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TerraRossa, un nuovo progetto editoriale all’esordio

FUORI STRADA – Rubrica di approfondimento della piccola e media editoria “extra-capitolina”

di Emanuela D’Alessio

Dal Sud Italia, in particolare dalla Puglia, arriva la nuova casa editrice TerraRossa.
«In uno scenario dominato da grandi gruppi editoriali che riuniscono diversi marchi e possiedono anche distributori librari e catene di vendita, abbiamo intravisto uno spazio ancora possibile di indipendenza e di espressione: valorizzare le voci del nostro territorio che rinunciano al folclore per dialogare con tutti». Una sfida impegnativa che ha già superato brillantemente l’importante appuntamento con il Salone di Torino.
Ne parliamo con Giovanni Turi, direttore editoriale della casa editrice.

Appena nata e già nella mischia. Partiamo da qui, dalla 30esima edizione del Salone di Torino che ha chiuso i battenti con un bilancio straordinario di critica e di pubblico. Una prova del fuoco per TerraRossa, la giovanissima casa editrice pugliese che ha esordito proprio a Torino nei giorni scorsi. Quali sono i primi commenti e riflessioni?
Siamo partiti per Torino con il desiderio di far conoscere il nostro progetto e con un po’ d’ansia, siamo tornati carichi di entusiasmo e con la convinzione di esserci mossi nella direzione giusta. Le attestazioni di interesse e di stima di colleghi, giornalisti e semplici lettori riguardo alla nostra idea di editoria, alla linea grafica, agli autori e ai titoli proposti sono state davvero tante e inaspettate. Ora faremo di tutto per essere all’altezza delle aspettative che abbiamo suscitato.

Descrivendo TerraRossa hai parlato di “canone della letteratura meridionale” perché Fondanti, una delle due collane della casa editrice, è dedicata esclusivamente a scrittori contemporanei del Sud, già pubblicati ma usciti fuori commercio. Una scelta netta, forse provocatoria. Di autori “dimenticati” ce ne sono molti altri. È corretto applicare alla letteratura confini territoriali o addirittura regionali?
La letteratura certo non ha confini di alcun tipo, ma quando si cerca di analizzare nello specifico un contesto geografico o temporale possono emergere delle specificità che altrimenti resterebbero ignorate: di qui la voglia di capire cosa gli scrittori della nostra terra abbiano voluto esprimere nei loro testi, in che direzione sia andata la loro ricerca stilistica. Non solo: da Roma in giù i luoghi di incontro e di confronto sono davvero pochi, Fondanti vuole anche essere un cenacolo virtuale, instaurare un dialogo altrimenti assente.

Perché gli scrittori “ripescati” da Fondanti sono stati dimenticati dalle case editrici?
In verità me lo domando anche io. Forse perché alcuni di loro non sono scrittori “addomesticati”, o non frequentano i giri giusti, o forse perché nel mondo editoriale non c’è uno sguardo retrospettivo, come sarebbe auspicabile e opportuno, non so. Mi viene in mente uno scrittore che, subito dopo aver esordito con grande successo, aveva iniziato a firmare recensioni per un importante quotidiano nazionale (non faccio i nomi, altrimenti Elena mi rimprovera): ebbene, ammetteva candidamente di non essere un buon lettore e di conoscere abbastanza bene solo la letteratura contemporanea statunitense.

Con l’altra collana Sperimentali, invece, si oltrepassano i confini per entrare in campo aperto, l’unico limite sembra essere quello della ricerca di scritture sperimentali e inedite. Che cosa significa “scrittura sperimentale” per TerraRossa?
Sperimentale vuol dire non già letto, ascoltato, digerito; sempre più spesso ci troviamo a doverci confrontare con stili piani, uniformati, o viceversa la ricerca dell’originalità diventa compiaciuta, onanistica: cercheremo di proporre autori che non sacrifichino il piacere di chi legge e che allo stesso tempo rifuggano dalla banalità.

Puoi fare qualche esempio, partendo proprio dagli autori scelti per la collana Sperimentali?
Ci provo, ma credo che vadano letti per comprendere davvero la natura della nostra ricerca. Jenny la Secca si sviluppa su due piani temporali, quello incalzante del presente e quello del passato, che tende invece a un ritmo più lento, nostalgico; Claudia Lamma, inoltre, si avvale di uno stile composito che ingloba anche termini gergali e giovanilistici con sorprendente precisione e naturalezza, per non parlare della sua capacità di “raffigurare” i dialoghi. Restiamo così quando ve ne andate ha uno stile essenziale e paratattico estremamente sorvegliato, ma soprattutto, come tutte le opere di Cristò, riserva numerose sorprese che costringono il lettore a riconsiderare quanto credeva di aver intuito. La gente per bene di Francesco Dezio, infine, è una colata lavica di sarcasmo, rabbia, angoscia, verità.

Facciamo un passo indietro: chi sono le menti e le braccia della casa editrice?
[A questa domanda risponde Elena Manzari, responsabile dell’ufficio stampa].
Credo che la mente di tutto il progetto sia il nostro Giovanni: a chi altri sarebbe potuta venire un’idea del genere? Giovanni ha messo mente e cuore e Angelo De Leonardis, l’editore, gli ha dato credito. Da qui e da loro parte TerraRossa edizioni che vede in squadra Pierfrancesco Ditaranto nel ruolo di responsabile della grafica e Tiziana Giudice in quello di puntualissima correttrice di bozze. Poi ci sono io che cerco, e spero di riuscirci, di far conoscere i libri TR un po’ ovunque.

Il nome TerraRossa risuona abbastanza evocativo, l’orgoglio pugliese passa anche attraverso la terra e i suoi colori. La scelta di un nome è sempre (o quasi) il risultato di un’associazione di idee e di ragionamenti articolati. Come è andata in questo caso?
La terra è un elemento universale, quella rossa è tipica dei paesaggi del centro della Puglia: ci piaceva coniugare queste due dimensioni. E poi la terra accoglie e nutre i semi, ci auguriamo che i nostri libri possano fare altrettanto con i lettori.

In catalogo ci sono sette titoli, quattro pubblicati e tre in preparazione. Gli autori sono tutti italiani. Che cosa hanno in comune?
Nessuno di loro vive di scrittura e nessuno di loro saprebbe rinunciare alla scrittura o intenderla come un semplice passatempo: quindi direi l’urgenza di dare forma narrativa a pensieri, storie, immaginari. Ma com’è ovvio sono scrittori che hanno autori di riferimento differenti e percorsi artistici non assimilabili tra di loro. A noi piace la polifonia.

Si resta rigorosamente in Italia o si è disponibili a uno sguardo internazionale? Quanti titoli si prevede di pubblicare l’anno?
Proiettarci già su uno scenario internazionale è senz’altro prematuro, per ora pubblicheremo solo autori italiani. Sul numero dei titoli, dipenderà tutto da quanti di valore riusciremo a intercettarne.

Giovanni Turi

Qual è il canale privilegiato per la selezione dei testi da pubblicare?
Accettiamo l’inoltro spontaneo di inediti, ma è davvero difficile trovare opere meritorie tra le tante che pervengono nella casella mail, per cui quando a presentare un inedito è uno scrittore o un professionista che stimo è chiaro che l’opera ha una corsia preferenziale. A Torino, poi, ho avuto modo di conoscere alcuni agenti con un parco autori molto interessante e sono sicuro che potremo presto instaurare collaborazioni proficue.

Per concludere la consueta domanda di Via dei Serpenti: che cosa c’è da leggere sui comodini degli editori di TerraRossa? Ci piacerebbe che tutti i protagonisti fornissero la loro risposta.
Elena Manzari. Il domandone di Via dei serpenti, questo! Allora, sul comodino ho La più amata di Teresa Ciabatti quasi al termine (meravigliosa autobiografia o presunta tale, e poco m’importa) e pronto per esser cominciato La novità di Paul Fournel che m’incuriosisce parecchio. Sul tablet (essendo molto in movimento in questo periodo) ho Scherzetto di Domenico Starnone e mentre leggo rido un sacco pensando a Leo, mio figlio.
Giovanni Turi. Il monastero di Zachar Prilepin, Del dirsi addio di Marcello Fois, Potrebbe trattarsi di ali di Emilia Bersabea Cirillo. Li alterno in base al tempo a disposizione, allo stato d’animo e alla soglia di attenzione.
Pierfrancesco Ditaranto. Un complicato atto d’amore di Miriam Toews e Kafka sulla spiaggia di Haruki Murakami.
Tiziana Giudice. Il mio è un comodino ‘affollato’ di riviste («National Geographic» e vecchi numeri delle «Scienze»), saggi e romanzi. In corso di lettura: Povera Patria. La canzone italiana e la fine della Prima Repubblica di Stefano Savella e La donna che scriveva racconti di Lucia Berlin (consigliato da Giovanni). In attesa di essere letti: Parole che provocano di Judith Butler e Viaggio in Portogallo di José Saramago. In attesa di essere riletto: Scritto sul corpo di Jeanette Winterson.

