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La scrittura carnale di Mescolo tutto – Yasmin Incretolli

di Emanuela D’Alessio

Di Mescolo tutto, libro di esordio di Yasmin Incretolli, il nuovo “gioiello della corona” di Tunué (per la collana Romanzi curata da Vanni Santoni), ne hanno parlato così al Premio Calvino, conferendogli nel 2015 una menzione speciale: «Romanzo fieramente “ultrasperimentale”, che, in una sorta di esibita estetica del disagio e della sgradevolezza, persegue l’estremo. Gli esiti sovente inediti ed efficaci dell’ardua scelta stilistica e l’intensità della passione adolescenziale narrata rendono il testo della giovanissima autrice un’interessante scommessa».

Mescolo_tutto_CoverChiudendo il libro, dopo una lettura defatigante e impervia, mi sono chiesta se la scommessa sia stata vinta e da chi.
Non ho alcun dubbio sulla vittoria dell’autrice, non foss’altro perché Yasmine Incretolli è riuscita a concretizzare, a soli ventidue anni, un progetto di scrittura ardito e sprezzante, stuzzicando l’attenzione dell’editor Vanni Santoni, abile e indomito intercettatore di nuove “voci”.
Sono meno convinta, invece, che la scommessa con il lettore sia stata vinta pienamente. Io, ad esempio, ho trovato inutilmente spericolata la ricerca estrema di un’altra lingua per raccontare una storia, di per sé poco originale, sull’adolescenza e sul suo disperdersi tra dolore, automutilazioni, sesso hard e anfetamine.
La protagonista Maria ha diciannove anni, si procura ferite su tutto il corpo, non ha un padre e sua madre alterna collassi etilici a relazioni sessuali promiscue. Dopo la morte della nonna, unico riferimento d’amore per la ragazza, l’autolesionismo fisico e morale si intensifica. Maria è alla disperata ricerca di accettazione, accoglienza, protezione, amore e crede di trovarli in Chus, compagno di classe, violento e dai gusti sessuali sconcertanti.
Tra ferite autoinflitte, rapporti estremi, fughe, sballi da anfetamine ed alcool, delusione per l’amore negato, Maria attraversa il tunnel degli orrori che può essere l’adolescenza e ne esce (forse) chiedendosi se il desiderio di morire sancisca il passaggio all’età adulta.

Non è sulla storia, evidentemente, che Incretolli ha scommesso, bensì sulla cifra stilistica scelta per raccontarla, costruita con notevole impegno e risultati inediti, eliminando articoli e coniugazioni, mescolando gerghi generazionali e parole dotte, attingendo a una semantica bizzarra o inesistente, sorvolando sulla sintassi, costringendo il lettore a navigare a vista, a intuire piuttosto che a comprendere, ad affidarsi al ritmo e alla melodia di certe frasi o intere pagine, indipendentemente dalle parole e dal loro significato. Al punto da sospettare che ci si trovi di fronte a una provocazione irriverente ed eversiva dei canoni tradizionali di comunicazione e narrazione solo per dimostrare quanto la generazione dei millenials sia incomprensibile e incompresa dai suoi referenti adulti, o presunti tali.

Volendo però accantonare sgradevolezza e frustrazione, abbandonare una chiave di lettura sull’ennesima rappresentazione, per quanto audace, dell’usurato scontro tra generazioni, si riesce ad apprezzare la caratteristica “iper” o “ultra” di questo libro, sia della sua architettura semantica: barocca, contemporanea, astratta, popolare, sia della declinazione narrativa (al di là della trama) di temi quali la solitudine, il dolore e  il disagio/degrado contemporanei: autolesionismo, sesso estremo, violenza psicologica e fisica, eccessi alcolici e di sostanze stupefacenti. Un “iper” o “ultra” per celare o anche liberare quell’urgenza espressiva da cui la Incretolli sembra essere incalzata.

Ho diciannove anni e dieci mesi nel giorno in cui avvio la stesura di Mescolo tutto. Nei momenti di realtà più concentrata, la pulsione nel ferirmi oltrepassava il limite, diventava acme d’aprirsi lo stomaco, bruciare le vene, bere candeggina. Così ho valutato potesse essere distrazione dall’inclemente nevrosi la presente scrittura, stillata da polpastrelli provetti divaricatori d’interstizi muliebri e mascolini. Soffro di sindrome da autolesionismo ripetuto dall’età di quindici anni e ho cicatrici su cosce, avambracci, polsi, schiena, fianchi soprattutto: ovunque canali nervosi digrignanti. Cicatrici a sconnettermi. Cazzo, a sconnettermi! Mi dicevano bizzarra, eclettica; mi dicono: schizofrenica, puttana. M’associo io stessa ormai a creatura ibrida. Non umana: mescolata, appunto. Tra pornosituazioni sadomasochistiche, perverse autocostruzioni ad appagare psicologie empie di nullità mascoline e pulsioni incostringibili all’immolazione, affiora tenerezza in forma fetale, rigurgitata come feci in purea. Il ricordo dell’aborto di un amore tra adolescenti accidiosi, speziati nel debosciato rimesto e nell’incontrollata amplificazione d’un trastullo, in avviso trillante da vocabolario in squilibrio semantico. Mi chiamo Maria. Questa è l’ultima stagione della mia adolescenza.

Comincia così Mescolo tutto (che in origine era Ultrantropo(rno)morfismo) e immediatamente si viene trascinati in una dimensione ibrida della realtà.
Subito dopo entra in scena Chus, la cui voce è affidata al corsivo, soluzione stilistica che amplifica i dislivelli temporali e spaziali della narrazione.

Yasmin Incretolli

Yasmin Incretolli

Chus dice: «Una volta ho visto una, che troia proprio, si metteva dietro un paio di cazzi gonfiabili invasellinati a modo, ma il più grosso mica ha retto la pressione dello sfintere, è scoppiato e quella si è messa a gridare e piangere mentre le chiappe facevano tutto uno scuotimento molleggiante impressionante, porco. poi è crollata tette e faccia, col culo viola lasciato per aria, dal male non riusciva a ‘bassarlo di più’. Pareva uno avesse provato a smutandarla dopo averle scalciato il sedere forte d’ammazzarla…
…però dopo ci vediamo e lo facciamo pure noi.  Il calcio, la smutandata e tutto. Se hai da ridire t’ammazzo pure, va bene?», durante l’ora di italiano, per nulla preoccupato dall’udito teso della corona di coetanei, di fatto esortati a ridacchiare e commentarmi. Subito mi si bagna la stoffa merlettata sotto il calzone stroppato. Da capirlo, questo fenomeno di tutta me smossa appena scatta l’intimidazione e sento una tacca di bersaglio sdrumarmi bene il cranio.

