corre lontano.
Da una bancarella qualsiasi esce fuori un ragazzo che ha già in mano le chiavi del motorino. Appresso a lui un altro ragazzo su un altro motorino si muove come un serpente esperto nello scarso metro delle bancarelle.
Inseguono il pit bull.
Una voce, nella folla, grida: “Acciritel’ a chi l’omm’ ’e merd’”.
L’uomo di merda sarebbe il cane.»

Recensione in progress: Eleonora Rossi sta leggendo Il collegio di Santa Lucia di Karen Russell

Un nuovo aggiornamento della rubrica FUORI TEMPO con la recensione in progress di Il collegio di Santa Lucia di Karen Russell, pubblicato da Elliot nel 2008.

Mia sorella e io staremo nella vecchia casa di nonno Dente di Sega fino a quando nostro padre, capo Grande Albero, non farà ritorno dal continente. È la prima estate che passiamo da sole nella palude. «Starete bene, ragazze» ha farfugliato il capo. «Date da mangiare agli alligatori e non parlate con gli sconosciuti. La sera chiudete la porta a chiave». Probabilmente si è dimenticato che il nonno ha una semplice porta a zanzariera: niente chiave, niente serratura. La vecchia dimora è un bungalow giallo screziato di ruggine al limitare dell’estuario degli uccelli selvatici. Ha un’unica stanza asfissiante. Tre finestre rudimentali in legno di palma nana, con i davanzali anneriti dalle zanzare. Un tetto di latta che mormorava al ricordo della pioggia. Adoro questo posto. Ogni volta che dal fiume arriva una raffica di vento dal cielo piovono foglie e piume. Durante la stagione degli accoppiamenti l’ardore degli uccelli fa sbatacchiare la finestra della camera.
Ora un tuono fa increspare il vetro sottile quasi fosse carta oleata. La pioggia estiva è ancora il suono più confortante che conosca. Mi piace fingere che siano le dita di mamma, che non c’è più, che tamburellano sul soffitto sopra le nostre teste. In lontananza, si sente l’urlo di un alligatore. Non è uno dei nostri, mi dico contrariata. È un esemplare che agisce di sua spontanea volontà. I nostri nascono nelle incubatrici. Se fanno qualche verso, è solo un grugnito svogliato, annoiato e satollo. Questo alligatore ha un urlo inimitabile, molto più forte, molto più vicino. Sorrido e mi tiro le coperte su fino al mento. Se Osceola l’ha sentito, non lo dà a vedere. Mia sorella è sdraiata sul lettino di fronte al mio. Ha gli occhi spalancati e sta sorridendo più e più volte nell’oscurità.
«Ehi, Ossie? Sei sola?».
La mia sorella maggiore ha interi regni dentro di sé, alcuni dei quali sono accessibili solo in determinate stagioni e con determinate condizioni meteorologiche. A uno in particolare puoi accedere durante le piogge d’estate, a mezzanotte, in quel verde alito di tempo che precede il sonno. Devi porre la domanda giusta, gettare il ponte di corde adatto a saltare l’abisso che ti separa da lei prima che il ponte crolli.
«Ossie? Siamo sole?»[…]

 Dal racconto Ava lotta con l’alligatore

FUORI TEMPO: Luna di Lenni – Emanuele Berardi

Luna di LenniUn aggiornamento della rubrica FUORI TEMPO, dedicata alle recensioni di libri non usciti di recente.

Il libro di esordio di Emanuele Berardi uscito nel 2011 con Round Robin.