In arrivo Black Coffee edizioni

FUORI STRADA – Rubrica di approfondimento della piccola e media editoria “extra-capitolina”

di Elena Refraschini

logoBlack Coffee: una casa editrice, di Firenze, da tenere d’occhio, e non solo per il nome! Appassionati di letteratura americana, preparatevi: da inizio marzo debutteranno in libreria voci giovani dal panorama statunitense, portate in Italia in un’edizione dai toni decisamente pop.
Abbiamo intervistato i fondatori di Black Coffee, Sara Reggiani e Leonardo Taiuti, per farci raccontare la loro avventura fino a qui, e ci siamo fatte dare qualche anticipazione sulle uscite future.

Black Coffee nasce dall’esperienza dell’omonima collana per le edizioni Clichy, che aveva pubblicato diversi autori americani di grande interesse. Cosa vi portate di quest’esperienza, e cosa invece avete lasciato indietro?

Sara – Black Coffee è un progetto nato nelle nostre menti molto prima di approdare come collana in Clichy e la casa editrice appena aperta non è altro che la sua forma approfondita e ampliata. Il nostro intento resta lo stesso – offrire ai lettori un piccolo scorcio del panorama letterario nordamericano attuale – ma d’ora in poi ci apriremo anche alla cosiddetta literary non fiction, dando spazio a quelle opere che in Italia non trovano posto in una categoria ben precisa (diari, memoir, resoconti di viaggio, eccetera).
Non ci siamo lasciati nulla alle spalle, l’intera esperienza ci resta dentro, ed è il motivo per cui abbiamo trovato il coraggio di fare il salto, di scendere in prima linea. Da redattori siamo diventati traduttori e in seguito editor, e ora vogliamo dire la nostra come editori. In Edizioni Black Coffee portiamo tutto questo, tutta la nostra esperienza, umilmente e con entusiasmo.

Com’è composto il vostro staff, e qual è il suo percorso?

Sara – Io e Leo abbiamo la fortuna di essere affiancati da amici fidati oltre che grandi professionisti. Conosciamo da molti anni Emanuela Busà, la nostra redattrice, e Raffaele Anello, l’ideatore del bel progetto grafico di Black Coffee (precedente e attuale). Ci siamo incontrati durante gli anni in cui io e Leo lavoravamo in Giunti Editore e c’è stata subito grande sintonia. Fantasticavamo spesso di unire le forze per un progetto nostro e ora non ci sembra vero. Raffaele vive a Berlino e ci vediamo poco, ma almeno adesso abbiamo la scusa per sentirci quasi ogni giorno. Il nostro social media manager è Giorgio Collini, il romanaccio della squadra. Ci conosciamo da poco, ma lo spirito con cui affrontiamo questa avventura è lo stesso. Marta Ciccolari Micaldi, già nota a molti come blogger ed esperta di letteratura americana, nonché organizzatrice di bellissimi viaggi letterari negli Stati Uniti, si occuperà di portare nelle librerie il nostro progetto. L’ho conosciuta a un Salone di Torino e l’ho sentita subito affine a me. Da allora ho seguito tutte le sue attività con molto interesse e ho deciso di coinvolgerla nel nuovo progetto. Dopo di che ci sono Martina Giachi, mia grande amica e fotografa, alla quale mi rivolgo per ogni genere di consulenza, ma principalmente per l’immagine di Black Coffee, e infine Michele Nenna e Mariateresa Pazienza, giovani e talentuosi fotografi di cui ho avuto modo di apprezzare il lavoro durante gli ultimi anni e ai quali abbiamo chiesto di occuparsi delle immagini di accompagnamento ai contenuti delle riviste letterarie che proponiamo sul nostro sito. È uno staff giovane e dinamico di cui andiamo molto fieri!

ilcorpochevuoiLa vostra prima uscita sarà Il corpo che vuoi di Alexandra Kleeman, giovane e promettente scrittrice che si è fatta le ossa su diverse riviste letterarie, come tanti suoi colleghi oggi. Cosa rappresenta per voi questa scelta?

Sara – Il libro di Alexandra racchiude un po’ tutto ciò che Black Coffee vuole comunicare: freschezza, originalità, talento e arguzia. Alexandra è una delle scrittrici più in gamba che mi sia capitato di leggere e l’ho fortemente voluta con noi. L’avevo acquisita per Clichy e, quando abbiamo deciso di aprire una casa editrice nostra, l’ho riacquisita una seconda volta. Il suo libro mi è capitato casualmente fra le mani mentre ero a New York in occasione del Brooklyn Book Festival. L’ho acquistato nella celebre libreria Strand perché mi incuriosiva, l’ho letto tutto d’un fiato in aereo e me ne sono innamorata. Teniamo molto ad Alexandra e speriamo che anche il pubblico italiano la apprezzi.

Lions_grandeBonnie Nadzam, già vincitrice del Flaherty-Dunnan prize e seconda autrice che pubblicherete, tornerà con Lions negli altipiani del Colorado che avevano fatto da sfondo al suo precedente lavoro, Lamb. Questo territorio sembra esercitare ancora un fascino fortissimo presso i lettori – un misto di frontiera, di America perduta, di polvere e di resilienza. Secondo voi è così, e se sì, perché?

Leo – Il West non ha mai smesso di affascinare i lettori di tutto il mondo perché è simbolo della ricerca di un futuro migliore, del desiderio di autoaffermazione dell’uomo. È un territorio selvaggio, ricco di leggende, e immagino che il lettore vi proietti i suoi desideri, il bisogno di fuggire dal chiasso della modernità per ristabilire un contatto con se stesso. Gli uomini che lo abitano sono duri, caparbi, forti, coraggiosi, affrontano un mondo ostile con dignità. Chi non vorrebbe essere capace di fare lo stesso nel caos della realtà di tutti i giorni?

Nella sezione Amici del vostro sito ospiterete alcuni articoli tratti dalle riviste letterarie americane più interessanti del momento. Come scegliete gli articoli da proporre, e in che modo questi faranno da complemento al lavoro della casa editrice?

Sara – Abbiamo deciso di ampliare i contenuti offerti per dare ai nostri lettori uno sguardo che vada oltre i libri che pubblichiamo (che viste le piccole dimensioni della casa editrice saranno, per il momento, cinque l’anno) e allo stesso tempo fungano da loro approfondimento. Li scegliamo così, in base ai temi che emergono dai nostri titoli, e alla loro capacità di aiutare il lettore a mettere a fuoco il discorso in un contesto più ampio. Ci auguriamo che i lettori apprezzino lo sforzo e traggano giovamento da questo approccio singolare al panorama letterario americano.

Per ora sappiamo che viaggeremo in una sorta di distopia statunitense, e nelle pianure del Colorado. Immaginiamo che vogliate mantenere il riserbo sulle prossime uscite, ma potete darci, chiamiamolo così, un assaggio geografico di dove voleremo in futuro, naturalmente con in mano una tazza di caffè amaro americano?

Leo – Possiamo solo dirvi che presto ci inoltreremo nel profondo Sud degli Stati Uniti, per poi risalire verso New York e virare verso il South West. Ci piace spaziare!

Sara Reggiani e Leonardo Taiuti

Sara Reggiani e Leonardo Taiuti

E per ultima, una domanda che facciamo a tutti i nostri interlocutori: cosa c’è in lettura sul vostro comodino in questo momento?

