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IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Annalisa Di Salvatore (marzo 2014)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Annalisa Di Salvatore

Annalisa Di Salvatore è abruzzese, laureata in Lettere moderne e specializzata in Didattica dell’italiano come lingua straniera, ha lavorato come insegnante di italiano L2 a Roma (di qui, di là, di su, di giù, con grande gioia dell’Agenzia del trasporto autoferrotranviario del Comune di Roma). Dopo anni sciupati su volumi accademici di glottodidattica, legge raramente saggistica e solo sotto stretto controllo medico; per lei lettura significa romanzi e racconti, qualche volta poesia. Ha scritto racconti per Vicolo Cannery e Abbiamo Le Prove. Il suo blog è Tornasole.

annalisa.disalvatore@gmail.com
Twitter: @MorelleRoug

John Fante e Rudolph Borchert, Bravo, burro! (traduzione di Francesco Durante, illustrazioni di Marilyn Hirsh, Einaudi, 2010). Ho scelto di cominciare da John Fante per atto di devozione verso lo scrittore che, sì, lo dirò con quelle abusate parole melense: mi ha cambiato la vita. Ho letto tutti i suoi romanzi e quasi tutti i suoi racconti, ingozzandomene in un’estate di diversi anni fa – restano le sue sceneggiature, dove sono, dove le trovo?
Mi mancava questo libro, forse tra i meno conosciuti di John Fante – pare d’accordo il suo biografo Stephen Cooper (Una vita piena. Biografia di John Fante, traduzione di Francesca Giannetto e Ilaria Molineri, Marcos y Marcos, 2001).
Considerato “un’opera minore” (etichetta che mi ha sempre inquietato), Bravo, burro! è un libro scritto a quattro mani, nato dalla collaborazione con lo sceneggiatore Rudolph Borchert, insieme al quale Fante decise di riprendere un loro vecchio trattamento cinematografico (Black Mountain, 1965) e cavarne fuori un libro per ragazzi. Non appena l’ho ricevuto in regalo, l’ho accantonato per tre o quattro anni, lasciandolo intonso e perfino custodito nel suo pacchetto a me caro – mi piace dare e ricevere libri incartati in fogli di giornali, come si fa con le uova prese dal contadino, o nei sacchetti del pane. Stava lì, non lo guardavo, leggevo altro. Succede così quando ricompare un grande amore giovanile, mitizzato dal tempo, di cui si ha desiderio e timore di aggiornare l’immagine. Ho preso coraggio e ho cominciato a leggerlo da poco. Storia di un bambino e del suo burro («sì, insomma, un asinello»), il libro potrebbe a prima vista sembrare il meno fantiano di tutti. Ma attenzione: c’è presto di mezzo un padre, un padre vizioso, amante di alcolici, un padre determinante, un padre sanguigno, che dopo appena poche pagine compare granitico nei suoi abiti da manovale. È lui, mi sembra di riconoscerlo, lo Svevo Bandini che ho amato, il Nick Molise che ho adorato. Mi sento già a casa.
* Dal 2006 si tiene ogni agosto a Torricella Peligna (Chieti) il festival dedicato a John Fante, Il dio di mio padre. Ovunque tu viva, non sei un vero fantiano se non ci vai in pellegrinaggio almeno una volta nella vita. È il tuo doveroso “ḥajj”.

Grace Paley, Enormi cambiamenti all’ultimo momento (traduzione di Marisa Caramella, Einaudi eBook, 2010). Un piccolo gioiello che vado ancora rigirando tra le mani, scoperto per caso grazie a un amico di cui seguo con fiducia qualunque suggerimento di lettura. Un giorno mi ha detto che la mia scrittura somiglia a quella di Grace Paley. Io ho pensato, ma non gliel’ho detto subito: chi diavolo è Grace Paley? Sono corsa a leggerla e, dopo appena un paio di pagine, ho deciso che il mio amico aveva detto una bestialità: i racconti di Grace Paley sono inarrivabili e perfetti, possono somigliare solo ai racconti di Grace Paley. La quale non ha mai scritto un romanzo, ma solo racconti, e pure pochi. Meglio, non ha mai pubblicato un romanzo – chi può dire cosa ci fosse davvero tra le sue carte e le sue tentazioni, – ma la forma del racconto appare la sua misura, galleria compiuta di ritratti restituiti con scrittura minuta ed essenziale, potentissima: «Vidi il mio ex marito per la strada. Ero seduta sui gradini della nuova biblioteca. Ciao, vita mia, gli dissi. Il nostro matrimonio era durato ventisette anni, mi sentivo giustificata. Lui disse, Come? Quale vita? Non la mia. Io dissi, Ok. Non è mia abitudine discutere, quando le posizioni sono inconciliabili.» (incipit di Desideri). Quanto lavoro, mi chiedo, quanto lavoro ci sarà stato per montare una simile inquadratura, un dipanarsi di esistenza racchiuso nel giro di poche righe? E poi mi dico anche: è un peccato, è proprio un peccato che in Italia il racconto non goda, presso editori e lettori, della stessa benevolenza di cui gode il famigerato, acclamato, inneggiato romanzo.