Recensione di Emanuela D’Alessio

Storia affollata e rumorosa, arrabbiata e romantica, dal sapore alcolico e dai colori acidi, quella che Lenni, protagonista e voce narrante del romanzo d’esordio di Emanuele Berardi, decide di raccontare, accompagnandoci tra le strade di una Roma periferica, un po’ emarginata e degradata, sprofondata nelle tonalità grigie del cemento che avanza e restringe gli orizzonti, sorvegliata da una luna immensa e incombente, «una Luna fusa come gli orologi molli di Dalì», immobile e muta.
È la Luna (con la l maiuscola), infatti, tra i protagonisti principali della storia,: è a lei che Lenni rivolge i suoi pensieri, i suoi dubbi, sempre in cerca di quel conforto che solo una madre potrebbe offrire quando l’angoscia si fa troppo densa. Perché Lenni è ossessionato dal disastro di Chernobyl, dalle immagini che da bambino ha visto in televisione, dalla nuvola radioattiva che credeva sarebbe arrivata da un momento all’altro sulla sua testa. Passata la paura del bambino rimane il vezzo dell’adolescente di osservare tutto secondo un’altra prospettiva «A volerle vedere bene le cose e tolte tutte le nubi, sembrava esserci dell’altro oltre i muri, le strade, i marciapiedi, i palazzi. Doveva esserci una precisa organizzazione esistenziale dietro quei materiali grezzi, rifiniti, eleganti, economici o tirati  a lucido».
Lenni, studente di psicologia ma imbrigliato da collettivi studenteschi, guerriglia urbana, pulsioni di ribellione anarchica, elucubrazioni esistenziali e amori irrisolti, elabora la sua ipotesi “Gaia”, quella che considera l’intero pianeta come un solo superorganismo. Per Lenni Gaia poteva essere un’intera città come Roma, ma anche un solo quartiere o soltanto un palazzo. «Un palazzo con tutta la complessità del superorganismo naturalmente, con i suoi inquilini, le strutture inerti di cemento e le reti di cavi elettrici e tubature in cui fa scorrere i propri fluidi vitali».
E con questa idea per la testa Lenni si incammina nella vita, con una madre perennemente preoccupata, un padre che non ha mai conosciuto, il fratello Claudio con il mito degli anni di piombo, il  cane Cipo, un bastardino un po’ pazzo e anarchico, e gli amici di sempre: Mahatma, l’intellettuale del gruppo con la passione per Svevo e Pirandello e le tasche del cappotto sfondate dai libri; Luchino, che era andato a Parigi in cerca di qualcosa che non ha trovato; Stefano, Zack, Illic, e poi l’ex sindacalista Busceni, un cinquantenne impiegato del municipio, e Pippo, quarantenne punk del locale Doctor Vicious, «uno che aveva deciso di alzare il volume per non sentire il vento in caduta libera».
Tra le strade sporche, i muretti, gli alloggi popolari di Tiburtino III, Casilino Ventitré e Centocelle, affollati da un’umanità chiassosa e variopinta, seguiamo il viaggio interiore e collettivo di una generazione che attraversa gli anni Novanta, senza certezze e ideali, rincorrendo l’emozione della rivoluzione che si esaurisce sotto i colpi di manganelli e sampietrini, in serate alcoliche e sgangherate al ritmo di quella musica punk che aveva reso celebri gli anni Ottanta, in discussioni sterili e sconclusionate, dove «si litigava per amicizia e per noia».
Con scrittura fluida e ritmo costante Emanuele Berardi costruisce una storia semplice, ironica e dolente, intorno a questioni complicate come la sofferenza di chi deve imparare a crescere sotto la minaccia di un mondo malato e deve conquistarsi un futuro senza orizzonti. Una storia urbana piena di voci (forse troppe) con una virata improvvisa ma temporanea (forse l’unico cedimento a certi velleitarismi ideologici) verso le campagne bolognesi  «dove il cielo è pulito e il sole radioso, un posto ancora sano, senza i Ramones, i Misfits e le ramificazioni di calcestruzzo».
Lenni e i suoi amici si affannano, si arrabbiano, si impegnano, si ubriacano, si divertono, si innamorano, si perdono e si ritrovano, senza riuscire a sciogliere il nodo di quella sofferenza sottopelle e persistente che consuma il tempo e imprigiona le speranze. Nemmeno l’amore riesce a vincere, perché Matilda, la  tranquilla e studiosa fidanzata di Lenni, non parla; perché Carlotta, quella che Lenni avrebbe voluto amare, è tornata a Bologna ed è rimasta incinta di uno che «parlava di economia».
Un esordio interessante questo di Emanuele Berardi, di cui si apprezza la ricchezza descrittiva, uno sguardo capace di cogliere con pari intensità la malinconica bellezza di una Roma minore e l’adrenalinica tensione di uno scontro di piazza. Un esordio interessante, nonostante qualche debolezza e superficialità: alcuni personaggi e filoni narrativi vengono solo abbozzati e presto dimenticati, i dialoghi risultano a volte superflui e stonati, soprattutto quando l’autore si cimenta con il dialetto (romanesco, napoletano, toscano), il finale è lievemente consolatorio ma indeterminato.
Ma forse questo è un bene, perché lasciamo Lenni (e il suo autore) con la curiosità di leggere una nuova storia.