Sara – Tutto il giorno traduco e valuto romanzi per il nostro catalogo, e la sera praticamente svengo a letto. Sul mio comodino ci sono tanti libri, tutti iniziati e non finiti, ma ultimamente quando riesco a concentrarmi un po’ leggo qualche pagina di Winesburg, Ohio del grande Sherwood Anderson.
Leo – Io invece leggo molto la sera prima di dormire. Ora sul mio comodino c’è Il cartello di Don Winslow, un autore che amo e di cui ho letto praticamente tutto.

Luca Leone, Infinito Edizioni: i nostri libri un modo di essere cittadini attivi e critici

FUORI STRADA – Rubrica di approfondimento della piccola e media editoria “extra-capitolina”

di Elena Refraschini

Infinito edizioni è una casa editrice indipendente fondata nel 2004 da Luca Leone e Maria Cecilia Castagna e si occupa prevalentemente di saggistica e reportage giornalistici. Un’attenzione particolare è dedicata alla storia della Bosnia e dei Balcani.

Conobbi questo editore modenese quasi per caso: stavo organizzando un viaggio in Iran tre anni fa e, come per ogni viaggio, ero in cerca di libri sia di narrativa sia di saggistica su questo affascinante Paese; fu così che conobbi Antonello Sacchetti, che si occupa di Iran da diversi anni (per chi fosse interessato, ecco il suo blog) e ha pubblicato proprio con la casa editrice di Leone quattro titoli. Quando ci fu l’occasione, io e Sacchetti ci incontrammo a Milano per presentare il suo ultimo libro Trans-Iran alla bellissima libreria di viaggi e culture Azalai.

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Ho avuto poi occasione di conoscere Leone alla fiera dell’editoria indipendente Book Pride, ai Frigoriferi Milanesi a marzo. L’incontro ha confermato l’immagine che mi ero fatta di lui: un editore combattivo, tenace, di progetto. Gli abbiamo rivolto qualche domanda per conoscere meglio la missione di Infinito editore.

Eserciti la professione di giornalista, e avevi scritto alcuni libri prima di fondare la tua casa editrice nel 2004. Da cosa è nata l’esigenza di creare Infinito edizioni?
Da un sogno: poter vivere del mio lavoro facendo cultura e informazione in modo libero e indipendente. Un sogno, appunto. Almeno in Italia, dove il settore è in profonda crisi: nonostante questo noi non molliamo e continuiamo a mettercela tutta per fare informazione libera e indipendente.

Ad oggi, dieci anni dalla fondazione, la vostra produzione vanta diverse centinaia di titoli suddivisi in dieci collane. Un risultato ammirevole, per una casa editrice indipendente. Chi ti affianca nel lavoro quotidiano?
I titoli sono poco più di duecento, a cui si aggiungono diversi e-book inediti. Per una piccola casa editrice non a pagamento e indipendente ventidue libri l’anno di media sono veramente molti. Pensa che siamo partiti, il primo anno, con sette titoli, tre dei quali subito ristampati, uno più volte. Nel 2015 pubblicheremo trentuno titoli inediti sia in formato cartaceo sia in e-book, più quattro o cinque e-book inediti. Uno sforzo enorme, soprattutto in tempi durissimi di crisi come quelli che stiamo vivendo in Italia almeno dal 2012. Nel 2016 è probabile che ci assesteremo tra i ventotto e i trentadue titoli.

In casa editrice lavorano fisse tre persone, più alcuni collaboratori, per ora. I costi crescono e complessivamente le copie vendute diminuiscono, in questo 2015 da vivere in trincea.
Arriverà forse il momento in cui dovremo rivedere quei numeri. Speriamo di no. E in ogni caso, se non si possono pagare gli stipendi, i primi a non essere pagati sono del pazzo che ha buttato giù piano editoriale e piano industriale di questa avventura, ovvero il sottoscritto.

Nessuno tra chi gestisce il Paese sembra rendersene conto, ma nel settore da anni è in corso un’emorragia di professionalità, che molto spesso non riesce a ritrovare collocazione. È uno spreco immenso in termini oggettivi, e una tragedia per molte persone e famiglie in termini soggettivi. Però nessuno fa nulla e il ministero preposto all’uopo naviga per ora nel buio.

Luca Leone

Luca Leone

Quali sono le difficoltà maggiori che vi trovate ad affrontare come editori indipendenti, e quali le maggiori soddisfazioni?
Il nostro è un lavoro difficile anche perché non ci sono politiche a favore della cultura, in questo nostro Paese. Il governo è completamente disinteressato al mondo dei libri e i grandi editori sono riusciti a sprecare la grande occasione che arrivava dalla crisi, per poter finalmente rinnovare un po’ un ambiente stantio e ammuffito, in molti aspetti fermo agli anni Settanta del Novecento. Invece la crisi finirà – se e quando finirà, almeno in editoria – con una concentrazione oligopolistica che mette seriamente in crisi la bibliodiversità e con una serie infinita di editori falliti o sull’orlo del baratro.

Inoltre, la filiera dovrebbe essere completamente ristrutturata e invece nulla va in questa direzione. Anzi, i costi per gli editori crescono e ormai le percentuali che lasciamo a librerie e distributori sono così alte – probabilmente le più alte in Europa – che sarà sempre più difficile saltarci fuori. Mancano politiche intelligenti di riforma del settore: fin qui abbiamo solo avuto la riduzione dell’IVA sugli e-book, che rappresentano una percentuale infima del fatturato complessivo (siamo intorno al 3 per cento) e che si trova sub judice in sede di Commissione europea. Nulla di più. Solo concentrazione editoriale, mentre i distributori sono in difficoltà coi pagamenti e gli stessi grandi gruppi che stanno concentrandosi spesso sono in drammatico ritardo coi pagamenti delle fatture.

Altra difficoltà non indifferente è data dalla percezione del libro che si ha in questo Paese. Gli italiani non leggono, gli uomini in particolare. Ed è inquietante sentire persone di quaranta o cinquant’anni di sesso maschile vantarsi del fatto che non leggono, che non sono interessate, che “la vita è già abbastanza difficile così, se mi metto pure a leggere…”. Questa auto-esaltazione del “sono ignorante e ne sono fiero” è figlia delle scelte politiche degli ultimi decenni, di una scuola in cui troppo spesso tanti insegnanti interpretano la loro missione come semplicemente orientata al giorno di “San Paganino”, ma anche di molte scelte sbagliate di noi editori, di ogni grandezza.

L’editoria italiana sta vivendo una crisi strutturale, e per uscirne è necessario uno sforzo condiviso da parte di noi editori, del governo, del mondo della scuola, che deve insegnare ai ragazzi che i libri sono amici per la vita, e dei librai, che devono coltivare l’amore per la lettura dei propri clienti.

All’estero si parla ciclicamente della morte della saggistica. Sicura che eviterai termini tanto catastrofici, puoi darci il tuo punto di vista riguardo la lettura di saggistica in Italia?
I dati della saggistica in Italia sono in calo, ma lo stesso vale anche per gli altri generi. In Italia le lettrici per antonomasia, e cioè le donne, continuano a leggere saggistica e a voler essere aggiornate. Sono gli uomini il dato drammatico del Paese. Non direi che la saggistica stia morendo. Giustamente i lettori vogliono ottima saggistica e ottimi reportage giornalistici, e hanno ragione. Noi lavoriamo costantemente per questo e i risultati non sono così sconfortanti, nonostante il fisiologico calo delle vendite indotto dalla crisi economica, civile e sociale del Paese.

Nella produzione di Infinito edizioni, un’attenzione privilegiata è dedicata ai Balcani, in particolare alla Bosnia. Prima di partire per un viaggio in quelle zone avevo letto, tra gli altri, Sarajevo mon amour di Jovan Divjak, ex militare serbo che ha dedicato la vita ad aiutare gli orfani di guerra. Si tratta di una lettura illuminante per capire la situazione del Paese. Puoi raccontarci da cosa è nato questo interesse?
La Bosnia Erzegovina è un Paese stupendo, abitato da persone speciali, distrutto da una guerra voluta da poteri nazionalisti e mafiosi con la connivenza europea e di altri Paesi extraeuropei. La Bosnia è stata un laboratorio dell’orrore tra i più spaventosi, a due passi da casa nostra, e continua a essere un luogo di dolore, d’incomprensione e di conflitto perché chi avrebbe potuto e dovuto farlo non ha voluto risolvere i problemi che hanno provocato il conflitto e anzi li ha lasciati solidificare, come nella pietra. Oggi il Paese è in mano a cosche nazionaliste tra le più agguerrite e cattive e deve essere raccontato. Se non altro perché la Bosnia è lo specchio del nostro Paese e dalla Bosnia potremmo imparare molto di noi, se lo volessimo, per essere se non migliori, almeno un po’ meno peggio di quanto siamo.