Ed ecco la madre di Maria.

Sfilo dita unte da busta di patatine. Le briciole salate frizzano un poco. Strilli di godimento da camera adiacente. La voce appartiene a mia madre: decede ogni sera e notte, percossa da colpi pelvici di maschi indistinti. Afferro ciocche; capelli corvini arricciati fra le labbra, districamento psicotico fino a indolenzire un polso svenato e coronato di ciondolii scrostanti ferite.[…] Incolpo lo stress da teenager all’ultimo anno di liceo. La vita è bellissima, ragazza sorridi. Com’è dissetante mentirsi, persuadersi fino a narcotizzarsi. […] Le grida, le urla; lei che ansima, poi una pausa. Insulti, sputi, schiocchi di palmi sudati al rintocco della carne nuda.
«Ti piace, troia?» Chiede chiunque.
«Ti amo», ribatte madre.

Si prosegue così fino alla fine, scoprendo che all’accelerazione del vissuto di Maria (una sorta di discesa negli inferi della nostra contemporaneità) corrisponde un avvitamento semantico che lascia senza respiro.

Rampicarsi aracnide su pareti tarpate d’appigli, mentre il vespro filastrocca mutismo decadente e c’è margine marmoreo sotto talloni senza calzature e un placido lembo acquitrinoso che ricorda gli occhi dello stronzo, se appena sporgo la nuca. Anni di coerente equilibrio nel detrarsi dalla mercificazione d’essenza connaturale. Palloncini d’elio smagriscono inglobati da batuffoli pitturati. Roma durante ore stokeriane ha cipria rilucente, subiscilo il Tevere implorare un abbraccio. La metropoli ha occhi supplenti labbra e rimira triturandoti. Librerò in dipinti senza sbaffi cerandomi sotto veste tramata dal medesimo incantesimo verseggiato durante proiezione d’archi in luce di farraginoso multitonale. Se l’ammetto d’essere stata cucciola e indifesa come voi? Se l’ammetto di non aver mutato tale setosa condizione? Che l’ostilità incompresa tramuta quest’abnorme creatura in ragazzina d’età quattro, spoglia d’un involucro sufficientemente difensivo. Ha speziata stortura la digestione rimessa. Disputa vivisezione mai arrendevole e constata tempo ubicato nel raggrumare saldatura mentale. Il dubbio è sussistito, se anziché al supplizio, fossi predestinata alla guerriglia. È intrasmutabile l’anguillesco a sfumarmi. Ciondolo inframmezzata da esiziale ascosto e sovversivo corruccio. Ottimo elargirsi al caso. C’è nitore cremoso sparso dall’evoluto abissale sferoide vigente dalla genesi cosmica. Sarò apparenza impura, eppure non è abitudine nel consueto denocciolare lo stupefacente. […] Ho diciannove anni e voglio morire. È questo, diventare adulti?

È con queste parole che Yasmine Incretolli si congeda dal lettore. Mi sono sentita, lo confesso, un po’ inadeguata a questo modo di fare letteratura, ma anche molto curiosa di leggere una seconda prova, sperando, chissà, in tonalità più seducenti.

Nota sull’autore
Yasmin Incretolli nasce a Roma nel 1994, cresce in una famiglia matriarcale e inizia a scrivere dall’infanzia racconti e novelle per poi arrivare a Ultra. Nell’ottobre 2014, per richiamare l’attenzione degli editori, pratica lo streaking in via Veneto, diventando un caso virale sulle piattaforme social. Diplomata al liceo artistico, frequenta la facoltà di Lettere e Filosofa all’Università La Sapienza di Roma. Mescolo tutto è il suo primo romanzo.

Su Satisfaction si descrive così:
«Sono cresciuta a dieci minuti dalla top ten romana di Tripadvisor. Però per riposarmi favorivo posti di nicchia, chicche semisconosciute dove stare tranquilla. Ci raccoglievo ispirazioni speciali che maturavo su file. Il museo Hendrik Christian Andersen, il Giardino del Quirinale, il Roseto comunale, il Giardino degli Aranci. Altri posti che mi concentrano sono la stazione Termini, e piazza Vittorio Emanuele. Qui c’è una bakery giapponese dove ordinavo il bubble tea alla mela e uno spicchio di charlotte alle fragole. C’ho conosciuto la ragazza coi capelli rosa che nel mio romanzo avrebbe avuto il nome della torta che sbocconcellava – Margherita.
La bici l’ho comprata l’altro ieri, praticamente. In sella, finora, ho visto solo un uomo che falciava il prato del suo giardino, la coccinella che m’è saltata sul dorso della mano e tanto asfalto. Non ho la patente, l’auto la guida il mio ragazzo, e quando viaggiamo, solitamente, guardo lui mica altro.
Il rumore cittadino che m’è particolarmente caro è quello del mercato rionale davanti le finestre a casa di mia nonna. Della campagna, invece, apprezzo il sottofondo leggero del vento contro le foglie.
No, non fumo. E bevo quando mi va. Mi piace bere, e leggere nei bar. Che sono fichissimi, ma frequentati da troppo uomini, peccato: una si sente fuori luogo e non è giusto. Il peso non lo dico perché credo sia irrilevante in una persona.
Come ho già detto scrivo quando ho tempo, in questo momento ho tempo esclusivamente di mattina, e dovendo scegliere tra le categorie che mi metti a disposizione, probabilmente ho una scrittura di tipo carnale».

Mescolo tutto
Yasmine Incretolli
Tunué, 2016
pp. 154, € 9,90

Gabriele Di Fronzo e il desiderio di svanire

di Emanuela D’Alessio

grandeanimaleDopo aver letto Il grande animale, l’esordio del torinese Gabriele Di Fronzo (nottetempo, 2016), ecco l’intervista all’autore, che scrive «per ossessione e mania», che definisce la sua opera «un’ipotesi di cuore che sopravvive alla perdita senza fuggirne».