John Cheever, Il nuotatore e altri racconti (traduzione di Marco Papi, Fandango, 2008). Col tempo mi è venuto un debole per i racconti, sì, avrei dovuto dirlo subito. Libricino riletto proprio  di recente per un bisogno di ritrovare voci care, di racconti ne raccoglie tre, fra cui Il nuotatore, che ho amato.
In una ciondolante domenica d’estate, stravaccato e brillo ai bordi di una piscina a casa di amici, Neddy Merrill è visitato dal proposito di attraversare a nuoto la sua città, tuffandosi da una piscina all’altra di tutti i suoi vicini e conoscenti, per ritornare a casa sua. Lo fa. «Gli sembrava di vedere, con un occhio da cartografo, il dispiegarsi delle piscine, quel corso d’acqua quasi sotterraneo che si snodava attraverso la contea. Aveva fatto una scoperta, aveva dato un contributo alla geografia moderna, …» (p. 12). Di piscina in piscina, il tempo cambia, il cielo annuvola, promette una pioggia imprevista quanto i dialoghi con le persone che Neddy Merrill via via incontra. Ce la farà a portare a termine la sua impresa? Me lo chiedo tutte le volte come la prima, finché compare sulla pagina scritta lo spazio di una riga vuota: da lì, il viaggio liquido di ritorno a casa comincia ad andare con bracciate diverse. La scrittura di Cheever è magistrale nel fregarci tutti, fate attenzione a questo abile manipolatore di storie mentre siete in apnea.

Francesco Piccolo, La separazione del maschio (Einaudi, 2008). Letto, riletto, spaginato, accarezzato, annusato, saccheggiato, seviziato con decine di orecchie fatte agli angoli delle pagine e incerottato di post-it, sempre sul comodino o sulla scrivania per tornare a interrogarlo a mo’ di aruspice, per me è il miglior romanzo di Piccolo. Storia semplice, annunciata nel titolo, che comincia da tutta un’altra parte: al bar, davanti a un cappuccino, spruzzato di un cacao non richiesto dal cliente nella sua prima mattina da padre. Piccolo fa così, alla storia gli si mette di lato. La carnosità del libro, in questo modo, si palpa presto. Qui un assaggio: «Non ho mai dato in mano a nessuno il destino di una sola giornata – ma l’ho sempre affidato a più mani. Se mi innamoro, continuo ad amare e a scopare con altre. In questo modo, l’innamoramento è più sopportabile» (p. 172). È una lettura che, non saprei dire con chiarezza perché, mi capita di consigliare più spesso a donne che a uomini, insieme a quell’imponente capolavoro di Domenico Starnone che è l’Autobiografia erotica di Aristide Gambía (Einaudi, 2011). A gusto mio, due romanzi veri. Vero è quando l’autore non ingombra il lettore con la sua presenza di scrittore; quando si fa operaio, non direttore, nella fabbrica della sua storia;  quando, nel suo osservare preciso e affilato, non ha alcuna pietà, nemmeno per se stesso. Mi viene in mente quel che disse Faulkner in un’intervista del 1956, a proposito dell’essere scrittore: «He is completely amoral in that he will rob, borrow, beg, or steal from anybody and everybody to get the work done. […] Everything goes by the board: honor, pride, decency, security, happiness, all, to get the book written. If a writer has to rob his mother, he will not hesitate». Ecco, leggere i due romanzi di Piccolo e Starnone a breve distanza l’uno dall’altro avvicinerà a questa irrinunciabile idea. Fortunatamente, ci sono – sì, anche oggi – scrittori italiani che sanno fare bene quel che diceva Faulkner. E loro non sono mica gli unici.