Proprio in questi giorni si sta ricordando il genocidio di Srebrenica, avvenuto vent’anni fa davanti agli occhi della comunità internazionale quasi inerme. Uno dei long-seller di Infinito edizioni è proprio il tuo Srebrenica. La giustizia negata, che stai presentando di nuovo in questi giorni. Vuoi raccontarci la genesi di questo importante libro?
Srebrenica. I giorni della vergogna è stato il primo libro pubblicato dalla nostra casa editrice. Avrei dovuto farlo uscire con un’altra casa editrice ma ne ritardai l’uscita perché avvertivo l’esigenza di mettermi in gioco completamente, diventando io stesso editore e pubblicandolo con Infinito. La scelta è stata giusta. A oggi ne abbiamo vendute oltre diecimila copie ed è considerato in termini assoluti un punto di riferimento sull’argomento. Il che è molto importante, perché nel corso degli anni in Italia è uscita la traduzione di un paio di libri negazionisti, offensivi e vergognosi che danno agli italiani informazioni del tutto fuorvianti, come peraltro si è affrettata a fare certa stampa anche in questo luglio del 2015, purtroppo. Il libro è uscito per il decennale del genocidio e ancora oggi rappresenta un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si interessi a questo argomento.

Per il ventennale del genocidio ho proposto al mio amico Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, di scrivere un nuovo testo, diverso in tutto: contenuti, taglio, stile. È nato così Srebrenica. La giustizia negata, che sta andando molto bene e che dal 29 aprile stiamo presentando in tutta Italia, con date già fissate fino a dicembre. È un omaggio in più a un popolo che ha bisogno di essere sostenuto e di non essere dimenticato, è un lavoro che vuole continuare a fare memoria in modo corretto ed è anche un libro scaturito dal bisogno profondo di non rischiare di essere cittadini passivi, ma di voler essere a tutti i costi e sempre cittadini attivi e critici. Perché la strada, l’unica, per un futuro e un Paese migliori è questa, soprattutto in momenti difficili come quello che stiamo vivendo.

In occasione della fiera milanese dedicata all’editoria indipendente Book Pride ho conosciuto il tuo I bastardi di Sarajevo: ti sei cimentato in un’opera di narrativa “in presa diretta”, raccontando un affresco di Sarajevo grazie alle voci dei tanti personaggi che la vivono. In quali casi e in che modo, secondo te, può la narrativa offrire uno spaccato di un Paese che arriva talvolta più in profondo rispetto alla saggistica?
Noi da anni diamo spazio al romanzo storico che, se ben scritto, può dare al lettore due grandi valori: un’informazione storica corretta e approfondita e la possibilità di sognare.

Io credo molto nel mio I bastardi di Sarajevo e sogno un giorno di poterlo vedere trasposto in teatro. Ho avuto ottimi riscontri, non solo di vendite ma anche di critica. È stato un libro che mi è costato oltre tre anni di lavoro e che mi ha fatto mettere in gioco come non mai. Scrivendolo, poi, ho potuto sperimentare la libertà espressiva della narrativa, nel mio caso il noir storico contemporaneo, rispetto alla saggistica e al reportage. La narrativa sa darti molta più libertà, in particolare nel linguaggio. È quello che ho provato a fare io, a cominciare dallo stile che ho deciso di usare: presa diretta, nessun narratore, dialoghi senza alcuna censura. Ho in mente da tempo un altro romanzo, sempre ambientato in Bosnia, e magari tra qualche mese troverò il coraggio di cominciare a metterlo su carta. Per ora i personaggi vivono nella mia testa e i dialoghi, giorno dopo giorno, si fanno sempre più netti.

copertina+I+bastardi+di+Sarajevo

Fare narrativa in Italia è un rischio, soprattutto per gli esordienti. E comunque, che nessuno pensi di poter vivere facendo lo scrittore: scrivere oggi non deve essere un modo per fare soldi, ma una strada, forse la principale, per esprimersi, raccontarsi, fare positivamente politica attiva. La scrittura ha da sempre un ruolo sociale e politico. Bisogna battersi affinché tutto questo non venga distrutto, insieme all’intera filiera.

Nell’immagine di copertina: Potočari: 600 bare contententi le vittime del massacro Srebrenica, che attendono una sepoltura. Tarik Samarah/War Photo Limited. In mostra a Dubrovnik, Srebrenica – genocide 11/07/95

FUORI STRADA – Jenny Offill – Sembrava una felicità (NN editore)

FUORI STRADA – Rubrica di approfondimento della piccola e media editoria “extra-capitolina”

di Elena Refraschini

Sembrava_una_felicitàUna premessa: il romanzo di Jenny Offill Sembrava una felicità, prima uscita di NN editore, mi sta tenendo compagnia da diverse settimane. È un libro brevissimo che, se necessario, si potrebbe leggere in un paio d’ore; 150 pagine, e con moltissimi spazi vuoti.
Il problema – se così si può chiamarlo – è che questo romanzo, più di altri, conserva una parte di sé solo per le letture successive alla prima. Ed è così che mi sono ritrovata, all’incirca alla quarta rilettura, a scoprire piccole gemme disseminate qua e là nella frammentata narrazione di Offill. Non c’è romanzo migliore di quello che non si svela mai del tutto.

La storia è piuttosto semplice, quasi banale: una donna – mai chiamata per nome, come i pochi altri personaggi – vuole diventare un mostro di scrittura; giura che non si sposerà mai: «Per anni ho tenuto un post-it sopra la mia scrivania. “Pensa al lavoro non all’amore!”. Sembrava una felicità più consistente.».
Scrive un libro, ma poi si sposa, ha una figlia, nel frattempo insegna e ha difficoltà a conciliare le sue esigenze con le aspettative di chi la circonda, che sia avere un secondo figlio o scrivere il secondo libro, poi attraversa una crisi detonata dal tradimento del marito, ne esce. Una storia raccontata già migliaia di volte, in diversi luoghi e diverse epoche.

Ciò che rende speciale Sembrava una felicità è il modo in cui la storia è narrata: piccoli frammenti come quello riportato sopra reggono l’intera architettura del romanzo, che costringe il lettore a saltare di scena in scena alla ricerca di un senso che tenga legata tutta l’opera. «Se il solito libro è un corpo – ha affermato l’agente Sally Wofford-Girand vendendo i diritti del romanzo a Knopf nel 2013 – questo è una lastra a raggi X».

Questa scrittura, evidente anche a livello tipografico perché fatta da brevi paragrafi separati l’uno dall’altro da spazi bianchi, è il risultato di un possente lavoro di sottrazione (“passo molto tempo a studiare come dire il più possibile con il meno possibile”). L’autrice stessa – che non a caso insegna scrittura creativa alla Columbia – all’inizio aveva pensato a un romanzo incentrato su un secondo matrimonio, narrato dal punto di vista della figlia e della seconda moglie; la struttura, però, e la scrittura, erano ancora “tradizionali”.
Il punto di svolta è arrivato quando ha cominciato a scrivere appunti e abbozzi su piccole schede sparse: così ha pensato che si potesse scrivere una storia raccontando, in frammenti, le minuzie, i drammi, le conquiste della vita domestica, emotiva e professionale, lasciando al lettore il compito di ricomporre il puzzle. Una deliberata discontinuità, dunque, impreziosita da citazioni letterarie (Coleridge, Esiodo, Keats, Frost, Eliot), riferimenti alla cultura popolare (ninne nanne, Sweet Home Alabama) e parecchi riferimenti al mondo delle scienze e della filosofia, per arrivare a una sorta di nuovo “romanzo delle idee”. Una vicenda intima che diventa, di sottecchi, universale.