Dalla stringatissima biografia disponibile apprendiamo solo che sei nato a Torino nel 1984, che collabori con L’Indice dei libri e hai pubblicato racconti su Nuovi Argomenti e Linus. Inevitabile quindi la curiosità di conoscere qualche dettaglio in più, soprattutto dopo aver letto il tuo stupefacente romanzo di esordio. Chi è Gabriele Di Fronzo?
Lì dove nella quarta di copertina c’è quella manciata di informazioni che come consuetudine editoriale dà conto di data di nascita, luogo di nascita ed eventualmente di residenza, pubblicazioni precedenti, premi chissà, io al mio primo perciò unico romanzo avrei voluto cavarmela con una nota ancora più svelta: “Gabriele Di Fronzo è nato nel 1984 a Torino”. Assolvendo, dunque, il dovere che di solito spetta a queste biografie mignon che, affianco o meno a una fotografia, geolocalizzano e danno un’età allo scrittore. È stato l’ufficio stampa della casa editrice che, nella prima telefonata incorsa tra noi, mi suggerì di accludere altri due o tre aspetti personali. Così ho fatto, allungandola un briciolo. Per me, però, resta il fatto che si possa fare a meno di una biografia: io in una quarta di copertina non cerco nulla che non sia il nome e il cognome dell’autore, se mai nel girare il libro me lo fossi dimenticato dopo averlo letto in copertina. Aldo Busi, che esordì più di trent’anni fa e al momento è autore di un gran bel numero di romanzi e vincitore di parecchi premi e collaboratore di diverse testate giornalistiche, nella sua nota biografica riporta solo questo, “Aldo Busi è nato nel 1948 a Montichiari (BS), dove mantiene la residenza fiscale”. Niente più di così. Il resto talvolta è ridondanza egotica, accessorio spesso vezzoso, in un paratesto che per me non ha pressoché importanza.

Che cosa c’è all’origine della tua scrittura: vocazione, urgenza o casualità?
L’ossessione e la mania.

Il tuo esordio con nottetempo è stato casuale o voluto? Come è nato il rapporto con l’editore e che cosa significa esordire con una piccola casa editrice?
Nottetempo ha un catalogo meraviglioso cui corrisponde una professionalità di chi lavora dedita ai libri con serietà e convinzione. Hanno dato, sin qui e fin dall’inizio, la miglior ospitalità che potessi auspicarmi per il romanzo. Sono stato sopportato durante la fase che ha preceduto la pubblicazione e supportato ora che il libro è stato licenziato. Poi, tra gli autori hanno i francesi che apprezzo di più, Jean-Philppe Toussaint, Christian Oster, Tanguy Viel: mi sento davvero sotto un buon tetto e in così buona compagnia.

difronzo«Il grande animale è una piccola storia gotica. Vi innamorerete di Francesco Colloneve e ne avrete paura» avverte Michela Murgia. Tu come descriveresti la tua opera?
Un’ipotesi di cuore che sopravvive alla perdita senza fuggirne.

Penso che il tuo romanzo sia stupefacente per una serie di ragioni, innanzitutto per la scelta del protagonista e voce narrante: Francesco Colloneve è un tassidermista, un imbalsamatore di animali, che svolge il suo lavoro con una meticolosità e precisione allarmanti. Un mestiere che suscita generalmente inquietudine o pura repulsione. Perché questa scelta?
Emily Post con il suo Etiquette in Society, in Business, in Politics, and at Home codificò e pubblicò un galateo che insegnava a comportarsi pubblicamente. Era il 1922 e lei mise per iscritto istruzioni per tutto quello che allora era indispensabile per ben comportarsi nel consorzio umano: quali le posate adatte a questo o quell’altro cibo, i vestiti idonei a questa o quell’altra cerimonia, come ci si dovesse salutare a seconda del legame che intercorreva tra gli individui in questione, persino dove sedersi ai funerali e cosa portare da bere e da mangiare alla vedova del defunto, una volta a casa dopo la funzione. Un gentile breviario su come tenere un portamento onorevole in società, questo delineò la Post. Il mio tassidermista, più modestamente, ha inventato un galateo comportamentale privato per il lutto, così da sapere cosa fare per fare cosa quando la mancanza, la condizione più indissolubilmente triste con cui un individuo troppo spesso deve confrontarsi, incide verticalmente nella sua esistenza. Ho scelto di fargli adoperare bisturi e succhielli e di mettergli le mani nei corpi cavi degli animali morti, perché avevo l’intenzione di inscenare un operare che si irradiasse al di là del mero esercizio artigianale, ma che potesse rivelarsi come il correlativo oggettivo per ciò che desideravo raccontare. Questo concetto T.S Eliot lo definì come “una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un’emozione particolare”. Il protagonista di questa storia di abbandono avrebbe dunque vantato una natura ibrida, mezzana tra la vita e la morte, tra presenza e scomparsa.

Un’altra ragione (dell’aggettivo stupefacente) è l’assoluta originalità con cui hai deciso di affrontare temi fin troppo ricorrenti in letteratura: il rapporto tra padre e figlio, tra la vita e la morte, soprattutto l’elaborazione del lutto, della perdita e dell’assenza irreversibile. Francesco Colloneve elabora dolorosamente questi temi, per giungere a quale conclusione?
Il suo è un tentativo, nient’altro che un tentativo, di dare una soluzione individuale a un problema di carattere generale. E questa è anche la definizione di nevrosi che dà Carl Gustav Jung. E certamente lo è dell’opera cui si dedica in fine Francesco Colloneve che con compulsioni rituali esige di neutralizzare la sua ossessione. Che ci riesca o meno non credo ci debba interessare, per quanto dando ascolto a Jung la nevrosi è un tentativo in fin dei conti inutile. L’incompiutezza, infatti, è un aspetto troppo pervasivo nelle faccende umane per ritenerla dirimente.

gdf «La sera che mia madre andò via, in televisione insistevo per vedere i cartoni animati, ma sul secondo canale c’era un film western». In tutto il libro questo è l’unico fugace riferimento alla madre di Colloneve. Perché quest’assenza clamorosa?
La madre è chiamata in scena, nelle sue sembianze di assenza calcificata, in quattro, cinque occasioni. Sempre associata a un tempo oramai senza rimedio. La sua figura grava sulla casa in cui i due uomini vivono, più di quanto non farebbe se fosse lì presente. La sua mancanza ha dapprima forgiato il marito e poi ha modellato il carattere del figlio. È l’invisibile che decreta la vita degli esseri umani: è l’ordito trasparente che lega l’individuo alle sue decisioni, quelle esercitate per sé e quelle valide per altri; è l’assenza “più acuta presenza” di Attilio Bertolucci; è il desiderio di svanire. La madre è l’avvenuta scoperta che la parte considerevole di ciò che importuna la nostra vita non si lascerà vedere mai più.