Salvatore Mannuzzu, La ragazza perduta (Einaudi eBook, 2011). Di questo autore avevo letto solo Snuff o l’arte di morire (Einaudi, 2013) e con quello avevo presto deciso che avrei cominciato a pedinarlo, andando a ritroso tra i suoi libri. Questo è il secondo che ho letto e non ho cambiato idea. È il ritorno di un racconto, Dedica, pubblicato nella raccolta La figlia perduta (Einaudi, 1992), che non ho avuto il piacere di scovare e leggere. Il ritorno doveva essere una «ripulitura veloce» per una nuova edizione, dice Mannuzzu, invece le cose sono andate diversamente: ripreso, ripensato, riscritto, La ragazza perduta, storia dell’amore tra un magistrato e una ragazza di appena diciassette anni, era elegia vent’anni prima, è tragedia ora: «Ora invece io protesto contro questa mia affermazione di allora. Oggi dico che dalla vita non si guarisce». C’è qualcosa nello stile levigato e sostenuto di Mannuzzu che fa pensare a stanze dai soffitti alti e arredate con mobili antichi, mi ricorda un po’ quello di Michele Mari. Può essere perché i due hanno in comune l’esperienza dell’urgenza di una riscrittura?

Louis-Ferdinand Céline, Morte a credito (traduzione di Giorgio Caproni, Garzanti, 2007). Lo sto leggendo da quando ho capito che per il momento – un momento che dura da qualche anno, – non ce l’avrei fatta a risolvere i miei conflitti con Proust, legame intermittente e tormentato. Con Céline credo che andrà meglio, l’ho deciso a pagina 5: «Son dei bei rompicoglioni, i filantropi». Ma non lo so.

Yasmina Reza, Felici i felici (traduzione di Maurizia Balmelli, Adelphi eBook, 2013). Una lettura temporaneamente lasciata in sospeso, per mancanza di forze ed evidente ingorgo di letture. Ho fiutato subito che quella della Reza è una voce da ascoltare in completo abbandono, nel tempo adatto a un’attenzione esclusiva.

Ci sono altre letture in attesa, ma ho sforato le battute come mi è d’abitudine. Ci vorrà un altro comodino.

 

Qui gli altri comodini.

Il comodino di Annalisa Di Salvatore

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Emanuela D’Alessio (marzo 2014)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Emanuela D’Alessio

Barack Obama, durante lo shopping natalizio, ha comprato due libri: uno era La moglie di Jhumpa Lahiri. Anche io l’ho acquistato (per regalarlo a mia madre). Chissà se Obama lo ha letto. Io lo sto leggendo ma temo che non avrò modo di confrontarmi con il presidente americano! Jhumpa Lahiri, premio Pulitzer nel 2000, di origine bengalese ma cresciuta negli Stati Uniti, si è trasferita da un anno a Roma, perché ama la lingua italiana. E io amo la sua scrittura, elegante, intensa, dolente. Ho letto i suoi tre libri precedenti (pubblicati da Guanda): L’interprete dei malanni, L’omonimo e Una nuova terra. Tutti incentrati sul grande tema della doppia identità, sul conflitto profondo tra la cultura di origine e quella di arrivo, sul desiderio di abbandonare il paese della nascita (l’India) e sull’impossibilità di trovare una nuova terra (gli Stati Uniti). Storie di esilio e di perdita, di amori delusi o negati, di conflitti famigliari. Storie quotidiane di chi vive con smarrimento la nuova esperienza di emigrante, di chi lotta contro la diversità di un paese lontano ed estraneo, di chi dall’India non se ne è mai andato. Anche La moglie (Guanda, 2013. Trad. di Maria Federica Oddera) ripropone questo affresco, arricchito da una contestualizzazione storica. Ci si trova a Calcutta, infatti, negli anni dell’indipendenza indiana, delle prime sommosse guidate dal partito maoista alla fine degli anni Sessanta. I due fratelli Subhash e Udayan sono uniti da un legame indissolubile, nonostante la loro diversità. Subhash è silenzioso e riflessivo, Udayan è ribelle ed esuberante. Subhash decide di andare negli Stati Uniti per intraprendere una tranquilla carriera universitaria, Udayan diventa un militante maoista e prosegue la sua ribellione scegliendo di sposarsi per amore, contravvenendo alle tradizioni famigliari e culturali. Due percorsi diversi destinati a ricongiungersi quando Udayan viene ucciso dalla polizia e Subhash decide di tornare a Calcutta. Sto ancora leggendo, procedo lentamente come il ritmo della narrazione. Perché Lahiri non ha fretta, non travolge né incalza, scende piano in profondità. È il suo modo di scrivere. «Ho iniziato il libro sedici anni fa – racconta in un’intervista su Il Fatto Quotidiano del 13 gennaio 2014 – con la scena madre, in cui Udayan viene ucciso. È la prima cosa che ho scritto. Poi non sono più riuscita ad andare avanti. Sembrava una porta chiusa. Quindi ho messo le pagine in un armadio. Ho pubblicato gli altri tre e dopo dieci anni l’ho ripreso». Per Jhumpa Lahiri il processo di scrittura è un lavoro lungo, che richiede tutto il tempo necessario. «Non riesco a capire senza scrivere. Ho in mente una cosa, un’idea vaga, poi prendo qualche appunto o scrivo un paragrafo o descrivo una cosa: un viso, una vista, un sentimento, un’emozione. Poi però ci vuole un motore. Capisco che è giusto quando c’è un movimento, quando la storia si svolge. Allora è chiaro: se c’è un movimento che posso seguire, c’è un’energia, c’è qualcosa di inevitabile».