A dispetto del suo carattere sperimentale, il romanzo è limpido e a tratti persino divertente, come succede in questo passaggio in cui la coppia cerca di ritrovare un equilibrio dopo il tradimento di lui: «Di notte, stanno distesi a letto tenendosi per mano. A volte, mentre sono così, la moglie riesce a fare il dito medio al marito senza che lui se ne accorga.». Questa seconda citazione ci consente di osservare la gestione da parte dell’autrice del punto di vista.

Jenny Offill

Jenny Offill

All’inizio della relazione, quando la scrittrice incontra l’autore del programma radiofonico che manda in onda suoni, i pronomi sono quelli delle relazioni intime, “io”, “tu”: «Avevo imparato che non temevi il maltempo. Volevi sempre andare in giro per la città a registrare, con la pioggia, la nebbia o la neve. Mi ero comprata un cappotto più caldo. Con tante tasche comode in cui tu infilavi sempre le mani.».
Quando i due si sposano e assumono ruoli più convenzionali, si passa ai “io”, e “lui”, “mio marito”. «Mio marito le legge il libro ogni sera, compresa tutta la pagina del colophon molto, molto lentamente.».
Quando la coppia si sgretola e si perde la sicurezza dell’amore e delle convenzioni, il narratore osserva ciò che succede dall’alto, e gli attori diventano “la moglie”, “il marito”, “la figlia” (è curioso notare, tra l’altro, che la scena in cui la moglie incontra l’amante del marito è l’unica che non procede per frammenti, ma narrata come se fosse il compito di uno degli studenti del suo corso di scrittura): «Alla moglie viene consigliato un libro sull’adulterio. Fa tre isolati di metropolitana per andare a comprarlo. Il titolo è tremendo e la sola idea di leggerlo la fa sentire in imbarazzo. Così, lo nasconde in giro per la casa con lo stesso fervore con cui si nasconderebbe una pistola o un chilo di eroina. Nel libro, lui viene chiamato il partner traditore e lei il partner tradito.
Tra le tante altre cose, ce n’è una in particolare che la fa morire dal ridere. È una nota a piè di pagina su come le diverse culture cercano di ricucire il matrimonio dopo un tradimento. In America il partner traditore passa una media di 1000 ore a elaborare il fatto con il partner tradito. È il tempo necessario. Quando lo legge, si sente molto dispiaciuta per suo marito. Che è solo a «515 ore.».
Il narratore torna a un più intimo “noi” solo quando, lontana dall’ambiente urbano di New York, la coppia proverà a curarsi le ferite.

Sembrava una felicità è stato nominato da diversi quotidiani statunitensi tra i migliori libri del 2014 (tra questi, il «New York Times Book Review») ed è entrato nella shortlist per il Folio Prize quest’anno. Nonostante il suo carattere sperimentale, infatti, i diritti sono stati vinti da Knopf a seguito di un’asta a cui hanno partecipato altri sette editori: Jenny Offill ha ottenuto, secondo il «New York Times», un contratto per due libri dal valore di 500.000 dollari.

Coerentemente con la sua filosofia di voler portare in Italia opere rimaste “orfane”, NN editore presenta Sembrava una felicità in una veste editoriale molto elegante e curata, arricchita inoltre da diversi paratesti, sia cartacei sia online: da una parte, una interessante Nota del traduttore a cura di Francesca Novajra, che ci lascia intravedere il lavoro di precisione dietro a una traduzione riuscita; dall’altra, visitando la pagina dedicata al romanzo nel sito di NN editore, si trovano informazioni dal “dietro le quinte” della pubblicazione, insieme a qualche suggerimento sulla musica da ascoltare durante (o dopo) la lettura.
Uno storytelling, come va di moda dire ora, legato non solo al romanzo ma anche alla sua gestazione, che crediamo otterrà il favore di tanti lettori alla ricerca di approcci nuovi alla lettura.
Sembrava una felicità ha trovato una famiglia anche qui, e non possiamo che esserne felici.

Nota sull’autore
Jenny Offill, nata nel Massachussetts nel 1968, insegna alla Columbia. Il suo primo romanzo, Last Things (1999) è stato pubblicato da Farrar, Straus and Giroux ed è stato un New York Times Notable Book. È autrice anche di diversi libri per bambini. I diritti del suo secondo romanzo Sembrava una felicità sono stati venduti, oltre che in Italia, anche nel Regno Unito (Granta/Portobello), in Francia (Calmann Lévy), in Germania (DVA), in Olanda (De Geus), in Brasile (Novo Conceito) e in Turchia (Domingo). Vive a New York con il marito e la figlia Theodora.

Sembrava una felicità di Jenny Offill
Traduzione dall’inglese di Francesca Novajra
NN Editore, 2015
pp. 262, 16€.

FUORI STRADA – NN editore, la nuova realtà editoriale milanese

FUORI STRADA – Rubrica di approfondimento della piccola e media editoria “extra-capitolina”

di Elena Refraschini

Dalla settimana scorsa sono in libreria le prime due uscite di NN editore, nuova realtà editoriale milanese.
NN sta per nescio nomen, espressione che in passato serviva a identificare gli orfani. Nessun riferimento, però, a una società senza padri e senza valori: quella di NN è un’affermazione di libertà – libertà di percorrere nuove strade, di trovare nuovi punti di riferimento. Una volontà che si riscontra sia nella scelta degli autori da pubblicare, sia nella pratica editoriale.

In attesa di parlarvi dei loro libri, chiacchieriamo di quest’avventura con alcuni dei protagonisti: Eugenia Dubini, editore, e Alberto Ibba, amministratore.

Eugenia Dubini

Eugenia Dubini

In tempi di metamorfosi digitale per l’editoria, di self-publishing, di rivoluzione e crisi dell’intera filiera, perché avete sentito l’esigenza di fondare una nuova casa editrice?
La crisi cambia rapporti e relazioni, scioglie nodi e risacche, la crisi è un’opportunità. I momenti di crisi sono spesso momenti anche molto vitali, di energiche spinte al cambiamento, di innovazione e di slancio. Nella crisi si aprono opportunità. Entrare oggi sul mercato senza avere una pesante eredità e senza dover sostenere una struttura rigida, creando al contrario una struttura snella e flessibile, concede un altro sguardo e altri mezzi per fare il nostro ingresso nel panorama editoriale. Lo sguardo è disincantato, i mezzi non sono solo quelli economici, quindi, ma strategici e di posizionamento, e sono anche molto umani: il nostro non essere una grande macchina strutturata in sezioni e livelli e competenze che spesso non riescono nemmeno a comunicare tra loro o che vengono troppo rapidamente sostituiti, valorizza la professionalità di ognuno, permette di non sprecare risorse, e concede progetti e strategie di ampio respiro. Nella pratica, per noi significa valutare ogni cambiamento in atto nel panorama editoriale e renderlo un alleato in tutte le fasi dell’ideazione, creazione, promozione, diffusione e vendita dei libri. Ad esempio: cambia la fruizione, non più solo legata al cartaceo; si apre la sperimentazione di nuovi format e linguaggi; si accede a nuove comunità e reti di pubblico; si utilizzano strategie innovative nella comunicazione dei libri. E della lettura, più che dire che è drammaticamente in crisi, preferiamo indagare le nuove forme che sta prendendo.

Le vostre prime uscite saranno la Trilogia della pianura di Kent Haruf (il primo volume, Benedizione, è in libreria dal 19 marzo) e Sembrava una felicità di Jenny Offill. Cosa accomuna le opere che fanno parte del vostro catalogo e cosa possiamo aspettarci nel futuro?
Abbiamo chiamato la nostra casa editrice NN dal latino nomen nescio, che vuol dire nome sconosciuto. Nel passato era il marchio che veniva usato per indicare i figli senza padre, gli orfani, i figli di nessuno. Oggi lo siamo tutti, figli di nessuno, in un modo o nell’altro. E le opere che pubblicheremo avranno in comune una riflessione attorno al concetto di identità, SembravaUnaFelicitàindividuale e collettiva, nel contemporaneo. Questo per noi non significa una condanna, una lamentela, o l’ennesima declinazione del concetto di società senza padri, senza ideologie, senza valori. Bensì un attestato di libertà: la libertà di scegliere nuovi riferimenti, di percorrere strade diverse, di trovare nuove radici così come nuovi orizzonti. Così come di provare a portare ai lettori italiani autori qui da noi inspiegabilmente rimasti “orfani” di editore. È il caso dei nostri due primi autori, Kent Haruf e Jenny Offill, sconosciuti da noi e considerati capolavori negli Stati Uniti. L’identità è un tema letterario, da sempre. E noi pubblicheremo romanzi letterari, italiani e stranieri, e in seguito apriremo alla saggistica. La nostra speranza è riuscire a proporre delle serie di libri veri, che abbiano qualcosa da raccontare, che emozionino, che divertano, che facciano riflettere, che portino avanti idee, immaginari, e parole ben scritte. Come ha detto Gian Luca Favetto, che ha ideato con noi la collana ViceVersa: «Per recuperare le parole leali, anzi le parole e le ali, per volare con parole oneste che dicano le cose e i sentimenti senza truccarli, per nominare le cose e farle esistere». In due parole: abbiamo scelto un nome che potesse contenere e riflettere in una sigla tutte le nostre considerazioni sul fare editoria oggi, e una sede che potesse diventare nel tempo aperta e condivisa: una casa, oltre che una casa editrice.