Protagonisti incombenti del libro sono comunque gli animali, di tutte le razze e dimensioni. Gatti, tartarughe, talpe, cani, pesci rossi, molluschi. Tutti morti, ovviamente, e per i quali i loro padroni desiderano una non-vita da imbalsamati. Oppure evocati per descrivere un essere umano (il padre di Colloneve aveva «le orecchie che si facevano largo sulle guance e si innerivano come quelle di un elefante vecchio, il naso era di scimmia, le braccia screziate cascavano come manto di ermellino». Un’altra prospettiva da cui scrutare il genere umano?
Gli animali sono creature che il protagonista vezzeggia con le sue cure. Per loro ha solo delicatezza e rispetto, a proposito di sé dice di non conoscere un’altra persona che sia consacrata come lui a loro. E sono le lettere dell’alfabeto che usa per comporre le parole con cui definire ogni aspetto della vita gli si para davanti. In latino la parola metodo significa “strada per passare nel mezzo”: qui l’animale rappresenta il metodo per conoscere l’uomo e le sue paure, l’animale è il solo sentiero attraverso cui raggiungere la profondità umana.

Francesco Colloneve quando si trasferisce dal padre per accudirlo e accompagnarlo nel suo rapido declino verso la morte, porta con sé tutti i ferri del mestiere e un solo animale da imbalsamare: un serpente. Inevitabile per me ricordare un altro esordio, Dalle rovine di Luciano Funetta, in cui i serpenti assumono ruoli e significati complessi. Perché hai scelto il serpente, simbolo di infamia nell’immaginario comune, per accompagnare la metamorfosi reale e metaforica della tua storia?
Lascio al lettore le metafore, non mi va di accompagnarlo, penso non patisca la necessità dell’autore in questo momento.

gdf_1A risaltare nel romanzo c’è poi la tua scrittura, netta e precisa; c’è una cifra stilistica inconsueta, evocativa (penso all’«abbrivo» di manzoniana memoria, alla «forra» di Gozzano), ma anche ricca di termini che non trovano ospitalità nei dizionari («pacciamare le erbacce», «smucchiando», «bubbolo qualcosa con me stesso»). Da dove viene questa voce?
Senza questa voce il romanzo non sarebbe esistito. È da questa sorgente che prende inizio e acquisisce forma la storia. Termini inconsueti ancora più che desueti, espressioni che connotano il protagonista quasi quanto i movimenti delle sue mani e la peculiare indole con cui si accompagna, la morfologia della frase, il lessico, le spigolosità di certe espressioni: tutto dovrebbe accordarsi con il vortice di azioni ed elucubrazioni con cui Francesco Colloneve si tiene vivo. Ogni paragrafo è un gorgo in cui egli precipita. Ciascuna parola è una voragine carnivora.

Passando ad altri argomenti, come deve essere la tua libreria ideale?
Giorgio Manganelli la definisce come “molte cose, strane, inquietanti cose; è un circo, una balera, una cerimonia, un incantesimo, una magheria, un viaggio per la terra, un viaggio al centro della terra, un viaggio per i cieli; è il silenzio, ed è una moltitudine di voci; è sussurro ed è urlo; è favola, è chiacchiera, è discorso delle cose ultime, è memoria, è riso, è profezia, soprattutto, è un infinito labirinto”. Io dico che è insaziabile, non solo cannibale, e i criteri con cui esclude questo o quell’altro libro sono ubbie di giornata.

Che tipo di lettore sei?
Ho esigenze che variano come stagioni, ma le oscillazioni tra un periodo e un altro sono delicate, vibrazioni minime che non portano a gravi sconvolgimenti, un sismografo farebbe difficoltà a riconoscerle. Magari mi infatuo di un autore e allora divento un completista, fin quando mi vien fatto di pensare che forse è meglio non esaurisca la sua opera altrimenti poi, una volta che quello sarà successo, rimarrò deluso da non avere più niente di quello scrittore. Curiosità e resistenza, vaglio e disciplina. Ma prevale l’aggancio tra un libro e l’altro, sentimentale, imprevisto, inaudito, oppure ovvio, facile e imprescindibile.

Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
Scogliera di Olivier Adam, Il libro delle meraviglie di Flegonte di Tralle, Un mondo perduto e ritrovato di Alekasandr Lurija, Ossa, cervelli, mummie e capelli di Antonio Castronuovo, Il grande evento di Peter Handke, Atlante di un uomo irrequieto di Christoph Ransmayr.