Nota sull’autore
Emanuele Berardi è nato a Roma nel 1977. Vive e lavora in Belgio. Laureato in Biologia fa ricerca sui mediatori molecolari nella cachessia oncologica presso il dipartimento di Cardiomiologia Traslazionale dell’Istituto di Cellule Staminali all’Università Cattolica di Lovanio. Luna di Lenni è il suo primo romanzo.

Per approfondire:
Leggi la recensione su Dazebao

Le altre recensioni di FUORI TEMPO

FUORI TEMPO: Il barile magico – Bernard Malamud

Bernard Malamud "Il barile magico"Un aggiornamento della rubrica FUORI TEMPO, dedicata alle recensioni di libri non usciti di recente.

Recensione di Rocco Fischetti

«Distogli il tuo sguardo, che io respiri,
prima che me ne vada e più non sia».
Salmo 39

Arriverà un momento, durante la lettura di uno qualsiasi tra i tredici racconti de Il barile magico, in cui il petto vi sembrerà a tal punto dilatarsi che forse sentirete il bisogno di staccare gli occhi dalla pagina, stremati dalla salita lungo l’arco del respiro, saturi di aria e trattenuti per un tempo infinito nel palpito dei polmoni esausti un istante prima di potersi liberare.
In molti nella vita – e per le ragioni più diverse – ci si è trovati di fronte a una delle tante strade senza uscita dell’ammaestramento ebraico alla conoscenza, magari di fronte al libro di Giobbe o anche solo seguendo con il cuore in gola il mashal del secondo rabbino in A serious man dei fratelli Coen e registrando la gioia implosiva e disperata del nostro corpo, preso nella tensione di ogni sua fibra, nel ritrovarsi fuori sfilacciato e dentro riempito di vuoto.
Precisamente in questa vertigine è custodito il cuore più puro e ardente della poetica di Malamud, e nel modo in cui la lingua posa la luce.
Ogni racconto de Il barile magico parte da una premessa penosa (la malattia, l’indigenza, la solitudine, la menzogna) che, lontana dal rappresentare il primo giro di manovella della redenzione, si riflette e rigenera continuamente, si esamina, corre vorticosamente lungo un unico tracciato, accumulando una dose in più di sé ad ogni nuovo giro, occupando sempre nuovo spazio.
Poi di colpo la premessa s’interrompe, ipertrofica e uguale a sé stessa, senza che sia mai  divenuta epilogo né risulti minimamente alleviata e una volta chiuso il libro, resistono solo una schiera di occhi che per tutto il tempo hanno fissato e il ricordo fresco di un senso di oppressione al petto.

«Non distogliere mai lo sguardo dal povero,
così non si leverà da te lo sguardo di Dio».
Tobia 4,7