È stato inevitabile, nel frattempo, imbattermi in Il silenzio. Un racconto dalla montagna di Max Frisch (Del Vecchio, 2013. Trad. Paola Del Zoppo). In particolare dopo aver letto Camus e Frisch, tentativi di rivolta contro l’insensatezza dell’esistenza, il bell’articolo di Alessandra Melia sul sito dell’agenzia DIRE dedicato a questo racconto inedito dell’autore svizzero morto nel 1991. Non conoscevo Max Frisch e non amo affatto la montagna, ma queste due negazioni e l’analisi comparata dei temi di Frisch e di Albert Camus (suggerita nell’articolo) a proposito dell’insensatezza del vivere, della rivolta contro l’ordinaria esistenza, hanno reso irresistibile la curiosità. Ho iniziato a leggere Il silenzio, racconto giovanile scritto nel 1937 e ripudiato dall’autore. Frisch, come ho scoperto dalla postfazione al libro di Peter Von Matt,  ha avuto una vita ricca e intensa, ha cambiato più volte scenario (poeta, scrittore, giornalista, architetto, soldato). Era un grande viaggiatore e scalatore esperto, ha avuto amicizie stimolanti (tra cui quelle con Brecht, Dürrenmatt e Ingeborg Bachmann). La lettura si è rivelata illuminante, fin dalla citazione iniziale dello stesso Frisch: «Lo scetticismo è la levatrice di una solida illuminazione e della conoscenza…Un essere umano che sia scettico nei confronti di sé stesso è di un grado più umano». Rarefatto come l’aria che si respira ad alta quota, solitario come il mattino, fresco e morbido come un guanto di seta che accarezza il volto. Sono queste le immagini che affiorano tra le pagine dense e lievi, di una scrittura lenta e costante come il passo di chi sale verso una vetta. Il viandante solitario che decide di scalare la Cresta del Nord (sulle Albi bernesi) ci porta con sé e con la giovane Irene in un viaggio interiore alla ricerca di una vita straordinaria dove si immagina ci sia la felicità come premio finale. Unico traguardo per cui  valga la pena vivere, compiere un gesto estremo. «A un certo punto bisogna osare, grandi gesta o morte, perché una vita così lui non può e non vuole sopportarla». Sono molte le frasi che meriterebbero di essere riportate, ne aggiungo solo un’altra: «e se si fossero baciati, avrebbero saputo che quelli erano i primi e gli ultimi baci, e sarebbero stati baci come mai ce n’erano stati, parole come mai ce n’erano state, una felicità piena di addio che non avrebbe mai perso di significato, che non sarebbe mai sbiadita nella ripetizione, una notte che sarebbe esistita una volta sola e forse sarebbe per lei, per Irene, ancora di più, di più che un grande ricordo, forse il destino a cui è chiamata». Il libro si chiude con la Scatola nera del traduttore di Paola Del Zoppo.