Il grande animale – Gabriele Di Fronzo

di Emanuela D’Alessio

grandeanimale«La sera che mia madre andò via, in televisione insistevo per vedere i cartoni animati, ma sul secondo canale c’era un film western».
È da questa frase, più o meno a metà dello stupefacente esordio del torinese Gabriele Di Fronzo, classe 1984, che vorrei iniziare per evidenziare lo sfuggente riferimento alla madre di Francesco Colloneve, protagonista e voce narrante de Il grande animale.
Mi è sembrata un’assenza eclatante, forse perché siamo abituati a ritenere la figura materna il perno sul quale, nostro malgrado, tutti ci avvitiamo, o forse perché è prevalso l’inconscio risentimento femminile per una storia dove la figura materna è solo effimera comparsa in una scena tutta al maschile, perché i protagonisti sono un figlio con l’anima cicatrizzata e un padre che l’improvvisa malattia ha reso fragile e vulnerabile, trasformandolo da iracondo carnefice a vittima spaurita.
Ma in questa latitanza dell’universo femminile (perché Colloneve vive isolato e rinchiuso e non mostra interesse alcuno per relazioni di qualsiasi tipo) ho trovato un’altra storia, sotterranea e inespressa, da cui ricavare un’ulteriore chiave di lettura.
È così che si procede leggendo Il grande animale, per deduzioni, in un presente pietrificato dall’annullamento delle emozioni ma disseminato di frammenti che, ricomposti, restituiscono le rappresentazione di un passato tutt’altro che indolore e con il quale si è costretti comunque a fare i conti.
Si tratta proprio di frammenti, perché è questa la cifra stilistica di Gabriele Di Fronzo, concentrato con estrema cura a sottrarre, svuotare, eliminare l’inessenziale, come lo è Colloneve con i suoi animali. Quasi a suggerirci che lo scrittore, come l’imbalsamatore, hanno in fondo lo stesso obiettivo: fissare nel tempo ciò che altrimenti scomparirebbe per sempre.
Francesco Colloneve, che di mestiere fa il tassidermista, si prodiga nel descrivere minuziosamente le fasi del suo lavoro, unica ragione di vita, indugiando nella rappresentazione asettica e chirurgica di corpi sventrati e svuotati, di pelli raschiate, di cavità lubrificate, per realizzare il sogno o l’illusione di fermare per l’eternità il trapasso della vita. Allo stesso modo descrive la manciata di giorni trascorsi ad accudire il padre malato, assecondando le intemperanze di una mente che sta svanendo, fino al disbrigo delle pratiche che ogni morte richiede.
Tutto avviene con un’anestesia emotiva sconcertante, ma dalla quale trapelano i segni indelebili di un dolore che si è insinuato inesorabile, provocato dall’assenza della madre e da un padre autoritario e anaffettivo, insensato nelle infinite crudeltà con le quali ha cresciuto il figlio.
«La collera con cui si scatenava su di me, la sua vastità, il tono roco che assumeva quando mi veniva addosso, il fracasso delle sue mani prima ancora di riceverle in faccia, la sua rabbia per accelerare le cose, perché andassi alla velocità che lui voleva corretta, nel legarmi le scarpe come nel crescere, mi rimproverava perché ero lento quando lui mi avrebbe desiderato rapido, esigeva che fossi lesto a sparecchiare e a capire come ci si dovesse comportare a scuola o a casa quando c’era un ospite».
Nefandezze subite per una vita intera che Colloneve non ha voluto o potuto rimuovere, «la mia testa tristemente piena di certi momenti, che io ricordi così dettagliatamente non è normale, avrei dovuto lasciarmi indietro queste cose, avrebbero dovuto essere già scomparse e altre avrebbero dovuto prendere il loro posto, invece come per lui anche per me c’era da sarchiarle, uno avvalendosi dell’aiuto delle mani dell’altro». Crudeltà che, al contrario, rievoca con spietata precisione, nel tentativo di recuperare, di fronte a un uomo «così ammaccato, rovistato dai malanni» un po’ di compassione e pietà, per diminuirne le colpe e convincersi che quelle forme di possesso non fossero poi granché.
Non è scontato il risultato, perché Colloneve non sembra scegliere tra odio e pietà, ma Gabriele Di Fronzo ha comunque trovato, con la sua voce inconsueta e priva di retorica, un’efficace e originale chiave di interpretazione dell’universale tema che accompagna l’umana esistenza: l’inesauribile lotta che un figlio ingaggia con il proprio padre, per liberarsi dal giogo e poi imparare a vivere l’irreversibilità della perdita.
Francesco Colloneve, mi piace pensare, porta a termine la sua lotta senza vendetta e comunque vittorioso. Ma la sua è una vittoria senza enfasi e soddisfazione, restano solo una grande stanchezza e un sollievo: «niente più spoglie che possano stormire e chiamare il mio nome quando sarà la notte».

La nostra intervista a Gabriele Di Fronzo.

Nota sull’autore
Gabriele Di Fronzo è nato a Torino nel 1984. Collabora con L’Indice dei Libri del Mese. Ha pubblicato racconti su Nuovi Argomenti e Linus.

Il grande animale
Gabriele Di Fronzo
nottetempo, 2016
pp. 161, € 12,00

A pietre rovesciate – Mauro Tetti

di Anna Castellari

A pietre rovesciate, più che un romanzo, è un viaggio nella storia ancestrale che si mescola a quella di un bambino, di un adolescente, di un ragazzo, di un adulto, e a quella di Giana “l’innamorata mia”.

La voce narrante è esattamente quella di un cantastorie, il tono favolistico riecheggia nella mente del lettore ben oltre il momento della lettura. Il suo ritmo incessante e inesorabile ricorda quello dei racconti orali, e infatti il narratore è nonna Dora, come nella migliore tradizione fiabesca.

Ciò che colpisce in questo libro è il continuo riassemblarsi delle storie antiche con quelle che vivono i due protagonisti, che abitano un luogo dal nome tanto mitico quanto evocativo: Nur, con evidenti relazioni con i nuraghi.

Il vero narratore dice ma non dice, o meglio: dice attraverso la voce di storie dal colore locale che diventano storie universali, comuni a tutti gli uomini. Il romanzo esce quindi dal semplice riportare le storie locali per diventare un veicolo consapevole del concetto che le fiabe, le più crudeli – perché le vere fiabe sono sempre crudeli, se si vuole considerarle tali, mai edulcorate – sono quelle che raccontano la verità.

Nell’introduzione alle sue Fiabe italiane, anche Calvino sostiene la verità delle fiabe. Sarebbero un «catalogo dei destini che possono darsi ad un uomo e ad una donna» durante la loro vita, «dalla nascita che sovente porta con sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano». Pur volendo classificare le fiabe, differenziarle tra loro per tipo (fiaba popolare, classica, d’autore, contemporanea) a fini meramente pratici e utili a chi le studia, la caratteristica di verità è comune a tutte, che vi siano o no elementi di fantasia, mitologici o leggendari.

E questo libro ne è la chiara dimostrazione. La crudeltà arriva dall’osservazione quasi di sguincio delle caratteristiche dell’altra protagonista, Giana, che da bambina innocente, in un paese isolato e degradato diventa una donna vittima di soprusi e violenze, sovrappeso, alcolizzata, della quale intuiamo il destino terribile a cui sta andando incontro.

Tra gli elementi stilistici possiamo reperire una certa musicalità delle parole, nella quale si può leggere però, sempre, il filo rosso della storia, senza mai perderlo realmente di vista. Non c’è vaghezza, c’è solo lo sguardo sul mondo con gli occhiali dell’infanzia, forse di un bambino che si rifugia nelle storie della storia del mondo per sfuggire a quella del presente. Ma in fondo, rifugiarsi in quelle storie non è una vera fuga, semmai è un riconoscimento delle proprie vicende in quelle di altri, è un modo di sentirsi meno solo.

Che è il fine ultimo, poi, di tutte le fiabe, che siano destinate ad adulti o a bambini: affrontare dolore, paura, risentimento attraverso una narrazione, per non sentirsi da soli con i propri momenti di difficoltà.

A-PIETRE-ROVESCIATENota sull’autore
Mauro Tetti. È nato nel 1986 e vive a Cagliari. Ha pubblicato racconti su FlaneríInchiostro e altre riviste. Nel 2011 ha vinto il Premio Masala con il monologo Adynaton. A pietre rovesciate, vincitore del Premio Gramsci per inediti, è il suo primo romanzo.

A pietre rovesciate Mauro Tetti Tunué 2016 pp. 96, €9,90.