Nel racconto Il conto, il protagonista Willy Schlegel, portinaio in povertà, prende l’abitudine di acquistare a credito dalla drogheria dirimpetto il condominio, di proprietà degli ancora più poveri signori Panessa, fino ad accumulare un debito impossibile da saldare.
Schlegel, resosi conto della sua irrimediabile insolvenza, per il senso di colpa e la vergogna prende a evitare la coppia di coniugi, addirittura rifiutandosi di alzare gli occhi quando è in strada. Fino a che:
«Un giorno alzò lo sguardo mentre stava allineando quattro bidoni di cenere e vide il signor Panessa e sua moglie che dal negozio gli tenevano gli occhi addosso. Lo fissavano da dietro la porta a vetri […]».
Gli occhi della comunità ebraica di New York e in particolare quelli docili e gonfi dei suoi ultimi, insieme inflessibili e supplicanti, sono la finestra dello sguardo di Dio sull’individuo e allo stesso tempo dello sguardo dell’individuo su Dio.
Come nessuna altra divinità, il Dio degli ebrei ha abitato il proprio popolo d’elezione, le sue regole capziose, soprattutto la sua sofferenza, incarnandosi e confondendosi a tal punto con l’uomo e la sua morale da farsi per paradosso distante e insondabile.
Nel saggio Kafka. Pro e contro Günther Anders teorizza un cosiddetto metodo di inversione «…in cui soggetto e oggetto, come in tutte le favole, vengono invertiti o scambiati. Ciò suona come puramente grammaticale, ma significa molto di più. Se Esopo, nelle sue favole, vuol dire che gli uomini sono animali, mostra che gli animali sono uomini; se Brecht, nella sua Opera da tre soldi, vuol dire che i borghesi sono briganti, allora rappresenta i briganti come borghesi. Se Kafka vuole dire che l’ovvio e il non sbalorditivo del nostro mondo sono raccapriccianti, allora inverte: il raccapricciante non è sbalorditivo».
Analogamente, nei racconti di Malamud, lo sguardo implorante si ribalta nell’implorazione di uno sguardo (di Dio).
Il racconto che meglio sostiene questa ipotesi è Abbi pietà. Narra di un rappresentante di caffé, Rosen, che invano tenta di aiutare economicamente Eva, una poverissima vedova con due figlie, così ossessivamente ferma nel rifiuto di qualsivoglia assistenza da portare il protagonista a un esaurimento nervoso dai contorni un po’ cupi e inafferrabili.
Questa la chiusura:
«Scendeva la sera, ma una donna stava in piedi davanti alla finestra.
D’un balzo Rosen si staccò dalla branda per andare a vedere.
Era Eva, che lo fissava con occhi spiritati, imploranti. Alzò le braccia verso di lui.
Infuriato, l’ex rappresentante scosse il pugno.
– Puttana, bastarda, troia – le urlò. – Vattene via di qui. Torna a casa dalle tue bambine.
Quando Rosen abbassò con uno strattone la tenda della finestra Davidov non fece alcun tentativo di impedirglielo».
Raramente in letteratura dai tempi di Giobbe si è levato un urlo tanto lacerante verso l’intermittenza dello sguardo di Dio.
Il rappresentante di caffé Rosen, nel momento stesso in cui la sua più intensa lucidità si sovrappone alla follia e al panico, capisce che l’osservanza della morale, l’amore stesso, non offrono alcuna rassicurazione di senso e finisce per bestemmiare il suo schizofrenico Dio, nelle sembianze di un’altrettanto schizofrenica vedova ebrea.

«Non esser troppo sicuro del perdono
tanto da aggiungere peccato a peccato».
Siracide 5,5

È noto che il popolo inventore del peccato originale conservi un genio particolare nell’indagare il concetto di colpa, eppure Malamud ne Il barile magico più che con la colpa sembra voglia misurarsi con il perdono.
La domanda se sia o meno troppo tardi per fare ammenda insiste talmente su ogni riga che è facile essere tentati da una fantasia assurda di poter prendere da parte i personaggi per convincerli a redimersi.
In tre diversi racconti, l’esperienza di questo dilemma è delegata alla figura del turista ebreo americano in visita in Italia, il quale finisce per rendersi conto del carico e dell’urgenza del perdono solo a partire dal primo istante in cui esso risulta ormai vano.
Nel primo, giunto sull’isola del Dongo, si spaccia ostinatamente per un gentile lasciandosi così sfuggire una giovane e attraente sopravvissuta di Buchenwald; nel secondo, alla ricerca di una casa in affitto a Roma costringe la sua famiglia, stipata in un alberghetto senza riscaldamento, a patire il freddo invernale; infine nel terzo, si rifiuta di donare un abito a un ambiguo ambulante del ghetto di Roma perdendo in questo modo il lavoro di una vita.