Quanti libri intendere pubblicare all’anno?
Dai 12 libri ai 15/16 libri l’anno. Un numero limitato per seguirne con cura il percorso fino al lettore.

Qual è il vostro rapporto con le librerie? Vi affidate a un distributore o preferite andare di persona a promuovere i vostri libri?
NN è promossa e distribuita da Messaggerie. Fin dove possibile andremo direttamente a parlare con i librai, ed è nostra intenzione organizzare varie iniziative attorno ai libri insieme a loro, oltre alle più canoniche presentazioni con gli autori.

Qualche tempo fa in un’intervista avete espresso la volontà di staccarvi dal concetto di “collana” per proporre una suddivisione in “serie”, che punta al lettore-consumatore fedele di prodotti seriali televisivi: per questo è stata pensata la serie “ViceVersa”, che sarà curata da Gian Luca Favetto. Potete dirci qualcosa in più?
Tutti i nostri libri saranno organizzati in serie e non in collane. Le serie televisive ormai sono un prodotto culturale diffuso, capace di attirare consumatori di tutti i generi. Nelle serie televisive si stanno sperimentando scritture e formati innovativi e per questo sono interessanti per noi da osservare, come un bacino di sperimentazione di linguaggi. L’idea di proporre i nostri libri in serie e non in collane ci consente di anticipare al lettore le nostre scelte, di dichiararle e di proporre un percorso di lettura. I nostri libri indagheranno un tema specifico, avremo per ogni serie delle parole chiave che ne definiranno il soggetto, e non faremo divisioni di genere, come spesso si fa – una collana di gialli da una parte e una di romanzi letterari dall’altra – e neppure un divisione per provenienza degli autori. Immaginiamo un lettore curioso e affamato, capace di muoversi tra generi e scritture e media con disinvoltura, seguendo i propri interessi e le proprie domande. La serie ViceVersa è un progetto immaginato dalla casa editrice, con Gian Luca Favetto e gli autori che ne faranno parte. Abbiamo proposto un soggetto, e chiesto a ciascuno di scrivere un romanzo breve, non un saggio, che lo esplorasse secondo la propria sensibilità, stile e genere narrativo. Non esattamente una scrittura commissionata, dunque, più una collaborazione di intenti nel rispetto dell’autorialità di ciascuno dei partecipanti. Il tema della serie ViceVersa sono i vizi e le virtù, e come è cambiata, slittata, a volte capovolta, la loro identità nella società attuale, rispetto alle originarie classificazioni canoniche. I primi autori della serie sono Tommaso Pincio, Rosa Mogliasso, Antonella Cilento, Elisabetta Bucciarelli.

Alberto Ibba

Alberto Ibba

Lavorare oggi nell’editoria risulta sempre più difficoltoso e oneroso. Quello dell’editoria è il settore meno regolamentato e tutelato dal punto di vista di chi vorrebbe farne parte. La vostra casa editrice come è organizzata, quante persone vi lavorano?
Dal punto di vista della regolamentazione del lavoro, l’editoria non ha regole diverse dagli altri settori. Ci sono alcune agevolazioni legate allo sviluppo, all’imprenditoria femminile, all’innovazione, ma sono canali cui non è sempre facile accedere. In NN lavora il gruppo di start up del progetto, siamo in quattro, e collaboriamo con molte altre figure professionali: gli autori, l’ufficio stampa, i social media manager, i redattori, i traduttori, i lettori, i correttori di bozze, gli illustratori e i fotografi, i giornalisti e uno studio grafico. Sarebbe interessante porre queste domande a chi da sempre lavora nell’editoria da collaboratore esterno e free lance, perché le nuove regole del mercato del lavoro hanno reso molto difficile dare un inquadramento a queste forme di collaborazione, e soprattutto una continuità a questi apporti fondamentali per l’editoria. Noi puntiamo, e finora ci sembra di avere iniziato bene, a creare un gruppo di persone di riferimento personalmente molto motivate, riconoscendo a ciascuno il proprio lavoro. Per fare un piccolo esempio, che sappiamo essere una lotta di categoria da sempre: i traduttori sono sempre citati, gli diamo sempre uno spazio nei libri (una Nota del traduttore) per parlare al lettore del lavoro che personalmente hanno svolto nella traduzione del romanzo, e abbiamo deciso di inserire sempre la loro biografia insieme a quella dell’autore in bandella.

In che modo le vostre copertine veicolano l’identità di NN editore? Quali sono le idee che ispirano la grafica della casa editrice?
La grafica di NN è stata curata da Mario Piazza di 46xy. NN è diventato uno spazio vuoto da riempire, saranno le immagini e i testi a dare corpo a questo vuoto massiccio, che è la nostra ricerca e che cerchiamo di indagare con i nostri libri. Su ogni copertina, così, apparirà questa grande N che verrà occupata dall’immagine, e riempita del senso e del contenuto del libro. Ogni serie avrà una sua identità grafica, e tra un libro e l’altro della stessa serie si creeranno dei legami visivi.

Di che cosa hanno bisogno gli editori in Italia (per esempio nuove leggi sull’editoria, finanziamenti, iniziative di promozione del libro, eccetera)?
Più che gli editori è l’Italia che ha bisogno di una politica che rimetta al centro la cultura. Per farlo però non bisogna calare dall’alto progetti di facciata (molto spesso dispendiosi  e autoreferenziali)  ma lavorare sul territorio, incentivare l’apertura di nuovi spazi culturali, coinvolgere scuole e biblioteche, introdurre il libro nei format televisivi.

HarufBenedizioneMilano, da capitale mondiale del cibo a capitale italiana del libro. Da marzo a ottobre 2015 Milano sarà infatti la prima Città del Libro e della Lettura italiana. Iniziative di questo genere servono veramente a promuovere la lettura?
Sì, serve tutto quello che porti il libro più vicino al lettore, che informi e che veicoli le parole leali.

Non ci resta che ringraziare Eugenia Dubini e Alberto Ibba per la loro disponibilità. Un grande in bocca al lupo a tutto lo staff di NN da parte di Via dei Serpenti!

Sembrava una felicità di Jenny Offill e Benedizione di Kent Haruf sono in libreria dal 19 marzo. Prossimamente in arrivo Le prime quindici vite di Harry August di Claire North  e Una spiaggia troppo bianca di Stefania Divertito.

Il sito web di NN editore
Pagina facebook

Intervista a Iacopo Barison

FUORI STRADA – Rubrica di approfondimento della piccola e media editoria “extra-capitolina”

di Emanuela D’Alessio

Iacopo Barison

Iacopo Barison

Iacopo Barison ha venticinque anni, è piemontese, la sua grande passione è il cinema, nel frattempo sta riscuotendo un grande successo come scrittore. Gli piace dormire fino a tardi, girare a vuoto nei centri commerciali, andare a mangiare fuori. Prima di Stalin+Bianca, il secondo titolo della nuova collana di narrativa di Tunué, nel 2010 ha pubblicato 28 grammi dopo (Voras)  tratto dal suo blog.
Sul suo comodino c’è in questo momento il fumetto The Walking Dead, prima di addormentarsi non vuole impegnarsi troppo.