Luciano Funetta, scrittore per caso

di Emanuela D’Alessio

Intervista a Luciano Funetta, autore di Dalle rovine, romanzo di esordio nella collana Romanzi di Tunué, curata da Vanni Santoni.

«Ogni stanza aveva la sua finestra; l’unico ambiente cieco era la stanza delle teche, dove Rivera teneva la collezione. Anche quando se ne stava tranquillo in soggiorno a non fare niente, sapeva che dietro la porta della stanza c’erano trenta creature la cui sopravvivenza dipendeva da lui. Aveva cominciato a collezionarle quindici anni prima e ormai occupavano gran parte delle sue giornate. Le catturava in campagna, le ordinava nei negozi di animali esotici oppure se le procurava al mercato nero, tramite individui che all’inizio lo avevano spaventato ma che ben presto erano diventati i suoi unici contatti con l’esterno, fatta eccezione per la corrispondenza che Rivera teneva con altri collezionisti, uomini e donne che non aveva mai visto, ma che gli sembrava di conoscere dall’infanzia».

Rivera è il protagonista di Dalle rovine, stupefacente esordio di Luciano Funetta (Tunuè, 2015). È un collezionista di serpenti rari e velenosi, custoditi in teche di vetro in un appartamento «al terzo piano di uno dei condomini semicircolari della periferia nord» di Fortezza, la città immaginaria che «la sera si rintanava in se stessa, i portoni inghiottivano le sagome di quelli che tornavano a casa e le finestre si illuminavano per poi tornare buie nel giro di pochi secondi, come se la permanenza di quelle persone nei loro appartamenti fosse limitata a un brevissimo arco di tempo in seguito al quale c’era solo il nulla».
Rivera rinuncia al lavoro e alla famiglia per dedicarsi con la mente e con il corpo (è proprio il caso di dirlo) ai serpenti. Una passione che diventa ossessione e perversione, che lo sprofonda nell’abisso di una solitudine disperata, che lo accompagna sulla china di un nulla popolato da ombre e fantasmi, uomini e donne ai margini del tempo e della realtà e della loro stessa vita.

Dalle rovine è un romanzo stupefacente perché fin dalle prime pagine si avverte la potenza di una storia ipnotica, straordinaria nel senso letterale di fuori dall’ordinario. Una storia audace, raccapricciante e commovente. Una storia dove sono caduta dentro senza volerlo, perché i serpenti mi suscitano una certa repulsione e la pornografia, per quanto artistica, mi lascia un po’ perplessa. Ci sono rimasta fino alla fine, trattenuta da un ritmo incalzante, da una tensione sottile e costante, da una scrittura raffinata ed evocativa. Una storia da cui sono uscita con sollievo, come quando ci si risveglia finalmente da un incubo, ma anche con il desiderio di parlare con l’autore, di chiedergli: perché?

Ecco qualche domanda a Luciano Funetta.

Luciano Funetta

Da Gioia del Colle a Roma, passando per Bologna. Che cosa ti è successo strada facendo in questi ultimi trent’anni?
Un po’ di cose, ma nulla che credo possa interessare davvero i lettori di Via dei Serpenti. Ho camminato e letto molto, studiato quel che bastava, viaggiato poco. In compenso ho portato a buon fine un numero spaventoso di traslochi (uno dei quali a piedi, in una Bologna innevata e silenziosa); ho comprato molti libri, il che mi fa stare a posto con la coscienza per quelli che ho rubato. Ho imparato a cucinare discretamente, mi sono sposato, ho scritto nonostante qualsiasi condizione climatica, economica, sentimentale, familiare, geopolitica, astrologica.

Sei uno scrittore per vocazione, necessità o casualità?
Casualità, senza dubbio.

Da una parte le scuole di scrittura con costi di iscrizione anche elevati, dall’altra i forzati del self publishing, sempre più numerosi e incoraggiati dalla prospettiva di celebrità a costo zero e senza intermediari. In mezzo ci sono gli agenti letterari, ad esempio Oblique Studio che ti rappresenta, e in un angolo le centinaia di manoscritti nelle case editrici con l’unica prospettiva di prendere polvere. Che cosa c’è di giusto e sbagliato, necessario e superfluo in questo scenario?
Prima di conoscere Leonardo Luccone di Oblique ho inviato anch’io un paio manoscritti a qualche casa editrice. Immagino che quei manoscritti abbiano passato un po’ di tempo su una scrivania o in un armadio di ferro, poi siano stati trasferiti in una cantina o direttamente in un cassonetto della spazzatura. In tutto questo, in questo mistero avventuroso dei manoscritti che ogni giorno vengono spediti in ogni forma possibile, non vedo nulla di sbagliato e soprattutto nulla di superfluo. In quanto alle scuole di scrittura, non ne ho mai frequentata una. Di preciso non so neanche troppo bene di cosa si tratti. Detto questo, grazie al cielo il mio lavoro non è l’editoria e posso permettermi di guardare a tutto con un certo distacco, e vedere in lontananza pochi cavalieri senza macchia e senza fortuna, un numero spaventoso di giovani scudieri che portano in spalla le armi altrui, uno o due re, qualche amazzone, un esercito di mercanti e un’orda di mendicanti senza dignità, che sarebbero gli scrittori. C’è da dire che ci sono alcuni scrittori che in realtà sono cavalieri, scrittrici che sono amazzoni ed editori che sono ladri. Tutta questa confusione mi spingerà a restare sempre dalla parte dei lettori.

Illustrazione di Maurizio L'Altrella WATT 0

Illustrazione di Maurizio L’Altrella WATT 0

Dal racconto Noi stessi abbiamo dimenticato, pubblicato su «Watt», al romanzo Dalle rovine, uscito per Tunué, il percorso sembra lungo e forse accidentato. Come è nato il rapporto con l’editore, e che cosa significa esordire con una piccola casa editrice, per quanto agguerrita e intraprendente come Tunué?
Tunué è arrivata quando ormai si pensava che il romanzo non sarebbe più stato pubblicato. I miei rapporti e scambi sono stati, fino a ora, soprattutto con Vanni Santoni, editor della collana Romanzi, e Claudia Papaleo, ufficio stampa della narrativa. Entrambi hanno fatto un lavoro meraviglioso. In generale tutta la casa editrice mi sembra proceda in una direzione, con consapevolezza, e questo per un editore è solo un bene. Quando si pubblica con un piccolo editore agguerrito e intraprendente, bisogna adeguarsi ed essere agguerriti e intraprendenti per fare in modo che il libro abbia qualche possibilità.