«Vede e conosce che la loro sorte è misera
per questo moltiplica il perdono».
Siracide 18,11

Il racconto che chiude la raccolta e le dà nome gioca su un doppio piano di tenerezza e rigore, di fede e di tenebra in cui la speranza prende la forma di una minuscola pietra preziosa in bilico su un filo teso.
L’aspirante rabbino Leo Finkle, in cerca di moglie per ragioni di opportunità religiosa, data la scarsa disponibilità di tempo, la magrezza delle sue finanze e a causa di certe sue reticenze, contatta il sensale Salzman affinché lo metta in contatto con un partito decente.
Salzman, se vogliamo attenerci alle linee guida – seppure impudenti – che abbiamo finora tracciato, nella sua qualità di disgraziato dagli occhi costantemente semilucidi di pianto e di maldestro mangiatore di pesce affumicato, è il Dio degli ebrei sotto le solite mentite e misere spoglie.
Dopo diversi tentativi a vuoto, il racconto si chiude sulla scena dell’incontro decisivo tra Finkle e la sua prescelta (la figlia dello stesso Salzman, «una donna sfrenata…  sregolata, senza pudore»).
Un’unione benedetta dal caso o il frutto dell’intercessione di un Dio misericordioso? Questa l’ultima frase:
 «Dietro l’angolo, Salzman, le spalle appoggiate al muro, salmodiava preghiere per i defunti».
La grandezza evidente del Malamud scrittore imporrebbe di astenersi da ogni commento riguardo la lingua o lo stile di questi tredici racconti, tanto vasti e consapevoli da elevarsi al di sopra della limitatezza di un’analisi o di un giudizio: se lascerete che parlino loro dureranno di più.

Nota sull’autore
Bernard Malamud (1914-1986), figlio di ebrei russi emigrati a New York, è autore di otto romanzi e sette raccolte di racconti. Prima di dedicarsi esclusivamente all’insegnamento e alla scrittura, svolge diversi mestieri presso modesti esercizi commerciali ed è successivamente impiegato dell’ufficio censimenti di Washington.
Vince il premio Pulitzer ( L’uomo di Kiev, 1967) e in due occasioni il National Book Award (Il barile magico, 1959; L’uomo di Kiev, 1967).
A partire dagli anni ’60 è tradotto e pubblicato in Italia per Einaudi; da alcuni anni minimum fax ne sta riproponendo le opere.

Per approfondire:
leggi l’intervista a Bernard Malamud sulla Paris Review

Le altre recensioni di FUORI TEMPO

Bernard Malamud Il barile magico
traduzione di Vincenzo Mantovani
minimum fax, 2011
pp. 256, euro 13

FUORI TEMPO: Gelide scene d’inverno – Ann Beattie

Ann Beattie "Gelide scene d'inverno"Un aggiornamento della rubrica FUORI TEMPO, dedicata alla recensioni di libri non usciti di recente.

Recensione di Caterina Di Paolo

Consigliare Gelide scene d’inverno a giugno inoltrato è come citare una bella canzone di perturbata memoria. La storia è crudele e il vero freddo non si percepisce solo nelle descrizioni dei contingenti maglioni e dei cumuli di neve: un amore che finisce, con una donna che torna dal marito e l’amante che resta solo e ossessionato da lei. Sarebbe bello se i problemi venissero uno alla volta, si dice spesso che va così solo nei film o nei romanzi: in questo romanzo no. L’amante – si chiama Charles e ci presterà i suoi occhi cinici e pungenti per tutta la storia – ha una madre che è una star decaduta senza il successo alle spalle. Da giovane somigliava a Esther Williams, ma ora è tanto vecchia, anche se lo rifiuta: si è rifatta il seno, gira sempre nuda e dice di avere male dappertutto, prende lassativi perché pensa che la uccideranno o forse solo per poter aspettare i parenti in un letto d’ospedale, con sguardo vacuo e per un poco sereno. Continua a leggere