Sul comodino c’è anche una lettura interrotta. È Lionel Asbo di Martin Amis (Einaudi, 2013. Trad. di Federica Aceto), la storia di un criminale da quattro soldi, rozzo e pericoloso, orgoglioso della sua stupidità e della sua ignoranza. Il cognome Asbo è l’acronimo di Anti-Social Behaviour Order, il decreto degli anni Novanta con il quale Tony Blair intendeva fermare i comportamenti antisociali. Lionel diventa milionario vincendo una lotteria, ma i soldi non migliorano la sua vita, ne esaltano solo la follia, gli eccessi, la volgarità, la spietata indifferenza. Soldi, pornografia, alcol e droga sono gli ingredienti dominanti di questa satira brutale, feroce, disperata, a tratti divertente, della società contemporanea. Gli stessi che Amis aveva utilizzato per scrivere Money (Einaudi, 1999), e già allora aveva detto tutto al riguardo (almeno per me). Molto meglio i suoi precedenti L’informazione (Einaudi, 1996) e Il treno della notte (Einaudi, 1997).

Con Città aperta di Teju Cole (Einaudi, 2013. Trad. di Gioa Guerzoni) proseguo il mio percorso nella letteratura africana, rinnovato in questi ultimi mesi con la lettura di Un giorno scriverò di questo posto di Binyavanga Wainaina (66thand2nd, 2013. Trad. di Giovanni Garbellini) e La bellezza delle cose fragili di Taiye Selasi (Einaudi, 2013. Trad. di Federica Aceto). Teju Cole è nato in Nigeria nel 1975 e vive a Brooklyn. Con questo libro di esordio ha vinto, tra gli altri, il PEN/Hemingway Award.

Per continuare, invece, a esplorare il tema del viaggio ho scelto Vertigini di W.G. Sebald (Adelphi, 2003. Trad. di Ada Vigliani), passaggio inevitabile dopo aver letto l’estate scorsa Gli emigrati (Adelphi, 2007). Sebald è un maestro dell’errare, non solo tra luoghi antichi e vicini ma anche tra i grandi del passato e la folla anonima dell’oggi.

Infine John Cheever, Tredici racconti  (Fandango, 2011. Trad. di Leonardo G. Luccone) che apro quando ho bisogno di frammenti, brevi immersioni in quel «secondo mondo dentro questo mondo», per dirla con Fitzgerald. Quando Cheever morì nel 1982, il suo amico scrittore John Updike scrisse di lui: «Era impossibile stare con John Cheever per più di cinque minuti senza vedere qualche storia prendere forma: vecchi imbarazzi si intensificavano con straordinaria rapidità fino a diventare favole e, non appena Cheever faceva scorrere lo sguardo intorno a sé e strascicava poche e sorprendentemente concentrate parole con quella sua voce rapida e educata, ciò che ti circondava prendeva a pulsare con compassionevole magia» (dalla postfazione di George W. Hunt). Questi racconti, mai usciti prima in una raccolta, furono scritti tra il 1931 e il 1942 e offrono uno sguardo sui suoi anni di formazione. Cheever è stato un autodidatta, a diciotto anni fu espulso dal college per i suoi mediocri rendimenti. Come tanti altri all’epoca, Cheever rimase incantato dallo stile di Ernest Hemingway. Ecco un pezzo di Fall River, il primo racconto di questa raccolta: «La casa dove vivevamo si trovava sulla sommità di una rapida collina, il che ci permetteva di guardare in basso, verso le paludi salmastre e il grigiore del fiume che correva verso il mare. Era inverno, di neve neanche l’ombra, e per tutta la stagione le strade restavano polverose, il cielo pesante, e gli alberi avevano lasciato cadere a terra tutte le foglie. Ma il cielo rimase pesante e le strade polverose per altre tre settimane e, quando arrivò la primavera, della neve rimaneva solo un vago ricordo visto che ne era caduta così poca».

Qui gli altri comodini.