Tra i primi aggettivi che mi sono venuti in mente leggendo Dalle rovine c’è ‘straordinario’, nel senso letterale di fuori dall’ordinario.  Così mi è parsa, innanzitutto, la scelta della voce narrante, un “noi” che lascia perplessi e un po’ inquieti. Si percorre l’intero libro rimbalzando da una domanda all’altra: sono fantasmi o demoni, voci interiori? Perché seguono il protagonista Rivera, osservandone ogni gesto senza mai cedere ad alcuna empatia? Tra “loro” e Rivera non sembra esserci alcuna reciproca consapevolezza. Forse puoi offrici una chiave di lettura più precisa?
No, non posso. Posso dire che non sono d’accordo sul fatto che tra Rivera e i narratori non vi sia consapevolezza reciproca. Penso anche di aver lasciato tracce del fatto che tra l’uomo e i suoi inseguitori/custodi esista un rapporto, una relazione di tipo spettrale, qualcosa che non ha corrispettivi nella gamma dei sentimenti umani, come un’accettazione naturale della sovrapposizione tra due mondi. L’empatia da parte dei narratori esiste e viene mostrata, anche dichiarata, a volte. Quello che è incomprensibile – e che per me è stato incomprensibile mentre scrivevo – è come questi fantasmi non umani possano esistere senza essere percepiti da nessuno se non da Rivera. In realtà tutta la vicenda del romanzo si svolge in luoghi di confine o in luoghi estremi dell’immaginazione e della fascinazione. Siamo nel regno che sta tra l’ultimo respiro e la morte, l’ultimo istante di percezione, la frazione inenarrabile. Tutto può avvenire in quel momento, anche che un coro greco prenda la parola e si metta a raccontare di un uomo chiamato Rivera.

Procedendo per aggettivi, la tua storia è anche (per me s’intende), audace, raccapricciante e commovente. Per te invece com’è e perché?
Scriverla è stato commovente anche per me. Nonostante l’ossessione, la fatica, la certezza di essere perseguitato dai fantasmi dei personaggi e da decine di altri fantasmi sconosciuti, nonostante l’inquietudine, direi che la commozione è rimasta sempre il sentimento più insistente, insieme alla malinconia. Non mi sono commosso, invece, quando ho visto per la prima volta il libro stampato, e sono felice che non mi abbia fatto granché effetto.

Dalle_rovineL’ambientazione oscilla tra luoghi immaginari come Fortezza, la città in cui vive il protagonista Rivera, e reali come Barcellona, dove Rivera e i suoi “amici” conquistano la celebrità. I confini tra realtà e immaginazione sono molto labili, e alla fine si precipita in un sogno-incubo da cui nessuno sembra riuscire a risvegliarsi. Era questo il tuo intento?
A dire il vero sono convinto che un’opera letteraria non dovrebbe mai proporsi un intento, se non quello di raccontare qualcosa nell’unico modo possibile. La storia di Dalle rovine si è generata da sé, con le sue caratteristiche peculiari, che nascono da fattori molteplici. Innanzitutto la mia formazione, il mio interesse per certi temi che con il tempo si è trasformato in ossessione, le letture che sono state il terreno che mi si è incollato sotto le suole dopo aver passeggiato a lungo nel giardino dell’infanzia e dell’adolescenza, il rapporto di empatia che ho sviluppato nei confronti dei personaggi, anche dei più miserabili e diabolici. A conti fatti, se quello che mi riporti è l’effetto che il romanzo ha sortito su di te, posso dire che molto di quello che ho provato io scrivendolo ha avuto la forza di riproporsi anche a un lettore sconosciuto.

La storia predilige i tempi della notte e le tonalità del nero e del grigio, i personaggi si aggirano per lo più in luoghi chiusi e bui, fumano e bevono molto, dormono poco e male, respirano i loro afrori, l’odore della paura e della morte. La luce, la speranza, il sollievo risultano banditi dal tuo romanzo. Perché?
La speranza in qualche misura è presente. È uno sguardo lanciato verso il passato, verso precisi momenti del passato che restano nella memoria come iconostasi, visioni di santità riportate sul legno ed esposte in una chiesa bombardata. Dalle rovine viene fuori un canto, e nonostante il passato sia perduto e il futuro viaggi verso una nuova rovina, quel canto può essere ascoltato. «Chi è per le statue deve essere anche per le macerie» scriveva Gottfried Benn.

Alla domanda se la pornografia possa diventare una forma d’arte non mi pare che Dalle rovine abbia trovato una risposta. I tuoi personaggi, per quanto anelino a realizzare “il film” dopo il quale nulla sarà più necessario e possibile, non sembrano riuscirsi, né trovare qualche traccia di sollievo. Al contrario, tutto sembra irrimediabilmente perduto. Che ne pensi?
Questo perché “il film” non è propriamente un film, ma una condanna, il coronamento di una condanna, anche se la condanna dell’uomo è proseguire nella sua eterna cecità. Anche il finale, che alcuni considerano mozzo, ha per me un valore in questo senso. Una delle domande che il libro si pone è se l’arte possa considerarsi una forma di tortura e se la tortura, come prodotto dell’ingegno, possa essere chiamata arte. C’è un personaggio che pensa che la risposta a tutto questo sia affermativa. Allo stesso tempo, un altro personaggio che porta il nome tedesco del sogno afferma che produrre arte sia la manifestazione più ignobile della presenza umana sulla terra. Forse le teorie dei due coincidono, o per lo meno si sfiorano. Quel che è certo è che nonostante tutto proceda, nei secoli, precipitando in voragini concentriche, niente è mai davvero perduto, o meglio è legittimo illudersi che non lo sia.

Perdonami, ma non posso evitare una domanda sui serpenti. Li hai scelti perché ti attraggono realmente o per esorcizzare una fobia?
Nessuna delle due. Ho scelto i serpenti, che considero animali magici, per capovolgere un simbolo di infamia.

Che tipo di lettore sei (compulsivo o rilassato) e che cosa hai letto fino ad ora?
Non ho letto neanche un quarto di quello che vorrei riuscire a leggere prima di morire. Questo, suppongo, mi porterà in punto di morte a considerare la possibilità di non aver vissuto che un terzo di quanto avrei sperato. C’è poco da essere rilassati.

Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
Europe central di Vollmann, Fervore di Emanuele Tonon, il primo volume delle Dionisiache di Nonno di Panopoli, L’uomo in rivolta di Camus e un’antologia Einaudi di lirici greci.