Prima di tutto vorrei togliermi una curiosità. Hai mai visto un arcobaleno?
Sì, dalle mie parti capita abbastanza spesso. L’ultimo, se non sbaglio, risale a una decina di giorni fa. Ho anche provato a fotografarlo, però è venuto uno schifo, era tutto sfocato.

Bene, ora possiamo iniziare. Quali aggettivi sceglieresti per descrivere Iacopo Barison?
Mah, è una domanda difficile. Se dovessi descrivermi come individuo, tralasciando quindi la scrittura, direi che sono pigro (mi piace dormire fino a tardi) ma anche determinato e molto ambizioso.

Hai venticinque anni e già sei al secondo romanzo con Stalin+Bianca, dopo aver pubblicato a vent’anni 28 grammi dopo (Voras). Quando hai capito che lo scrivere sarebbe stato l’unico modo (o uno dei possibili) di dare senso alla tua vita?
 Questa cosa non l’ho mai detta, è una specie di confessione. In pratica, quando avevo diciotto anni, soffrivo d’ansia e vivere era piuttosto difficile. Non che meditassi il suicidio, intendiamoci, però faticavo a costruirmi una routine accettabile. Anche le cose semplici, come uscire di casa e divertirmi, oppure andare regolarmente a scuola, diventavano insormontabili. In quel periodo, appunto, ho iniziato a scrivere e ho conosciuto la mia attuale fidanzata. Due eventi che mi hanno “salvato”, non saprei trovare un’altra parola. Pian piano, nel corso del tempo, ho imparato a gestire l’ansia. La scrittura e l’amore funzionano in modo simile, ti ci aggrappi nei momenti bui e perciò hanno un valore terapeutico.

barison_tg5Stai riscuotendo un grande successo, senz’altro meritato. Lo speravi, lo prevedevi, come lo stai gestendo?
Credevo e credo tuttora nel mio romanzo, però non me l’aspettavo. Stalin + Bianca ha fatto e sta facendo miracoli, diventando un piccolo caso editoriale. Alcuni l’hanno etichettato come un romanzo generazionale, altri come una storia d’amore, altri ancora come un romanzo di formazione. Quello che mi dà più gioia, al di là delle etichette, è che Stalin e Bianca sono riusciti a “parlare” a un pubblico molto vasto, anche anagraficamente. Credo che questo romanzo abbia diversi livelli di lettura. Ognuno sceglie e si ferma al livello che preferisce, non è necessario scavare in profondità. Ho ricevuto email di complimenti da ragazzi e ragazze giovanissimi, oltre che splendide recensioni da parte di critici autorevoli. Queste due cose, però, le metto sullo stesso piano, mi fanno piacere allo stesso modo. Poi, vabbè, andare al TG5 è stata un’esperienza strana, per certi versi onirica. È incredibile come la televisione riesca a condizionarci e a condizionare il pubblico. Mi sono arrivate decine e decine di messaggi, anche da parte di gente che non sentivo da anni. È ridicolo, per certi versi. Fino al momento prima, se ne fregavano della mia scrittura o la vedevano come una specie di gioco, di passatempo per non fare nulla di serio. Poi, dopo il TG5, hanno cambiato totalmente idea. Adesso ero legittimato, ero diventato uno scrittore vero. Comunque sono molto contento, gestisco questi traguardi senza pensarci troppo. Me li godo per ventiquattro/quarantotto ore, poi li dimentico e vado oltre, per aggirare il rischio di diventarne schiavo.

Forse ti risulterà banale questa domanda: perché scrivi? Provo a spiegarmi meglio: scrivi per te stesso, per soddisfare una tua personale esigenza (catartica, terapeutica) o per il lettore, per creare ponti, trasferire idee, avviare un dialogo e quindi ricevere risposte?
Sarò sincero, ho iniziato a scrivere per non lavorare. Poi mi sono accorto che mi faceva stare bene, che influiva positivamente sul mio stato d’animo. Era ed è tuttora un modo per sentirmi completo, per definirmi come individuo. Inoltre, col tempo, sono arrivati i lettori, e mentirei se dicessi che non scrivo per loro. Certo, la scrittura è una cosa intima, personale, ma sono i lettori a darle un significato, a chiudere realmente il cerchio. Altrimenti l’editoria non esisterebbe, e tutti noi scriveremmo dei diari e poi li chiuderemmo nei cassetti a prendere polvere. Insomma, si può dire che io abbia un grande rispetto per i lettori.

Fabio Mollo

Fabio Mollo

I tuoi studi si sono concentrati sul cinema, ti sei laureato al DAMS, nel romanzo ci sono molte citazioni di film e registi, Stalin, il protagonista si porta sempre dietro una videocamera digitale, “la sua coperta di Linus”. In quale rapporto sei con il cinema? Passione da tempo libero? Amore non corrisposto?
Il cinema è una mia grande passione, ma non nego che vorrei farne un lavoro. O meglio, che vorrei provare a lavorare in quell’ambito. Guardo valanghe di film. Una volta riuscivo a vederne molti di più. L’uscita di Stalin + Bianca, purtroppo, sta mangiando tutto il mio tempo libero, ma in fondo va bene così. Ho tratto una sceneggiatura da un mio breve racconto. Se tutto andrà come deve andare, Fabio Mollo dirigerà un cortometraggio da questa storia. Lui è un regista che apprezzo molto, è bravo e giovane e talentuoso. Eppure il mondo del cinema è complicato, si tende a navigare a vista. Questo perché di mezzo ci sono i soldi, e i soldi sono sempre un ostacolo. La letteratura è molto più democratica. Il cinema, però, anche in relazione a quello che scrivo, è una grande fonte d’ispirazione, forse la principale.

Stalin+BiancaDi Stalin+Bianca hanno detto che è un romanzo “ipermoderno”, “contemporaneo”, “veloce”, “di formazione”, “on the road”. Provo una discreta insofferenza per le categorizzazioni e non riesco a trovarne una che racchiuda tutto quello che ho percepito leggendo il libro. Puoi provare tu a dirci che libro hai scritto?
Volevo scrivere, innanzitutto, una storia semplice e lineare, che raccontasse l’amore fra due adolescenti con diversi problemi. Tutto il resto è venuto dopo.

Al centro della scena ci sono loro, Stalin e Bianca, due diciottenni che decidono di andarsene da casa, per fuggire, per cercare altro. Sullo sfondo ci sono numerose comparse, ragazzi come loro, in fuga, in viaggio, o semplicemente alla deriva. Su nessuno ti soffermi più di tanto, non fornisci un profilo né un nome, ad eccezione di Jean, l’anziano custode del campo di calcio che incontriamo all’inizio della storia. In realtà è Stalin a chiamarlo così, gli ricorda l’attore Jean Gabin. Chi è Jean?
Jean è un vecchio depresso, che sfrutta Stalin per fargli fare dei lavori “sporchi”, più o meno legali. Si illude che la rabbia del protagonista funzioni a comando, eppure non è così. Stalin è un personaggio sfaccettato, che perde la testa ma poi lotta con il senso di colpa.

Sconcertante l’assenza o la rappresentazione negativa (al limite del grottesco) delle figure genitoriali. Stalin non ha conosciuto il padre e detesta profondamente il patrigno, con la madre ha dei problemi; dei genitori di Bianca si sa pochissimo, così come di tutti quelli che sono stati lasciati alle spalle. Sembra una condanna senza appello della famiglia (come istituzione), degli adulti come genitori e in generale (anche Jean, l’altro adulto della storia, in fondo è una figura opaca e incomprensibile). È così che appaiono gli adulti ai loro “figli”?
Questa è una cosa che mi hanno detto in molti. Sembra che io sia stato impietoso col mondo degli adulti, ma ho trattato allo stesso modo sia Stalin che Bianca. Il primo, ad esempio, è un personaggio sempre in bilico, conteso fra l’amore e la rabbia, fra la purezza di Bianca e lo schifo del mondo che lo circonda. Quasi tutti i personaggi, nel corso del romanzo, commettono almeno un errore, finendo per tradire loro stessi e quello in cui credono. È una cosa che accade spesso, perlomeno nella vita reale. Ho l’impressione che la mia generazione goda di troppa libertà, che sia abbandonata a se stessa. Il lato positivo delle dittature è che almeno sai quello che devi fare. Questa frase è una provocazione, intendiamoci, ma nasconde un fondo di verità. È come se i nostri genitori ci avessero lasciati da soli a casa, liberi di poter bere e fumare e drogarci e fare l’amore. È come se, dietro a una patina di perbenismo, ci fosse concessa qualunque cosa. Tutta questa libertà è inquietante, per certi versi. Ti confonde e ti impedisce di avere dei punti di riferimento. Siamo bloccati nella casa di Mamma, ho perso l’aereo. Siamo come Kevin McCallister, soltanto che alla fine i nostri genitori non tornano, e la nostra anarchia prosegue in una specie di loop infinito.