Torna in libreria Harold Brodkey con Fandango

Il 26 gennaio 1996 moriva a New York Harold Brodkey, definito da Harold Bloom il “Proust americano”. 

In questi giorni in libreria con Fandango il suo Storie  in modo quasi classico, pubblicato la prima volta nel 1988. Fandango prosegue così la ripubblicazione dei libri di Brodkey, avviata nel 2011 con Primo amore e altri affanni (in originale First Love and Other Sorrows, 1958), opera d’esordio dello scrittore americano che Bompiani portò in Italia nel 1962.  Qui la nostra recensione.

Fandango pubblicherà presto anche  The Runaway Soul, che Brodkey aveva scritto e limato per oltre trent’anni e che soltanto nel 1991 vide la luce negli Stati Uniti.

Apripista della riscoperta italiana di Brodkey è stato Pippo Delbono, che ha portato in scena uno dei suoi scritti autobiografici (Questo buio feroce – Storia della mia morte).

La scomparsa di Lauren Armstrong – Gaia Manzini

Gaia Manzini "La scomparsa di Lauren Armstrong"Iniziamo con Gaia Manzini e il suo La scomparsa di Lauren Armstrong (Fandango) le recensioni dei candidati “romani” allo Strega 2012, in attesa di conoscere la selezione della “cinquina” che si contenderà il premio.

Recensione di Rossella Gaudenzi

«Nevica. Nevicano globuli bianchi dal cielo, dischi anemici che fanno del parco una distesa candida e riappacificata, tanto che l’occhio, anche quello di sua madre, man mano non può che placarsi: d’un tratto non c’è più traccia dei viali; nessun accenno di dossi e cespugli; i tronchi, le foglie, i sentieri scolorano. È un sentiero che torna all’inizio, all’idea, dove i contorni e le forme stanno ancora nella matita. C’è solo il foglio bianco». Continua a leggere

Premio Strega 2012: ottima presenza di case editrici romane

Premio Strega 2012Tra i dodici candidati al Premio Strega 2012 ben sei sono di case editrici romane (contro i quattro dell’anno scorso). Si tratta di La logica del desiderio di Giuseppe Aloe (Giulio Perrone Editore), La colpa di Lorenza Ghinelli (Newton Compton), Malacrianza di Giovanni Greco (Nutrimenti), Il corridoio di legno di Giorgio Manacorda (Voland), La scomparsa di Lauren Armstrong di Gaia Manzini (Fandango) e La sesta stagione di Carlo Pedini (Cavallo di Ferro). Tre di queste (Nutrimenti, Giulio Perrone e Cavallo di Ferro) partecipano al premio per la prima volta. Assenti quest’anno minimum fax, Fazi, Elliot e anche Del Vecchio, che in un primo momento sembravano invece intenzionati a partecipare.

La rosa dei dodici candidati verrà presentata ufficialmente il 10 maggio al Teatro San Marco di Benevento. La prima votazione – che decreterà la cinquina di finalisti – avverrà in Casa Bellonci il 13 giugno.

Fandango cresce ancora

Anche la casa editrice orecchio acerbo fa parte ormai del  gruppo Fandango, insieme a  Fandango Libri, Coconino Press, Playground, Alet e BeccoGiallo.
A coordinare il nuovo gruppo Fandango Editore, è stato chiamato Edoardo Nesi, vincitore del Premio Strega 2011 e imprenditore, già socio della Fandango Libri dal 2005.

Dall’osmosi e la contaminazione di diversi linguaggi, dal cinema alla letteratura, dal fumetto ai libri illustrati, alla televisione, Fandango è oggi sempre più una realtà culturale tesa a costruire un immaginario artistico di qualità.
Orecchio acerbo, casa editrice, fondata e diretta da Fausta Orecchio e Simone Tonucci che ne curano anche l’aspetto grafico, è nata a Roma nel dicembre 2001.
Il primo libro, Il gigante Gambipiombo, porta la firma di Fabian Negrin, uno dei tanti autori che insieme a Lorenzo Mattotti, Stefano Benni, Mara Cerri, Spider, Lia Levi, Maurizio Quarello, Nino De Vita, Elio Pecora, Armin Greder, Blex Bolex e Atak, da dieci anni incarnano lo spirito della casa editrice.
Leggete qui lo speciale di Via dei Serpenti su orecchio acerbo.