Grigorys Kapsomenos

Grigorys Kapsomenos

Come deve essere la tua libreria ideale? Ti è capitato di entrarci?
La mia libreria ideale è stata per anni quella di Grigorys Kapsomenos a Bologna. Si tratta del posto in cui, intorno ai vent’anni, ho comprato i libri che hanno segnato quel periodo della mia vita (e grazie ai quali quel momento rifulge nel passato come una cicatrice fluorescente). Molti di quei libri non sarebbero finiti in mio possesso se non fosse stato per Grigorys, il vecchio libraio greco. È stato lui, per esempio, a costringermi a leggere L’enciclopedia dei morti. Riconosco i libri che ho preso lì da un piccolo adesivo con impresso un labirinto bianco in campo rosso. Adesso quella libreria ha chiuso, Grigorys è morto e io non sono mai andato sulla sua tomba.

Ci puoi anticipare qualcosa dei tuoi progetti?
Finire di scrivere quello a cui sto lavorando da un anno e mezzo, anche se l’idea di non finirlo e di lavorarci in eterno mi piace ancora di più.

Che cosa fai quando non scrivi e non leggi?
Vivo con Francesca, mia moglie, passo il tempo con i miei amici di TerraNullius, a volte mi capita di rivedere amici lontani e ciò mi rende felice; guardo film, lavoro da qualche mese come libraio, prendo i mezzi pubblici, cucino, fumo, dormo.cultura_a_bologna_4_-_la_libreria_delle_moline

Luciano Funetta è nato nel 1986 a Gioia del Colle. Dopo sette anni a Bologna, nel 2012 si è trasferito a Roma dove è entrato a far parte di TerraNullius e della direzione artistica del Flep! – Festival delle letterature popolari. Finora ha pubblicato: Noi stessi abbiamo dimenticato, «Watt» 0; Certe informazioni, «Costola» 1; Gli occhi della montagna su Cosa si scrive quando si scrive in Italia, Granta Italia; Strappacuore su «Prospektiva» 55; alcuni contributi per archiviobolano.it oltre a numerosi racconti e saggi su TerraNullius.

Vanni Santoni, scrittore e giornalista, autore pubblicato da Feltrinelli, Mondadori e Voland tra gli altri, e creatore – insieme a Gregorio Magini – del metodo Scrittura Industriale Collettiva (qui  l’intervista a Santoni e Magini in occasione dell’uscita di In territorio nemico, primo romanzo scritto con il metodo SIC e pubblicato da minimum fax nel 2013), dal 2014 dirige la collana di narrativa di Tunué. Qui la nostra intervista a Vanni Santoni del 30 aprile 2014.

Cosa leggiamo a Natale. I consigli dei Serpenti (1)

I consigli di Emanuela D’Alessio

Così ha inizio il male di Javier Marias
Sto leggendo l’ultimo romanzo di Javier Marias, Così ha inizio il male (traduzione di Maria Nicola, Einaudi, 2015). La lettura procede molto lentamente perché l’autore spagnolo, famoso per i suoi Domani nella battaglia pensa a me e Un cuore così bianco (solo per citare alcuni titoli della sua corposa produzione letteraria) sembra non avere fretta di svelare quello che ha intenzione di raccontare. Qui, più che nei libri precedenti, ha ulteriormente affinato la memorabile capacità introspettiva, il lavoro di scavo nell’animo umano e nelle sfaccettature della realtà che lo caratterizzano, indugiando, fin troppo direi, su un dettaglio, un’idea, una sensazione. Al centro di Così ha inizio il male, titolo che si rifà a un verso dell’Amleto di Shakespeare (da cui Marias ama trarre ispirazione), c’è il matrimonio di Eduardo Muriel, mediocre cineasta e di Betariz Noguera, donna infelice, avvenente e dolente. Un matrimonio che nulla ha a che vedere con l’amore e il rispetto ma con i loro esatti contrari. E attraverso la voce narrante di Juan De Vere, alle dipendenze di Muriel quando era un giovane ventitreenne, ci ritroviamo immersi in questa intrigata ed enigmatica storia, sullo sfondo gli anni del franchismo, di cui si anela a scoprire la fine. Non è una lettura da consumare, ma da assimilare, e di questi tempi se ne avverte più che mai il bisogno.

dalle-rovineDalle rovine di Luciano Funetta
Mentre stavo lasciando decantare le pagine di Marias, ho aperto Dalle rovine, stupefacente esordio di Luciano Funetta (Tunuè, 2015). Stupefacente perché fin dalle prime pagine si avverte la potenza di una storia ipnotica, straordinaria nel senso letterale di fuori dall’ordinario. Una storia audace, raccapricciante e commovente. Una storia dove sono caduta dentro senza volerlo, perché i serpenti mi suscitano una certa repulsione e la pornografia, per quanto artistica, mi lascia un po’ perplessa. Ma del libro parlerò meglio in seguito, intanto ecco un incipit: «Ogni stanza aveva la sua finestra; l’unico ambiente cieco era la stanza delle teche, dove Rivera teneva la collezione. Anche quando se ne stava tranquillo in soggiorno a non fare niente, sapeva che dietro la porta della stanza c’erano trenta creature la cui sopravvivenza dipendeva da lui. Aveva cominciato a collezionarle quindici anni prima e ormai occupavano gran parte delle sue giornate. Le catturava in campagna, le ordinava nei negozi di animali esotici oppure se le procurava al mercato nero, tramite individui che all’inizio lo avevano spaventato ma che ben presto erano diventati i suoi unici contatti con l’esterno, fatta eccezione per la corrispondenza che Rivera teneva con altri collezionisti, uomini e donne che non aveva mai visto, ma che gli sembrava di conoscere dall’infanzia».

Il canto del crepuscolo di Helen Humphreys
Infine c’è Il canto del crepuscolo di Helen Humphreys (traduzione di Fabio Viola, Playground, 2015), la scrittrice canadese insignita di prestigiosi premi letterari e di cui ho particolarmente amato La verità, soltanto la verità. Sarà la mia prossima lettura di questo Natale, che mi incalza con il suo inedito carico di tristezza. Leggo dalla bandella: «Nel 1940, James e Rose sono una giovane coppia inglese che la guerra separa subito dopo il matrimonio. Lui, pilota della Raf, viene catturato dai tedeschi e spedito in un campo di concentramento. Lei si ritrova sola in un piccolo villaggio del Sussex, a svolgere il lavoro di sorveglianza per il mantenimento del coprifuoco».