Nel romanzo “non” ci sono molte cose, ad esempio manca qualsiasi riferimento spaziale e temporale, tutto si svolge in una dimensione delocalizzata. Il tempo scorre scandito dagli spostamenti di Stalin e Bianca, dall’avvicendarsi del giorno e della notte, senza altri riferimenti temporali. Non ci sono luci e colori, ma un’atmosfera di perenne penombra o oscurità. Non c’è quasi mail il sole, ma neve, ghiaccio, pioggia e una costante sensazione di freddo. Insomma, scelte nette di prospettiva che lasciano al centro della scena pienamente a fuoco solo Stalin e Bianca. Tutto voluto? e perché?
Sì, non ho voluto dare riferimenti precisi, né geografici né temporali, in modo che il lettore potesse inserirsi nel testo e proiettarci sopra la sua esperienza, il suo vissuto, la sua visione del mondo. Mi spiego meglio: questa nazione che io non nomino mai, per qualcuno è un luogo immaginario, per qualcun altro è l’Italia, per altri ancora l’Inghilterra o gli Stati Uniti. Stesso discorso per la cronologia degli eventi. Alcuni critici hanno parlato di un futuro non troppo lontano, altri di un presente inquietante e giunto al capolinea. È bello dare vita a tutte queste interpretazioni, era proprio il mio intento. La crisi che si respira in Stalin + Bianca è globale, proprio come la nostra, e non si limita all’aspetto economico. È una crisi individuale, emotiva, che le persone hanno interiorizzato. Non esistono paradisi in Terra. Stalin e Bianca, viaggiando, capiscono proprio questo.

arcobalenoDimenticavo l’assenza più eclatante (per me): non ci sono gli arcobaleni, nessuno ne ha mai visto uno. Ci puoi spiegare la metafora dell’arcobaleno e della sua scomparsa?
L’arcobaleno, di solito, è un simbolo di speranza, compare dopo un temporale e coincide col diradarsi delle nuvole, col ritorno del sole. Ecco, al di là dell’allegoria più immediata, volevo che i personaggi del mio libro trovassero dentro se stessi la forza di andare avanti. Senza più alibi, sono costretti ad analizzarsi e scavare nella propria interiorità. Al di fuori non c’è più niente, nemmeno gli arcobaleni. La speranza va cercata nelle persone.

Un altro tema dominante è l’amore, perché in fondo Stalin+Bianca è una delicata storia d’amore. Amore che non viene dichiarato né consumato. I due ragazzi si abbracciano, si accarezzano, si scambiano qualche bacio, ma nulla di più, quasi a volerlo preservare, per non contaminarlo, per non indebolirne la straordinaria forza che li unisce e li fa andare avanti. È questa la condizione necessaria per restituire valore e significato a un sentimento che sembra in via di estinzione?
La speranza va cercata nelle persone, l’ho appena detto. Per questo motivo, l’amore mi sembra il sentimento ideale per chiarirci e analizzarci come individui. Sarà che sono un grande ammiratore dei film di Truffaut. Con questo libro, ho provato a ricalcarne l’atmosfera e la resa generale, sporcandola un po’, rendendola più cattiva e forse anche più tragica. Spero che l’amore non stia scomparendo, come dici tu, altrimenti sarebbe la fine. L’amore è insito nelle persone, proprio come l’odio, quindi non scomparirà mai. Fa parte della nostra natura. Questo, almeno, è ciò che mi auguro.

Cormac McCarthy

Cormac McCarthy

Qualcuno ha ritrovato in Stalin+Bianca le atmosfere e lo stile di Cormac McCarthy. Sei d’accordo? Quali sono i tuoi riferimenti letterari, non tanto come scrittore ma come lettore?
Sì, sono d’accordo, McCarthy è un autore che apprezzo molto. Racconta la natura e il viaggio in maniera unica, con uno stile asciutto ma evocativo. I miei riferimenti, sia da scrittore che da lettore, sono molti e dispersivi. Mi piace il minimalismo d’oltreoceano, da Carver a Bret Easton Ellis, tuttavia mi sono formato sui classici di Flaubert e Tolstoj. Amo i postmoderni, David Foster Wallace su tutti. Poi, mi piace spezzare il ritmo con fumetti e graphic novel e brutta televisione. In fondo, gran parte del mio immaginario deriva dalla cosiddetta cultura pop.

Passiamo al tuo rapporto con Tunué. Come è avvenuto l’incontro?
Conoscevo da tempo Vanni Santoni, l’editor di questa nuova collana di narrativa. Ha sempre creduto in me, anche in tempi non sospetti, quando pubblicavo su Internet i miei primi racconti. La pubblicazione di Stalin + Bianca, dunque, è venuta in modo molto spontaneo. Era da tempo che auspicavamo di lavorare insieme. Durante l’editing e anche dopo, ho fatto soprattutto riferimento a lui. Ma il rapporto è ottimo anche col resto della casa editrice. Tunué lavora benissimo, e i risultati gli stanno dando ragione. Non li ho certo scoperti io.

Come è stato il lavoro di editing?
Con Vanni c’era grande sintonia. È riuscito a mostrarmi il vero nucleo del libro, gli aspetti da valorizzare, quelli da alleggerire. Non è mai stato pedante, né invasivo o quant’altro. Si può dire che Stalin + Bianca sia davvero migliorato durante l’editing, ma anche che la sostanza sia rimasta la stessa, inalterata eppure resa stabile, definitiva. Spero, in futuro, di trovare altri editor come Vanni.

Il fenomeno del self-publishing ha assunto dimensioni impressionanti, una sorta di editoria, o “non” editoria parallela. Perché, secondo te, sta prevalendo questa presunzione di poter fare meglio e subito rispetto al tradizionale percorso in casa editrice?
Penso che il self-publishing abbia le stesse dinamiche della masturbazione. Si fa tutto da soli, senza intermediari, e la soddisfazione è quella che è, né troppa né troppo poca. Poi non saprei che altro dire, è un fenomeno che conosco poco.

Frequenti le librerie? Qual è per te la libreria ideale?
Frequento molto le librerie, se non altro per presentare Stalin + Bianca. Alcune, purtroppo, si meritano Amazon, perché vivono nel totale immobilismo e non fanno nulla per promuovere la cultura, per renderla più dinamica. Il loro ciclo vitale dipende quasi esclusivamente dalla vendita dei testi scolastici. Altre, e non sono poche, fanno il possibile e l’impossibile per organizzare presentazioni ed eventi e per creare un rapporto di fiducia coi propri clienti. Di solito, questo è il caso delle librerie di quartiere, oppure di una serie di librerie indipendenti che costruiscono man mano la loro fama. Queste non meritano la concorrenza di Amazon, e saranno le uniche a sopravvivere.

Che cosa fai quando non scrivi?
La mia routine è abbastanza monotona, anche se Stalin + Bianca è riuscito a movimentarla, fra presentazioni e giri per l’Italia. In genere mi piace leggere, guardare film, andare a fare la spesa e girare a vuoto nei centri commerciali. Ogni tanto mi diverto ancora coi videogiochi. Poi, be’, di solito mi sveglio tardi, la mia giornata comincia verso le 10:00 am. Amo anche andare a mangiare fuori, nei ristoranti che scopro su Tripadvisor, e lì spendere un sacco di soldi e sperperare le mie finanze.

Concludo con una domanda fuori tema: che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
Ora c’è il fumetto di The Walking Dead di Robert Krkman. Mi piace, è molto spinto e brutale, ma anche ben costruito. Calcola, però, che prima di dormire non voglio impegnarmi troppo, dunque prediligo le cose leggere.

Qui la recensione di Stalin+Bianca.

Approfondimento Tunué